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Come lavora la Corte

Un anno di cause

Prendiamo come esempio l’anno 2019. Sono, complessivamente, pervenuti alla Corte i seguenti atti di promovimento: 248 ordinanze di rimessione (in particolare: 22 dalla Corte di cassazione, 1 dalle Corti di assise d’appello, 18 dalle Corti di appello, 1 dai Tribunali regionali delle acque pubbliche, 75 dai Tribunali ordinari, 2 dai Tribunali dei minorenni, 12 dai Giudici per le indagini preliminari, 1 dai Giudici dell’udienza preliminare, 8 dai Tribunali di sorveglianza, 5 dai Magistrati di sorveglianza, 2 dai Giudici dell’esecuzione, 14 dai Giudici di pace; 6 dal Consiglio di Stato, 3 dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, 41 dai Tribunali amministrativi regionali; 15 dalla Corte dei conti, 2 dalle sezioni riunite in sede giurisdizionale, 1 dalle sezioni giurisdizionali di appello, 6 dalle sezioni giurisdizionali regionali, 6 dalle sezioni regionali di controllo; 6 dalle Commissioni tributarie regionali, 11 dalle Commissioni tributarie provinciali; 1 dai Tribunali militari; 2 dai Collegi arbitrali; 2 dal Consiglio nazionale forense); 117 ricorsi in via principale (86 promossi dallo Stato contro leggi regionali o provinciali e 31 proposti da Regioni o Province autonome nei confronti di atti legislativi statali); 14 ricorsi per conflitto di attribuzione (8 tra poteri dello Stato e 6 tra Stato, Regioni e Province autonome); 1 richiesta di referendum abrogativo.
Nello stesso anno, la Corte ha adottato 291 pronunce (204 sentenze e 87 ordinanze): di queste, 171 relative a giudizi in via incidentale, 95 a giudizi in via principale, 18 a giudizi per conflitto di attribuzione (5 tra poteri dello Stato e 13 tra Stato, Regioni e Province autonome); 7 ordinanze di correzione di errori materiali. Non sono state adottate sentenze relative all’ammissibilità di referendum abrogativi.
Il numero delle questioni decise è, di solito, superiore a quello delle pro- nunce adottate, come può agevolmente rilevarsi dai dispositivi articolati in più capi. Non di rado, peraltro, con una sola pronuncia sono decise più questioni sollevate con atti di promovimento diversi, in giudizi che, a questo scopo, vengono riuniti.
Il ritmo di lavoro della Corte è, dunque, tale da mantenere il passo con le richieste di giudizio: generalmente non si accumulano arretrati significativi.

Il Palazzo della Consulta in una stampa settecentesca di Giovanni Domenico Campiglia

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L'instaurazione del giudizio

Come si svolge un giudizio costituzionale? Quale iter segue una causa dal momento in cui è proposta a quello in cui la Corte pubblica la sua decisione?
Seguiamo una delle tante questioni di costituzionalità sollevate da un giudice (ma lo stesso, con piccole varianti, vale per i ricorsi presentati nelle controversie fra lo Stato e le Regioni; nei conflitti fra poteri si aggiunge, prima che inizi il vero e proprio giudizio, un controllo preliminare della Corte sull'ammissibilità del conflitto stesso).
Il giudice che ha sollevato la questione deve far notificare la sua ordinanza alle parti del suo giudizio e al Presidente del Consiglio dei ministri (o al Presidente della Giunta regionale se la questione riguarda una legge regionale), e farla comunicare ai Presidenti delle Camere del Parlamento o al Presidente del Consiglio regionale interessato; successivamente la trasmette alla cancelleria della Corte costituzionale.
L'ordinanza qui pervenuta viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale (così che tutti possano sapere che vi è un giudizio in corso sulla costituzionalità di quella norma di legge) ed esaminata da un apposito ufficio della Corte che ne mette a fuoco l'oggetto e ricerca i precedenti.

Chi può partecipare?

