N. 50 ORDINANZA (Atto di promovimento) 07 marzo 2025
Ordinanza del 7 marzo 2025 della Corte di cassazione nel procedimento
penale a carico di M. S..
Reati e pene - Abrogazione dell'art. 323 del codice penale (Abuso
d'ufficio).
- Legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice
di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice
dell'ordinamento militare), art. 1, comma 1, lettera b).
(GU n. 11 del 12-03-2025)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sesta Sezione penale
composta da:
Giorgio Fidelbo - Presidente;
Enrico Gallucci;
Giuseppina Anna Rosaria Pacilli;
Pietro Silvestri;
Fabrizio D'Arcangelo - relatore;
ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da S.
M. , nato a ... il ...;
avverso la sentenza emessa in data 18 aprile 2024 dalla Corte di
appello di Napoli;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Fabrizio D'Arcangelo;
udite le conclusioni del pubblico ministero, in persona del
sostituto Procuratore generale Raffaele Gargiulo, che ha chiesto
l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perche' il fatto
non e' piu' previsto dalla legge come reato e la revoca delle
relative statuizioni civili;
udite le conclusioni dell'avvocato Claudia Guerriero, in
sostituzione dell'avvocato Raffaele Tacce, difensore di fiducia di M.
S. , che ha chiesto l'accoglimento dei motivi di ricorso.
Ritenuto in fatto
1. La Corte d'appello di Napoli, con la pronuncia impugnata, ha
confermato la sentenza di condanna, emessa dal Tribunale di Avellino
in data 16 settembre 2016, nei confronti di M. S. per il delitto di
cui agli articoli 81, 110 e 323 cod. pen. , commesso in ... dal ...
al ... condannando l'imputato appellante al pagamento delle spese del
grado e alla rifusione delle spese di lite sostenute dalla parte
civile costituita
1.1. Secondo l'ipotesi di accusa, M. S. , segretario comunale del
Comune di ... , in concorso con ..., presidente del consiglio
comunale, nello svolgimento di pubbliche funzioni, con piu' azioni
esecutive di un medesimo disegno criminoso, violando il disposto
dell'art. 38, comma ottavo, del decreto legislativo 18 agosto 2000,
n. 267 (Testo unico degli enti locali), che disciplina le modalita'
di dimissioni dalla carica di consigliere comunale, avrebbe
intenzionalmente procurato un danno ingiusto a ..., capogruppo del
partito di opposizione, facendolo illegittimamente decadere dalla
carica di consigliere comunale.
1.2. Le sentenze di merito hanno accertato che, nella seduta del
consiglio comunale di ... del ... , ... , nel corso di un acceso
dibattito, ha dichiarato «mi dimetto dal mio mandato di consigliere
comunale, ma chiedo l'applicazione dell'art. 9 del regolamento
consiliare», intendendo in realta', come risultava dal tenore
complessivo del suo intervento e dall'inequivoca formulazione della
disposizione citata, dimettersi dalla carica di capogruppo e non gia'
da quella di consigliere comunale.
Nella successiva seduta del ..., il consiglio comunale ha
deliberato l'approvazione del verbale della seduta del ... e,
successivamente, il Presidente del consiglio comunale ha dichiarato
di aver ricevuto una nota da parte del segretario comunale, M. S. ,
che gli aveva comunicato che ... non era piu' in carica, essendosi
dimesso da consigliere comunale.
Con nota emessa in data ..., il presidente del consiglio comunale
ha, dunque, comunicato a ... la decadenza immediata dalla carica di
consigliere comunale, nonostante le sue contestazioni.
Secondo i giudici di merito, l'imputato M. S. , che nel giudizio
di appello ha rinunciato alla prescrizione, ha concorso
nell'illegittima destituzione di .. dal consiglio comunale, redigendo
due note e un parere, reso di propria iniziativa, che attestavano la
regolarita' delle dimissioni asseritamente rese da consigliere
comunale, pur in carenza dei presupposti di legge.
L'imputato, infatti, nella propria nota ha ritenuto legittime ed
efficaci le dimissioni di ... in virtu' dell'art. 50 dello statuto
comunale, che, tuttavia, non poteva prevalere sull'art. 38, comma
ottavo, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, in ragione
della gerarchia delle fonti e dei principi che regolano la
successione di leggi nel tempo.
Le asserite dimissioni da consigliere comunale, inoltre, erano
state rassegnate senza le formalita' prescritte da tale ultima
diposizione e dovevano intendersi revocate validamente per effetto
della dichiarazione rese da ... in epoca precedente alla loro
protocollazione, richiesta dalla legge e mai avvenuta.
I giudici di merito hanno, inoltre, rilevato che S. unitamente ad
altri esponenti politici locali, era stato denunciato da ... per
abuso di ufficio e illeciti edilizi e da queste denunce erano
scaturiti procedimenti penali e richieste di rinvio a giudizio nei
confronti del ricorrente, tanto da indurre a ritenere che nutrisse
motivi di risentimento nei confronti della persona offesa.
S. , dunque, nell'esercizio delle proprie funzioni di segretario
comunale, omettendo di astenersi in una situazione di conflitto di
interessi, ha intenzionalmente posto in essere una «macroscopica
violazione di legge» ai danni della persona offesa.
Le sentenze di merito hanno, da ultimo, accertato che l'abusiva
destituzione dal consiglio comunale ha cagionato a ... un danno
ingiusto, patrimoniale e non patrimoniale, costituito
dall'impossibilita' di esercitare la propria carica politica, dalla
perdita dei c.d. gettoni di presenza alle sedute del consiglio
comunale e dagli esborsi sostenuti per impugnare il provvedimento
amministrativo illegittimo.
