Reg. ord. n. 50 del 2025 pubbl. su G.U. del 12/03/2025 n. 11

Ordinanza del Corte suprema di cassazione  del 07/03/2025

Tra: M. S.



Oggetto:

Reati e pene – Abrogazione dell’art. 323 del codice penale (Abuso d'ufficio) – Inosservanza degli obblighi internazionali, in relazione agli artt.1, 7, paragrafo 4, 19 e 65, paragrafo 1, della Convenzione ONU contro la corruzione del 2003 (cosiddetta Convenzione di Merida).



Norme impugnate:

legge  del 09/08/2024  Num. 114  Art.  Co. 1 lett. b)



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art. 11 

Costituzione  Art. 117   Co.  in relazione agli

Convenzione ONU contro la corruzione del 2003  Art.

Convenzione ONU contro la corruzione del 2003  Art.  Co.

Convenzione ONU contro la corruzione del 2003  Art. 19 

Convenzione ONU contro la corruzione del 2003  Art. 65   Co.



Udienza Pubblica del 7 maggio 2025 rel. VIGANÒ


Testo dell'ordinanza

N. 50 ORDINANZA (Atto di promovimento) 07 marzo 2025

Ordinanza del 7 marzo 2025 della Corte di cassazione nel procedimento
penale a carico di M. S.. 
 
Reati e pene - Abrogazione dell'art. 323  del  codice  penale  (Abuso
  d'ufficio). 
- Legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al  codice
  di  procedura  penale,  all'ordinamento  giudiziario  e  al  codice
  dell'ordinamento militare), art. 1, comma 1, lettera b). 


(GU n. 11 del 12-03-2025)

