N. 51 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 marzo 2023
Ordinanza del 13 marzo 2023 del Consiglio di Stato sul ricorso
proposto da FIRMA - Fabbrica italiana ritrovati medicinali ed affini
S.p.a. contro Presidenza Consiglio dei ministri ed altri.
Sanita' pubblica - Farmaci - Sottoposizione dei prezzi delle
specialita' medicinali, esclusi i medicinali da banco, al regime di
sorveglianza secondo le modalita' indicate dal Comitato
interministeriale per la programmazione economica (CIPE), a
decorrere dal 1° gennaio 1994 - Impossibilita' di superare la media
dei prezzi risultanti per prodotti similari e inerenti al medesimo
principio attivo nell'ambito della Comunita' europea - Norma di
interpretazione autentica - Previsione che va intesa nel senso che
e' rimesso al CIPE stabilire anche quali e quanti Paesi della
Comunita' prendere a riferimento per il confronto, con applicazione
dei tassi di conversione fra le valute, basati sulla parita' dei
poteri d'acquisto, come determinati dallo stesso CIPE - Disciplina
che dispone la validita', dalla data del 1° settembre 1994 fino
all'entrata in vigore del metodo di calcolo del prezzo medio
europeo, dei prezzi applicati secondo i criteri indicati per la
determinazione del prezzo medio europeo dalle previste
deliberazioni del CIPE - Applicazione, a decorrere dal 1° luglio
1998, ai fini del calcolo del prezzo medio dei medicinali, dei
tassi di cambio ufficiali relativi a tutti i Paesi dell'Unione
europea.
- Legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della
finanza pubblica), art. 36, commi da 1 a 3.
(GU n. 17 del 26-04-2023)
IL CONSIGLIO DI STATO
In sede giurisdizionale (Sezione quarta) ha pronunciato la
presente ordinanza, sul ricorso numero di registro generale 1968 del
2016, proposto dalla F.I.R.M.A - Fabbrica italiana ritrovati
medicinali ed affini S.p.a., in persona del legale rappresentante pro
tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Stefano Grassi, con
domicilio eletto presso lo studio Visentini in Roma, piazza Barberini
n. 12;
Contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Comitato
interministeriale per la programmazione economica, il Ministero
dell'economia e delle finanze, il Ministero della salute, in persona
dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e
difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, con domicilio ex lege in
Roma, via dei Portoghesi n. 12;
Per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio (Sezione prima) n. 10351 del 28 luglio 2015,
resa tra le parti;
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle amministrazioni
intimate;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'art. 87, comma 4-bis, c.p.a.
Relatore all'udienza straordinaria del giorno 14 dicembre 2022 il
consigliere Silvia Martino;
Viste le conclusioni delle parti, come da verbale;
1. La societa' appellante ha agito in primo grado chiedendo la
condanna delle amministrazioni resistenti al risarcimento del danno
patrimoniale asseritamente procuratole dalla delibera del Comitato
interministeriale per la programmazione economica (CIPE) del 25
febbraio 1994.
Al riguardo, e' stato esposto quanto segue.
2. L'art. 8, comma 12, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, nel
trasformare il regime dei prezzi dei medicinali (in precedenza
«amministrato») sottoponendolo alla sorveglianza delle Autorita'
amministrative «secondo modalita' dettate dal CIPE», ha obbligato le
imprese a rispettare, nella determinazione del prezzo delle
specialita' medicinali, il limite del prezzo medio europeo (ovvero
«la media dei prezzi risultanti per prodotti similari e inerenti al
medesimo principio nell'ambito della Comunita' europea»).
Alla scelta dell'impresa di porre in vendita la specialita'
medicinale ad un prezzo superiore al prezzo medio europeo, conseguiva
la facolta' del Ministro della sanita' di disporne il trasferimento
nella classe C (escludendo il rimborso dal Servizio sanitario
nazionale) oppure di mantenerla nella classe di appartenenza,
limitando tuttavia il rimborso ad un valore pari al prezzo medio
europeo.
Il CIPE, con deliberazione del 25 febbraio 1994, fissava i
criteri per la determinazione del prezzo medio europeo disponendo:
i) la riduzione autoritativa del prezzo dei medicinali
qualora risultante superiore di almeno il 5% rispetto a quello medio
europeo;
ii) il riferimento ai prezzi di quattro Paesi (Francia,
Inghilterra, Germania e Spagna) per la determinazione della media dei
prezzi europei;
iii) l'applicazione, ai fini del calcolo della media, dei
tassi di conversione basati sulla parita' dei poteri di acquisto
delle varie monete come determinati annualmente dal CIPE stesso.
2.1. Tale delibera veniva annullata dal Consiglio di Stato, con
sentenza n. 118 del 27 gennaio 1997, nella quale veniva rilevata, per
quanto qui interessa:
a) l'illegittimita' della scelta di soli quattro Paesi al
fine di individuare il prezzo medio europeo;
b) l'illegittimita' della scelta di fare riferimento ad un
criterio di conversione del valore delle monete diverso dal tasso di
cambio ufficiale, basato sulla parita' dei poteri di acquisto.
2.2. La sentenza del Consiglio di Stato e' passata in giudicato
il 24 marzo 1999, data di pubblicazione dell'ordinanza n. 36 del
1999, con la quale le Sezioni unite della Corte di cassazione
dichiaravano estinto il ricorso per cassazione proposto
dall'Avvocatura generale dello Stato avverso tale sentenza.
2.3. I criteri di determinazione del prezzo medio europeo
annullati dal Consiglio di Stato hanno trovato applicazione fino al
15 luglio 1998, data in cui e' entrata in vigore la deliberazione del
CIPE n. 10 del 26 febbraio 1998 che ha dato attuazione alla sentenza
del Consiglio di Stato.
