Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza 5 dicembre 1997, la Corte dei conti, Sezione
giurisdizionale per la regione Lazio, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 189, della legge 23
dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica).
1.1. - In punto di rilevanza il giudice rimettente osserva che il
ricorrente nel giudizio principale - già Consigliere di Stato
cessato dal servizio, per dimissioni, a decorrere dal 30 novembre
1996, con un servizio utile di anni 29 ha invocato un "accertamento
del regime pensionistico applicabile nella fattispecie sin dal
momento del collocamento a riposo". Si tratta, perciò, di una
domanda che muove da un "interesse diretto ed attuale" del medesimo
ricorrente "alla pronuncia giurisdizionale", considerata l'incidenza,
"sia sull'an che sul quantum del trattamento da corrispondere", della
norma impugnata, la quale, "entrata in vigore dal 1 gennaio 1997", ha
stabilito che, "con effetto sui trattamenti liquidati dalla data di
cui al comma 185", e cioè dal 30 settembre 1996, "le pensioni di
anzianità a carico della assicurazione generale obbligatoria dei
lavoratori dipendenti e delle forme di essa sostitutive, nonché i
trattamenti anticipati di anzianità delle forme esclusive della
medesima, non sono cumulabili, limitatamente alla quota liquidata con
il sistema retributivo, con redditi da lavoro di qualsiasi natura e
il loro conseguimento è subordinato alla risoluzione del rapporto di
lavoro".
1.2. - Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo
ritiene che l'"operatività retroattiva" dell'art. 1, comma 189,
della legge n. 662 del 1996, confligga - soprattutto "dopo il severo
e rigoroso richiamo alla normalità costituzionale di cui alla
sentenza n. 360 del 1996" di questa Corte con il precetto "che fa
decadere fin dall'inizio i decreti legge non convertiti": la norma
censurata, nel recuperare "i contenuti di un decreto-legge decaduto"
(d.-l. 30 settembre 1996, n. 508), non avrebbe, infatti, tenuto
conto di tutte le conseguenze di tale precetto, che non potrebbero
"essere violate o indirettamente aggirate". E ciò anche perché, ad
opinare il contrario, si otterrebbe, sul piano della certezza del
diritto, un risultato deteriore per il cittadino: difatti, mentre in
presenza di un decreto reiterato vi sarebbe pur sempre la
possibilità di conoscere la normativa di riferimento al momento di
operare le proprie scelte, l'utilizzo di norme ad efficacia
retroattiva, tali da elidere diritti a prestazioni pensionistiche
sostanzialmente acquisite, lascerebbe il cittadino "privo della
possibilità di orientare le proprie scelte in relazione al quadro
normativo esistente". Donde la violazione dell'art. 77 della
Costituzione e "delle altre norme costituzionali (artt. 70 segg.) che
disciplinano il procedimento di formazione delle leggi", come pure
dell'art. 3 della Costituzione, sia "per il contrasto con l'esigenza
primaria di tutelare l'affidamento del cittadino, elemento
fondamentale nello Stato di diritto", sia "per la diversificazione,
quanto alla prevista operatività retroattiva" della norma censurata,
"tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi", atteso che, per
questi ultimi, il divieto di cumulo ha effetto soltanto "dalla data
di entrata in vigore della presente legge" (comma 190 dell'art. 1
della legge impugnata).
1.3. - Non manifestamente infondata è, secondo la Corte
rimettente, anche l'ulteriore, e distinta, denuncia del comma 189,
dell'art. 1, della legge n. 662 del 1996, censurato "per la parte in
cui stabilisce il totale divieto di cumulo del trattamento
pensionistico di attività (recte: anzianità) con ogni tipo di
reddito da attività autonoma libero-professionale".
L'ordinanza osserva, preliminarmente, che l'art. 1, comma 13, della
legge 8 agosto 1995, n. 335, applicabile nella fattispecie oggetto di
controversia nel giudizio principale, assicura, a chi può vantare 18
anni di contribuzione alla data del 31 dicembre 1995, "la
liquidazione della pensione interamente secondo il sistema
retributivo". Senonché l'aspettativa derivante da detta norma è
del tutto vanificata - "anche se limitatamente ai trattamenti
anticipati di anzianità" - dalla censurata disposizione, avendo essa
introdotto il criterio della non cumulabilità della quota di
pensione liquidata col sistema retributivo, sì da confondere "il
criterio di liquidazione del trattamento con la qualificazione" dello
stesso, tanto da svuotare di contenuto "posizioni giuridiche ritenute
acquisite ad una certa data", attraverso "limitazioni idonee a
divenire discriminatorie".