 
                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Sesta Sezione penale 
 
    composta da: 
        Giorgio Fidelbo - Presidente; 
        Enrico Gallucci; 
        Giuseppina Anna Rosaria Pacilli; 
        Pietro Silvestri; 
        Fabrizio D'Arcangelo - relatore; 
    ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto  da  S.
M. , nato a ... il ...; 
    avverso la sentenza emessa in data 18 aprile 2024 dalla Corte  di
appello di Napoli; 
    visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; 
    udita la relazione svolta dal consigliere Fabrizio D'Arcangelo; 
    udite le conclusioni  del  pubblico  ministero,  in  persona  del
sostituto Procuratore generale  Raffaele  Gargiulo,  che  ha  chiesto
l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perche' il fatto
non e' piu' previsto  dalla  legge  come  reato  e  la  revoca  delle
relative statuizioni civili; 
    udite  le  conclusioni  dell'avvocato   Claudia   Guerriero,   in
sostituzione dell'avvocato Raffaele Tacce, difensore di fiducia di M.
S. , che ha chiesto l'accoglimento dei motivi di ricorso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. La Corte d'appello di Napoli, con la pronuncia  impugnata,  ha
confermato la sentenza di condanna, emessa dal Tribunale di  Avellino
in data 16 settembre 2016, nei confronti di M. S. per il  delitto  di
cui agli articoli 81, 110 e 323 cod. pen. , commesso in ...  dal  ...
al ... condannando l'imputato appellante al pagamento delle spese del
grado e alla rifusione delle spese  di  lite  sostenute  dalla  parte
civile costituita 
    1.1. Secondo l'ipotesi di accusa, M. S. , segretario comunale del
Comune di ...  ,  in  concorso  con  ...,  presidente  del  consiglio
comunale, nello svolgimento di pubbliche funzioni,  con  piu'  azioni
esecutive di un medesimo  disegno  criminoso,  violando  il  disposto
dell'art. 38, comma ottavo, del decreto legislativo 18  agosto  2000,
n. 267 (Testo unico degli enti locali), che disciplina  le  modalita'
di  dimissioni  dalla  carica  di   consigliere   comunale,   avrebbe
intenzionalmente procurato un danno ingiusto a  ...,  capogruppo  del
partito di opposizione,  facendolo  illegittimamente  decadere  dalla
carica di consigliere comunale. 
    1.2. Le sentenze di merito hanno accertato che, nella seduta  del
consiglio comunale di ... del ... , ...  , nel  corso  di  un  acceso
dibattito, ha dichiarato «mi dimetto dal mio mandato  di  consigliere
comunale,  ma  chiedo  l'applicazione  dell'art.  9  del  regolamento
consiliare»,  intendendo  in  realta',  come  risultava  dal   tenore
complessivo del suo intervento e dall'inequivoca  formulazione  della
disposizione citata, dimettersi dalla carica di capogruppo e non gia'
da quella di consigliere comunale. 
    Nella  successiva  seduta  del  ...,  il  consiglio  comunale  ha
deliberato  l'approvazione  del  verbale  della  seduta  del  ...  e,
successivamente, il Presidente del consiglio comunale  ha  dichiarato
di aver ricevuto una nota da parte del segretario comunale, M.  S.  ,
che gli aveva comunicato che ... non era piu'  in  carica,  essendosi
dimesso da consigliere comunale. 
    Con nota emessa in data ..., il presidente del consiglio comunale
ha, dunque, comunicato a ... la decadenza immediata dalla  carica  di
consigliere comunale, nonostante le sue contestazioni. 
    Secondo i giudici di merito, l'imputato M. S. , che nel  giudizio
di   appello   ha   rinunciato   alla   prescrizione,   ha   concorso
nell'illegittima destituzione di .. dal consiglio comunale, redigendo
due note e un parere, reso di propria iniziativa, che attestavano  la
regolarita'  delle  dimissioni  asseritamente  rese  da   consigliere
comunale, pur in carenza dei presupposti di legge. 
    L'imputato, infatti, nella propria nota ha ritenuto legittime  ed
efficaci le dimissioni di ... in virtu' dell'art.  50  dello  statuto
comunale, che, tuttavia, non poteva  prevalere  sull'art.  38,  comma
ottavo, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.  267,  in  ragione
della  gerarchia  delle  fonti  e  dei  principi  che   regolano   la
successione di leggi nel tempo. 
    Le asserite dimissioni da consigliere  comunale,  inoltre,  erano
state rassegnate  senza  le  formalita'  prescritte  da  tale  ultima
diposizione e dovevano intendersi revocate  validamente  per  effetto
della dichiarazione  rese  da  ...  in  epoca  precedente  alla  loro
protocollazione, richiesta dalla legge e mai avvenuta. 
    I giudici di merito hanno, inoltre, rilevato che S. unitamente ad
altri esponenti politici locali, era  stato  denunciato  da  ...  per
abuso di ufficio  e  illeciti  edilizi  e  da  queste  denunce  erano
scaturiti procedimenti penali e richieste di rinvio  a  giudizio  nei
confronti del ricorrente, tanto da indurre a  ritenere  che  nutrisse
motivi di risentimento nei confronti della persona offesa. 
    S. , dunque, nell'esercizio delle proprie funzioni di  segretario
comunale, omettendo di astenersi in una situazione  di  conflitto  di
interessi, ha intenzionalmente  posto  in  essere  una  «macroscopica
violazione di legge» ai danni della persona offesa. 
    Le sentenze di merito hanno, da ultimo, accertato  che  l'abusiva
destituzione dal consiglio comunale  ha  cagionato  a  ...  un  danno
ingiusto,    patrimoniale    e    non    patrimoniale,     costituito
dall'impossibilita' di esercitare la propria carica  politica,  dalla
perdita dei c.d.  gettoni  di  presenza  alle  sedute  del  consiglio
comunale e dagli esborsi sostenuti  per  impugnare  il  provvedimento
amministrativo illegittimo. 
    2. L'avvocato Raffaele Tecce, difensore di S. , ha  impugnato  la
sentenza  della  Corte  di  appello  di  Napoli  e  ne   ha   chiesto
l'annullamento. 
    Il difensore, proponendo  un  unico  motivo  di  ricorso,  deduce
l'intervenuta abolitio criminis del delitto di abuso di ufficio,  per
effetto dell'art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto  2024,
n. 114, e chiede l'annullamento della sentenza impugnata,  la  revoca
delle statuizioni civili enunciate dalla stessa e della condanna alla
refusione delle spese sostenute dalla  parte  civile  in  entrambi  i
gradi di giudizio. 
    3. Con istanza depositata  tempestivamente  in  data  4  novembre
2024, il difensore ha chiesto la trattazione orale del ricorso. 
    Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 3
dicembre 2024, il Procuratore generale Raffaele Gargiulo, ha  chiesto
di annullare senza rinvio la sentenza impugnata perche' il fatto  non
e' piu' previsto dalla legge come reato e di revocare le  statuizioni
civili. 
    4. All'udienza  del  19  dicembre  2024  il  Collegio,  ai  sensi
dell'art. 615, comma 1, codice di procedura penale,  ha  rinviato  la
deliberazione all'udienza del 3 aprile 2025,  di  seguito  anticipata
all'udienza del 20 febbraio 2025. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. Il difensore, proponendo un unico motivo  di  ricorso,  deduce
l'intervenuta abolitio criminis del delitto di  abuso  di  ufficio  e
chiede l'annullamento della sentenza impugnata perche' il  fatto  non
e' piu' previsto dalla legge come reato e la revoca delle statuizioni
civili. 
    2. L'art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto  2024,  n.