2.4. Nel frattempo, con la legge 27 dicembre 1997, n. 449 (art.
36, terzo e quarto comma) veniva introdotta una nuova disciplina del
prezzo dei medicinali, che prevede l'applicazione dei tassi ufficiali
di cambio relativi alle monete di tutti i Paesi dell'Unione europea e
la considerazione dei prezzi dei medicinali praticati in tutti i
Paesi dell'Unione europea al fine di individuare il prezzo medio
europeo.
Nello stesso art. 36 della legge n. 449/1997 veniva, altresi',
disposta la sanatoria degli effetti prodotti dalla delibera CIPE del
25 febbraio 1994 attraverso la previsione della perdurante efficacia
delle disposizioni dettate in tale delibera dal 1° settembre 1994
fino al momento dell'entrata in vigore dei nuovi criteri per la
determinazione del prezzo medio europeo di cui al terzo e quarto
comma dell'art. 36 (secondo comma).
Inoltre, veniva dettata l'interpretazione autentica del citato
art. 8, comma 12, della legge n. 537/1993, in senso corrispondente
alla scelta effettuata dal CIPE con la delibera annullata (primo
comma).
3. Su queste premesse in fatto, la ricorrente ha prospettato la
sussistenza dei presupposti per la responsabilita' civile
dell'amministrazione, individuandoli:
nella violazione del citato art. 8, comma 12, della legge n.
537 del 1993, come accertata dalla sentenza n. 118/1997 del Consiglio
di Stato;
nell'esistenza di un rapporto di causalita' tra la condotta
dell'amministrazione (approvazione della delibera CIPE) e il danno
lamentato;
nell'esistenza dell'elemento soggettivo della colpa in capo
all'amministrazione;
nella inapplicabilita' al presente giudizio dell'art. 36
della legge n. 449/1997, del quale e' stata eccepita sia
l'illegittimita' costituzionale, per essere venuta tale disposizione
ad incidere su una situazione cristallizzata da una sentenza passata
in giudicato; sia il contrasto con l'art. 28 del trattato CE.
Il danno a ristoro del quale ha agito la societa' ricorrente e'
rappresentato dalla perdita netta di fatturato derivatale dall'aver
dovuto ridurre entro i parametri imposti dal CIPE i prezzi di vendita
delle proprie specialita' medicinali.
4. Con la sentenza oggetto dell'odierna impugnativa, la domanda
risarcitoria e' stata rigettata.
In sintesi il primo giudice ha ritenuto che:
a) il disposto dell'art. 36, primo e secondo comma, esclude
il diritto al risarcimento dei danni, in quanto la deliberazione del
CIPE 25 febbraio 1994 non puo' essere considerata illegittima in
forza della sanatoria disposta dal legislatore, venendo cosi' a
mancare il presupposto, necessario per l'imputazione di un danno
risarcibile, dell'esistenza di un atto illegittimo adottato con dolo
o colpa dall'amministrazione;
b) nel caso di specie non sussiste un giudicato
amministrativo, in ragione della pendenza del ricorso per Cassazione
al momento della entrata in vigore della legge di sanatoria, con il
che e' esclusa una ingerenza del legislatore incisiva delle
prerogative proprie dell'Ordine giudiziario;
c) sarebbe manifestatamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale delle norme qui in rilievo, in quanto la
Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che il legislatore
puo' intervenire, anche con norme retroattive (di sanatoria e
interpretative), quando sia necessario assicurare una copertura
normativa in settori determinati e non vi sia la diretta specifica
intenzione di vanificare un giudicato;
d) in ogni caso, a fronte di una vicenda complessa, con
elementi di novita' nella disciplina legislativa, non vi sarebbe
alcun profilo rilevante di colpa nella determinazione presa dal CIPE
e poi sanata con l'art. 36 della legge n. 449/1997, e cio' anche se,
nel dettare la nuova regolamentazione, il legislatore ha poi deciso
di seguire, in buona parte, le indicazioni fornite dal Consiglio di
Stato con la sentenza n. 118/1997.
4. L'appello della societa' e' affidato alle seguenti deduzioni:
I. Per quanto riguarda l'elemento oggettivo dell'azione
risarcitoria, l'appellante sostiene che il combinato disposto dei
commi da 1 a 3 dell'art. 36 non puo' essere applicato alla
fattispecie perche', nella parte in cui convalida il contenuto della
deliberazione CIPE del 1994, risulta recessivo rispetto al giudicato
di annullamento della predetta deliberazione.
Il giudicato prevale sullo ius superveniens retroattivo, sebbene,
da un punto di vista formale, esso si sia formato dopo l'approvazione
della legge n. 449 del 1997.
II. Il secondo caposaldo della sentenza e' la negazione
dell'elemento psicologico del dolo e della colpa grave, anche in
relazione alla presenza di giurisprudenza oscillante (la domanda di
annullamento della delibera CIPE era stata respinta in primo grado e
lo stesso giudice d'appello, adito in fase cautelare, aveva respinto
l'istanza della ricorrente).
L'appellante sottolinea pero' che le disposizioni contenute
nell'art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993 ponevano vincoli
chiari e precisi da cui l'amministrazione - come statuito nella
sentenza n. 118 del 1997 - si e' arbitrariamente discostata.
Per quanto riguarda, poi, l'esistenza di un preteso contrasto
giurisprudenziale, l'appellante sottolinea che la controversia
definita con la suddetta pronuncia e' in realta' rimasta l'unica,
avendo la stessa definito, mediante riunione, tutti gli appelli
proposto avverso le sentenze del Tribunale amministrativo regionale
per il Lazio che avevano rigettato i ricorsi proposti dalle imprese
farmaceutiche.
III. L'appellante ha dedotto altresi' l'incostituzionalita'
dell'art. 36, legge n. 449 del 1997, nella parte in cui riconosce
validita' ed efficacia, fino al 15 luglio 1998 ai criteri di
determinazione del prezzo stabiliti con la deliberazione Cipe del 25
febbraio 1994.