2. L'avvocato Raffaele Tecce, difensore di S. , ha impugnato la
sentenza della Corte di appello di Napoli e ne ha chiesto
l'annullamento.
Il difensore, proponendo un unico motivo di ricorso, deduce
l'intervenuta abolitio criminis del delitto di abuso di ufficio, per
effetto dell'art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024,
n. 114, e chiede l'annullamento della sentenza impugnata, la revoca
delle statuizioni civili enunciate dalla stessa e della condanna alla
refusione delle spese sostenute dalla parte civile in entrambi i
gradi di giudizio.
3. Con istanza depositata tempestivamente in data 4 novembre
2024, il difensore ha chiesto la trattazione orale del ricorso.
Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 3
dicembre 2024, il Procuratore generale Raffaele Gargiulo, ha chiesto
di annullare senza rinvio la sentenza impugnata perche' il fatto non
e' piu' previsto dalla legge come reato e di revocare le statuizioni
civili.
4. All'udienza del 19 dicembre 2024 il Collegio, ai sensi
dell'art. 615, comma 1, codice di procedura penale, ha rinviato la
deliberazione all'udienza del 3 aprile 2025, di seguito anticipata
all'udienza del 20 febbraio 2025.
Considerato in diritto
1. Il difensore, proponendo un unico motivo di ricorso, deduce
l'intervenuta abolitio criminis del delitto di abuso di ufficio e
chiede l'annullamento della sentenza impugnata perche' il fatto non
e' piu' previsto dalla legge come reato e la revoca delle statuizioni
civili.
2. L'art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n.
114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale,
all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare),
entrato in vigore il 25 agosto 2024, ha abrogato l'art. 323 codice
penale e, dunque, il reato di abuso di ufficio.
Il Collegio dubita, tuttavia, della legittimita' costituzionale
di tale disposizione, in riferimento agli articoli 11 e 117, primo
comma, della Costituzione, in relazione agli articoli 1, 7, quarto
comma, 19 e 65, primo comma, della Convenzione dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea
generale dell'ONU a Merida il 31 ottobre 2003, con risoluzione n.
58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003 e ratificata
con legge 3 agosto 2009, n. 116.
3. La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma
1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114, quale norma
abrogatrice di una fattispecie di reato, e' ammissibile, ancorche'
possa produrre effetti in malam partem, e non collide con il
principio di riserva di legge in materia penale sancito dall'art. 25,
secondo comma, Cost.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 37 del 2019, ha
delineato i presupposti e l'ambito del sindacato di legittimita'
costituzionale in materia penale, con effetti anche in malam partem.
In questa pronuncia la Corte costituzionale ha affermato
che:«[I]n linea di principio, sono inammissibili le questioni di
legittimita' costituzionale che concernano disposizioni abrogative di
una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino
nell'ordinamento della norma incriminatrice abrogata (cosi', ex
plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413
del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a tale
ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell'art. 25,
secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione
dell'area di cio' che e' penalmente rilevante. Principio,
quest'ultimo, che determina in via generale l'inammissibilita' di
questioni volte a creare nuove norme penali, a estenderne l'ambito
applicativo a casi non previsti (o non piu' previsti) dal legislatore
(ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002; ordinanze n.
65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad aggravare le conseguenze
sanzionatorie o la complessiva disciplina del reato (ex multis,
ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 del 2009 e n. 5 del
2009)».
Tuttavia, la stessa sentenza ha precisato, confermando precedenti
pronunce (sent. n. 236 del 2018 e n. 143 del 2018), come tali
principi non siano senza eccezioni. Infatti, ha affermato che «(...)
puo' venire in considerazione la necessita' di evitare la creazione
di "zone franche" immuni dal controllo di legittimita'
costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del
principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano
irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola
della generale rilevanza penale di una piu' ampia classe di condotte,
stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero
prevedano per detto sottoinsieme - altrettanto irragionevolmente - un
trattamento sanzionatorio piu' favorevole (sentenza n. 394 del 2006).
Un controllo di legittimita' con potenziali effetti in malam
partem deve altresi' ritenersi ammissibile quando a essere censurato
e' lo scorretto esercizio dei potere legislativo: da parte dei
Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di
criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46
del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo,
che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione
penale, senza a cio' essere autorizzato dalla legge delega (sentenza
n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che
non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in
materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014).
In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata
incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una
norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla
sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimita'
costituzionale della prima non potra' che comportare il ripristino
della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata.
Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia
penale conseguente alla pronuncia di illegittimita' costituzionale e'
stato, altresi', ritenuto ammissibile allorche' esso si configuri
come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di
una norma processuale», derivante «dall'eliminazione di una
previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale»
(sentenza n. 236 del 2018).
Un controllo di legittimita' costituzionale con potenziali
effetti in malam partem puo', infine, risultare ammissibile ove si
assuma la contrarieta' della disposizione censurata a obblighi
sovranazionali rilevanti ai sensi dell'art. 11 o dell'art. 117, primo
comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonche' sentenza n, 32 del
2014, ove l'effetto di ripristino della vigenza delle disposizioni
penali illegittimamente sostituite in sede di conversione di un
decreto-legge, con effetti in parte peggiorativi rispetto alla
disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con riferimento
alla necessita' di non lasciare impunite «alcune tipologie di
condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di
penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto
dell'Unione europea, che l'Italia e' tenuta a rispettare in virtu'
degli articoli 11 e 117, primo comma, Cost.»)».
Proprio quest'ultima evenienza, ad avviso del Collegio, ricorre
nel caso di specie.