114 (Modifiche al codice  penale,  al  codice  di  procedura  penale,
all'ordinamento giudiziario e al codice  dell'ordinamento  militare),
entrato in vigore il 25 agosto 2024, ha abrogato  l'art.  323  codice
penale e, dunque, il reato di abuso di ufficio. 
    Il Collegio dubita, tuttavia, della  legittimita'  costituzionale
di tale disposizione, in riferimento agli articoli 11  e  117,  primo
comma, della Costituzione, in relazione agli articoli  1,  7,  quarto
comma, 19 e 65, primo comma,  della  Convenzione  dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite contro la corruzione,  adottata  dalla  Assemblea
generale dell'ONU a Merida il 31 ottobre  2003,  con  risoluzione  n.
58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre  2003  e  ratificata
con legge 3 agosto 2009, n. 116. 
    3. La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma
1, lettera b), della  legge  9  agosto  2024,  n.  114,  quale  norma
abrogatrice di una fattispecie di reato,  e'  ammissibile,  ancorche'
possa produrre  effetti  in  malam  partem,  e  non  collide  con  il
principio di riserva di legge in materia penale sancito dall'art. 25,
secondo comma, Cost. 
    La Corte costituzionale,  nella  sentenza  n.  37  del  2019,  ha
delineato i presupposti e  l'ambito  del  sindacato  di  legittimita'
costituzionale in materia penale, con effetti anche in malam partem. 
    In  questa  pronuncia  la  Corte  costituzionale   ha   affermato
che:«[I]n linea di principio,  sono  inammissibili  le  questioni  di
legittimita' costituzionale che concernano disposizioni abrogative di
una  previgente  incriminazione,   e   che   mirino   al   ripristino
nell'ordinamento  della  norma  incriminatrice  abrogata  (cosi',  ex
plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413
del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a  tale
ripristino osta, di regola, il  principio  consacrato  nell'art.  25,
secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la  definizione
dell'area  di  cio'   che   e'   penalmente   rilevante.   Principio,
quest'ultimo, che determina in  via  generale  l'inammissibilita'  di
questioni volte a creare nuove norme penali,  a  estenderne  l'ambito
applicativo a casi non previsti (o non piu' previsti) dal legislatore
(ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002;  ordinanze  n.
65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad  aggravare  le  conseguenze
sanzionatorie o la  complessiva  disciplina  del  reato  (ex  multis,
ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 del 2009 e n. 5 del
2009)». 
    Tuttavia, la stessa sentenza ha precisato, confermando precedenti
pronunce (sent. n. 236 del  2018  e  n.  143  del  2018),  come  tali
principi non siano senza eccezioni. Infatti, ha affermato che  «(...)
puo' venire in considerazione la necessita' di evitare  la  creazione
di   "zone   franche"   immuni   dal   controllo   di    legittimita'
costituzionale, laddove il legislatore introduca, in  violazione  del
principio di eguaglianza, norme penali  di  favore,  che  sottraggano
irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola
della generale rilevanza penale di una piu' ampia classe di condotte,
stabilita  da  una  disposizione   incriminatrice   vigente,   ovvero
prevedano per detto sottoinsieme - altrettanto irragionevolmente - un
trattamento sanzionatorio piu' favorevole (sentenza n. 394 del 2006). 
    Un controllo di legittimita'  con  potenziali  effetti  in  malam
partem deve altresi' ritenersi ammissibile quando a essere  censurato
e' lo scorretto  esercizio  dei  potere  legislativo:  da  parte  dei
Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare  le  scelte  di
criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n.  46
del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte  del  Governo,
che abbia abrogato  mediante  decreto  legislativo  una  disposizione
penale, senza a cio' essere autorizzato dalla legge delega  (sentenza
n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello  stesso  Parlamento,  che
non abbia rispettato  i  principi  stabiliti  dalla  Costituzione  in
materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014). 
    In   tali   ipotesi,   qualora   la    disposizione    dichiarata
incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava  una
norma  incriminatrice  preesistente  (come  nel  caso  deciso   dalla
sentenza  n.  5  del  2014),  la  dichiarazione   di   illegittimita'
costituzionale della prima non potra' che  comportare  il  ripristino
della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata. 
    Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia
penale conseguente alla pronuncia di illegittimita' costituzionale e'
stato, altresi', ritenuto ammissibile  allorche'  esso  si  configuri
come «mera conseguenza indiretta della reductio ad  legitimitatem  di
una  norma  processuale»,   derivante   «dall'eliminazione   di   una
previsione  a  carattere  derogatorio  di  una  disciplina  generale»
(sentenza n. 236 del 2018). 
    Un  controllo  di  legittimita'  costituzionale  con   potenziali
effetti in malam partem puo', infine, risultare  ammissibile  ove  si
assuma  la  contrarieta'  della  disposizione  censurata  a  obblighi
sovranazionali rilevanti ai sensi dell'art. 11 o dell'art. 117, primo
comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonche'  sentenza  n,  32  del
2014, ove l'effetto di ripristino della  vigenza  delle  disposizioni
penali illegittimamente sostituite  in  sede  di  conversione  di  un
decreto-legge,  con  effetti  in  parte  peggiorativi  rispetto  alla
disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con  riferimento
alla  necessita'  di  non  lasciare  impunite  «alcune  tipologie  di
condotte  per  le  quali  sussiste  un  obbligo   sovranazionale   di
penalizzazione. Il che  determinerebbe  una  violazione  del  diritto
dell'Unione europea, che l'Italia e' tenuta a  rispettare  in  virtu'
degli articoli 11 e 117, primo comma, Cost.»)». 
    Proprio quest'ultima evenienza, ad avviso del  Collegio,  ricorre
nel caso di specie. 
    Il   Collegio,   infatti,   non   richiede   il   sindacato    di
costituzionalita' su un caso di inattuazione originaria da parte  del
legislatore dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali,  che
non consente alla Corte costituzionale  di  surrogare  l'inerzia  del
Parlamento,  sovrano  in  materia  di  scelte  di  criminalizzazione,
introducendo una nuova incriminazione, ma su un caso di  inattuazione
sopravvenuta di tali vincoli,  che  consente  la  reviviscenza  della
fattispecie di reato abrogata e, dunque, la  riespansione  della  sua
efficacia. 
    In questo caso, la Corte costituzionale non opera  alcuna  scelta
di  criminalizzazione,  ma   si   limita   a   rimuovere   la   norma
incostituzionale; l'effetto  sfavorevole  deriva  dalla  reviviscenza
della  norma  precedente,  posta  dallo  stesso  legislatore,   unica
costituzionalmente conforme, perche'  rispettosa  dell'obbligo  sovra
nazionale. 
    4. La  questione  di  costituzionalita'  dell'art.  1,  comma  1,
lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114 e', inoltre, rilevante. 
    Secondo il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza
costituzionale (recentemente, Corte costituzionale,  sentenza  n.  45
del 2024; n. 164 del 2023), ai fini della rilevanza  delle  questioni
di legittimita' costituzionale, e' sufficiente  che  la  disposizione
censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che  la  pronuncia  di
accoglimento   possa   influire   sull'esercizio    della    funzione
giurisdizionale (tra le altre, Corte costituzionale, sentenza n.  247
e n.  215  del  2021),  quantomeno  sotto  il  profilo  del  percorso
argomentativo della decisione nel processo principale  (ex  plurimis,
Corte costituzionale sentenza n. 25 del  2024  e  n.  154  del  2021;
ordinanza n. 194 del 2022). 
    La disposizione censurata deve essere applicata per decidere  del
motivo proposto dal ricorrente  e  il  suo  accoglimento  inciderebbe
sulla decisione da adottare, non consentendo piu' di  dichiarare  che
il fatto non e' previsto dalla legge come reato. 
    L'eventuale    declaratoria    di    incostituzionalita'    della
disposizione che ha abrogato il reato di abuso di ufficio renderebbe,
infatti, nuovamente  punibili  le  condotte  previste  dall'art.  323
codice penale commesse sotto la sua vigenza, quale quelle di  cui  si
controverte nel presente giudizio. 
    La Corte costituzionale,  nella  sentenza  n.  49  del  1970,  ha
precisato che  «la  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale,
determinando la cessazione di  efficacia  delle  norme  che  ne  sono
oggetto, impedisce... dopo la pubblicazione della  sentenza,  che  le
norme stesse siano comunque applicabili anche  ad  oggetti  ai  quali
sarebbero state applicabili alla stregua dei  comuni  principi  sulla
successione delle leggi nel tempo. Il mutamento di disciplina attuato
per  motivi  di  opportunita'  politica,  liberamente  valutata   dal
legislatore     costituisce,     pertanto,      fenomeno      diverso
dall'accertamento, ad opera  dell'organo  a  cio'  competente,  della
illegittimita' costituzionale di una certa disciplina legislativa: in
questa  seconda  ipotesi,  a   differenza   che   nella   prima,   e'
perfettamente logico che sia vietato  a  tutti,  a  cominciare  dagli
organi   giurisdizionali,   di   assumere   le    norme    dichiarate
incostituzionali a canoni di  valutazione  di  qualsivoglia  fatto  o
rapporto, pur se venuto in essere anteriormente alla pronuncia  della
Corte». 
    Le Sezioni unite di questa Corte  hanno,  inoltre,  espressamente
richiamato questa pronuncia della Corte costituzionale,  al  fine  di
escludere dalla disciplina della successione delle leggi  penali  nel
tempo e dall'applicazione dell'art. 2, quarto comma, codice penale le
vicende di successione  normativa  determinate  da  dichiarazioni  di
illegittimita' costituzionale delle norme  succedutesi  (Sez.  U,  n.
42858 del 29 maggio 2014, ... , Rv. 260695 - 01). 
    5. Il dubbio di legittimita' costituzionale non  puo',  peraltro,
essere risolto ricorrendo  ad  un'interpretazione  costituzionalmente
conforme della disposizione in esame, ma solo sottoponendo lo  stesso
al sindacato della Corte costituzionale. 
    L'onere  di  interpretazione  conforme,  infatti,   viene   meno,
lasciando il passo all'incidente di costituzionalita',  allorche'  il
tenore   letterale   della   disposizione   non    consenta    questa
interpretazione (ex plurimis: Corte costituzionale, sentenza n. 1 del
2024, n. 104 del 2023, n. 18 del 2022, n. 59 del 2021  e  n.  32  del
2021). 
    Nella specie, il perentorio tenore letterale  della  disposizione
censurata,   volto   a   sancire   inequivocabilmente   l'intervenuta
abrogazione del reato di abuso di ufficio, non  consente  il  ricorso
all'interpretazione conforme. 
    6.  La  questione  di  costituzionalita'  non  e'  manifestamente
infondata, come e' stato, peraltro, ritenuto, pur con  diversita'  di
accenti, da plurime ordinanze di rimessone sollevate  da  giudici  di
merito (Tribunale  di  Firenze,  ordinanza  del  24  settembre  2024;
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale  di  Locri,  ordinanza
del 30 settembre 2024; Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
di Firenze, ordinanza del 3 ottobre 2024; Tribunale di Busto Arsizio,
ordinanza del 21 ottobre 2024; Tribunale  di  Firenze,  ordinanza  25
ottobre 2024; Tribunale di Bolzano, ordinanza dell'11 novembre  2014;
Tribunale di Teramo, ordinanza del 22  novembre  2024;  Tribunale  di
Catania, ordinanza del 26 novembre 2024). 
    7. La Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite  contro
la corruzione, secondo l'art. 1, «ha per oggetto: 
        a) la promozione ed il rafforzamento  delle  misure  volte  a
prevenire e combattere la corruzione in modo piu' efficace; 
        b)  la  promozione,  l'agevolazione  ed  il  sostegno   della
cooperazione internazionale e dell'assistenza tecnica ai  fini  della
prevenzione della corruzione e della rotta a  quest'ultima,  compreso
il recupero di beni; 
        c) la promozione  dell'integrita',  della  responsabilita'  e
della buona fede nella gestione degli  affari  pubblici  e  dei  beni
pubblici». 
    La Convenzione di  Merida,  a  differenza  di  altre  convenzioni
internazionali contro la corruzione cui aderisce lo  Stato  italiano,
ha un impianto organico, in quanto non considera soltanto il  crinale
penale del contrasto alla corruzione, ma contempla un ampio novero di
«misure preventive», volte a  istituire  un  articolato  ed  efficace
sistema di «politiche e pratiche  di  prevenzione  della  corruzione»
(capitolo II, articoli 5-14). 
    L'ampia  disciplina   dedicata   a   «criminalization   and   law
enforcement» (capitolo III, articoli 15-53), inoltre, non  si  limita
alle «basic forms of corruption» ma contempla anche la penalizzazione
di  illeciti  prodromici,  connessi  o,  comunque,  strumentali  alla
corruzione, quali l'appropriazione indebita  da  parte  dei  pubblici
ufficiali (art. 17), il millantato  credito  (art.  18),  l'abuso  di
ufficio (art. 19), l'arricchimento illecito (art. 20), la  corruzione
nel settore privato (art. 21), la sottrazione  di  beni  nel  settore
privato (art. 22), il riciclaggio dei proventi del crimine (art. 23),
la ricettazione (art. 24) e l'ostacolo al  buon  funzionamento  della
giustizia (art. 25). 
    La Convenzione  contiene,  inoltre,  disposizioni  dedicate  alla
cooperazione  internazionale  (capitolo  IV,  articoli   43-50),   al
recupero dei beni oggetto  della  corruzione  (capitolo  V,  articoli
51-59),  all'assistenza  tecnica  e  allo  scambio  di   informazioni
(capitolo  VI,  articoli  60-62)  e  ai  «meccanismi  di  attuazione»
(capitolo VII, articoli 63-64). 
    L'art.  63,  primo  paragrafo,  in  particolare,  istituisce   la
Conferenza degli Stati parte della convenzione al fine di  realizzare
una  verifica  periodica  di   monitoraggio   dell'attuazione   della
Convenzione, basata sul criterio  della  peer  review;  l'organo  che
sovrintende a tale  processo  e'  l'Intergovernmental  Working  Group
presso l'United Nations Office on Drugs and Crime. 
    L'art. 65, dedicato alla «Attuazione  della  Convenzione»,  rende
giuridicamente  vincolante  per  lo  stato  contraente  l'obbligo  di
adeguarsi alle previsioni della convenzione. 
    Questa disposizione sancisce al comma primo che  «Ciascuno  Stato