Tali disposizioni sarebbero state introdotte al dichiarato fine
di vanificare gli effetti della sentenza del Consiglio di Stato n.
118 del 1997.
La prova dell'interferenza potrebbe rinvenirsi, per tabulas, nei
lavori parlamentari.
Risulterebbero comunque violati il principio generale di
ragionevolezza e di tutela dell'affidamento.
IV. Infine, e' stata riproposta anche l'argomentazione
secondo cui l'art. 36 della legge n. 449 del 1997 - nella parte in
cui riconosce validita' ed efficacia, fino al 15 luglio 1998 ai
criteri di determinazione del prezzo stabiliti con la deliberazione
CIPE del 25 febbraio 1994 - dovrebbe essere disapplicato poiche'
avrebbe introdotto una misura ad effetto equivalente ad una
restrizione quantitativa all'importazione, in violazione dell'art. 34
del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
4.1. Il danno e' stato complessivamente quantificato nella misura
indicata nella relazione peritale depositata in allegato all'atto di
citazione introduttivo del giudizio innanzi al Tribunale di Roma
(euro 20.675.670,49 oltre interessi e rivalutazione, per danni
patrimoniali diretti; euro 5.735.830 per ulteriori danni, sempre
oltre a rivalutazione ed interessi).
5. Si sono costituite, per resistere, le amministrazioni
intimate.
6. Con ordinanza presidenziale n. 1827 del 15 ottobre 2021, sono
stati disposti incombenti istruttori volti a verificare la permanenza
dell'interesse alla definizione del giudizio.
7. La societa' ha confermato il proprio interesse, rappresentando
altresi' la parallela pendenza - dinanzi alla Corte europea dei
diritti dell'uomo - delle impugnative proposte avverso le sentenze
nn. 6348, 6349, 6350, 6351 e 6352 del 12 novembre 2018 con cui la
Sezione III di questo Consiglio ha respinto gli appelli, aventi
contenuto analogo a quello in esame, proposti dalle altre societa'
del Gruppo Menarini.
Tali ricorsi sono tuttora in attesa della prima decisione
processuale della Corte europea.
8. La societa' ha depositato una memoria conclusionale e una
memoria di replica nelle quali, tra l'altro, ha chiesto che il
presente processo venga sospeso nelle more delle pronunce della Corte
europea dei diritti dell'uomo.
9. Le amministrazioni resistenti hanno depositato una memoria di
replica.
10. L'appello, infine, e' stato trattenuto per la decisione
all'udienza straordinaria del 14 dicembre 2022.
11. In via preliminare, si rileva che non sussistono i
presupposti per disporre la sospensione del processo ai sensi
dell'art. 295 del codice di procedura civile in ragione della
pendenza dei giudizi innanzi alla Corte europea dei diritti
dell'uomo, richiamati dall'appellante.
Conformemente alla consolidata giurisprudenza, civile ed
amministrativa, la sospensione necessaria va disposta nei soli casi
di pregiudizialita' in senso tecnico-giuridico, ovvero quando in un
altro giudizio, pendente tra le stesse parti, possa essere emanata
una pronuncia avente efficacia di giudicato nella causa pregiudicata
o comunque un'efficacia vincolante, atteso che la ratio dell'istituto
e' quella di evitare il rischio di un conflitto tra giudicati (ex
plurimis, Cons. Stato Sez. IV, 22 aprile 2022, n. 3104).
11.1. Tale rapporto di pregiudizialita' necessaria non e'
configurabile rispetto ai processi pendenti davanti alla Corte
europea dei diritti dell'uomo poiche' le pronunce di tale Corte non
hanno effetti diretti nel nostro ordinamento.
Come chiarito dalla Corte costituzionale (a partire dalle
sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007), la Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali
non crea un ordinamento giuridico sovranazionale e non produce,
quindi, norme direttamente applicabili negli Stati contraenti.
11.2. Tuttavia, l'art. 117, comma 1, Cost., nel condizionare
l'esercizio della potesta' legislativa dello Stato e delle regioni al
rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente
rientrano quelli derivanti dalla CEDU, assegna a queste ultime il
rango di «fonti interposte», la cui funzione e' di concretizzare
nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello
Stato.
Al giudice comune spetta pertanto di interpretare la norma
interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i
limiti nei quali cio' sia permesso dai testi delle norme.
Qualora cio' non sia possibile, ovvero dubiti della
compatibilita' della norma interna con la disposizione convenzionale
«interposta», egli non puo' disapplicare la norma stessa, ma deve
investire la Corte costituzionale della relativa questione di
legittimita' rispetto al parametro dell'art. 117, comma 1, Cost.
11.3. E' questo appunto il caso in esame, in cui - come meglio si
spieghera' nei paragrafi successivi della presente decisione - e'
necessario sollevare la questione di legittimita' costituzionale
delle disposizioni recate dall'art. 36, commi da 1 a 3, della legge
n. 449 del 1997, e quindi sospendere il presente processo non gia' ai
sensi dell'art. 295 c.p.c., bensi' ai sensi dell'art. 23 della legge
11 marzo 1953, n. 87.
12. Cio' posto, con il primo motivo di censura (riferito
all'«elemento oggettivo dell'azione») la societa' appellante ha
lamentato l'illogicita' della motivazione della sentenza impugnata e
la violazione degli articoli 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993
e 36 della legge n. 449/1997.