Il rimettente precisa, peraltro, che la sollevata censura attiene
"non alla ratio della disposizione ed al principio del criterio
limitativo in sé", bensì "alla omessa previsione di ogni meccanismo
correttivo (con riguardo ad una quota sicuramente contributiva e
sicuramente corrisposta dal dipendente e in parte anche a carico del
datore di lavoro) con effetto di totale esclusione della prestazione
pensionistica e senza alcun limite minimo di mantenimento della
prestazione stessa".
Ad avviso del giudice a quo v'è da dubitare della razionalità di
un sistema che, comportando "il sostanziale annullamento di un
diritto", ignora "ogni criterio di proporzionalità tra contributi,
retribuzioni e pensioni", sì da non potersi più giustificare
"neppure in base a principi solidaristici", ed incide sui principi di
adeguatezza della pensione alle esigenze di vita del pensionato e di
proporzionalità della pensione stessa alla quantità e qualità del
lavoro prestato: donde, il vulnus agli artt. 3, 36 e 38 della
Costituzione.
1.4. - Secondo il rimettente, sussisterebbe, altresì, lesione del
principio della tutela del diritto al lavoro in tutte le sue forme ed
applicazioni, desumibile dagli artt. 4, primo comma, e 35, primo
comma, della Costituzione. Posto che pure il pensionato "conserva il
diritto inviolabile e irrinunciabile al libero esplicarsi della sua
personalità anche sul piano economico", viene, nella fattispecie, a
porsi un problema di "effettività" della tutela previdenziale,
"addirittura annullata quando si impongono limitazioni di carattere
generale e assoluto come quella in esame", le quali scoraggiano "il
lavoratore (dipendente o autonomo) ... nell'adozione di scelte che
coinvolgono la sua libertà lavorativa".
1.5. Osserva ancora l'ordinanza di rimessione che la norma
denunciata ha introdotto - nell'ambito delle soluzioni fornite dal
legislatore in materia di cumulo (art. 10, comma 6, del decreto
legislativo n. 503 del 1992; art. 11, comma 9, della legge n. 537
del 1993) - un criterio che "può valere come norma a regime per le
nuove posizioni previdenziali, non già applicarsi senza alcun limite
a situazioni pregresse diversamente disciplinate e che scontano un
assetto sempre più rigido via via che aumenta l'anzianità di lavoro
e contributiva".
Secondo il giudice a quo non sembra, d'altro canto, possibile
operare raffronti, in tema di cumulo, tra lavoro autonomo e
subordinato, "né porre sullo stesso piano le limitazioni attinenti
alla materia in esame", come conferma la stessa giurisprudenza
costituzionale (sentenza n. 433 nel 1994), la quale ha evidenziato la
diversità dei rispettivi rapporti lavorativi e sistemi contributivi.
Ciò non senza rilevare che la finalità di porre un disincentivo
all'attività di lavoro subordinato prestata successivamente al
collocamento al riposo "potrebbe costituire l'espressione di un
indirizzo di politica legislativa, inteso a rimuovere ostacoli
all'accesso dei giovani ad occasioni lavorative: ostacoli che quasi
sempre non sono costituiti dall'espletamento di un'attività libero
professionale".
1.6. - Ad avviso del rimettente, i sollevati dubbi di
costituzionalità "sembrano trovare indiretta conferma nelle
ulteriori modificazioni in materia introdotte" dall'art. 59, comma
14, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, il quale prevede il divieto
di cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo "solo
limitatamente alla quota del 50% eccedente l'ammontare corrispondente
al trattamento minimo del fondo pensioni lavoratori dipendenti",
attraverso un correttivo che "esclude qualsiasi possibilità di
perdita completa della pensione di anzianità".
Ritiene, peraltro, il giudice a quo che tale disposizione non
incida (o incida solo parzialmente) sulla rilevanza delle questioni
prospettate, considerato che, a parte ogni altro problema, il divieto
totale di cumulo "permane (a danno del ricorrente) per tutto il
periodo dal collocamento a riposo fino al 1 gennaio 1998 (entrata in
vigore della più favorevole previsione)".
2. - Si è costituito il ricorrente nel giudizio principale, per
sentir dichiarare l'incostituzionalità della normativa denunciata
dal giudice a quo.
