Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza del 15 giugno 2000 il tribunale di
sorveglianza di Sassari ha sollevato, in riferimento all'art. 25,
secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell'art. 2, comma 1, del d.l. 13 maggio 1991, n. 152
(Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata
e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, e
dell'art. 4-bis, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354
(Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della liberta), come modificato dall'art. 15,
comma 1, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo
codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla
criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge
7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui escludono dal beneficio
della liberazione condizionale i soggetti condannati per determinati
delitti, con sentenza passata in giudicato prima dell'entrata in
vigore della legge di modifica, che non collaborino con la giustizia
a norma dell'art. 58-ter del medesimo ordinamento penitenziario.
Il rimettente premette di essere stato investito di una richiesta
di liberazione condizionale da parte di un detenuto condannato, per
un sequestro di persona a scopo di estorsione commesso nel 1983, a
venti anni di reclusione con sentenza passata in giudicato nel maggio
del 1990 e in esecuzione della pena dal luglio del 1991 dopo aver
scontato oltre due anni di custodia cautelare.
Il giudice a quo osserva quindi che, ai sensi delle norme
censurate, il condannato non può essere ammesso al beneficio
richiesto, ostandovi il titolo di reato per il quale è intervenuta
la condanna e l'insussistenza del requisito della collaborazione
(anche sotto il profilo della impossibilità o inesigibilità della
condotta collaborativa) e non potendo trovare applicazione, nella
specie, la giurisprudenza costituzionale secondo cui i benefici e le
misure alternative alla detenzione previsti nell'art. 4-bis
dell'ordinamento penitenziario possono essere concessi, pur in
assenza della collaborazione, ai condannati che prima della data di
entrata in vigore dell'art. 15, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992,
convertito, con modificazioni, nella legge n. 356 del 1992, abbiano
realizzato tutte le condizioni per usufruire di quei benefici e di
quelle misure (sentenza n. 137 del 1999). Il tribunale di
sorveglianza di Sassari con ordinanza del 18 giugno 1998 aveva
infatti, tra l'altro, già escluso, sia pure in riferimento al
diverso beneficio della semilibertà, che al momento dell'entrata in
vigore della legge di modifica il detenuto avesse già raggiunto un
grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto.
Di qui la questione di legittimità costituzionale, in ordine
alla cui rilevanza il rimettente precisa che il condannato si trova
oggi nelle condizioni di legge per accedere alla liberazione
condizionale "secondo la normativa in vigore all'epoca del passaggio
in giudicato della sentenza di condanna e al momento di inizio della
espiazione" avendo espiato "i due terzi della pena inflitta" tenuto
un comportamento tale da far ritenere certo il suo ravvedimento,
adempiuto alle obbligazioni civili nascenti dal reato e reciso i
collegamenti con la criminalità organizzata.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il
giudice a quo afferma che il divieto di retroattività della legge
penale, già previsto dall'art. 2 del codice penale e quindi assurto
a principio di rango costituzionale (art. 25, secondo comma, Cost.),
riguarda non solo "le norme che disciplinano le fattispecie astratte
di reato e le conseguenze sanzionatorie (durata e specie della pena,
misure di sicurezza, pene accessorie ed altri effetti penali,
circostanze, qualifica del fatto, cause giustificative ed estintive)"
ma va riferito anche "alle norme che costituiscono il c.d. diritto
dell'esecuzione della pena e che incidono sulle modalità
dell'espiazione oltre che sulla qualità e quantità della pena da
espiare in concreto".
In particolare, la liberazione condizionale non potrebbe a
giudizio del rimettente essere sottratta all'ambito di operatività
di tale principio, quale istituto che per un verso "incide
direttamente e sostanzialmente sulla durata della pena" e, per
l'altro, soprattutto dopo l'entrata in vigore della Costituzione e
l'introduzione dell'ordinamento penitenziario, si atteggia, in linea
con la finalità rieducativa della pena, anche come strumento del
trattamento.
Le norme che disciplinano la liberazione condizionale, sotto il
duplice profilo di norme penali sostanziali e di norme che comunque
partecipano della "funzione rieducativo-trattamentale propria degli
istituti che costituiscono il diritto dell'esecuzione" sarebbero
quindi, secondo il rimettente, soggette al principio di
irretroattività, "con l'ovvia conseguenza che le norme successive -
le quali richiedano comportamenti non previsti in passato ai fini del
conseguimento della liberazione condizionale - operando una
innegabile reformatio in peius del trattamento sanzionatorio previsto
all'atto della commissione del fatto" sono da ritenersi in contrasto
con l'art. 25, secondo comma, Cost.