A suo dire:
il combinato disposto dei commi da 1 a 3 dell'art. 36 sarebbe
inapplicabile alla fattispecie oggetto del presente giudizio, perche'
nella parte in cui mira a convalidare in senso retroattivo il
contenuto della deliberazione CIPE 25 febbraio 1994, risulta
recessivo rispetto al giudicato di annullamento che si e' formato su
tale deliberazione;
a nulla rileverebbe il fatto che il giudicato formale sulla
sentenza n. 118 del 27 gennaio 1997 del Consiglio di Stato si sia
venuto a formare dopo l'approvazione della legge n. 449 del 27
dicembre 1997 (la legge, infatti, e' intervenuta nelle more del
termine d'impugnazione in Cassazione della sentenza), in quanto e'
dirimente considerare il tempo in cui si forma il giudicato
sostanziale, non quello formale; e, nel caso in esame, al momento
dell'entrata in vigore dell'art. 36 cit., la pronuncia del Consiglio
di Stato era impugnata davanti alla Corte di cassazione solo per i
motivi attinenti alla giurisdizione, sicche' il giudicato sostanziale
poteva ritenersi gia' formato;
infine, la norma sopravvenuta e' idonea in linea di principio
a disciplinare la fattispecie sottoposta al vaglio del giudice solo
se sia da quest'ultimo effettivamente applicata: ma, dato che nel
giudizio avverso la delibera del CIPE non e' stato mai eccepito lo
ius superveniens, sarebbe evidente che tale sopravvenienza non ha
impedito il passaggio in giudicato della citata sentenza del
Consiglio di Stato. In altri termini, l'applicabilita' dello ius
superveniens incontrerebbe nel caso di specie un limite nella
formazione del giudicato interno.
12.1. Il motivo e', complessivamente, infondato.
Al riguardo, la sezione condivide quanto gia' fatto rilevare
dalla Sezione III di questo Consiglio in ordine alle analoghe censure
sollevate dalle altre societa' del gruppo Menarini nelle sentenze nn.
6348, 6349, 6350, 6351 e 6352 del 12 novembre 2018, che hanno
definito controversie sovrapponibili a quella in esame.
12.1.1. Con i primi due profili della censura e' stata reiterata
una tematica gia' affrontata e correttamente risolta dalla sentenza
di primo grado.
Il Tribunale amministrativo regionale ha infatti statuito che «la
ricostruzione proposta in ricorso, e secondo cui in caso di
impugnazione di una decisione per motivi di rito di una sentenza si
avrebbe una scissione tra giudicato formale (che si formerebbe al
momento della decisione della questione processuale) e giudicato
sostanziale (che retroagirebbe al momento della adozione della
decisione del merito), non puo' essere in alcun modo condivisa,
atteso che la definitivita' della sentenza, anche con riferimento
alle statuizioni di merito non oggetto di gravame, consegue (solo) al
totale esaurimento dei rimedi impugnatori esperiti».
Alle considerazioni espresse dal primo giudice occorre aggiungere
che l'esito di accoglimento del ricorso ex art. 111 Cost. avrebbe
potuto certamente riavviare il giudizio su profili estesi anche al
merito delle questioni sostanziali.
Dunque, il distinguo tracciato tra le due forme di giudicato non
vale a superare la considerazione che solo la definizione del
giudizio in Cassazione avrebbe potuto conferire piena stabilita' alla
decisione di merito assunta con la pronuncia n. 118/1997.
12.2. Anche il terzo profilo di censura, strettamente connesso ai
precedenti gia' esaminati, non puo' essere condiviso.
La fattispecie del giudicato interno si realizza nella ipotesi di
formazione della cosa giudicata su un capo autonomo della sentenza.
Perche' cio' si verifichi, e' quindi necessario che la
statuizione non impugnata sia completamente autonoma dalle altre
parti della sentenza impugnate, perche' fondata su distinti
presupposti di fatto e di diritto; viceversa, l'acquiescenza alle
parti della sentenza non impugnata non si verifica allorquando queste
si pongano in nesso conseguenziale con le altre contestate e, quindi,
trovino in esse il loro presupposto (ex plurimis, Cassazione civ.,
sez. IV, 23 settembre 2016, n. 18713).
Nel caso di specie, la questione di giurisdizione sottoposta al
vaglio della Corte di Cassazione era potenzialmente in grado di
travolgere la totalita' delle statuizioni contenute nella sentenza n.
118/1997 e di riavviare su di esse un nuovo scrutinio di merito.
Dunque, l'implicazione consequenziale tra profili processuali e
sostanziali induce ad escludere che su una parte della res
controversa potesse ritenersi formato un giudicato, insensibile agli
esiti del ricorso ex art. 111 Cost.
D'altra parte, se il giudicato implicito sulla giurisdizione e'
desumibile dalla avvenuta definizione di questioni di merito che
presuppongono risolto in senso positivo il profilo pregiudiziale di
rito, non e' vero il contrario, in quanto il carattere controverso
della giurisdizione, attenendo ad un profilo preliminare del
giudizio, non consente la consolidazione del giudicato sulle
questioni di merito.
12.3. Quanto alla mancata rilevazione della norma interpretativa
nel giudizio di appello e poi in quello pendente in Cassazione, si
osserva che lo ius superveniens e' applicabile d'ufficio, in ogni
stato e grado del giudizio, salvo che sulla questione controversa non
si sia formato il giudicato interno (ex multis, Cassazione civ., sez.
lav., 17 marzo 2014, n. 6101).
Tuttavia, nel caso di specie alcun giudicato si era ancora
formato all'atto della entrata in vigore della nuova norma ed un
eventuale accoglimento del ricorso ex art. 111 Cost. avrebbe
consentito una complessiva riapertura del procedimento anche sui
profili soggetti alle sopravvenienze normative.
Non trova pertanto riscontro l'assunto secondo il quale, nella
pendenza del giudizio ex art. 111 Cost., si era gia' cristallizzata -
per effetto del giudicato interno - una definitiva preclusione alla
possibile applicazione dello ius superveniens.
Al riguardo, risulta non pertinente il precedente
giurisprudenziale invocato dalla parte appellante (Cass. 12 marzo
1988, n. 2416), in quanto riferito ad una ipotesi in cui al
consolidamento del diritto soggettivo affermato in sentenza si
contrapponeva una norma interpretativa di segno opposto di cui,
tuttavia, nella pendenza del ricorso ex art. 111 Cost. e, piu' in
generale, nel corso del complessivo giudizio, non era stata fatta
alcuna applicazione: su queste premesse la Corte di cassazione ha
potuto concludere che il diritto soggettivo originariamente affermato
non aveva risentito della norma interpretativa sopravvenuta in
pendenza del processo.