La parte privata, soffermandosi, in primo luogo, sul profilo
attinente alla dedotta violazione dell'art. 77 della Costituzione,
ritiene che la disposizione censurata abbia determinato,
sostanzialmente, un aggiramento della "dichiarazione di
incostituzionalità della riproposizione dei decreti-legge, in
mancanza di conversione, portata" dalla sentenza della Corte
costituzionale n. 360 del 1996. Al tempo stesso, la diversità di
decorrenza (30 settembre 1996) della disciplina anticumulo prevista
dalla norma denunciata, per i titolari di trattamenti pensionistici
da lavoro dipendente, rispetto a quella stabilita dal successivo
comma 190 per i titolari di trattamento pensionistico da lavoro
autonomo (dalla data di entrata in vigore della legge n. 662 del
1996) non solo sarebbe "priva di qualsiasi ragionevole
giustificazione", ma anche in contrasto "con i precedenti normativi
esistenti in materia", sì da vulnerare il principio di eguaglianza e
ragionevolezza, di cui all'art. 3 della Costituzione. Sotto altro
profilo, la retroattività della norma impugnata, colpendo anche
coloro che, come la parte privata, sono andati in pensione quando
nessuna norma prevedeva - "ricorrendo nella fattispecie la condizione
del raggiungimento, alla data del 31 dicembre 1994, dei requisiti
contributivi minimi, ex art. 10, comma 8, del decreto legislativo n.
503 del 1992" - l'incumulabilità tra il trattamento di quiescenza ed
il nuovo reddito da lavoro autonomo, confligge con il principio di
ragionevolezza (art. 3 della Costituzione), violando "l'esigenza
primaria di tutelare l'affidamento del cittadino". Ad avviso della
parte privata, vi sarebbe anche violazione degli artt. 36 e 38 della
Costituzione, "per mancato riconoscimento della pensione maturata con
conseguente difetto dei mezzi di sostentamento proporzionati a quelli
ottenuti nel corso dell'attività di servizio". Si rileva, in
particolare, che, nei casi in cui la pensione risulta calcolata per
intero in base al sistema retributivo, il menzionato art. 1, comma
189, "determina in sostanza la privazione completa (per tutto il
periodo di svolgimento di una attività che produce reddito) del
diritto ormai acquisito e perfetto alla pensione di anzianità". E
ciò nonostante che la prestazione pensionistica costituisca una
retribuzione differita e un diritto costituzionalmente garantito,
caratterizzato "da una connotazione assicurativa, che impone,
comunque, la corresponsione di un importo a titolo di rendimento dei
contributi versati, quale che sia la condizione reddituale del
destinatario della prestazione e, quindi, in ipotesi anche in totale
assenza di uno stato di bisogno".
Ulteriore profilo di illegittimità costituzionale della norma
impugnata viene ravvisato, inoltre, nel "contrasto con gli artt. 3 e
38 della Costituzione per disparità di trattamento e per violazione
del principio della adeguatezza della pensione al regime di vita
sostenuto nel corso dell'attività lavorativa, in relazione alla
mancata prefissione di un limite minimo di reddito al di sotto del
quale la pensione deve essere comunque riconosciuta".
La norma censurata contrasterebbe anche con l'art. 4 della
Costituzione "per violazione del diritto al libero esplicarsi della
attività lavorativa". L'incertezza del libero professionista
sull'ammontare del reddito futuro lo porrebbe, infatti, nella
"frustrante condizione di rinunciare al reddito professionale ... per
accontentarsi, invece, della sola pensione", con "innegabile, grave
affievolimento del diritto alla libera scelta del lavoro".
Secondo la parte costituita ulteriori elementi di conferma del
contrasto dell'art. 1, comma 189, della legge n. 662 del 1996 con i
principi costituzionali sarebbero desumibili dalle nuove disposizioni
anticumulo di cui all'art. 59, comma 14, della legge n. 449 del 1997.
3. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha
concluso per l'inammissibilità o, comunque, l'infondatezza della
questione.
4. - Nell'imminenza dell'udienza, sia la parte costituita, che
quella intervenuta, hanno depositato memorie illustrative.