parte adotta le misure necessarie,  comprese  misure  legislative  ed
amministrative, in conformita' con i principi  fondamentali  del  suo
diritto interno, per assicurare l'esecuzione  dei  suoi  obblighi  ai
sensi della presente Convenzione». 
    8. L'art. 19  della  Convenzione,  rubricato  «abuso  d'ufficio»,
prevede che: «Ciascuno Stato parte esamina  l'adozione  delle  misure
legislative  e  delle  altre  misure  necessarie  per  conferire   il
carattere  di  illecito  penale,  quando  l'atto  e'  stato  commesso
intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle
proprie funzioni o della  sua  posizione,  ossia  di  compiere  o  di
astenersi dal compiere, nell'esercizio  delle  proprie  funzioni,  un
atto in violazione delle  leggi  al  fine  di  ottenere  un  indebito
vantaggio per se o per un'altra persona o entita'». 
    Questa disposizione delinea  una  nozione  di  abuso  di  ufficio
omologa a quella prevista dall'abrogato  art.  323  codice  penale  e
sancisce che, se  la  penalizzazione  delle  condotte  di  «abuse  of
functions» realizza la «close conformity» con gli obiettivi di tutela
della stessa convenzione, l'obbligo di considerare l'introduzione del
reato di abuso di ufficio costituisce il livello minimale  vincolante
per ogni stato contraente. 
    Lo  specifico  contenuto  dell'obbligo  posto  dall'art.  19   e'
chiarito dalla Legislative guide for the implementation of the United
Nations Convention against Corruption,  redatta  dall'United  Nations
Office on Drugs and Crime, che assume il  valore  di  interpretazione
autentica della Convenzione. 
    La Guida per l'implementazione della convenzione,  nella  seconda
edizione del 2012, ai paragrafi 11 e 12, precisa che le  disposizioni
di quest'ultima «do not have all the same level of obligation» e  che
possono essere divise in tre categorie: 
        (a) un primo gruppo include  le  disposizioni  che  impongono
«mandatory requirement», ossia quelle che sanciscono una  «obligation
to take legislative or other measures»; 
        (b) un secondo  gruppo,  nel  quale  rientra  l'art.  19,  in
materia di abuso d'ufficio, indica degli «optional requirement»,  che
sanciscono delle «obligation to consider»; 
        (c)  un  terzo  gruppo  sancisce  meramente  delle  «optional
measures», ossia  delle  misure  che  «States  parties  may  wish  to
consider». 
    La    Convenzione    utilizza,    infatti,    tre     espressioni
progressivamente  graduate,  che  vanno  dalla  vincolativita'   alla
facoltativita':  «shall  adopt»,  «shall  consider  adopting»,   «may
adopt». 
    Per il primo gruppo di disposizioni la  Convenzione  prevede  che
«Each State Party shall adopt such legislative and other measures  as
may be necessary  to  establish  as  criminal  offences...»;  per  il
secondo, invece, prescrive  che  «Each  State  Party  shall  consider
adopting such legislative and other measures as may be  necessary  to
establish  as  a  criminal  offence»;  per  il  terzo,  costituto  da
previsioni  integralmente  facoltative,  la  Convenzione  ricorre  al
termine «may adopt». 
    Con riferimento alle disposizioni del secondo tipo, il  paragrafo
12 della Guida precisa che gli Stati parte  «are  urged  to  consider
adopting a certain measure and  to  make  a  genuine  effort  to  see
whether it would be compatible with their legal systems». 
    Le disposizioni che appartengono al secondo gruppo,  dunque,  non
sono meramente facoltative e non esprimono mere  raccomandazioni,  ma
fondano un vero e proprio obbligo per gli Stati  membri  di  fare  un
ragionevole  sforzo  per  verificare   se   l'introduzione   di   una
determinata  ipotesi  di  reato  sia  compatibile  con   il   proprio
ordinamento. 
    L'art. 19 della convenzione non pone,  pertanto,  un  obbligo  di
penalizzazione dell'abuso di ufficio, in quanto richiede  agli  Stati
contraenti di «considerare» l'adozione della fattispecie di «abuse of
functions» («shall consider  adopting»)  e  non  gia'  di  introdurla
obbligatoriamente, come e' previsto per i reati di corruzione («shall
adopt»). 
    9. I «vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» in materia
penale per il legislatore, ai sensi dell'art. 117, comma primo Cost.,
tuttavia,   non   sono   costituiti   solo    dagli    obblighi    di
criminalizzazione, come e' stato chiarito dalla Corte  costituzionale
nella sentenza n. 28 del 2010. 
    Questa  pronuncia  ha,   infatti,   dichiarato   l'illegittimita'
costituzionale, per contrasto con la nozione comunitaria di  rifiuto,
di una norma extrapenale, che, sottraendo temporaneamente  le  ceneri
di pirite dalla categoria dei rifiuti, ha escluso, durante il periodo
della sua vigenza, precedente all'abrogazione ad  opera  del  decreto
legislativo 16 gennaio 2008, n. 4,  l'applicabilita'  delle  sanzioni
penali previste per la gestione illegale dei rifiuti. 
    La Convenzione di Merida pone, del resto, non  solo  obblighi  di
criminalizzazione,   ma   anche   di   efficace   persecuzione,    di
perseguimento e di mantenimento degli standard di efficacia stabiliti
nella prevenzione della corruzione. 
    10. Nella trama  sistematica  della  Convenzione  di  Merida,  la
penalizzazione delle condotte di abuso di ufficio non rileva solo  in
relazione alla previsione dell'art.  19,  ma  anche  quale  strumento
normativa specificamente destinato a rendere efficace ed effettivo il
sistema di prevenzione della corruzione, favorendo la  trasparenza  e
prevenendo i conflitti di interesse. 
    La nozione di abuso di ufficio posta dalla Convenzione di  Merida
e', infatti, incentrata sugli abusi della funzione  posti  in  essere
intenzionalmente dai pubblici agenti e sulle violazioni  intenzionali
del  dovere  di  astensione  che  sugli  stessi  grava,  al  fine  di
procurarsi indebiti vantaggi. 
    Nel disegno sistematico della Convenzione, le  misure  preventive
sono  distinte,  sul  piano  sistematico,   dalle   misure   relative
all'incriminazione degli illeciti, ma il perseguimento dell'obiettivo
dell'efficace attuazione dei sistemi di prevenzione della  corruzione
puo' rendere necessario il ricorso anche alla sanzione penale. 
    La sinergia istituita dalla Convenzione tra fattispecie penali  e
misure preventive  e'  resa  evidente  dall'art.  12,  dedicato  alla
prevenzione  efficace  della  corruzione  nel  settore  privato,  che
dispone che le misure adottate in questo ambito siano presidiate,  se
necessario, da sanzioni civili, amministrative o penali, in  caso  di
loro inosservanza. 
    L'art. 5 della Convenzione, intitolato «Politiche e  pratiche  di
prevenzione della corruzione», al primo comma afferma,  inoltre,  che
«[C]iascuno Stato parte elabora e applica o  persegue,  conformemente
ai  principi  fondamentali  del  proprio  sistema  giuridico,   delle
politiche di prevenzione della corruzione efficaci e  coordinate  che
favoriscano la partecipazione della societa' e rispecchino i principi
di stato di diritto, di buona gestione degli affari  pubblici  e  dei
beni pubblici, d'integrita', di trasparenza e di responsabilita'»; al
secondo comma, l'art. 5 aggiunge che «Ciascuno Stato parte si adopera
al fine di attuare e promuovere pratiche efficaci volte  a  prevenire
la corruzione». 
    L'art. 5, terzo  comma,  dispone  che  ciascuno  Stato  parte  si