Dalla pubblicazione decorre il termine entro cui possono presentare le proprie conclusioni e i propri argomenti i soggetti che prendono parte al giudizio comune da cui la questione proviene, e inoltre il Presidente del Consiglio dei ministri (o il Presidente della Giunta regionale, se si tratta di una legge regionale). Entro un breve termine precedente il momento in cui la causa viene trattata dalla Corte, poi, le parti possono depositare memorie scritte, da allegare al fascicolo della causa in possesso di tutti i giudici costituzionali, insieme all'ordinanza del giudice (o al ricorso) che ha introdotto la questione.
La legge prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri possa prendere parte al giudizio davanti alla Corte, non perché il Governo sia interessato all'esito dei singoli giudizi, ma perché si discute della validità di una legge (la quale, come già detto, se dichiarata incostituzionale, viene privata di efficacia), e il Governo viene considerato come il rappresentante dell'unità dell'ordine legale (come il Presidente della Regione rappresenta l'unità del suo particolare ordinamento).
Il Presidente del Consiglio è difeso in giudizio dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale, per lo più, propone alla Corte le ragioni che potrebbero indurre a considerare non fondata, o inammissibile, la questione di costituzionalità. Il suo intervento è perciò, di norma, a "difesa" della legge: però non è necessariamente così, accadendo anche, sia pure raramente, che condivida i dubbi di costituzionalità.
Si noti che nei giudizi incidentali la Corte decide comunque la questione, anche se nessun soggetto è intervenuto: a rendere necessario il responso della Corte basta l'ordinanza del giudice che ha sollevato la questione. Diverso è il caso dei giudizi che si iniziano con ricorso (nelle controversie fra Stato e Regioni o nei conflitti fra poteri): in questi casi è essenziale che vi sia un soggetto (il ricorrente) che porta avanti il giudizio.
Con una modifica delle Norme integrative dell’8 gennaio 2020, la Corte ha aperto il processo costituzionale con tre importanti innovazioni: anzitutto, in linea con la sua giurisprudenza, ha chiarito che nei giudizi in via incidentale, possono intervenire – oltre alle parti del giudizio a quo e al Presidente del Consiglio dei ministri (e al Presidente della Giunta regionale, nel caso di legge regionale) – anche altri soggetti, terzi, sempre che siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato a quel giudizio. Inoltre, in linea con la prassi di altri paesi, ha introdotto l’istituto degli amici curiae, prevedendo che qualsiasi formazione sociale senza scopo di lucro e qualunque soggetto istituzionale, se portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione in discussione, potranno presentare brevi opinioni scritte per offrire alla Corte elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso sottoposto al suo giudizio. Nella medesima occasione, la Corte ha altresì previsto la possibilità di convocare esperti di chiara fama, qualora ritenga necessario acquisire informazioni su specifiche discipline.

La riunione della Corte

A questo punto iniziano i lavori della Corte. Il Presidente, nell'ambito di un calendario di massima prefissato per tutto l'anno, seleziona le cause da discutere in ciascuna riunione, designa il giudice costituzionale incaricato di riferire su di esse (giudice relatore) e stabilisce il "ruolo" di ogni seduta, cioè l'elenco delle cause da discutere.
Due sono le forme in cui ha luogo la trattazione delle cause. Si può avere un'"udienza pubblica", cioè una riunione aperta al pubblico, nel corso della quale, dopo che il giudice relatore ha illustrato la questione così come proposta, gli avvocati che rappresentano i soggetti intervenuti nel giudizio espongono le loro tesi davanti alla Corte riunita. Al termine dell'udienza pubblica, la Corte si riunisce di nuovo, ma in "camera di consiglio", senza pubblicità, per deliberare sulla causa.
Oppure la causa può essere trattata direttamente in camera di consiglio, senza discussione pubblica e sulla base dei soli atti scritti. Si ricorre a questa procedura semplificata quando non vi sono parti costituite davanti alla Corte (può esserci solo la memoria dell'Avvocatura dello Stato o dell'avvocato del Presidente regionale); oppure, anche quando vi siano parti, se il Presidente della Corte ritiene probabile che la questione possa essere senz'altro respinta perché palesemente infondata o inammissibile (per esempio in base a precedenti decisioni in materia): la decisione finale spetta comunque sempre alla Corte.
La Corte, sia in udienza pubblica che in camera di consiglio, si riunisce nella sua composizione plenaria di quindici giudici (o, come ricordato, fino al minimo di undici, se c'è qualche posto vacante o qualche assenza ). Non si suddivide mai in sezioni o collegi minori composti da una parte dei giudici. (Soltanto quando si riunisce per giudicare i ricorsi dei suoi dipendenti è previsto che il collegio sia formato da tre soli giudici, preventivamente designati).
Il funzionamento in composizione plenaria è reso possibile dal numero non elevatissimo di componenti. Esso assicura, di massima, la coerenza degli indirizzi della Corte: negli organi di giustizia costituzionale che si suddividono in sezioni, infatti, queste possono facilmente esprimere indirizzi contrastanti fra di loro.