2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per
difetto di rilevanza e comunque non fondata.
A giudizio dell'Avvocatura l'art. 25, secondo comma, della
Costituzione "è infatti riferibile alle sole disposizioni
strettamente incriminatrici, ovvero riguardanti il trattamento
sanzionatorio da riconnettere ai fatti penalmente rilevanti" mentre
sarebbero escluse dal suo ambito di operatività le norme che
regolano l'esecuzione della pena e le misure alternative, per le
quali vale invece il diverso principio della finalità rieducativa
della pena, sancito dall'art. 27 Cost.
Considerato in diritto
1. - Il tribunale di sorveglianza di Sassari sottopone al
giudizio di questa Corte la disciplina in base alla quale non possono
essere ammessi alla liberazione condizionale i condannati per i
delitti indicati nel primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bis
dell'ordinamento penitenziario che non collaborino con la giustizia
ai sensi dell'art. 58-ter del medesimo ordinamento (artt. 2, comma 1,
del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, che reca "Provvedimenti urgenti in
tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon
andamento dell'attività amministrativa" convertito, con
modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, e 4-bis comma 1,
della legge 26 luglio 1975, n. 354, che reca "Norme sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della libertà" come modificato dall'art. 15, comma 1, del d.l.
8 giugno 1992, n. 306, che reca "Modifiche urgenti al nuovo codice di
procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità
mafiosa" convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992,
n. 356).
Il dubbio di costituzionalità investe l'assoggettabilità a tale
regola anche di chi sia stato condannato prima dell'entrata in vigore
della legge che l'ha introdotta, in quanto sarebbe violato il
principio di irretroattività della legge penale, enunciato
nell'art. 25, secondo comma, Cost., la cui sfera di applicazione
sarebbe riferibile, ad avviso del rimettente, non solo alle norme che
delineano le fattispecie astratte di reato e le conseguenze
sanzionatorie, ma anche a quelle che incidono sulle modalità di
esecuzione e sulla quantità e qualità della pena da espiare in
concreto. Il rimettente qualifica appunto la liberazione condizionale
come istituto di diritto penale sostanziale che produce effetti sulla
durata della pena da scontare e che comunque partecipa della
"funzione rieducativo-trattamentale" con la conseguenza che norme
successive che "richiedano comportamenti non previsti in passato" ai
fini della concessione di tale beneficio si risolvono in una
"reformatio in peius del trattamento sanzionatorio" in contrasto con
l'art. 25, secondo comma, Cost.
2. - La questione è infondata.
3. - La collaborazione con la giustizia, in funzione di requisito
per l'ammissione al lavoro all'esterno, ai permessi premio e alle
misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della legge
sull'ordinamento penitenziario, è stata inserita dall'art. 15 del
d.l. n. 306 del 1992 nel primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bis in
precedenza introdotto nel medesimo ordinamento penitenziario
dall'art. 1 del d.l. n. 152 del 1991. Per quanto riguarda in
particolare la liberazione condizionale, l'art. 2 del d.l. n. 152 del
1991 stabilisce che i condannati per i delitti indicati
dall'art. 4-bis comma 1, dell'ordinamento penitenziario possono
esservi ammessi solo in presenza dei presupposti previsti dal
medesimo comma per la concessione dei benefici ivi indicati.
Il presupposto interpretativo a cui implicitamente aderisce il
giudice rimettente, ritenuto condivisibile da questa Corte perché
conforme alla giurisprudenza di legittimità (v. sentenze n. 68 del
1995 e n. 39 del 1994), si basa sulla natura formale del rinvio
all'art. 4-bis contenuto nell'art. 2 del d.l. n. 152 del 1991, così
da comportare che la collaborazione con la giustizia, successivamente
introdotta nella norma richiamata, opera anche quale condizione per
l'ammissione alla liberazione condizionale.
Ciò premesso, l'aspetto centrale della presente questione
investe la sfera di applicazione dell'art. 25, secondo comma, Cost.:
se, cioè, il principio di irretroattività della legge penale sia
circoscritto alle norme che creano nuovi reati, o modificano in peius
gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonché
la specie e la durata delle sanzioni edittali, ovvero vada riferito -
come ritiene il giudice a quo - anche alle norme che disciplinano le
modalità di espiazione della pena detentiva.