adopera  al  fine  di  valutare  periodicamente  l'adeguatezza  degli
strumenti giuridici e delle misure amministrative adottate al fine di
«prevenire e combattere la corruzione» e  ulteriormente  dimostra  la
stretta  connessione,  nel  disegno  della  Convenzione,  tra  misure
preventive e il ricorso alle sanzioni penali. 
    L'art. 7, espressamente dedicato al «Settore pubblico», al quarto
comma,  sancisce,  inoltre,  che:  «[C]iascuno  stato   si   adopera,
conformemente ai principi fondamentali del proprio  diritto  interno,
al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono
la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse». 
    Questa disposizione pone uno specifico obbligo  («ciascuno  Stato
si adopera») di perseguimento degli standard di efficace  prevenzione
della corruzione sanciti dalla Convenzione,  mediante  l'adozione  di
«sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i  conflitti  di
interesse». 
    La Convenzione, inoltre, utilizzando il verbo «mantain»,  obbliga
gli Stati contraenti, nel processo di  progressiva  attuazione  degli
obiettivi  di  tutela  perseguiti,  a  impegnarsi  a  preservare  gli
standard di tutela raggiunti e, dunque, dall'astenersi  dall'adottare
misure, legislative o  amministrative,  che  comportino  il  regresso
rispetto al livello di attuazione raggiunto nel  perseguimento  degli
scopi della Convenzione. 
    L'obbligo di adoperarsi per «mantenere» gli  standard  di  tutela
raggiunti nell'efficace  prevenzione  della  corruzione,  del  resto,
opera non soltanto  per  le  misure,  legislative  o  amministrative,
adottate dagli stati membri in attuazione della Convenzione, ma anche
per le  misure  che  ciascuno  Stato  aderente  aveva  gia'  adottato
all'atto della sottoscrizione e risultavano pienamente conformi  agli
scopi di tutela della stessa. 
    Questo  obbligo  non  comporta  che  le  norme   penali   interne
necessarie a garantire l'obiettivo debbano rimanere cristallizzate al
livello piu' rigoroso che hanno attinto (e non esclude in  radice  la
riduzione delle aree di illiceita' penale  o,  persino,  l'esclusione
del  ricorso  alla  sanzione  penale),  ma  attribuisce  alle   norme
attuative una particolare «forza di resistenza» all'abrogazione,  che
le sottrae a novazioni legislative  non  conformi  al  vincolo  posto
dalla Convenzione. 
    L'abrogazione del reato di abuso di ufficio ha,  dunque,  violato
questo  specifico  obbligo,  in  quanto  non  e'  stata  «compensata»
dall'adozione  di  meccanismi,  preventivi  o  repressivi,  penali  o
amministrativi volti a mantenere il medesimo standard di efficacia ed
effettivita'    nella    prevenzione    degli    abusi     funzionali
intenzionalmente posti in essere dagli agenti pubblici ai  danni  dei
cittadini. 
    La fattispecie  di  cui  all'art.  323  codice  penale,  infatti,
richiamando  espressamente  le  norme  extrapenali  che  stabiliscono
obblighi di astensione dei  pubblici  agenti  e  quelle  destinate  a
prevenire i conflitti di interesse nei  settore  pubblico,  garantiva
effettivita' alle stesse e poneva una regola  di  condotta  efficace,
impedendo  ai  pubblici  ufficiali  e  agli  incaricati  di  pubblico
servizio di agire intenzionalmente ai danni dei privati  al  fine  di
procurarsi un indebito vantaggio. 
    Il legislatore, tuttavia, abrogando l'art. 323 codice penale,  ha
fatto cessare la «close conformity» con l'obiettivo  posto  dall'art.
7,  quarto  comma,  della  Convenzione  e  ha  violato  l'obbligo  di
mantenere fermo, nella propria legislazione, il livello di  efficacia
nella prevenzione della legalita' dell'azione  amministrativa  contro
gli abusi di ufficio stabilito in sede convenzionale. 
    11. La relazione introduttiva del disegno di legge n. S. 808,  in
seguito divenuto la legge 9 agosto 2024,  n.  114,  ha  rilevato  che
l'abrogazione del reato di abuso di ufficio si inserisce nel solco di
«plurimi interventi normativi volti a  dare  maggiore  determinatezza
alla disposizione (effettuati del 1990, nel  1997,  nel  2012  e  nel
2020», interventi che tuttavia non sono riusciti a mettere fine  alla
persistenza di un consistente squilibrio tra iscrizioni della notizia
di reato e decisioni di merito, «anche  dopo  le  modifiche  volte  a
ricondurre la fattispecie entro piu' rigorosi criteri descrittivi». 
    Tale situazione, secondo  la  relazione  introduttiva,  ha  fatto
emergere «una anomalia che ha portato alla  scelta  proposta  con  il
presente disegno di legge». 
    In ogni  caso,  osserva  la  relazione,  anche  a  seguito  della
decriminalizzazione dell'abuso  d'ufficio,  il  sistema  dei  delitti
contro la pubblica amministrazione resta «un apparato di  repressione
estremamente articolato», fermo restando in ogni caso che l'abuso  di
poteri o funzioni o la  violazione  di  doveri  imposti  dalla  legge
permane una circostanza aggravante rispetto alla commissione di altre
fattispecie criminose commesse dal pubblico ufficiale. 
    La relazione, inoltre, lascia aperta la «possibilita' di valutare
in  prospettiva  futura  specifici  interventi   additivi   volti   a
sanzionare,  con  formulazioni  circoscritte  e   precise,   condotte
meritevoli di pena in  forza  di  eventuali  indicazioni  di  matrice
euro-unitaria». 
    Nessuna disposizione penale, tuttavia, incrimina piu'  gli  abusi
della funzione  intenzionalmente  commessi  dai  pubblici  agenti  in
violazione di specifiche norme di legge o del dovere di astensione, a
danno dei privati e al fine di procurarsi un indebito vantaggio. 
    Nell'ordinamento penale non vi  e',  infatti,  alcuna  norma  che
consente  di  sanzionare  l'esercizio  arbitrario  di  una   funzione
pubblica, con prevaricazione a danno «degli altrui  diritti»,  se  il
fatto non e' commesso con  violenza  o  minaccia  (concussione)  o  a
fronte della promessa o della dazione di  un  corrispettivo  illecito
(corruzione). 
    12. Il delitto di abuso di ufficio, nel contesto sistematico  del
codice penale, ha avuto un percorso travagliato. 
    Nel disegno del legislatore del 1930,  il  delitto  di  reato  di
abuso di ufficio, per effetto della clausola di sussidiarieta' che lo
connotava, assumeva un ruolo marginale all'interno  del  sistema  dei
delitti contro la pubblica amministrazione. 
    L'ambito applicativo dell'art. 323 codice  penale  e',  tuttavia,
risultato ampliato per effetto  dell'intervento  di  riforma  operato
dalla legge 26  aprile  1990;  nella  fattispecie  sussidiaria  sono,
infatti, confluite, almeno in parte, le fattispecie di  peculato  per
distrazione (art. 314), di interesse privato in atti d'ufficio  (art.
324) e di omissione di atti d'ufficio (art.  328),  sulle  quali  era
intervenuto il legislatore della riforma. 
    Per correggere i problemi  sorti  dall'eccessiva  ampiezza  della
disposizione e dalla sua poco stringente formulazione,  la  legge  16
luglio 1997, n. 234 ha modificato l'art. 323 codice  penale,  con  il
dichiarato intento di escludere la rilevanza penale dei provvedimenti
amministrativi  viziati  da  eccesso  di  potere,  ritenendo  che  un
sindacato   del   giudice    penale    sugli    stessi    comportasse
un'inaccettabile intromissione  del  potere  giudiziario  nell'ambito