Un relatore per ogni causa

Si è detto che il Presidente, per ogni causa, designa un giudice relatore. L'incarico è distribuito fra i giudici, con esclusione (normalmente) del solo Presidente. In ogni udienza dunque, e in ogni camera di consiglio, si alternano diversi relatori per la trattazione delle diverse cause fissate.
Con quali criteri il Presidente sceglie il relatore di ogni causa? Non ci sono regole fisse. A parte l'esigenza di distribuire il lavoro fra tutti i giudici, tenendo conto della gravosità della causa, di fatto il Presidente segue per lo più il criterio di assegnare la causa al giudice che sia già stato relatore su cause concernenti problemi simili, e si orienta a rispettare le competenze dei giudici i quali, per i loro studi o per le loro esperienze precedenti, hanno normalmente una più approfondita conoscenza di certi settori del diritto piuttosto che di altri (diritto penale, procedura penale, diritto civile, diritto del lavoro, diritto tributario, diritto amministrativo, ecc.). Ma si tratta di criteri assai approssimativi, poiché, comunque, ogni questione pone problemi di interpretazione della Costituzione che possono essere simili anche se riguardano settori diversi di materia; e inoltre vi sono campi del diritto in cui le questioni di costituzionalità vengono sollevate più frequentemente, e dunque tutti i giudici dovranno, una volta o l'altra, occuparsene. Per le cause più complesse e più delicate, poi, la scelta può essere guidata da specifiche ragioni di opportunità apprezzate dal Presidente.
La scelta del relatore è importante, perché si tratta di colui che, approfondendo tutti gli aspetti della causa, propone al collegio i termini della questione e le possibili soluzioni; ma non è comunque decisiva ai fini della sorte della causa, poiché l'opinione del relatore non sempre diventa quella dell'intera Corte. Questo è conseguenza della collegialità piena che caratterizza il suo lavoro.
Né il relatore è l'unico a conoscere preventivamente la questione e ad averla studiata. La preparazione del materiale per ogni causa da discutere è affidata ad un assistente di studio del giudice relatore, il quale redige una "ricerca", in cui include, in modo ragionato, i testi normativi, le precedenti decisioni della stessa Corte in argomento, le pronunce significative dei giudici comuni e gli scritti di studiosi che possono avere rilievo per l'argomento della questione e per la sua decisione. La ricerca è distribuita a tutti i giudici, così che ciascuno è messo in grado di studiare approfonditamente la causa. Talvolta, nei casi più rilevanti e complessi, al materiale distribuito ai giudici si può accompagnare una ricerca sulla legislazione e sulla giurisprudenza di altri paesi o di Corti internazionali, in cui analoghe questioni o problemi simili siano stati affrontati. Ciò dipende dal fatto che i princìpi costituzionali validi nei diversi ordinamenti si rifanno spesso a idee o impostazioni comuni (una specie di diritto costituzionale comune), e quindi anche i problemi di costituzionalità che si presentano nei vari paesi possono essere simili. La Corte può trarre, da queste esperienze, indicazioni o spunti utili per la propria decisione.