Il caso in esame attiene al diverso aspetto della legittimita'
costituzionale di una norma interpretativa intervenuta su una res
controversa non ancora coperta da alcun giudicato interno.
Lo ius superveniens consiste in una successione di norme per cui
ad una fonte regolamentare (sindacata perche' non conforme alla fonte
sovraordinata) ha fatto seguito una disposizione legislativa primaria
di contenuto in parte equivalente alla prima.
Tale intervento di legificazione non ha inciso su posizioni
soggettive consolidate, posto che il giudizio ancora pendente
riguardava la conformita' a legge della delibera CIPE del 1994 ma non
investiva specifiche determinazioni attuative della delibera medesima
ovvero individuate posizioni soggettive di vantaggio.
La norma interpretativa ha prodotto una variazione del quadro
normativo automaticamente efficace e rilevante - quindi non
dipendente da una invocazione di parte dello ius superveniens - in
quanto, almeno formalmente, munita di portata generale e astratta.
12.4. E' tuttavia proprio in relazione all'interferenza rispetto
ad un giudizio ancora in corso, e ai suoi potenziali sviluppi, che il
Collegio reputa rilevante e non manifestamente infondata la questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 36, commi da 1 a 3, della
legge n. 449 del 1997, con riferimento agli articoli 3, 24, 111, 113,
e 117, comma 1, della Costituzione in relazione all'art. 6 della
CEDU.
Al riguardo, si osserva quanto segue.
13. Come gia' accennato, l'art. 36, comma 1, della legge
finanziaria per il 1998, ha dettato l'interpretazione autentica
dell'art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993, disponendo che
esso si interpreta nel senso che «e' rimesso al CIPE stabilire anche
quali e quanti Paesi della Comunita' prendere a riferimento per il
confronto, con applicazione dei tassi di conversione fra le valute,
basati sulla parita' dei poteri d'acquisto, come determinati dallo
stesso CIPE».
Il comma 2 della medesima disposizione ha altresi' stabilito che
«Dalla data del 1° settembre 1994 fino all'entrata in vigore del
metodo di calcolo del prezzo medio europeo come previsto dai commi 3
e 4, restano validi i prezzi applicati secondo i criteri indicati per
la determinazione del prezzo medio europeo dalle deliberazioni del
CIPE 25 febbraio 1994, 16 marzo 1994, 13 aprile 1994, 3 agosto 1994 e
22 novembre 1994».
Il comma 3 ha quindi disposto che «A decorrere dal 1° luglio
1998, ai fini del calcolo del prezzo medio dei medicinali si
applicano i tassi di cambio ufficiali relativi a tutti i Paesi
dell'Unione europea in vigore nel primo giorno non festivo del
quadrimestre precedente quello in cui si opera il calcolo».
Inoltre «4. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore
della presente legge, con deliberazione del CIPE si provvede alla
definizione dei criteri per il calcolo del prezzo medio europeo sulla
base di quanto previsto dal comma 3 e delle medie ponderate in
funzione dei consumi di medicinali in tutti i Paesi dell'Unione
europea per i quali siano disponibili i dati di commercializzazione
dei prodotti [...]».
In sostanza, il comma 1 detta una interpretazione «autentica»
dell'art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993, coerente con le
disposizioni contenute nella deliberazione 25 febbraio 1994 del CIPE,
annullata in parte qua dal Consiglio di Stato (selezione dei Paesi
europei per il calcolo della media; adozione di tassi di cambio non
effettivi); il comma 2 conferma l'efficacia dei criteri di
determinazione del prezzo medio europeo cosi' come stabiliti dal CIPE
in tale deliberazione.
Il comma 3 introduce, a regime, i nuovi criteri di individuazione
del prezzo medio europeo, coerenti con le indicazioni contenute nella
sentenza n. 118 del 1997 del Consiglio di Stato e, prima ancora, con
il testo originario (non «interpretato») dell'art. 8, comma 12, della
legge n. 537 del 1993: nessuna selezione dei Paesi europei per il
calcolo della media; adozione di tassi di cambio effettivi.
13.1. In relazione alla dichiarata natura interpretativa e quindi
alla retroattivita' delle disposizioni contenute nell'art. 36, commi
1-3, della legge n. 537 del 1993, la rilevanza della questione di
costituzionalita' consiste nel fatto che, in assenza della
declaratoria di illegittimita' costituzionale l'appello della
societa' F.I.R.M.A. dovrebbe essere senz'altro respinto perche', come
sottolineato dal T.a.r., «la domanda risarcitoria si giustifica in
presenza di un danno ingiusto riconducibile causalmente all'adozione
di un atto illegittimo, a sua volta derivante da un comportamento
doloso o colposo dell'amministrazione. La sanatoria disposta dal
legislatore del 1997 fa venir meno l'illegittimita' della delibera
C.I.P.E. del 25 febbraio 1994, avendo essa, di fatto, legificato il
precedente provvedimento amministrativo, che risulta, di conseguenza,
legittimo ab initio».
Viceversa, qualora tali disposizioni fossero dichiarate
incostituzionali, rimarrebbe accertata la sussistenza dell'elemento
oggettivo della domanda risarcitoria, in relazione all'illegittimo
esercizio di una funzione pubblica, con la conseguente necessita' di
procedere all'accertamento degli ulteriori elementi costitutivi della
fattispecie, rappresentati dall'effettivita' e ingiustizia del danno,
dall'esistenza del nesso di causalita', nonche' dall'imputabilita'
del danno alla pubblica amministrazione sulla base del requisito
soggettivo del dolo o della colpa (ex plurimis, Cassazione civile
sez. III, 6 dicembre 2018, n. 31567).