Il Collegio, infatti, non richiede il sindacato di
costituzionalita' su un caso di inattuazione originaria da parte del
legislatore dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, che
non consente alla Corte costituzionale di surrogare l'inerzia del
Parlamento, sovrano in materia di scelte di criminalizzazione,
introducendo una nuova incriminazione, ma su un caso di inattuazione
sopravvenuta di tali vincoli, che consente la reviviscenza della
fattispecie di reato abrogata e, dunque, la riespansione della sua
efficacia.
In questo caso, la Corte costituzionale non opera alcuna scelta
di criminalizzazione, ma si limita a rimuovere la norma
incostituzionale; l'effetto sfavorevole deriva dalla reviviscenza
della norma precedente, posta dallo stesso legislatore, unica
costituzionalmente conforme, perche' rispettosa dell'obbligo sovra
nazionale.
4. La questione di costituzionalita' dell'art. 1, comma 1,
lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114 e', inoltre, rilevante.
Secondo il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza
costituzionale (recentemente, Corte costituzionale, sentenza n. 45
del 2024; n. 164 del 2023), ai fini della rilevanza delle questioni
di legittimita' costituzionale, e' sufficiente che la disposizione
censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che la pronuncia di
accoglimento possa influire sull'esercizio della funzione
giurisdizionale (tra le altre, Corte costituzionale, sentenza n. 247
e n. 215 del 2021), quantomeno sotto il profilo del percorso
argomentativo della decisione nel processo principale (ex plurimis,
Corte costituzionale sentenza n. 25 del 2024 e n. 154 del 2021;
ordinanza n. 194 del 2022).
La disposizione censurata deve essere applicata per decidere del
motivo proposto dal ricorrente e il suo accoglimento inciderebbe
sulla decisione da adottare, non consentendo piu' di dichiarare che
il fatto non e' previsto dalla legge come reato.
L'eventuale declaratoria di incostituzionalita' della
disposizione che ha abrogato il reato di abuso di ufficio renderebbe,
infatti, nuovamente punibili le condotte previste dall'art. 323
codice penale commesse sotto la sua vigenza, quale quelle di cui si
controverte nel presente giudizio.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 49 del 1970, ha
precisato che «la declaratoria di illegittimita' costituzionale,
determinando la cessazione di efficacia delle norme che ne sono
oggetto, impedisce... dopo la pubblicazione della sentenza, che le
norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali
sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla
successione delle leggi nel tempo. Il mutamento di disciplina attuato
per motivi di opportunita' politica, liberamente valutata dal
legislatore costituisce, pertanto, fenomeno diverso
dall'accertamento, ad opera dell'organo a cio' competente, della
illegittimita' costituzionale di una certa disciplina legislativa: in
questa seconda ipotesi, a differenza che nella prima, e'
perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli
organi giurisdizionali, di assumere le norme dichiarate
incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o
rapporto, pur se venuto in essere anteriormente alla pronuncia della
Corte».
Le Sezioni unite di questa Corte hanno, inoltre, espressamente
richiamato questa pronuncia della Corte costituzionale, al fine di
escludere dalla disciplina della successione delle leggi penali nel
tempo e dall'applicazione dell'art. 2, quarto comma, codice penale le
vicende di successione normativa determinate da dichiarazioni di
illegittimita' costituzionale delle norme succedutesi (Sez. U, n.
42858 del 29 maggio 2014, ... , Rv. 260695 - 01).
5. Il dubbio di legittimita' costituzionale non puo', peraltro,
essere risolto ricorrendo ad un'interpretazione costituzionalmente
conforme della disposizione in esame, ma solo sottoponendo lo stesso
al sindacato della Corte costituzionale.
L'onere di interpretazione conforme, infatti, viene meno,
lasciando il passo all'incidente di costituzionalita', allorche' il
tenore letterale della disposizione non consenta questa
interpretazione (ex plurimis: Corte costituzionale, sentenza n. 1 del
2024, n. 104 del 2023, n. 18 del 2022, n. 59 del 2021 e n. 32 del
2021).
Nella specie, il perentorio tenore letterale della disposizione
censurata, volto a sancire inequivocabilmente l'intervenuta
abrogazione del reato di abuso di ufficio, non consente il ricorso
all'interpretazione conforme.
6. La questione di costituzionalita' non e' manifestamente
infondata, come e' stato, peraltro, ritenuto, pur con diversita' di
accenti, da plurime ordinanze di rimessone sollevate da giudici di
merito (Tribunale di Firenze, ordinanza del 24 settembre 2024;
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Locri, ordinanza
del 30 settembre 2024; Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
di Firenze, ordinanza del 3 ottobre 2024; Tribunale di Busto Arsizio,
ordinanza del 21 ottobre 2024; Tribunale di Firenze, ordinanza 25
ottobre 2024; Tribunale di Bolzano, ordinanza dell'11 novembre 2014;
Tribunale di Teramo, ordinanza del 22 novembre 2024; Tribunale di
Catania, ordinanza del 26 novembre 2024).
7. La Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro
la corruzione, secondo l'art. 1, «ha per oggetto:
a) la promozione ed il rafforzamento delle misure volte a
prevenire e combattere la corruzione in modo piu' efficace;
b) la promozione, l'agevolazione ed il sostegno della
cooperazione internazionale e dell'assistenza tecnica ai fini della
prevenzione della corruzione e della rotta a quest'ultima, compreso
il recupero di beni;
c) la promozione dell'integrita', della responsabilita' e
della buona fede nella gestione degli affari pubblici e dei beni
pubblici».