L'udienza pubblica

La Corte si riunisce in udienza pubblica, nell'apposita aula del palazzo della Consulta, normalmente ogni due settimane, il martedì mattina alle 9.30. Dietro il banco a forma di ferro di cavallo siedono i giudici (al centro il Presidente), in posti fissati, dai più anziani di mandato (vicino al centro) a quelli di più recente nomina (alle ali). Tutti indossano la toga nera, disegnata sul modello di un "robone" senese del '500. Nelle occasioni solenni indossano anche un collare dorato con una medaglia, e portano con sé il "tocco", il copricapo tradizionale. In un banco a parte, lateralmente, siede il cancelliere, in toga nera, incaricato di redigere il verbale dell'udienza, nel quale però non vengono riportati i contenuti delle singole esposizioni orali, salvo che non sia espressamente richiesta qualche specifica verbalizzazione, ma si dà solo atto dei vari interventi. Accanto al cancelliere siede il messo, in mantello rosso, che chiama le cause nell'ordine del ruolo o in quello determinato dal Presidente. Di fronte allo scranno dei giudici è collocato il banco degli avvocati che intervengono - di regola ora, non più di due per parte - a discutere le cause (anch'essi in toga nera). Deve trattarsi di avvocati abilitati a difendere davanti alle "giurisdizioni superiori", per il che si richiede l'iscrizione ad un Albo speciale.
Essi prendono la parola, nell'ordine indicato dal Presidente, dopo la relazione del giudice relatore. Di consueto i giudici ascoltano soltanto e non interrogano gli avvocati, che espongono senza interruzioni i loro argomenti. Per ultimo, nelle questioni incidentali, parla l'avvocato dello Stato che rappresenta il Presidente del Consiglio (o l'avvocato della Regione, se si tratta di una legge regionale). Normalmente non sono consentite repliche. Alle spalle degli avvocati è riservato uno spazio per i giornalisti e gli assistenti di studio. Dietro, vi sono le sedie per il pubblico, per lo più costituito da gruppi di studenti universitari o di scuole medie superiori, che vengono ad assistere all'udienza per conoscere da vicino come lavora la Corte. Talvolta assistono gruppi di persone appartenenti alle categorie interessate a qualcuna delle questioni discusse.