4.1. - La difesa erariale, nel rilevare che la legge n. 662 del
1996 contempla, al comma 216 dell'art. 1, la validità degli atti e
la salvezza degli effetti prodottisi e dei rapporti giuridici sorti
sulla base del d.-l. 30 settembre 1996, n. 508, non convertito,
osserva come tale disposizione sia "pienamente in linea con il
dettato" dell'art. 77 della Costituzione e traduca la volontà del
Parlamento di "legiferare in continuità con il decaduto
decreto-legge", recependone - nella connessione fra la norma
censurata e il predetto comma 216 - i contenuti e precisandone taluni
aspetti, sì da completare "razionalmente e formalmente" la
disciplina posta, "in funzione anticipatoria", dal provvedimento
governativo, tramite una soluzione di tecnica legislativa già
praticata, del resto, in occasione della nota vicenda dei "blocchi"
delle pensioni di anzianità (decreti-legge n. 384 del 1992 e n. 553
del 1994), "allo scopo di contenere gli altissimi costi, per il
sistema previdenziale pubblico", delle pensioni medesime. Secondo
l'Avvocatura dello Stato, "a tutto ciò non sembra ostare
l'insegnamento fornito" dalla sentenza n. 360 del 1996, trattandosi,
nella specie, non di reiterazione di un decreto-legge, bensì di "una
legge approvata dal Parlamento, ... a nulla valendo che" quest'ultimo
"abbia liberamente ritenuto di ispirarsi ... ad una disposizione già
contenuta in un decreto-legge decaduto". Riguardo, poi, al secondo
profilo di incostituzionalità sollevato dal giudice a quo
(investente il totale divieto di cumulo della pensione di anzianità
con ogni tipo di reddito da lavoro autonomo), si osserva che, nella
specie, non vi è la perdita del trattamento pensionistico, ma la sua
sospensione per il periodo in cui "il pensionato decida, liberamente,
di dedicarsi ad un lavoro retribuito". Pertanto, in costanza di
misure che incidano "sull'importo della pensione in corso di
pagamento" non è dato apprezzare alcun vulnus all'art. 38 della
Costituzione. Nel rilevare, poi, che la giurisprudenza
costituzionale ha ripetutamente riconosciuto la legittimità "di
norme legislative dotate di efficacia retroattiva", la memoria
osserva come il vero limite di tali norme sia da ricercarsi nel
rispetto "del principio di ragionevolezza", che, peraltro, non è
contraddetto dalla disposizione denunciata che ha operato "in
direzione di un contenimento della spesa previdenziale", senza
pregiudizio per "il livello di vita complessivo del pensionato".
Quanto alla prospettata violazione degli artt. 4, primo comma, e 35,
primo comma, della Costituzione, si rileva che il richiamo al diritto
del pensionato alla libertà lavorativa deve essere valutato anche in
relazione alle distorsioni che provocherebbe, nel mercato del lavoro,
la presenza "di soggetti, i pensionati, comunque garantiti da un
reddito (proveniente, oltretutto, dal sistema previdenziale
pubblico)".
Non sussisterebbe, inoltre, disparità di trattamento tra
lavoratori dipendenti ed autonomi per il diverso momento di entrata
in vigore della rispettiva normativa anticumulo, tenuto conto, da un
lato, della sostanziale differenza tra le relative discipline
previdenziali e, dall'altro, della circostanza per cui le
disposizioni dettate, in materia di cumulo, per i lavoratori autonomi
sono state introdotte direttamente dalla legge n. 662 del 1996. Per
altro verso, quanto ai pensionati soggetti al "sistema retributivo",
la memoria osserva che, per il regime del cumulo, non rilevano le
"variabili" dell'anzianità contributiva o del sistema di calcolo
della pensione, bensì quelle concernenti "tipo di pensione
(vecchiaia, anzianità, ecc.) e tipo di attività lavorativa (lavoro
dipendente o autonomo)".
Circa, poi, l'omessa previsione di "ogni meccanismo correttivo" con
effetto di esclusione della prestazione pensionistica,
l'interveniente evidenzia che il rigore della disposizione censurata
è stato mitigato dalla disciplina introdotta, a decorrere dal 1
gennaio 1998, dall'art. 59, comma 14, della legge 27 dicembre 1997,
n. 449, frutto di una "evoluzione normativa", che, seppure "può
sembrare invero convulsa e talvolta altalenante", si spiega, in ogni
caso, con l'"evidente tentativo di mettere a punto gli interventi
più efficaci per contemperare, da un lato, le esigenze di un
bilancio previdenziale pubblico pesantemente deficitario e,
dall'altro, la necessità di garantire, nella misura del possibile,
la libertà lavorativa del soggetto".