La Convenzione di Merida, a differenza di altre convenzioni
internazionali contro la corruzione cui aderisce lo Stato italiano,
ha un impianto organico, in quanto non considera soltanto il crinale
penale del contrasto alla corruzione, ma contempla un ampio novero di
«misure preventive», volte a istituire un articolato ed efficace
sistema di «politiche e pratiche di prevenzione della corruzione»
(capitolo II, articoli 5-14).
L'ampia disciplina dedicata a «criminalization and law
enforcement» (capitolo III, articoli 15-53), inoltre, non si limita
alle «basic forms of corruption» ma contempla anche la penalizzazione
di illeciti prodromici, connessi o, comunque, strumentali alla
corruzione, quali l'appropriazione indebita da parte dei pubblici
ufficiali (art. 17), il millantato credito (art. 18), l'abuso di
ufficio (art. 19), l'arricchimento illecito (art. 20), la corruzione
nel settore privato (art. 21), la sottrazione di beni nel settore
privato (art. 22), il riciclaggio dei proventi del crimine (art. 23),
la ricettazione (art. 24) e l'ostacolo al buon funzionamento della
giustizia (art. 25).
La Convenzione contiene, inoltre, disposizioni dedicate alla
cooperazione internazionale (capitolo IV, articoli 43-50), al
recupero dei beni oggetto della corruzione (capitolo V, articoli
51-59), all'assistenza tecnica e allo scambio di informazioni
(capitolo VI, articoli 60-62) e ai «meccanismi di attuazione»
(capitolo VII, articoli 63-64).
L'art. 63, primo paragrafo, in particolare, istituisce la
Conferenza degli Stati parte della convenzione al fine di realizzare
una verifica periodica di monitoraggio dell'attuazione della
Convenzione, basata sul criterio della peer review; l'organo che
sovrintende a tale processo e' l'Intergovernmental Working Group
presso l'United Nations Office on Drugs and Crime.
L'art. 65, dedicato alla «Attuazione della Convenzione», rende
giuridicamente vincolante per lo stato contraente l'obbligo di
adeguarsi alle previsioni della convenzione.
Questa disposizione sancisce al comma primo che «Ciascuno Stato
parte adotta le misure necessarie, comprese misure legislative ed
amministrative, in conformita' con i principi fondamentali del suo
diritto interno, per assicurare l'esecuzione dei suoi obblighi ai
sensi della presente Convenzione».
8. L'art. 19 della Convenzione, rubricato «abuso d'ufficio»,
prevede che: «Ciascuno Stato parte esamina l'adozione delle misure
legislative e delle altre misure necessarie per conferire il
carattere di illecito penale, quando l'atto e' stato commesso
intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle
proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di
astenersi dal compiere, nell'esercizio delle proprie funzioni, un
atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito
vantaggio per se o per un'altra persona o entita'».
Questa disposizione delinea una nozione di abuso di ufficio
omologa a quella prevista dall'abrogato art. 323 codice penale e
sancisce che, se la penalizzazione delle condotte di «abuse of
functions» realizza la «close conformity» con gli obiettivi di tutela
della stessa convenzione, l'obbligo di considerare l'introduzione del
reato di abuso di ufficio costituisce il livello minimale vincolante
per ogni stato contraente.
Lo specifico contenuto dell'obbligo posto dall'art. 19 e'
chiarito dalla Legislative guide for the implementation of the United
Nations Convention against Corruption, redatta dall'United Nations
Office on Drugs and Crime, che assume il valore di interpretazione
autentica della Convenzione.
La Guida per l'implementazione della convenzione, nella seconda
edizione del 2012, ai paragrafi 11 e 12, precisa che le disposizioni
di quest'ultima «do not have all the same level of obligation» e che
possono essere divise in tre categorie:
(a) un primo gruppo include le disposizioni che impongono
«mandatory requirement», ossia quelle che sanciscono una «obligation
to take legislative or other measures»;
(b) un secondo gruppo, nel quale rientra l'art. 19, in
materia di abuso d'ufficio, indica degli «optional requirement», che
sanciscono delle «obligation to consider»;
(c) un terzo gruppo sancisce meramente delle «optional
measures», ossia delle misure che «States parties may wish to
consider».
La Convenzione utilizza, infatti, tre espressioni
progressivamente graduate, che vanno dalla vincolativita' alla
facoltativita': «shall adopt», «shall consider adopting», «may
adopt».
Per il primo gruppo di disposizioni la Convenzione prevede che
«Each State Party shall adopt such legislative and other measures as
may be necessary to establish as criminal offences...»; per il
secondo, invece, prescrive che «Each State Party shall consider
adopting such legislative and other measures as may be necessary to
establish as a criminal offence»; per il terzo, costituto da
previsioni integralmente facoltative, la Convenzione ricorre al
termine «may adopt».
Con riferimento alle disposizioni del secondo tipo, il paragrafo
12 della Guida precisa che gli Stati parte «are urged to consider
adopting a certain measure and to make a genuine effort to see
whether it would be compatible with their legal systems».
Le disposizioni che appartengono al secondo gruppo, dunque, non
sono meramente facoltative e non esprimono mere raccomandazioni, ma
fondano un vero e proprio obbligo per gli Stati membri di fare un
ragionevole sforzo per verificare se l'introduzione di una
determinata ipotesi di reato sia compatibile con il proprio
ordinamento.
L'art. 19 della convenzione non pone, pertanto, un obbligo di
penalizzazione dell'abuso di ufficio, in quanto richiede agli Stati
contraenti di «considerare» l'adozione della fattispecie di «abuse of
functions» («shall consider adopting») e non gia' di introdurla
obbligatoriamente, come e' previsto per i reati di corruzione («shall
adopt»).