Tali accertamenti, pero', sono logicamente succedanei al
riscontro di un'azione amministrativa illegittima, che e' allo stato
esclusa dalle disposizioni sospette di incostituzionalita'.
14. Per quanto riguarda la valutazione della non manifesta
infondatezza della questione, vanno anzitutto esposte le ragioni per
cui la sezione esclude il carattere interpretativo delle norme sopra
richiamate.
Come noto, perche' una norma possa dirsi di interpretazione
autentica e' necessario che essa si limiti ad assegnare alla
disposizione interpretata un significato gia' in essa contenuto,
riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario;
in tal caso, infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire
situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo, in ragione di
un dibattito giurisprudenziale irrisolto, o di ristabilire
un'interpretazione piu' aderente alla originaria volonta' del
legislatore a tutela della certezza del diritto e dell'eguaglianza
dei cittadini, cioe' di principi di preminente interesse
costituzionale (cfr. le sentenze della Corte costituzionale n. 103
del 2013, n. 271 del 2011, n. 209 del 2010, n. 311 del 2009).
Sin dalla sentenza n. 118 del 1957, la Corte costituzionale ha
riconosciuto che la funzione legislativa (art. 70 Cost.) puo'
esprimersi, ad opera del legislatore statale o regionale, anche con
disposizioni interpretative, selezionando un significato normativo di
una precedente disposizione, quella interpretata, la quale sia
originariamente connotata da un certo tasso di polisemia e quindi sia
potenzialmente suscettibile di esprimere piu' significati secondo gli
ordinari criteri di interpretazione della legge.
La norma che risulta dalla saldatura della disposizione
interpretativa con quella interpretata ha quel contenuto fin
dall'origine e in questo senso puo' dirsi retroattiva.
In tale ottica, il legislatore puo' adottare norme di
interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze
sull'applicazione di una disposizione o di contrasti
giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge
rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario,
cosi' rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma
anteriore (Corte costituzionale, sentenze n. 132 del 2016, n. 314 del
2013, n. 15 del 2012, n. 271 del 2011, n. 209 del 2010).
Una norma puo' quindi essere qualificata di interpretazione
autentica solo se esprime, anche nella sostanza, un significato
appartenente a quelli riconducibili alla previsione interpretata,
secondo gli ordinari criteri di interpretazione della legge.
Ne deriva che il legislatore puo' adottare norme che precisino il
significato di altre disposizioni, anche in mancanza di contrasti
giurisprudenziali, purche' la scelta imposta dalla legge
interpretativa rientri tra le possibili varianti di senso del testo
originario (Corte costituzionale, sentenza n. 133 del 2020).
14.1. Orbene, le disposizioni in esame non presentano alcuna
delle suindicate caratteristiche atteso che:
al momento in cui la norma «interpretativa» e' stata adottata
non esisteva alcun contrasto giurisprudenziale, bensi' esclusivamente
la pronuncia del Consiglio di Stato, n. 118 del 1997 che, in riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio n.
1696 del 30 ottobre 1995, aveva annullato in parte qua la delibera
del CIPE del 25 febbraio 1994, in ragione della sua contrarieta' alla
fonte normativa sovraordinata (ovvero l'art. 8, comma 12, della legge
n. 537 del 1993);
la scelta imposta dalla legge interpretativa non era in alcun
modo ricavabile dall'art. 8 della legge n. 537 del 1993; in tal
senso, la sentenza n. 118 del 1997, aveva fatto rilevare che, nella
parte di interesse, la delibera del CIPE era «del tutto contrastante
con il dettato normativo» (par. 6), ovvero con il criterio
fondamentale dettato dalla legge per attuare il sistema di prezzi
c.d. «sorvegliati» (par. 7).
14.2. In realta', le norme sospette di incostituzionalita' hanno
semplicemente svolto una funzione di sanatoria, dando copertura
legislativa ad una fonte regolamentare annullata dal Consiglio di
Stato per violazione di legge.
Tale circostanza - secondo l'indirizzo della Corte costituzionale
- costituisce gia' di per se' un primo sintomo, sia pure non
dirimente, di un uso improprio della funzione legislativa, da cui
puo' derivare un intrinseco difetto di ragionevolezza quanto alla
retroattivita' del novum introdotto dalla norma asseritamente
interpretativa (Corte costituzionale, sentenza n. 145 del 2022; cfr.
anche le sentenze n. 133 del 2020, n. 108 del 2019 e n. 73 del 2017).
Si e' infatti affermato che se i valori costituzionali in gioco
sono quelli dell'affidamento dei consociati e della certezza dei
rapporti giuridici, e' di tutta evidenza che l'esegesi imposta dal
legislatore, laddove assegni alle disposizioni interpretate un
significato in esse gia' contenuto, riconoscibile come una delle loro
possibili varianti di senso, influisce sul positivo apprezzamento sia
della sua ragionevolezza sia della non configurabilita' di una
lesione dell'affidamento dei destinatari (sentenze n. 108 del 2019 e
73 del 2017).
Viceversa, la retroattivita' conseguente alla natura solo
apparente di interpretazione autentica puo' disvelare l'intrinseca
irragionevolezza della disposizione interpretata.
14.3. La Corte costituzionale ha peraltro costantemente
confermato che l'erroneita' dell'auto-qualificazione come norma
interpretativa non e' risolutiva ai fini dell'esito dello scrutinio
di legittimita' costituzionale.
Una disposizione innovativa con effetti retroattivi, ancorche'
qualificata di interpretazione autentica, non e', di per se' e in
quanto tale, costituzionalmente illegittima.
Vale, in tal caso, il principio per cui il legislatore puo'
approvare leggi con efficacia retroattiva purche' la retroattivita'
trovi adeguata giustificazione nell'esigenza di tutelare principi,
diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono
altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta'
fondamentali (Corte costituzionale sentenze n. 78 del 2012 e n. 311
del 2009).