4.2. Con la memoria illustrativa, la parte privata, nel ribadire la
violazione dell'art. 77 della Costituzione, come pure degli artt. 3
e 38 della Costituzione, osserva che gli effetti retroattivi della
disposizione denunciata risultano vieppiù irrazionali se si tiene
conto del fatto che, al 30 novembre 1996 (data di collocamento in
quiescenza a domanda del ricorrente stesso), non solo non sussisteva,
per la parte medesima, alcun divieto di cumulo tra pensione e reddito
da lavoro autonomo, ma era anche esclusa la possibilità di revocare
la domanda di pensionamento di anzianità (come invece consentito
dall'art. 1, comma 188, della stessa legge n. 662 del 1996, per le
domande presentate antecedentemente al 30 settembre 1996). In tal
senso, "nessuna libertà di scelta e di ponderazione della propria
convenienza è stata data" al pensionato. Rileva, ancora, la parte
privata, in riferimento alle avverse argomentazioni sul "rispetto
dell'art. 3 della Costituzione", che la norma censurata, "nel momento
in cui comporta la ... perdita totale della pensione" interamente
liquidata con il sistema retributivo, "determina una irragionevole
disparità di trattamento tra le posizioni di pensionati andati in
pensione nel medesimo periodo con una anzianità, rispettivamente,
maggiore e minore di 18 anni alla data del 31 dicembre 1995". Ne
consegue, peraltro, "uno stravolgimento della entità della
prestazione previdenziale dei pensionati medesimi rispetto alle
stesse previsioni della citata legge n. 335 del 1995"; difatti, con
la normativa anticumulo posta dalla disposizione denunciata, il
pensionato con anzianità maggiore - favorito, "in termini assoluti",
dal calcolo della pensione con il sistema retributivo - verrebbe a
godere di "un trattamento economico peggiore del pensionato con
anzianità minore" (la cui pensione risulti calcolata in parte con il
sistema retributivo ed in parte con quello contributivo). Il
principio di eguaglianza e ragionevolezza sarebbe vulnerato anche in
considerazione del fatto che la norma denunciata contraddice alla sua
intrinseca finalità e cioè di "escludere la possibilità di
cumulare il nuovo reddito solo con una parte della prestazione
previdenziale". Secondo la parte privata non possono condividersi,
infine, gli assunti dell'Avvocatura dello Stato sugli effetti del
sopravvenuto art. 59, comma 14, della legge n. 449 del 1997, in
quanto tale norma "lascia invariata" l'applicazione della
disposizione censurata per il periodo da ottobre 1996 a dicembre 1997
(mantenendo, così, vivo "l'interesse alla pronuncia di
incostituzionalità"); periodo in cui "il diritto del ricorrente (in
pensione dal 30 novembre 1996) ad ottenere il trattamento di
quiescenza maturato viene misconosciuto in violazione dei ricordati,
numerosi precetti costituzionali".
Considerato in diritto
1. - Con l'ordinanza in epigrafe, la Corte dei conti, Sezione
giurisdizionale per la Regione Lazio, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 189, della legge 23
dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica).
La disposizione impugnata stabilisce che, "con effetto sui
trattamenti liquidati dalla data di cui al comma 185", e cioè dal 30
settembre 1996, "le pensioni di anzianità a carico della
assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti e delle
forme di essa sostitutive, nonché i trattamenti anticipati di
anzianità delle forme esclusive della medesima, non sono cumulabili,
limitatamente alla quota liquidata con il sistema retributivo, con
redditi da lavoro di qualsiasi natura e il loro conseguimento è
subordinato alla risoluzione del rapporto di lavoro".
1.1. - Il giudice rimettente pone in dubbio, anzitutto, la
legittimità dell'"operatività retroattiva" della disposizione
censurata (entrata in vigore il 1 gennaio 1997), ritenendo che essa
violi:
l'art. 77 e le "altre norme costituzionali (artt. 70 segg.) che
disciplinano il procedimento di formazione delle leggi", essendo
stati recuperati i contenuti di un d.-l. non convertito (il d.-l. 30
settembre 1996, n. 508), così contraddicendo il precetto
costituzionale che fa decadere fin dall'inizio tali decreti, con
conseguenze che - "dopo la sentenza della Corte costituzionale" n.
360 del 1996 - non possono "essere violate o indirettamente
aggirate";
l'art. 3 della Costituzione, a causa, da un lato, della
disparità posta in essere tra titolari di pensione da lavoro
dipendente e titolari di pensioni da lavoro autonomo, con la
differente decorrenza del divieto di cumulo, fissata per questi
ultimi - alla stregua del successivo comma 190 - dall'entrata in
vigore della legge n. 662 del 1996 e, dall'altro, del "contrasto con
l'esigenza primaria di tutelare l'affidamento del cittadino, elemento
fondamentale nello Stato di diritto".