dell'attivita' discrezionale della pubblica amministrazione. 
    Il legislatore e', peraltro, nuovamente intervenuto sull'art. 323
codice penale, con l'art. 23, comma 1, del  decreto-legge  16  luglio
2020, n. 76 (Misure urgenti per la  semplificazione  e  l'innovazione
digitale), convertito, con modificazioni, nella  legge  11  settembre
2020, n. 120. 
    Questo intervento legislativo ha conferito  alla  fattispecie  di
reato  una  formulazione  ancor  piu'   vincolante   e   restrittiva,
sostituendo  le  parole  «in  violazione  di  norme  di  legge  o  di
regolamento» con  quelle  «in  violazione  di  specifiche  regole  di
condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di
legge e dalle quali non residuino margini  di  discrezionalita'»,  al
fine di escludere ancor piu' radicalmente il  sindacato  del  giudice
penale sugli atti discrezionali della pubblica amministrazione. 
    La Corte nella sentenza n, 8 del  2022  ha,  inoltre,  dichiarato
inammissibili le questioni di legittimita'  costituzionale  dell'art.
23, comma 1, del  decreto-legge  n.  76  del  2020,  convertito,  con
modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120,  sollevate  dal
Giudice  dell'udienza  preliminare  del  Tribunale  di  Catanzaro  in
riferimento agli articoli 3 e 97 Cost. 
    Questa sentenza ha rilevato la legittimita' costituzionale  della
riduzione dell'ambito di rilevanza penale delle condotte di abuso  di
ufficio, in quanto ii legislatore  ha  inteso  non  irragionevolmente
scongiurare la sempre maggiore diffusione  del  fenomeno  della  c.d.
«burocrazia difensiva» (o «amministrazione difensiva»), che  comporta
«significativi riflessi negativi in termini di perdita di  efficienza
e   di   rallentamento   dell'azione   amministrativa,   specie   nei
procedimenti piu' delicati». 
    Sin dall'archetipo costituito  dalla  previsione  dell'«abuso  di
autorita'» di cui  all'art.  175  del  codice  Zanardelli,  tuttavia,
questa fattispecie di reato, pur nelle sue  successive  versioni,  ha
costituito la forma di tutela minimale del cittadino contro i soprusi
e le prevaricazioni dell'autorita' pubblica in tutte  le  fasi  della
storia dello Stato italiano. 
    La Corte costituzionale, gia' nella sentenza n. 7  del  1965,  ha
rilevato la tensione che sin da allora connotava  la  fattispecie  di
reato dell'abuso  di  ufficio,  tra  l'esigenza  di  incriminare  «la
trasgressione, da parte del pubblico ufficiale, di un dovere inerente
all'ufficio, quando essa si concreti in un atto o,  comunque,  in  un
comportamento illegittimo, posto in essere con dolo», e, al contempo,
la necessita' di stabilire una «sufficiente garanzia che il  pubblico
ufficiale  sia  al   coperto   dalla   possibilita'   di   arbitrarie
applicazioni della legge penale, il  timore  delle  quali  nuocerebbe
anch'esso al buon  andamento  della  pubblica  amministrazione  e  al
sollecito perseguimento dei suoi fini». 
    L'abrogazione del reato di abuso di ufficio, tuttavia, lungi  dal
bilanciare  tra  le  esigenze  costituzionali  dell'imparzialita'   e
dell'efficacia dell'azione amministrativa, anche mediante l'ulteriore
riduzione  dell'ambito  dell'incriminazione,   ha   dato   prevalenza
incondizionata   all'autonomia   di   amministratori   e   funzionari
nell'esercizio della funzione pubbliche,  sacrificando  integralmente
la tutela dei cittadini contro gli abusi posti in essere dai pubblici
agenti intenzionalmente ai loro danni. 
    13. Il deficit rispetto agli obiettivi di  tutela  fissati  dagli
articoli  19  e  7,  quarto  comma,  della  Convenzione  di   Merida,
conseguente all'abolizione del reato di abuso di ufficio, del  resto,
non e' stato colmato dell'art. 9, comma 1 del decreto-legge 4  luglio
2024, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto  2024,
n. 112, che, a decorrere dal 5 luglio 2024, ha introdotto nel  codice
penale il reato di indebita destinazione  di  denaro  o  cose  mobili
all'art. 314-bis. 
    Questa disposizione espressamente sancisce che  «Fuori  dei  casi
previsti dall'art. 314, il pubblico ufficiale o  l'incaricato  di  un
pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio
il possesso o comunque la disponibilita' di denaro o  di  altra  cosa
mobile altrui, li destina ad un uso diverso  da  quello  previsto  da
specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge  dai
quali non residuano margini di  discrezionalita'  e  intenzionalmente
procura a se' o ad altri un  ingiusto  vantaggio  patrimoniale  o  ad
altri un danno ingiusto, e' punito con la reclusione da  sei  mesi  a
tre anni». 
    Nel preambolo al decreto-legge il Governo ha  precisato  di  aver
fatto ricorso al decreto-legge, «ritenuta la straordinaria necessita'
e urgenza di definire, anche in relazione agli obblighi euro-unitari,
il reato di indebita destinazione  di  beni  ad  opera  del  pubblico
agente». 
    Il riferimento agli  obblighi  di  incriminazione  derivanti,  ai
sensi dell'art. 117, primo  comma,  Cost.,  dal  diritto  dall'Unione
europea e' al disposto dell'art. 4, paragrafo 3, della  direttiva  UE
2017/1371 del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la  frode  che
lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto  penale
(c.d. direttiva PIF), che prescrive la penalizzazione delle  condotte
del funzionario pubblico che  miri  all'«appropriazione  indebita  di
fondi o beni, per uno scopo contrario a quello previsto». 
    La  giurisprudenza  di   legittimita',   nelle   prime   sentenze
pronunciatesi sull'art. 314-bis cod. pen., ha precisato che il  reato
di indebita destinazione di danaro  o  di  cose  mobili  sanziona  le
condotte distrattive di danaro di cose mobili che  la  giurisprudenza
di  legittimita',  nella   disciplina   previgente,   riferiva   alla
fattispecie abrogata dell'abuso di ufficio (Sez. 6, n.  4520  del  23
ottobre 2024, dep. 2025, ..., Rv. 287453-02; conf. Sez.  1,  n.  5041
del 10 gennaio 2025, Rv. 287431-01). 
    Questa fattispecie di reato, dunque, riferendosi ai c.d. abusi di
ufficio distrattivi,  si  colloca  fuori  dal  perimetro  applicativo
dell'art. 19 e ricade  nell'ambito  applicativo  dell'art.  17  della
Convenzione, dedicato alla «sottrazione, appropriazione indebita,  od
altro uso illecito  di  beni  da  parte  di  un  pubblico  ufficiale«
(«Ciascuno Stato parte adotta le misure legislative e le altre misure
necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando  gli
atti  sono  stati  commessi   intenzionalmente,   alla   sottrazione,
all'appropriazione indebita o ad un altro uso illecito, da  parte  di
un pubblico ufficiale, a suo vantaggio  o  a  vantaggio  di  un'altra
persona o entita', di qualsiasi  bene,  fondo  o  valore  pubblico  o
privato o di ogni altra cosa di valore che sia stata a  lui  affidata
in virtu' delle sue funzioni»). 
    14. La Corte costituzionale, nella sentenza n.  8  del  2022,  ha
rilevato che le esigenze costituzionali di tutela  dell'imparzialita'
e  del  buon  andamento  della  pubblica   amministrazione   non   si
esauriscono, nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte  con
altri  precetti  e  sanzioni:   l'incriminazione   costituisce   anzi
un'extrema  ratio,  cui  il  legislatore  ricorre  quando,  nel   suo
discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario  per  l'assenza  o