Occorre pertanto verificare se le giustificazioni, poste alla
base dell'intervento legislativo a carattere retroattivo, prevalgano
rispetto ai valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi
da tale efficacia a ritroso (Corte costituzionale, sentenze n. 108
del 2019 e n. 173 del 2016).
Tali valori sono individuati nel legittimo affidamento dei
destinatari della regolazione originaria, nel principio di certezza e
stabilita' dei rapporti giuridici, nel giusto processo e nelle
attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario
(Corte costituzionale, sentenze n. 104 e n. 61 del 2022, n. 210 del
2021, n. 133 del 2020 e n. 73 del 2017).
A fronte di tali valori, la Corte costituzionale, sulla scorta
della giurisprudenza della CEDU, ha ritenuto che i soli motivi
finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse
per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un
intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso
(sentenze n. 174 e n. 108 del 2019, n. 170 del 2013).
L'efficacia retroattiva della legge, finalizzata a preservare
l'interesse economico dello Stato che sia parte di giudizi in corso,
si pone infatti in contrasto con il principio di parita' delle armi
nel processo e con le attribuzioni costituzionalmente riservate
all'autorita' giudiziaria (Corte costituzionale, sentenze n. 12 del
2018 e n. 209 del 2010).
14.4. Nel caso in esame, alla luce dei principi teste'
richiamati, il Collegio reputa che le disposizioni retroattive
censurate presentino gli indici sintomatici propri del vizio di
irragionevolezza intrinseca.
14.4.1. In primo luogo, non e' possibile chiaramente rinvenire i
«motivi imperativi di interesse generale» sottesi all'intervento in
sanatoria, non potendo questi ricondursi sic et simpliciter alla
volonta' di evitare la soccombenza dell'amministrazione nel
contenzioso all'epoca pendente, ovvero in quello che avrebbe potuto
essere instaurato quale conseguenza dell'annullamento disposto dal
giudice amministrativo.
In tal senso, l'appellante ha richiamato i lavori parlamentari
dai quali e' possibile percepire solo l'esplicito riferimento alla
necessita' di sterilizzare gli effetti della sentenza del Consiglio
di Stato (cfr., infra, il par. 15 della presente ordinanza).
In secondo luogo, che non vi fossero ragioni sostanziali diverse
da quella di dare una copertura legislativa alla regolamentazione del
CIPE oggetto di annullamento, si ricava pianamente dal fatto che la
stessa legge n. 449 del 1997 (ai commi 3 e 4 dell'art. 36),
stabilisce, per il futuro, una regola sostanzialmente analoga a
quella originaria, violata dal CIPE.
Se la norma interpretativa, corrispondente alle determinazioni
del CIPE annullate in sede giurisdizionale, avesse contenuto
parametri equilibrati e ragionevoli di regolazione dei prezzi c.d.
«sorvegliati», non e' chiaro perche' quegli stessi parametri non
siano stati confermati anche per il futuro, in quanto espressione
dell'equo e ragionevole contemperamento degli interessi in gioco.
15. Un secondo possibile profilo di illegittimita' costituzionale
attiene alla violazione degli articoli 24, 111, 113 e 117, comma 1,
della Costituzione, quest'ultimo in relazione alla norma interposta
di cui all'art. 6 della CEDU.
Nello specifico, esso si ricollega alla pendenza del contenzioso
giudiziale ancora in essere al momento dell'entrata in vigore della
legge n. 449 del 1997, stante la pendenza innanzi alla Corte di
cassazione dell'impugnazione della sentenza di questo Consiglio di
Stato n. 118 del 1997.
15.1. La giurisprudenza della Corte costituzionale e' da tempo
consolidata nel senso di ritenere che le norme della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'
fondamentali - nel significato loro attribuito dalla Corte europea
dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse
interpretazione e applicazione - integrino, quali «norme interposte»,
il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, comma 1, Cost.,
nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna
ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (cfr. da ultimo,
la sentenza della Corte costituzionale n. 145 del 2022, e la
giurisprudenza ivi richiamata).
In particolare, secondo la Corte costituzionale, l'art. 24, primo
comma, Cost., nel garantire il diritto inviolabile di agire in
giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, deve
essere letto congiuntamente con l'art. 111 Cost. posto a presidio del
giusto processo nonche' con le ulteriori disposizioni della Carta
poste a tutela delle attribuzioni dell'Autorita' giudiziaria.
L'insieme di tali parametri converge nella tutela garantita
dall'art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (Corte costituzionale,
sentenza n. 145 del 2022, cit.).
La Corte europea dei diritti dell'uomo e' costante nell'affermare
che, seppure in linea di principio non e' precluso al legislatore
disciplinare, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva,
diritti risultanti da leggi in vigore, tuttavia, «il principio della
preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti
dall'art. 6 ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse
generale, all'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione
della giustizia al fine di influenzare l'esito giudiziario di una
controversia» (sentenze 24 giugno 2014, Azienda agricola Silverfunghi
sas e altri contro Italia, paragrafo 76; 25 marzo 2014, Biasucci e
altri contro Italia, paragrafo 47; 14 gennaio 2014, Montalto e altri
contro Italia, paragrafo 47; 7 giugno 2011, Agrati e altri contro
Italia, paragrafo 58; pronunce tutte richiamate dalla Corte
costituzionale, nella sentenza n. 145 del 2022, cit.).
Le leggi retroattive o di interpretazione autentica che
intervengono in pendenza di giudizi di cui lo Stato e' parte, in modo
tale da influenzarne l'esito, comportano un'ingerenza nella garanzia
del diritto a un processo equo e violano un principio dello stato di
diritto garantito dall'art. 6 della Convenzione.
15.2. Tale orientamento e' stato confermato dalla Corte europea
dei diritti dell'uomo anche con specifico riferimento alle leggi di
sanatoria.