9. I «vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» in materia
penale per il legislatore, ai sensi dell'art. 117, comma primo Cost.,
tuttavia, non sono costituiti solo dagli obblighi di
criminalizzazione, come e' stato chiarito dalla Corte costituzionale
nella sentenza n. 28 del 2010.
Questa pronuncia ha, infatti, dichiarato l'illegittimita'
costituzionale, per contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto,
di una norma extrapenale, che, sottraendo temporaneamente le ceneri
di pirite dalla categoria dei rifiuti, ha escluso, durante il periodo
della sua vigenza, precedente all'abrogazione ad opera del decreto
legislativo 16 gennaio 2008, n. 4, l'applicabilita' delle sanzioni
penali previste per la gestione illegale dei rifiuti.
La Convenzione di Merida pone, del resto, non solo obblighi di
criminalizzazione, ma anche di efficace persecuzione, di
perseguimento e di mantenimento degli standard di efficacia stabiliti
nella prevenzione della corruzione.
10. Nella trama sistematica della Convenzione di Merida, la
penalizzazione delle condotte di abuso di ufficio non rileva solo in
relazione alla previsione dell'art. 19, ma anche quale strumento
normativa specificamente destinato a rendere efficace ed effettivo il
sistema di prevenzione della corruzione, favorendo la trasparenza e
prevenendo i conflitti di interesse.
La nozione di abuso di ufficio posta dalla Convenzione di Merida
e', infatti, incentrata sugli abusi della funzione posti in essere
intenzionalmente dai pubblici agenti e sulle violazioni intenzionali
del dovere di astensione che sugli stessi grava, al fine di
procurarsi indebiti vantaggi.
Nel disegno sistematico della Convenzione, le misure preventive
sono distinte, sul piano sistematico, dalle misure relative
all'incriminazione degli illeciti, ma il perseguimento dell'obiettivo
dell'efficace attuazione dei sistemi di prevenzione della corruzione
puo' rendere necessario il ricorso anche alla sanzione penale.
La sinergia istituita dalla Convenzione tra fattispecie penali e
misure preventive e' resa evidente dall'art. 12, dedicato alla
prevenzione efficace della corruzione nel settore privato, che
dispone che le misure adottate in questo ambito siano presidiate, se
necessario, da sanzioni civili, amministrative o penali, in caso di
loro inosservanza.
L'art. 5 della Convenzione, intitolato «Politiche e pratiche di
prevenzione della corruzione», al primo comma afferma, inoltre, che
«[C]iascuno Stato parte elabora e applica o persegue, conformemente
ai principi fondamentali del proprio sistema giuridico, delle
politiche di prevenzione della corruzione efficaci e coordinate che
favoriscano la partecipazione della societa' e rispecchino i principi
di stato di diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei
beni pubblici, d'integrita', di trasparenza e di responsabilita'»; al
secondo comma, l'art. 5 aggiunge che «Ciascuno Stato parte si adopera
al fine di attuare e promuovere pratiche efficaci volte a prevenire
la corruzione».
L'art. 5, terzo comma, dispone che ciascuno Stato parte si
adopera al fine di valutare periodicamente l'adeguatezza degli
strumenti giuridici e delle misure amministrative adottate al fine di
«prevenire e combattere la corruzione» e ulteriormente dimostra la
stretta connessione, nel disegno della Convenzione, tra misure
preventive e il ricorso alle sanzioni penali.
L'art. 7, espressamente dedicato al «Settore pubblico», al quarto
comma, sancisce, inoltre, che: «[C]iascuno stato si adopera,
conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno,
al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono
la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse».
Questa disposizione pone uno specifico obbligo («ciascuno Stato
si adopera») di perseguimento degli standard di efficace prevenzione
della corruzione sanciti dalla Convenzione, mediante l'adozione di
«sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di
interesse».
La Convenzione, inoltre, utilizzando il verbo «mantain», obbliga
gli Stati contraenti, nel processo di progressiva attuazione degli
obiettivi di tutela perseguiti, a impegnarsi a preservare gli
standard di tutela raggiunti e, dunque, dall'astenersi dall'adottare
misure, legislative o amministrative, che comportino il regresso
rispetto al livello di attuazione raggiunto nel perseguimento degli
scopi della Convenzione.
L'obbligo di adoperarsi per «mantenere» gli standard di tutela
raggiunti nell'efficace prevenzione della corruzione, del resto,
opera non soltanto per le misure, legislative o amministrative,
adottate dagli stati membri in attuazione della Convenzione, ma anche
per le misure che ciascuno Stato aderente aveva gia' adottato
all'atto della sottoscrizione e risultavano pienamente conformi agli
scopi di tutela della stessa.
Questo obbligo non comporta che le norme penali interne
necessarie a garantire l'obiettivo debbano rimanere cristallizzate al
livello piu' rigoroso che hanno attinto (e non esclude in radice la
riduzione delle aree di illiceita' penale o, persino, l'esclusione
del ricorso alla sanzione penale), ma attribuisce alle norme
attuative una particolare «forza di resistenza» all'abrogazione, che
le sottrae a novazioni legislative non conformi al vincolo posto
dalla Convenzione.
L'abrogazione del reato di abuso di ufficio ha, dunque, violato
questo specifico obbligo, in quanto non e' stata «compensata»
dall'adozione di meccanismi, preventivi o repressivi, penali o
amministrativi volti a mantenere il medesimo standard di efficacia ed
effettivita' nella prevenzione degli abusi funzionali
intenzionalmente posti in essere dagli agenti pubblici ai danni dei
cittadini.