L'interpretazione data dal rimettente al principio di
irretroattività della legge penale, a prescindere dalla sua
esattezza, impone dunque, in via preliminare, di accertare se le
norme censurate abbiano comportato una modificazione della disciplina
sostanziale della liberazione condizionale.
4. - L'istituto della liberazione condizionale (artt. 176 e 177
cod. pen.), già presente nel testo originario del codice penale tra
le cause di estinzione della pena, è stato oggetto di successive
modifiche, che hanno consentito di superare la logica esclusivamente
premiale a cui era ispirato - nell'ambito di una concezione
prevalentemente retributiva della pena - e di renderlo coerente con
il principio della funzione rieducativa, enunciato dall'art. 27,
terzo comma, Cost., e con gli istituti dell'ordinamento penitenziario
del 1975 rivolti al raggiungimento di tale finalità.
Particolare rilievo assume il requisito del "sicuro ravvedimento"
introdotto dalla legge 25 novembre 1962, n. 1634, in sostituzione
delle "prove costanti di buona condotta", in linea con le valutazioni
sul venir meno della pericolosità sociale e sugli esiti del percorso
rieducativo che caratterizzano l'esecuzione delle pene detentive;
situazioni e comportamenti che, sia pure con diverse formulazioni,
figureranno poi quali condizioni per l'ammissione alle misure
alternative e agli altri benefici previsti dall'ordinamento
penitenziario. Il principio del finalismo rieducativo della pena
viene così a permeare anche il "vecchio" istituto della liberazione
condizionale, di cui risulta ormai evidente l'attrazione nella logica
del trattamento del condannato e la sostanziale assimilazione alle
misure alternative alla detenzione disciplinate dall'ordinamento
penitenziario (cfr. da ultimo sentenze n. 138 del 2001, n. 418 del
1998, nonché n. 188 del 1990 e n. 282 del 1989).
Alla stregua dell'attuale formulazione dell'art. 176 cod. pen.,
l'aver tenuto durante il tempo di esecuzione della pena un
comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento è appunto
il presupposto su cui si basa la valutazione che il condannato non è
più socialmente pericoloso e che ne legittima la liberazione, sia
pure con sottoposizione alla misura di sicurezza della libertà
vigilata. L'ammissione alla liberazione condizionale, attribuita
dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, alla competenza del tribunale di
sorveglianza, presuppone dunque un giudizio prognostico favorevole,
da effettuarsi sulla base di criteri di valutazione non dissimili da
quelli dettati per verificare le varie condizioni cui è subordinata
la concessione delle misure alternative alla detenzione e degli altri
benefici penitenziari.
5. - Innestandosi su questo schema di valutazione prognostica,
l'art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, che ha introdotto l'art 4-bis
dell'ordinamento penitenziario, e l'art. 2 del medesimo d.l. avevano
previsto che nei confronti dei condannati per tutti i delitti
indicati nel comma 1 dell'art. 4-bis la rottura o la mancanza dei
collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva fosse
requisito necessario per l'ammissione ai benefici previsti dal
medesimo art. 4-bis nonché per la liberazione condizionale, non
potendosi ipotizzare, in assenza di siffatta "rottura", il venir meno
della pericolosità del condannato e un esito positivo del percorso
di rieducazione e di recupero sociale.
L'art. 15 del d.l. n. 306 del 1992, modificando il comma 1
dell'art. 4-bis ha poi dettato una disciplina particolare dei
parametri in base ai quali formulare il giudizio sulla sussistenza
dei requisiti di ammissione alla liberazione condizionale, al lavoro
all'esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla
detenzione nel caso di condannati per i delitti elencati dal primo
periodo del comma modificato. Tali delitti sono infatti, o possono
ritenersi, espressione tipica di una criminalità connotata da
livelli di pericolosità particolarmente elevati, in quanto la loro
realizzazione presuppone di norma, ovvero per la comune esperienza
criminologica, una struttura e una organizzazione criminale tali da
comportare tra gli associati o i concorrenti nel reato vincoli di
omertà e di segretezza particolarmente forti.