1.2. - Nel denunciare, poi, la disposizione "per la parte in cui
stabilisce il totale divieto di cumulo del trattamento pensionistico
di attività (recte: anzianità) con ogni tipo di reddito da
attività autonoma libero-professionale", il giudice a quo lamenta
l'irrazionalità di una disciplina che, in violazione degli artt. 3,
36 e 38 della Costituzione, comporta "il sostanziale annullamento di
un diritto", quale quello alla pensione di anzianità liquidata
interamente con il sistema retributivo; e cioè per coloro che,
giusta l'art. 1, comma 13, della legge n. 335 del 1995, possono, alla
data del 31 dicembre 1995, far valere un'anzianità contributiva di
almeno diciotto anni. Quanto sopra a causa, tra l'altro, della omessa
previsione di qualsiasi meccanismo correttivo da parte della norma,
la quale, trascurando "ogni criterio di proporzionalità tra
contributi, retribuzioni e pensioni", vulnera, conseguentemente,
anche il principio "di adeguatezza della pensione alle esigenze di
vita del pensionato e di proporzionalità della pensione medesima
alla quantità e qualità del lavoro prestato durante il servizio
attivo".
1.3. - L'ordinanza prospetta, altresì, un possibile vulnus degli
artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione. Il
rimettente, muovendo dal presupposto che pure il pensionato "conserva
il diritto inviolabile e irrinunciabile al libero esplicarsi della
sua personalità anche sul piano economico", ritiene che una
disposizione quale quella denunciata, ponendo in discussione
l'"effettività" della tutela previdenziale, da reputare "addirittura
annullata", abbia un effetto dissuasivo sul lavoratore (dipendente o
autonomo) quanto all'"adozione di scelte che coinvolgono la sua
libertà lavorativa".
1.4. - Nel rilevare, infine, che la norma censurata viene ad
applicarsi senza alcun limite a situazioni pregresse "che scontano un
assetto sempre più rigido via via che aumenta l'anzianità di lavoro
e contributiva", il giudice a quo esclude che, in tema di cumulo, si
possano "porre sullo stesso piano le limitazioni attinenti alla
materia in esame", confrontando tra loro posizioni concernenti,
rispettivamente, il lavoro autonomo e quello subordinato.
2. - Le censure sono da reputare solo in parte fondate, secondo
quanto appresso si dirà.
2.1. - Prima di affrontarne il merito, conviene richiamare, sia
pure per sommi capi e per quanto ha rilievo ai fini del presente
giudizio, l'evoluzione legislativa verificatasi in materia di
ordinamento previdenziale; evoluzione che ha secondato una tendenza
intesa ad ampliare progressivamente l'ambito del divieto di cumulo
tra pensione e redditi da attività lavorativa.
Per quel che concerne, in particolare, la pensione di anzianità
dei lavoratori dipendenti, va rammentato che l'art. 22 della legge 30
aprile 1969, n. 153, ne prevedeva - con disposizione estesa, in un
secondo momento, anche al pensionamento anticipato dei pubblici
dipendenti (art. 10 del d.-l. n. 17 del 1983, convertito, con
modificazioni, nella legge n. 79 del 1983) - il divieto di cumulo con
i soli redditi da lavoro subordinato.
Esigenze di maggiore organicità e rigore in materia vennero, in
seguito, ad ispirare la legge 23 ottobre 1992, n. 421, la quale, nel
conferire al Governo la delega, tra l'altro, per il riordino del
sistema previdenziale, indicò, fra i vari principi e criteri
direttivi, quelli dell'"armonizzazione ed estensione della disciplina
in materia di limitazioni al cumulo delle pensioni con i redditi da
lavoro subordinato ed autonomo per tutti i lavoratori pubblici e
privati" (art. 3, comma 1, lettera m), stabilendo espressamente che
la concessione della pensione di anzianità avvenisse "dopo
l'effettiva cessazione dell'attività lavorativa, dipendente o
autonoma, con identici criteri di non cumulabilità tra pensione e
retribuzione o reddito da lavoro autonomo" (art. 3, comma 1, lettera
n), punto 4).
Seguì l'art. 10 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503,
che, nel testo modificato dall'art. 11 della legge n. 537 del 1993,
dispose, per tutte le forme previdenziali dei lavoratori dipendenti,
il divieto totale di cumulo fra pensione di anzianità (o trattamenti
anticipati di anzianità) e redditi da lavoro subordinato,
stabilendo, nel contempo, una parziale incumulabilità con i redditi
da lavoro autonomo, limitata alle quote di pensione eccedenti
l'ammontare del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori
dipendenti; quote rese non cumulabili nella misura del 50 per cento,
sino a concorrenza dei redditi stessi.