La fattispecie di cui all'art. 323 codice penale, infatti,
richiamando espressamente le norme extrapenali che stabiliscono
obblighi di astensione dei pubblici agenti e quelle destinate a
prevenire i conflitti di interesse nei settore pubblico, garantiva
effettivita' alle stesse e poneva una regola di condotta efficace,
impedendo ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico
servizio di agire intenzionalmente ai danni dei privati al fine di
procurarsi un indebito vantaggio.
Il legislatore, tuttavia, abrogando l'art. 323 codice penale, ha
fatto cessare la «close conformity» con l'obiettivo posto dall'art.
7, quarto comma, della Convenzione e ha violato l'obbligo di
mantenere fermo, nella propria legislazione, il livello di efficacia
nella prevenzione della legalita' dell'azione amministrativa contro
gli abusi di ufficio stabilito in sede convenzionale.
11. La relazione introduttiva del disegno di legge n. S. 808, in
seguito divenuto la legge 9 agosto 2024, n. 114, ha rilevato che
l'abrogazione del reato di abuso di ufficio si inserisce nel solco di
«plurimi interventi normativi volti a dare maggiore determinatezza
alla disposizione (effettuati del 1990, nel 1997, nel 2012 e nel
2020», interventi che tuttavia non sono riusciti a mettere fine alla
persistenza di un consistente squilibrio tra iscrizioni della notizia
di reato e decisioni di merito, «anche dopo le modifiche volte a
ricondurre la fattispecie entro piu' rigorosi criteri descrittivi».
Tale situazione, secondo la relazione introduttiva, ha fatto
emergere «una anomalia che ha portato alla scelta proposta con il
presente disegno di legge».
In ogni caso, osserva la relazione, anche a seguito della
decriminalizzazione dell'abuso d'ufficio, il sistema dei delitti
contro la pubblica amministrazione resta «un apparato di repressione
estremamente articolato», fermo restando in ogni caso che l'abuso di
poteri o funzioni o la violazione di doveri imposti dalla legge
permane una circostanza aggravante rispetto alla commissione di altre
fattispecie criminose commesse dal pubblico ufficiale.
La relazione, inoltre, lascia aperta la «possibilita' di valutare
in prospettiva futura specifici interventi additivi volti a
sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte
meritevoli di pena in forza di eventuali indicazioni di matrice
euro-unitaria».
Nessuna disposizione penale, tuttavia, incrimina piu' gli abusi
della funzione intenzionalmente commessi dai pubblici agenti in
violazione di specifiche norme di legge o del dovere di astensione, a
danno dei privati e al fine di procurarsi un indebito vantaggio.
Nell'ordinamento penale non vi e', infatti, alcuna norma che
consente di sanzionare l'esercizio arbitrario di una funzione
pubblica, con prevaricazione a danno «degli altrui diritti», se il
fatto non e' commesso con violenza o minaccia (concussione) o a
fronte della promessa o della dazione di un corrispettivo illecito
(corruzione).
12. Il delitto di abuso di ufficio, nel contesto sistematico del
codice penale, ha avuto un percorso travagliato.
Nel disegno del legislatore del 1930, il delitto di reato di
abuso di ufficio, per effetto della clausola di sussidiarieta' che lo
connotava, assumeva un ruolo marginale all'interno del sistema dei
delitti contro la pubblica amministrazione.
L'ambito applicativo dell'art. 323 codice penale e', tuttavia,
risultato ampliato per effetto dell'intervento di riforma operato
dalla legge 26 aprile 1990; nella fattispecie sussidiaria sono,
infatti, confluite, almeno in parte, le fattispecie di peculato per
distrazione (art. 314), di interesse privato in atti d'ufficio (art.
324) e di omissione di atti d'ufficio (art. 328), sulle quali era
intervenuto il legislatore della riforma.
Per correggere i problemi sorti dall'eccessiva ampiezza della
disposizione e dalla sua poco stringente formulazione, la legge 16
luglio 1997, n. 234 ha modificato l'art. 323 codice penale, con il
dichiarato intento di escludere la rilevanza penale dei provvedimenti
amministrativi viziati da eccesso di potere, ritenendo che un
sindacato del giudice penale sugli stessi comportasse
un'inaccettabile intromissione del potere giudiziario nell'ambito
dell'attivita' discrezionale della pubblica amministrazione.
Il legislatore e', peraltro, nuovamente intervenuto sull'art. 323
codice penale, con l'art. 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio
2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione
digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre
2020, n. 120.
Questo intervento legislativo ha conferito alla fattispecie di
reato una formulazione ancor piu' vincolante e restrittiva,
sostituendo le parole «in violazione di norme di legge o di
regolamento» con quelle «in violazione di specifiche regole di
condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di
legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'», al
fine di escludere ancor piu' radicalmente il sindacato del giudice
penale sugli atti discrezionali della pubblica amministrazione.
La Corte nella sentenza n, 8 del 2022 ha, inoltre, dichiarato
inammissibili le questioni di legittimita' costituzionale dell'art.
23, comma 1, del decreto-legge n. 76 del 2020, convertito, con
modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, sollevate dal
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Catanzaro in
riferimento agli articoli 3 e 97 Cost.
Questa sentenza ha rilevato la legittimita' costituzionale della
riduzione dell'ambito di rilevanza penale delle condotte di abuso di
ufficio, in quanto ii legislatore ha inteso non irragionevolmente
scongiurare la sempre maggiore diffusione del fenomeno della c.d.
«burocrazia difensiva» (o «amministrazione difensiva»), che comporta
«significativi riflessi negativi in termini di perdita di efficienza
e di rallentamento dell'azione amministrativa, specie nei
procedimenti piu' delicati».