Ad esempio, nella sentenza del 28 ottobre 1999, nel caso
Zielinsky e Pradal c. Francia, la Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali ha
ritenuto la contrarieta' al diritto convenzionale di una «lois de
validation» e cioe' una particolare tipologia di legge presente
nell'ordinamento francese, attraverso la quale il legislatore
convalida retroattivamente un atto che sia passibile di essere
dichiarato nullo da un giudice o che sia gia' stato dichiarato nullo,
al fine di evitare le conseguenze che potrebbero derivare dal suo
annullamento.
15.3. Nel nostro ordinamento, la Corte costituzionale, come
ricordato dall'appellante, ha chiarito che le leggi di sanatoria non
sono costituzionalmente precluse in via di principio ma che,
tuttavia, trattandosi di ipotesi eccezionali, la loro giustificazione
deve essere sottoposta a uno scrutinio particolarmente rigoroso.
L'intervento legislativo in sanatoria puo' «essere
ragionevolmente giustificato soltanto dallo stretto collegamento con
le specifiche peculiarita' del caso» (Corte costituzionale, 5
febbraio 1999 n. 14), tali da escludere che possa risultare
arbitraria la sostituzione della disciplina generale -
originariamente applicabile - con quella eccezionale successivamente
emanata (sentenza n. 100 del 1987, nonche' sentenze nn. 402 del 1993,
474 del 1988).
Siffatto scrutinio deve essere svolto "tanto sotto il rispetto
del principio costituzionale di parita' di trattamento, quanto sotto
il profilo della salvaguardia da indebite interferenze nei confronti
dell'esercizio della funzione giurisdizionale» (sentenza n. 94 del
1995; cfr. anche la sentenza n. 346 del 1991).
15.4. Cio' posto, nella fattispecie, non e' stato possibile
individuare i «motivi imperativi d'interesse generale», diversi dalla
salvaguardia del bilancio dello Stato, idonei a giustificare
l'intervento del legislatore con efficacia retroattiva.
Il fine del legislatore sembra essere stato infatti solo quello
di incidere sul giudizio di annullamento della delibera del CIPE del
25 febbraio 1994, e sulle sue potenziali conseguenze di carattere
finanziario.
In tal senso, il Collegio non condivide quanto in precedenza
affermato dalla Sezione, nella sentenza 1140 del 26 febbraio 2009,
secondo cui non vi sarebbe stata la volonta' di incidere su singole
vicende processuali, bensi' quella di tenere fermi, su larga scala,
gli innumerevoli ed economicamente rilevanti rapporti che erano stati
definiti in base ai previgenti criteri, essendo questi soggetti ad
applicazione generale ed estesi a numerose categorie di operatori e
di farmaci.
Tale argomentazione non tiene conto del fatto che il processo
pendente riguardava in realta' proprio i rapporti con le maggiori
imprese del settore farmaceutico, tutte ricorrenti in giudizio.
In ogni caso, gli unici elementi concreti circa la finalita'
perseguita sono reperibili negli atti parlamentari nei quali, come
gia' accennato, e' contenuto solo il riferimento alla necessita' di
«chiudere definitivamente con il passato in materia dei prezzi dei
farmaci» ovvero di evitare «appositi accantonamenti volti a
fronteggiare le spese per il suddetto contenzioso e di determinare
cosi' con maggiore esattezza gli oneri per la spesa farmaceutica»
(cosi' l'intervento del Sottosegretario dell'epoca in Commissione
Bilancio della Camera dei deputati in data 6 dicembre 1997, riportato
nel Resoconto stenografico, pag. 30).
Nella seduta della Camera dei deputati, n. 287 del 15 dicembre
1997, in merito all'approvazione dell'art. 31 (poi divenuto 36 nel
testo definitivo della legge), fu approvato l'emendamento 31.65,
volto ad introdurre l'attuale comma 2, dell'art. 36, proposto dal
Governo.
In quell'occasione, il Ministro della Sanita' dell'epoca si
limito' ad affermare che il comma era previsto al fine di rafforzare
l'interpretazione data dall'art. 36 «in seguito alla sentenza del
Consiglio di Stato, che si considera non applicata fino all'entrata
in vigore del nuovo metodo di calcolo del prezzo medio europeo da
parte del Cipe» (Resoconto stenografico, pag. 21).
Come in precedenza evidenziato, pero', considerazioni di natura
finanziaria non possono, da sole, autorizzare il potere legislativo a
sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie (Corte
EDU, sentenze 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, paragrafo 132;
31 maggio 2011, Maggio contro Italia, paragrafo 47; 15 aprile 2014,
Stefanetti e altri contro Italia, paragrafo 39, sentenze ancora da
ultimo richiamate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 145
del 2022, cit.).
16. In definitiva, quanto sopra argomentato giustifica la
valutazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 36, commi da 1 a 3, della
legge n. 449 del 1997, in relazione agli articoli 3, 24, 111, 113,
117, comma 1 (in relazione all'art. 6 della CEDU) della Costituzione.
Si rende conseguentemente necessaria la sospensione del giudizio
e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale, affinche' si
pronunci sulla questione.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione quarta),
non definitivamente pronunciando sull'appello n. 1968 del 2016:
1) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 36, commi da 1 a
3, della legge n. 449 del 1997, in relazione agli articoli 3, 24,
111, 113, 117, comma 1 (in relazione all'art. 6 della CEDU) della
Costituzione;
2) dispone la sospensione del giudizio e la trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale;
3) rinvia ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e
sulle spese di lite all'esito del giudizio incidentale promosso con
la presente pronuncia;
4) ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la
presente ordinanza sia notificata alle parti costituite e al
Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' comunicata ai
Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Cosi' deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 14
dicembre 2022 con l'intervento dei magistrati:
Francesco Gambato Spisani, Presidente;
Raffaello Sestini, consigliere;
Silvia Martino, consigliere, estensore;
Sergio Zeuli, consigliere;
Ugo De Carlo, consigliere.
Il Presidente: Gambato Spisani
L'estensore: Martino