La camera di consiglio

È in camera di consiglio, nella totale assenza di pubblicità, che si svolge la discussione tra i giudici per la decisione delle questioni. La Corte si riunisce in camera di consiglio, di regola, ogni due settimane, in concomitanza con l'udienza pubblica (la settimana alterna è utilizzata dai giudici per il lavoro individuale, di preparazione delle cause e di redazione dei testi delle decisioni). Gli orari sono canonici: dalle 9.30 alle 13 e dalle 16 alle 19. Il luogo è la bella aula affrescata, attigua a quella dell'udienza. Attorno a un tavolo ovale allungato siedono i giudici, ciascuno al suo posto fisso, con una piccola postazione microfonica davanti. È in questa sede che il collegio esamina dialetticamente le questioni, sotto la direzione del Presidente; che si delineano le soluzioni, si decide, si approvano le sentenze.
Si può capire anche quale assidua consuetudine si potrebbe dire di vita caratterizza i quindici giudici costituzionali, in un ambiente i cui riti e le cui regole ricordano a taluno, in qualche modo, quelli di un monastero. La conoscenza reciproca (delle rispettive idee, e dei rispettivi caratteri) è, dopo qualche mese, molto intensa. E poiché il mandato di ogni giudice dura nove anni, si può credere che l'esperienza della Corte lasci una forte impronta in chi la compie, e faccia del collegio dei quindici qualcosa di più che la semplice riunione di alcune persone che adottano insieme delle deliberazioni: ne faccia quasi una persona formata da quindici persone. Nella settimana di lavoro collegiale si esaminano prima, normalmente, le cause discusse in udienza pubblica, poi quelle chiamate solo in camera di consiglio.
L'esame di una causa può durare pochi minuti, quando il relatore espone una proposta di soluzione che non incontra obiezioni e perciò viene fatta propria immediatamente dalla Corte, o intere giornate, a seconda della complessità e del carattere più o meno controverso delle questioni trattate. I giudici hanno sott'occhio gli atti e il materiale della ricerca. Ma si deve notare che la discussione non si fonda su un progetto di decisione già scritto dal relatore (come accade in altre Corti), e non è quindi orientata da un'ipotesi già formulata. Si inizia con l'esposizione del relatore, che richiama gli eventuali problemi di ammissibilità della questione, e si continua con la discussione, prima sull'ammissibilità stessa e poi sul merito. La relazione si può concludere, secondo la scelta del relatore, con una proposta precisa, o con l'indicazione delle alternative di soluzioni possibili. Quindi intervengono gli altri giudici. Se la questione è di scarso rilievo, può accadere che intervengano solo alcuni di essi; altrimenti, intervengono tutti: l'ordine degli interventi segue l'ordine inverso dell'età anagrafica dei giudici, mentre per ultimo interviene il Presidente. La discussione può continuare, se qualcuno lo chiede, con ulteriori interventi, repliche, richieste di chiarimento o di precisazione. Può anche accadere che qualcuno chieda di differire la discussione a un momento successivo, o di acquisire nuovi elementi per poter approfondire la materia. La discussione comunque non segue necessariamente uno schema fisso: molto dipende dalle richieste dei giudici, oltre che, naturalmente, dalle determinazioni del Presidente che la dirige, ma che a sua volta spesso si rimette alle esigenze espresse dai colleghi. Il relatore può intervenire a dare risposte a singoli interventi, oppure intervenire soltanto alla fine traendo il risultato della discussione e formulando le sue proposte finali, che possono anche non coincidere con quelle eventualmente da lui avanzate all'inizio. È qui, soprattutto, che si misura l'efficacia e l'utilità della discussione collegiale, dalla quale possono emergere sia obiezioni alle tesi del relatore, sia nuove prospettazioni, o semplicemente l'indicazione di ulteriori motivi ed argomenti su cui fondare la decisione.
Si deve infatti considerare che la decisione della Corte non si sostanzia solo nel cosiddetto dispositivo della pronuncia (dichiarazione di illegittimità costituzionale, dichiarazione di non fondatezza, dichiarazione di inammissibilità della questione), ma anche e soprattutto nella motivazione che lo sorregge. Ci può essere accordo sul dispositivo, ma dissenso sulle motivazioni. Queste sono importanti soprattutto perché costituiscono più dei dispositivi il nucleo dei precedenti che potranno essere richiamati in occasione di cause che successivamente la Corte sia chiamata a decidere nella stessa o analoga materia; e anche perché allo stesso dispositivo possono corrispondere motivazioni che abbiano contenuti diversi. Ad esempio, è molto diversa una decisione che dichiara una questione non fondata perché l'incostituzionalità denunciata non sussiste, da una che dichiara la stessa questione sempre non fondata, perché la norma impugnata è da interpretare in un senso diverso da quello indicato dal giudice (le sentenze interpretative di cui si è già parlato). Perciò decidere come si motiva è tanto importante quanto decidere se l'incostituzionalità c'è o non c'è. E questo può spiegare anche l'accanimento e la lunghezza di certe discussioni in camera di consiglio.

Decisioni a maggioranza?