Sin dall'archetipo costituito dalla previsione dell'«abuso di
autorita'» di cui all'art. 175 del codice Zanardelli, tuttavia,
questa fattispecie di reato, pur nelle sue successive versioni, ha
costituito la forma di tutela minimale del cittadino contro i soprusi
e le prevaricazioni dell'autorita' pubblica in tutte le fasi della
storia dello Stato italiano.
La Corte costituzionale, gia' nella sentenza n. 7 del 1965, ha
rilevato la tensione che sin da allora connotava la fattispecie di
reato dell'abuso di ufficio, tra l'esigenza di incriminare «la
trasgressione, da parte del pubblico ufficiale, di un dovere inerente
all'ufficio, quando essa si concreti in un atto o, comunque, in un
comportamento illegittimo, posto in essere con dolo», e, al contempo,
la necessita' di stabilire una «sufficiente garanzia che il pubblico
ufficiale sia al coperto dalla possibilita' di arbitrarie
applicazioni della legge penale, il timore delle quali nuocerebbe
anch'esso al buon andamento della pubblica amministrazione e al
sollecito perseguimento dei suoi fini».
L'abrogazione del reato di abuso di ufficio, tuttavia, lungi dal
bilanciare tra le esigenze costituzionali dell'imparzialita' e
dell'efficacia dell'azione amministrativa, anche mediante l'ulteriore
riduzione dell'ambito dell'incriminazione, ha dato prevalenza
incondizionata all'autonomia di amministratori e funzionari
nell'esercizio della funzione pubbliche, sacrificando integralmente
la tutela dei cittadini contro gli abusi posti in essere dai pubblici
agenti intenzionalmente ai loro danni.
13. Il deficit rispetto agli obiettivi di tutela fissati dagli
articoli 19 e 7, quarto comma, della Convenzione di Merida,
conseguente all'abolizione del reato di abuso di ufficio, del resto,
non e' stato colmato dell'art. 9, comma 1 del decreto-legge 4 luglio
2024, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 2024,
n. 112, che, a decorrere dal 5 luglio 2024, ha introdotto nel codice
penale il reato di indebita destinazione di denaro o cose mobili
all'art. 314-bis.
Questa disposizione espressamente sancisce che «Fuori dei casi
previsti dall'art. 314, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un
pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio
il possesso o comunque la disponibilita' di denaro o di altra cosa
mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da
specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai
quali non residuano margini di discrezionalita' e intenzionalmente
procura a se' o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad
altri un danno ingiusto, e' punito con la reclusione da sei mesi a
tre anni».
Nel preambolo al decreto-legge il Governo ha precisato di aver
fatto ricorso al decreto-legge, «ritenuta la straordinaria necessita'
e urgenza di definire, anche in relazione agli obblighi euro-unitari,
il reato di indebita destinazione di beni ad opera del pubblico
agente».
Il riferimento agli obblighi di incriminazione derivanti, ai
sensi dell'art. 117, primo comma, Cost., dal diritto dall'Unione
europea e' al disposto dell'art. 4, paragrafo 3, della direttiva UE
2017/1371 del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la frode che
lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale
(c.d. direttiva PIF), che prescrive la penalizzazione delle condotte
del funzionario pubblico che miri all'«appropriazione indebita di
fondi o beni, per uno scopo contrario a quello previsto».
La giurisprudenza di legittimita', nelle prime sentenze
pronunciatesi sull'art. 314-bis cod. pen., ha precisato che il reato
di indebita destinazione di danaro o di cose mobili sanziona le
condotte distrattive di danaro di cose mobili che la giurisprudenza
di legittimita', nella disciplina previgente, riferiva alla
fattispecie abrogata dell'abuso di ufficio (Sez. 6, n. 4520 del 23
ottobre 2024, dep. 2025, ..., Rv. 287453-02; conf. Sez. 1, n. 5041
del 10 gennaio 2025, Rv. 287431-01).
Questa fattispecie di reato, dunque, riferendosi ai c.d. abusi di
ufficio distrattivi, si colloca fuori dal perimetro applicativo
dell'art. 19 e ricade nell'ambito applicativo dell'art. 17 della
Convenzione, dedicato alla «sottrazione, appropriazione indebita, od
altro uso illecito di beni da parte di un pubblico ufficiale«
(«Ciascuno Stato parte adotta le misure legislative e le altre misure
necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando gli
atti sono stati commessi intenzionalmente, alla sottrazione,
all'appropriazione indebita o ad un altro uso illecito, da parte di
un pubblico ufficiale, a suo vantaggio o a vantaggio di un'altra
persona o entita', di qualsiasi bene, fondo o valore pubblico o
privato o di ogni altra cosa di valore che sia stata a lui affidata
in virtu' delle sue funzioni»).
14. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 8 del 2022, ha
rilevato che le esigenze costituzionali di tutela dell'imparzialita'
e del buon andamento della pubblica amministrazione non si
esauriscono, nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con
altri precetti e sanzioni: l'incriminazione costituisce anzi
un'extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo
discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l'assenza o
l'inadeguatezza di altri mezzi di tutela.
Il legislatore, tuttavia, nell'abrogare il reato di abuso di
ufficio, non ha correlativamente rafforzato il livello di
prevenzione, a livello amministrativo, contro le condotte abusive e
la violazione dell'imparzialita' da parte dei pubblici agenti in
danno dei privati, come imposto dagli articoli 1, 7, quarto comma, 19
e 65, primo comma, della Convenzione di Merida.