l'inadeguatezza di altri mezzi di tutela. 
    Il legislatore, tuttavia, nell'abrogare  il  reato  di  abuso  di
ufficio,  non  ha   correlativamente   rafforzato   il   livello   di
prevenzione, a livello amministrativo, contro le condotte  abusive  e
la violazione dell'imparzialita' da  parte  dei  pubblici  agenti  in
danno dei privati, come imposto dagli articoli 1, 7, quarto comma, 19
e 65, primo comma, della Convenzione di Merida. 
    La relazione introduttiva del disegno  di  legge  n.  S.  808  ha
affermato la sufficienza «dell'ampia disciplina ormai da diversi anni
introdotta in funzione di prevenzione della malpractice  nel  settore
pubblico. 
    Tale normativa  impone  alle  amministrazioni,  tra  l'altro,  di
adottare piani anti-corruzione e  prevede  l'alta  vigilanza  di  una
Agenzia indipendente; inoltre, con il decreto  legislativo  10  marzo
2023,  n.  24,  e'  stata  data  attuazione  alla  direttiva  europea
2019/1937 riguardante  la  protezione  delle  persone  che  segnalano
violazioni del diritto dell'UE o di disposizioni  nazionali;  vale  a
dire  -  secondo  l'amplissima  definizione   fornita   dal   decreto
legislativo  -  «comportamenti,  atti   od   omissioni   che   ledono
l'interesse pubblico o l'integrita' dell'amministrazione  pubblica  o
dell'ente privato. 
    L'insieme organico dei rimedi  preventivi,  approntati  anche  in
sede di controllo amministrativo, e  repressivi,  di  natura  penale,
disciplinare, contabile  ed  erariale,  consente  di  recuperare  una
completa tutela degli interessi pubblici, senza arretramenti». 
    Il legislatore, tuttavia, nell'abrogare  il  reato  di  abuso  di
ufficio, ha considerato l'idoneita' della  disciplina  amministrativa
vigente a  tutelare  l'interesse  pubblico  e  non  gia'  quello  dei
cittadini a non essere danneggiati dagli  abusi  funzionali  o  dalla
mancata astensione dei pubblici agenti che agiscono in  conflitto  di
interesse. 
    La previsione del reato di abuso di ufficio, con riferimento alla
violazione dell'obbligo di astensione  e  al  divieto  di  violazioni
della legge poste in essere intenzionalmente in  danno  del  privato,
aveva, infatti, una portata generale ed estremamente efficace,  anche
sul piano preventivo, in  ragione  della  previsione  della  minaccia
della sanzione penale. 
    I rimedi preventivi anticorruzione (quali quelli  introdotti  dal
decreto  legislativo  25  maggio  2016,  n.  97),  per  loro  natura,
riguardano molto marginalmente i comportamenti dei singoli funzionari
e  si   concentrano   sull'organizzazione   dell'azione   complessiva
dell'amministrazione, senza  assumere  alcun  effetto  specifico  nei
confronti della singola azione illecita. 
    I  rimedi  giurisdizionali,  peraltro  onerosi,  non  sempre  non
attivabili, in quanto, non di rado, le  prevaricazioni  dei  pubblici
agenti  si  traducono  non  in  atti  amministrativi,  ma   in   meri
comportamenti, come tali non impugnabili. 
    Parimenti frammentaria e non sempre  coerente  e'  la  disciplina
amministrativa dei conflitti di interesse; le  sanzioni  disciplinari
per la violazione dell'obbligo di astensione previsto nei vari codici
deontologici richiesti dall'art. 54 del decreto legislativo 30  marzo
2001, n. 165, sono, infatti, difficilmente applicabili  ai  dirigenti
di piu'  alto  livello  per  i  quali  piu'  che  la  responsabilita'
disciplinare vale quella di risultato, in forza  dell'art.  21  dello
stesso decreto, e non operano per gli amministratori eletti. 
    I sistemi disciplinari previsti dal diritto amministrativo  sono,
inoltre, estremamente frastagliati,  in  quanto  sono  calibrati  dal
legislatore sulle specifiche funzioni e sullo statuto che  disciplina
la singola figura di pubblico agente. 
    L'attivazione  dei  sistemi  disciplinari  e',  inoltre,  rimessa
all'esclusiva   denuncia   del   privato,   che    deve    rivolgersi
all'amministrazione cui appartiene il pubblico  ufficiale  autore  di
condotte di abuso di ufficio (rispetto al quale il  privato  potrebbe
trovarsi  in  condizioni  di  timore  riverenziale);  i  procedimenti
disciplinari sono, inoltre, dotati  di  poteri  di  istruttoria  meno
incisivi di quelli ammessi  nel  processo  penale  e  non  consentono
l'intervento della persona offesa. 
    Parimenti la responsabilita' contabile ed erariale  non  assicura
una prevenzione efficace e adeguata degli abusi  funzionali  commessi
in danno dei privati, in quanto questo sistema di responsabilita'  e'
incentrato sul danno arrecato allo Stato e non e' attivabile a fronte
di danni subiti meramente dal privato. 
    Il legislatore,  dunque,  nell'abrogare  il  reato  di  abuso  di
ufficio, non ha introdotto discipline amministrative  che  mantengano
il pregresso standard di efficacia nella prevenzione dei conflitti di
interesse e degli abusi di  potere  dei  pubblici  agenti  prescritto
dalla Convenzione di Merida, 
    15. Alla stregua dei rilievi che precedono, il Collegio, ai sensi
dell'art. 23, comma 3, della legge 11 marzo 1953,  n.  87,  dichiara,
d'ufficio, rilevante e non manifestamente infondata la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera  b),  della
legge 9 agosto 2024, n. 114, che abroga l'art. 323 codice penale,  in
riferimento agli articoli 11 e 117, primo comma, della  Costituzione,
in relazione agli articoli 1, 7, quarto comma, 19 e 65, primo  comma,
della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite  contro  la
corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell'ONU il 31  ottobre
2003, con risoluzione n. 58/4, firmata  dallo  Stato  italiano  il  9
dicembre 2003 e ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116. 
    In conformita' all'art. 23, comma 4, della legge 11  marzo  1953,
n. 87, deve essere disposta l'immediata trasmissione degli atti  alla
Corte costituzionale e la sospensione del giudizio in corso. 
    La cancelleria provvedera', inoltre,  a  notificare  la  presente
ordinanza al ricorrente, al Procuratore generale presso la  Corte  di
cassazione, al Presidente del  Consiglio  dei  ministri  e  alla  sua
comunicazione ai Presidenti delle due camere del Parlamento. 

 
                                P.Q.M. 
 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera  b),  della
legge 9 agosto 2024, n. 114, che abroga l'art. 323 codice penale , in
riferimento agli articoli 11 e 117, primo comma, della  Costituzione,
in relazione agli articoli 1, 7, quarto comma, 19 e 65, primo  comma,
della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite  contro  la
corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell'ONU il 31  ottobre
2003, con risoluzione n. 58/4, firmata  dallo  Stato  italiano  il  9
dicembre 2003 e ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116. 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso. 
    Ordina che, a cura della cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata al ricorrente, al Procuratore generale presso la Corte  di
cassazione, ai Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata
ai presidenti delle due camere del Parlamento. 
    Cosi' deciso il 21 febbraio 2025 
 
                       Il Presidente: Fidelbo 
 
 
                                Il consigliere estensore: D'Arcangelo