Come qualsiasi gruppo di teste pensanti, anche la Corte può dividersi. "Tante teste, tante opinioni". I quindici giudici sono in numero abbastanza elevato da rendere probabili i dissensi, nonostante che tutti facciano riferimento alla stessa Costituzione e che la lunga consuetudine di lavoro comune possa favorire la formazione di vedute comuni.
Anche la Corte dunque, come in genere gli organi collegiali, può dover giungere a una decisione sulla base di un voto di maggioranza. Ad un voto formale si arriva solo quando non si manifesta un'unanimità di vedute (ad esempio, nel senso della proposta del relatore) né una nettissima maggioranza di opinioni convergenti, oppure se comunque qualche giudice lo chiede. È il Presidente che indice le votazioni, stabilendo così anche la chiusura della discussione.
La pratica della Corte, pur essendo variabile a seconda dello stile della Presidenza e degli orientamenti dei giudici, è fondamentalmente orientata nel senso della ricerca, fin quando è possibile, di una convergenza, se non unanime, il più possibile larga di opinioni. Per questo, talvolta, la discussione si prolunga per approfondire l'ipotesi di eventuali soluzioni di compromesso o che, comunque, siano in grado di evitare divisioni laceranti all'interno del collegio. Spesso il compromesso può consistere in una soluzione che non chiude definitivamente la questione per l'avvenire (ad esempio, questione dichiarata inammissibile anziché non fondata) o in una linea di motivazione meno drastica, o nell'inserire nella decisione qualche cautela limitativa di certe affermazioni. È verosimile immaginare che questa pratica sia anche legata all'attuale mancanza d'uno strumento, attraverso cui i giudici dissenzienti dalla maggioranza possano far constare il loro dissenso (le cosiddette opinioni dissenzienti, che nell'esperienza di altre Corti costituzionali sono invece pubblicate con la decisione della maggioranza).
La prassi della Corte è di decidere sulla proposta finale del relatore; talvolta, se è emersa una questione preliminare (per esempio, di ammissibilità) si vota prima sulla proposta del relatore in ordine a questa e poi, se è il caso, sulla proposta di merito. Se il relatore ha prospettato diverse soluzioni, indicandole in un ordine di preferenza, si segue quest'ordine. Si può dire che sia questo il maggior potere di cui dispone il relatore, la cui personalità può talora pesare nel condurre alla formazione di una maggioranza nel senso da lui prospettato.
Tutti i giudici presenti alla discussione debbono votare a favore o contro la proposta messa ai voti: non è consentito astenersi. Non solo, ma tutti i giudici presenti all'inizio della trattazione della causa (in udienza pubblica, o in camera di consiglio) debbono partecipare alla deliberazione sino alla fine: non è possibile dunque, come invece accade nelle assemblee politiche, "uscire dall'aula", cioè non partecipare al voto; né è comunque possibile che la composizione concreta del collegio cambi nel corso della discussione della stessa causa.
Se il collegio, in concreto, è costituito da un numero pari di componenti (il numero minimo, come sappiamo, è undici; quindi, se è costituito da dodici o da quattordici componenti) e nel voto essi si dividono esattamente a metà, l'esito della votazione è determinato dal voto del Presidente (o di chi comunque presiede la seduta). Questa è l'unica occasione nella quale il Presidente esercita un potere maggiore degli altri giudici: per il resto, il suo voto conta come quello degli altri. La sua influenza di fatto può naturalmente discendere dalla sua autorevolezza nei confronti dei colleghi, ma nel ristretto collegio della Corte non vi sono "gerarchie" interne, solo diverse personalità e, semmai, diverse opinioni.

La redazione della pronuncia

Con la decisione e con l'eventuale voto in camera di consiglio non si è ancora compiuto l'itinerario del giudizio della Corte. La pronuncia non c'è ancora, ci sarà solo nel momento in cui essa sarà stata scritta, approvata, firmata e il suo originale sarà stato depositato nella cancelleria della Corte. La fase che segue la decisione è dunque di grande rilievo: è in essa che prende corpo la motivazione della pronuncia, di cui già abbiamo sottolineato l'importanza.
Normalmente è incaricato della redazione della sentenza (o dell'ordinanza) il giudice che è stato relatore della causa. Ma che succede se il relatore (come accade, non del tutto raramente) è rimasto in minoranza?
La prassi quasi costante è che il relatore, pur dissenziente, scriva la sentenza, ovviamente esponendo motivazioni idonee a giustificare il dispositivo. Qualche, rara, volta avviene che il relatore dissenziente, per ragioni di "coscienza costituzionale", preferisca non redigere la sentenza: in questo caso il Presidente affida l'incarico di scriverla ad un altro giudice, scelto fra coloro che hanno condiviso la decisione, salvo che non intenda scriverla egli stesso.