La relazione introduttiva del disegno di legge n. S. 808 ha
affermato la sufficienza «dell'ampia disciplina ormai da diversi anni
introdotta in funzione di prevenzione della malpractice nel settore
pubblico.
Tale normativa impone alle amministrazioni, tra l'altro, di
adottare piani anti-corruzione e prevede l'alta vigilanza di una
Agenzia indipendente; inoltre, con il decreto legislativo 10 marzo
2023, n. 24, e' stata data attuazione alla direttiva europea
2019/1937 riguardante la protezione delle persone che segnalano
violazioni del diritto dell'UE o di disposizioni nazionali; vale a
dire - secondo l'amplissima definizione fornita dal decreto
legislativo - «comportamenti, atti od omissioni che ledono
l'interesse pubblico o l'integrita' dell'amministrazione pubblica o
dell'ente privato.
L'insieme organico dei rimedi preventivi, approntati anche in
sede di controllo amministrativo, e repressivi, di natura penale,
disciplinare, contabile ed erariale, consente di recuperare una
completa tutela degli interessi pubblici, senza arretramenti».
Il legislatore, tuttavia, nell'abrogare il reato di abuso di
ufficio, ha considerato l'idoneita' della disciplina amministrativa
vigente a tutelare l'interesse pubblico e non gia' quello dei
cittadini a non essere danneggiati dagli abusi funzionali o dalla
mancata astensione dei pubblici agenti che agiscono in conflitto di
interesse.
La previsione del reato di abuso di ufficio, con riferimento alla
violazione dell'obbligo di astensione e al divieto di violazioni
della legge poste in essere intenzionalmente in danno del privato,
aveva, infatti, una portata generale ed estremamente efficace, anche
sul piano preventivo, in ragione della previsione della minaccia
della sanzione penale.
I rimedi preventivi anticorruzione (quali quelli introdotti dal
decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97), per loro natura,
riguardano molto marginalmente i comportamenti dei singoli funzionari
e si concentrano sull'organizzazione dell'azione complessiva
dell'amministrazione, senza assumere alcun effetto specifico nei
confronti della singola azione illecita.
I rimedi giurisdizionali, peraltro onerosi, non sempre non
attivabili, in quanto, non di rado, le prevaricazioni dei pubblici
agenti si traducono non in atti amministrativi, ma in meri
comportamenti, come tali non impugnabili.
Parimenti frammentaria e non sempre coerente e' la disciplina
amministrativa dei conflitti di interesse; le sanzioni disciplinari
per la violazione dell'obbligo di astensione previsto nei vari codici
deontologici richiesti dall'art. 54 del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165, sono, infatti, difficilmente applicabili ai dirigenti
di piu' alto livello per i quali piu' che la responsabilita'
disciplinare vale quella di risultato, in forza dell'art. 21 dello
stesso decreto, e non operano per gli amministratori eletti.
I sistemi disciplinari previsti dal diritto amministrativo sono,
inoltre, estremamente frastagliati, in quanto sono calibrati dal
legislatore sulle specifiche funzioni e sullo statuto che disciplina
la singola figura di pubblico agente.
L'attivazione dei sistemi disciplinari e', inoltre, rimessa
all'esclusiva denuncia del privato, che deve rivolgersi
all'amministrazione cui appartiene il pubblico ufficiale autore di
condotte di abuso di ufficio (rispetto al quale il privato potrebbe
trovarsi in condizioni di timore riverenziale); i procedimenti
disciplinari sono, inoltre, dotati di poteri di istruttoria meno
incisivi di quelli ammessi nel processo penale e non consentono
l'intervento della persona offesa.
Parimenti la responsabilita' contabile ed erariale non assicura
una prevenzione efficace e adeguata degli abusi funzionali commessi
in danno dei privati, in quanto questo sistema di responsabilita' e'
incentrato sul danno arrecato allo Stato e non e' attivabile a fronte
di danni subiti meramente dal privato.
Il legislatore, dunque, nell'abrogare il reato di abuso di
ufficio, non ha introdotto discipline amministrative che mantengano
il pregresso standard di efficacia nella prevenzione dei conflitti di
interesse e degli abusi di potere dei pubblici agenti prescritto
dalla Convenzione di Merida,
15. Alla stregua dei rilievi che precedono, il Collegio, ai sensi
dell'art. 23, comma 3, della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara,
d'ufficio, rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera b), della
legge 9 agosto 2024, n. 114, che abroga l'art. 323 codice penale, in
riferimento agli articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione,
in relazione agli articoli 1, 7, quarto comma, 19 e 65, primo comma,
della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la
corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre
2003, con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9
dicembre 2003 e ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116.
In conformita' all'art. 23, comma 4, della legge 11 marzo 1953,
n. 87, deve essere disposta l'immediata trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale e la sospensione del giudizio in corso.
La cancelleria provvedera', inoltre, a notificare la presente
ordinanza al ricorrente, al Procuratore generale presso la Corte di
cassazione, al Presidente del Consiglio dei ministri e alla sua
comunicazione ai Presidenti delle due camere del Parlamento.
P.Q.M.
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera b), della
legge 9 agosto 2024, n. 114, che abroga l'art. 323 codice penale , in
riferimento agli articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione,
in relazione agli articoli 1, 7, quarto comma, 19 e 65, primo comma,
della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la
corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre
2003, con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9
dicembre 2003 e ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116.
Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso.
Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata al ricorrente, al Procuratore generale presso la Corte di
cassazione, ai Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata
ai presidenti delle due camere del Parlamento.
Cosi' deciso il 21 febbraio 2025
Il Presidente: Fidelbo
Il consigliere estensore: D'Arcangelo