A differenza di quanto si verifica per gli altri delitti, anche
gravi, indicati dal medesimo art. 4-bis ma che non implicano
necessariamente l'apporto di una organizzazione criminale così
strutturata, con riferimento ai delitti elencati nel primo periodo
del comma 1 il d.l. n. 306 del 1992 ha stabilito che la
collaborazione con la giustizia è un comportamento che deve
necessariamente concorrere ai fini della prova che il condannato ha
reciso i legami con l'organizzazione criminale di provenienza.
Al riguardo, nella relazione presentata in Senato in sede di
conversione del d.l. n. 306 del 1992 (atto n. 328) si rileva come le
nuove norme abbiano inteso esprimere che, "attraverso la
collaborazione, chi si è posto nel circuito della criminalità
organizzata può dimostrare per facta concludentia di esserne uscito"
e che tale scelta è in armonia con il principio della funzione
rieducativa della pena, "perché è solo la scelta collaborativa ad
esprimere con certezza quella volontà di emenda che l'intero
ordinamento penale deve tendere a realizzare". Il legislatore ha
dunque preso atto del peculiare significato che assume la
collaborazione con la giustizia al fine di accertare la rottura dei
collegamenti con le organizzazioni criminali di provenienza
(v. sentenza n. 357 del 1994, nonché le successive numeri 68 e 504
del 1995 e n. 445 del 1997) e ne ha tratto il criterio di valutazione
fissato dalla disposizione censurata.
In questa prospettiva, in relazione all'esecuzione delle pene
detentive per i delitti indicati dal comma 1, primo periodo,
dell'art. 4-bis, la collaborazione con la giustizia - già rilevante
nell'ordinamento sul terreno del diritto penale sostanziale (v., ad
esempio, art. 630, quinto comma, cod. pen; art. 74, comma 7, del
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; art. 8 del d.l. n. 152 del 1991,
convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991) - assume,
non irragionevolmente, la diversa valenza di criterio di accertamento
della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, che a
sua volta è condizione necessaria, sia pure non sufficiente, per
valutare il venir meno della pericolosità sociale ed i risultati del
percorso di rieducazione e di recupero del condannato, a cui la legge
subordina, ricorrendo a varie formulazioni sostanzialmente analoghe,
l'ammissione alle misure alternative alla detenzione e agli altri
benefici previsti dall'ordinamento penitenziario.
Coerentemente con tale impostazione, anche per quanto concerne la
liberazione condizionale il legislatore del 1992 ha ritenuto che non
sia possibile dimostrare l'uscita dal circuito della criminalità
organizzata e, quindi, il sicuro ravvedimento del condannato se non
in presenza della collaborazione con la giustizia.
L'atteggiamento di chi non si adoperi "per evitare che
l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori" o per
aiutare "concretamente l'autorità di polizia o l'autorità
giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione
dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati"
(art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario) è valutato come indice
legale della persistenza dei collegamenti con la criminalità
organizzata e, quindi, della mancanza del sicuro ravvedimento del
condannato. Presunzione peraltro vincibile, posto che, con
riferimento al principio di cui all'art. 27 della Costituzione (per
cui vedi sentenze n. 137 del 1999, n. 445 del 1997, n. 504 del 1995,
n. 306 del 1993), questa Corte ha ritenuto che l'oggettiva
impossibilità o l'inesigibilità della collaborazione non è di
ostacolo, in costanza di elementi tali da escludere in maniera certa
l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, alla
concessione dei benefici penitenziari (v. sentenze n. 68 del 1995 e
n. 357 del 1994).
6. - Si deve quindi concludere che la disciplina censurata non
comporta una modificazione degli elementi costitutivi della
liberazione condizionale e, quindi, rimane estranea alla sfera di
applicazione del principio di irretroattività della legge penale di
cui all'art. 25, secondo comma, Cost., risolvendosi in un criterio
legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente
concorrere ai fini di accertare il "sicuro ravvedimento" del
condannato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 2, comma 1, del d.l. 13 maggio 1991, n. 152
(Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata
e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, e
4-bis comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della liberta), come modificato dall'art. 15,
comma 1, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo
codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla
criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge
7 agosto 1992, n. 356, sollevata, in riferimento all'art. 25, secondo
comma, della Costituzione, dal tribunale di sorveglianza di Sassari,
con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2001.
Il Presidente: Ruperto
Il redattore: Neppi Modona
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 20 luglio 2001.
Il direttore della cancelleria: Di Paola