La lettura della decisione

Se la decisione deve essere tradotta in una sentenza, il giudice incaricato redige il testo e lo distribuisce a tutti i colleghi. Dopo di che, in occasione di una successiva riunione in camera di consiglio (spesso vi si dedica la seduta del lunedì pomeriggio, antecedente l'udienza pubblica del martedì, o le ultime sedute della settimana), si procede alla lettura collegiale del testo distribuito. Il redattore legge la motivazione (in genere, la parte in "diritto", cioè quella che contiene le ragioni giuridiche della decisione, non la parte in "fatto", nella quale si riferiscono soltanto i termini della questione e le argomentazioni dei vari soggetti eventualmente intervenuti): al termine della lettura, i componenti del collegio (ciascuno dei quali ha il testo davanti) esprimono le loro eventuali obiezioni od osservazioni: prima, se ve ne sono, sull'impianto generale della motivazione, poi seguendo il testo pagina per pagina. Si discute su eventuali modifiche, o aggiunte, o soppressioni di argomenti, di frasi, anche di singole parole, finché non si perviene ad un accordo, o fino a quando comunque viene definito un testo, anche eventualmente a maggioranza.
Può anche accadere che la maggioranza, non condividendo il testo della motivazione, inviti il redattore a presentarne un altro, o a formulare qualche parte modificata o aggiunta: in questo caso la lettura viene rinviata finché non è pronto e distribuito il nuovo testo.
Come si vede, anche in questa fase si ha discussione e piena collegialità di lavoro. I giudici che hanno dissentito rispetto alla decisione possono interloquire e fare in modo che nella motivazione si tenga in qualche modo conto delle loro opinioni o preoccupazioni: il che ancora una volta favorisce la possibilità di raggiungere, se possibile, motivazioni "di compromesso", o comunque prive di affermazioni particolarmente controverse nell'àmbito del collegio; qualche volta può condurre anche come gli osservatori critici non mancano di notare a motivazioni meno nette o più laconiche, "sfuggenti" rispetto a quanto sarebbe stato se si fosse verificato un largo consenso nel collegio.
Non si deve mai dimenticare che la sentenza è il prodotto di una deliberazione collegiale, non della sola opinione del redattore (che talora, addirittura, è dissenziente, come si è detto), e che lo stesso redattore, nello scriverla, si sforza di esprimere le opinioni anche degli altri giudici e di raccogliere quanto è emerso dalla discussione. Perciò sbagliano i commentatori quando personalizzano eccessivamente la decisione, addebitandola (o accreditandola) al giudice redattore, quasi che a lui solo o essenzialmente a lui risalissero le opinioni e gli argomenti esposti, e non alla intera Corte. Naturalmente, essendo il testo base scritto da un solo giudice, una sua impronta almeno stilistica in genere rimane, e la linea argomentativa riflette fondamentalmente quella da lui proposta (però sempre interpretando la volontà collegiale).
Ma è abbastanza frequente che il testo finale contenga meno di quanto il redattore aveva proposto, perché vengono fatte cadere affermazioni più controverse o ritenute dal collegio meno opportune, ovvero contenga anche passaggi o argomenti o sfumature di argomenti che il redattore non aveva originariamente prospettato e che provengono dalla discussione collegiale. Questo modo di procedere spiega perché, talvolta, la discussione sul testo della sentenza può impegnare la Corte quanto e addirittura più che non la prima discussione sulla decisione da adottare: poiché, come si è detto, in una sentenza costituzionale la motivazione può avere importanza essenziale. Il procedimento decisionale in due fasi (decisione della causa e successiva deliberazione del testo della sentenza) comporta che come già accennato la pronuncia della Corte esista, giuridicamente, solo dopo che il testo definitivo della sentenza sia stato deliberato, sottoscritto e depositato. Fino a quel momento, può anche accadere che la Corte ritorni sulla sua prima decisione, modificandola e perfino rovesciandola, se, nelle discussioni successive, emerge che la decisione adottata non è la più corretta. Lo stesso redattore talvolta, nello scrivere la motivazione, si avvede che vi sono difficoltà logiche o giuridiche a motivare la decisione assunta, o emergono obiezioni di cui non si era tenuto conto: egli può allora proporre al collegio di modificarla. La prassi della Corte è nel senso che la decisione già assunta specie se votata, sia pure a maggioranza può essere modificata solo se nessuno dei componenti del collegio si oppone (altrimenti, come è ovvio, si aprirebbe la strada ad un processo decisionale senza fine).
Se, diversamente, la decisione assunta deve essere tradotta in una ordinanza (succintamente ma adeguatamente motivata, trattandosi di una pronuncia che afferma la "manifesta infondatezza" o la "manifesta inammissibilità" della questione di costituzionalità), il testo scritto dal giudice redattore viene distribuito a tutti i giudici e se nessuno formula obiezioni, anche per iscritto, entro alcuni giorni dalla distribuzione, l'ordinanza viene sottoscritta dal Presidente e dal giudice redattore, e depositata in cancelleria, divenendo così definitiva e pubblica. Ogni giudice può però fare osservazioni e proporre modifiche, finché non si perviene al testo definitivo.