Il predetto articolo, nel fare salve (comma 8) le disposizioni
della precedente normativa, ove più favorevoli, per coloro che al 31
dicembre 1994 fossero titolari di pensione ovvero avessero raggiunto
i requisiti contributivi minimi per la pensione di vecchiaia o di
anzianità, subordinò, inoltre, per i lavoratori dipendenti, il
conseguimento del trattamento alla risoluzione del rapporto di lavoro
(comma 6).
A parte la legge 8 agosto 1995, n. 335, con la quale, in sede di
riforma generale pensionistica, furono dettati i principi generali
anticumulo applicabili a regime alla nuova prestazione denominata
"pensione di vecchiaia" (sostitutiva, sulla base del sistema
contributivo, delle precedenti pensioni di vecchiaia ed anzianità),
un successivo intervento normativo si rinviene nel d.-l. 30 settembre
1996, n. 508, con il quale furono introdotte misure di maggiore
rigore per le quote di pensione liquidate ancora con il sistema
retributivo. Detto decreto, infatti, stabilì (art. 1, comma 4), con
effetto sui trattamenti liquidati dalla data di entrata in vigore del
decreto stesso, che le pensioni di anzianità a carico
dell'assicurazione obbligatoria dei lavoratori dipendenti e dei
lavoratori autonomi e, in genere, i trattamenti anticipati di
anzianità - con esclusione di quelli liquidati con almeno 40 anni di
contribuzione, nonché di quelli rientranti nelle eccezioni previste
dall'art. 10 del d.-l. 28 febbraio 1986, n. 49 (convertito, con
modificazioni, nella legge 18 aprile 1986, n. 120) - non fossero
cumulabili, quanto alla quota calcolata in base al sistema
retributivo, con redditi da lavoro di qualsiasi natura.
Dopo la mancata conversione in legge del predetto decreto, la
disposizione denunciata, e cioè il comma 189 dell'art. 1 della legge
23 dicembre 1996, n. 662, ha riproposto la stessa disciplina
anticumulo per i trattamenti pensionistici di anzianità dei
lavoratori dipendenti liquidati dal 30 settembre 1996 e cioè dalla
data di entrata in vigore del sopra ricordato decreto-legge. Invece,
per i titolari di "pensioni di anzianità a carico dell'assicurazione
generale dei lavoratori autonomi", il successivo comma 190 del
medesimo art. 1 ha previsto che i trattamenti liquidati dalla data di
entrata in vigore della legge non siano cumulabili "nella misura del
50 per cento con i redditi di lavoro autonomo, fino a concorrenza del
reddito stesso".
Ulteriore sviluppo del descritto quadro normativo è rappresentato,
infine, dall'art. 59, comma 14, della legge 27 dicembre 1997, n. 449
(menzionato anche dal rimettente), il quale (tornando alla regola
dell'art. 10 del decreto legislativo n. 503 del 1992) ha stabilito, a
partire dal 1 gennaio 1998, l'incumulabilità delle quote dei
trattamenti pensionistici di anzianità dei lavoratori dipendenti,
eccedenti il "trattamento minimo", con i redditi da lavoro autonomo
nella misura del 50% e sino a concorrenza dei redditi stessi,
riconfermando, nel contempo, per i trattamenti liquidati
antecedentemente, la previgente disciplina "se più favorevole".
3. - Tanto premesso, va pregiudizialmente ritenuto, in punto di
ammissibilità della proposta questione, che del tutto plausibilmente
il giudice a quo esclude che la rilevanza della stessa sia elisa
dalla disciplina legislativa da ultimo ricordata, tenuto conto che il
comma 14 dell'art. 59 della legge n. 449 del 1997 spiega i suoi
effetti soltanto a decorrere dal 1 gennaio 1998.
4. - Quanto al merito delle sollevate censure, la Corte ritiene di
muovere, per ragioni di priorità logica, da quelle di portata più
generale, volte a porre in dubbio la legittimità in sé del divieto
di cumulo, per contrasto, da un canto, con gli artt. 3, 36 e 38 della
Costituzione e, dall'altro, con gli artt. 4, primo comma, e 35, primo
comma, della Costituzione.
4.1. - Dette censure non sono fondate.