Opinioni dissenzienti

Presso Corti costituzionali o diversi organi giudiziari di altri paesi è previsto che i componenti del collegio, i quali dissentano sulla decisione o anche solo sulla motivazione, possano redigere e far pubblicare insieme alla sentenza le proprie opinioni scritte, dissenzienti o concorrenti (queste ultime quando il dissenso è solo sulla motivazione, condividendosi la decisione). Nei paesi anglosassoni, ciò discende anche dalla impostazione tradizionale per cui le decisioni giudiziarie di organi collegiali non constano di un testo unitario, ma risultano dalla somma (unanimemente convergente, o risultante solo dalla maggioranza) delle "opinioni" redatte dai singoli giudici. In altri paesi di tradizione diversa si ammette che le opinioni o voti particolari, diversificati rispetto all'orientamento della maggioranza, possano trovare espressione. Nella giurisprudenza di queste Corti sono rappresentate dunque non solo le posizioni della maggioranza, ma anche quelle dissenzienti o particolari: e può accadere che, a distanza di tempo, la linea espressa in una opinione dissenziente sia accolta, in un altro caso, dalla maggioranza della Corte, portando così a un'evoluzione degli indirizzi giurisprudenziali. In Italia, finora, non è stata ammessa questa pratica, prevalendo l'idea tradizionale che la pronuncia giudiziaria è unica e impersonale, anche se di fatto può risultare da un processo decisionale collegiale in cui non tutti i membri del collegio sono stati concordi. Di più, su ciò che avviene in camera di consiglio, e dunque sui contrasti manifestatisi, sulle proposte fatte e non accolte, sugli argomenti non riportati nella motivazione, si mantiene uno stretto riserbo; così che, quando i giornali riportano che la Corte si è divisa in un certo modo, che la decisione è stata assunta con una certa maggioranza, ecc., lo fanno solo sulla base di indiscrezioni o illazioni: ufficialmente non è possibile sapere se una decisione è stata assunta all'unanimità o a maggioranza, con quale maggioranza, e chi l'ha votata.
Da tempo si discute, sia in sede dottrinale, sia in sede legislativa, sia nell'àmbito della stessa Corte (la quale, secondo molti, potrebbe disciplinare da sé la materia, facendo uso della propria competenza regolamentare), dell'opportunità di introdurre l'istituto della "opinione dissenziente" nei giudizi costituzionali, e delle eventuali modalità con cui ciò potrebbe avvenire. Esiste però un contrasto di valutazioni sull'opportunità di tale riforma. A favore, si dice che essa potrebbe favorire la scrittura di motivazioni più esplicite, in cui le ragioni che sorreggono la decisione risultino con maggiore nettezza, attraverso il confronto con i motivi addotti da chi sostiene una soluzione diversa. Inoltre la critica, sempre possibile, delle decisioni della Corte potrebbe più facilmente passare dal piano della contestazione aprioristica a quello del confronto argomentativo, sfatando anche l'immagine, talvolta accreditata, di un gruppo di giudici che prevale con la sola forza dei numeri o in nome di posizioni precostituite.
In senso contrario, si avanza il timore di un'eccessiva personalizzazione dei giudizi, dell'esposizione dei singoli giudici a pressioni esterne, nonché dell'indebolimento dell'autorità delle decisioni e dello sforzo di ricerca di soluzioni il più possibile condivise all'interno della Corte.