Quanto alla prima, va rammentato che la giurisprudenza di questa
Corte ha, in passato, ritenuto che la garanzia dell'art. 38 della
Costituzione, proprio perché legata allo stato di bisogno, fosse da
reputare di per sé riservata alle pensioni che trovavano la loro
causa nella cessazione dell'attività lavorativa per ragioni di età
e non anche a quelle il cui presupposto consisteva nel mero avvenuto
svolgimento dell'attività stessa per un tempo predeterminato
(sentenza n. 194 del 1991), così come nel caso dei trattamenti
pensionistici di anzianità.
Nella vigenza dell'ordinamento pensionistico anteriore alla riforma
del 1995, è stato, pertanto, espresso l'avviso che il godimento dei
menzionati trattamenti di pensione, rappresentando un beneficio
discrezionalmente concesso dal legislatore a prescindere dall'età
pensionabile, potesse "essere limitato al solo caso di cessazione
effettiva del lavoro" (sentenza n. 155 del 1969). Al tempo stesso,
sono stati considerati privi di fondamento (sentenze nn. 576 del 1989
e 155 del 1969; v. anche sentenza n. 433 del 1994 e ordinanza n. 47
del 1994) i dubbi di legittimità costituzionale che erano stati
sollevati (evocandosi i parametri degli artt. 3, 36 e 38 della
Costituzione), avverso normative che prevedevano il totale divieto di
cumulo dei suddetti trattamenti pensionistici di anzianità con il
reddito da lavoro dipendente.
Alla stregua dei ricordati orientamenti, non può, pertanto,
reputarsi impedito al legislatore di stabilire che le quote di
pensione di anzianità liquidate secondo il sistema retributivo
(quale criterio di calcolo per giunta più favorevole, nella specie,
di quello contributivo, come evidenziato dallo stesso giudice a quo)
non sono cumulabili con "redditi da lavoro di qualsiasi natura".
Una misura siffatta, espressione di un non irragionevole esercizio
della discrezionalità spettante al legislatore, trova la sua
spiegazione oltre che nella tendenza legislativa a disincentivare il
conseguimento di una prestazione anticipata rispetto all'età
pensionabile (prestazione destinata oltretutto ad una graduale
eliminazione, secondo la linea riformatrice seguita dal legislatore
del 1995), anche nella considerazione delle esigenze di bilancio (tra
le altre, v. sentenza n. 417 del 1996), nell'ambito della globale
riforma del sistema previdenziale in corso di attuazione. E ciò
anche se la riforma appare ancora suscettibile di adattamenti, in
attesa della sua operatività a "regime", sì da comportare a volte
il susseguirsi di misure anticumulo differenti tra loro, come
dimostra per l'appunto la vicenda legislativa qui esaminata, nella
quale, alla disciplina originariamente posta dall'art. 10 del
decreto legislativo n. 503 del 1992 (modificato dalla legge n. 537
del 1993), ha fatto seguito, per i casi quali quello in questione, la
più rigorosa regola dell'art. 1, comma 189, della legge n. 662 del
1996, salvo il successivo ritorno al precedente criterio, per effetto
dell'art. 59, comma 14, della legge n. 449 del 1997, e salvo altresì
- per venire alle più recenti innovazioni normative - quanto
disposto dall'art. 77 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, che ha
ricondotto le pensioni liquidate con anzianità contributiva di
almeno quarant'anni nella disciplina anticumulo propria delle
pensioni di vecchiaia. Ma tali interventi, per quanto possano
apparire non del tutto omogenei, lungi dal corroborare, così come
ritiene il giudice a quo, la tesi dell'incostituzionalità della
denunciata disposizione, si spiegano proprio per la mutabile
incidenza che su di essi hanno le contingenti emergenze finanziarie.
4.2. - La scelta così operata non può reputarsi arbitraria
nemmeno sotto l'ulteriore profilo prospettato dal rimettente in punto
di non equiparabilità, in tema di attività incompatibili con il
trattamento di pensione, fra quelle di lavoro dipendente e quelle di
lavoro autonomo, non sembrando a questa Corte che, dal punto di vista
delle esigenze alle quali si è voluto ovviare con la disposizione
denunciata, sia possibile ravvisare, tra le due figure, differenze
tali da richiedere un diverso trattamento in materia di cumulo, sì
da rendere irragionevole una disciplina volta, oltretutto, ad
assicurare, in condizioni di parità fra i suddetti pensionati di
anzianità e i non pensionati, l'accesso al mercato del lavoro
globalmente considerato e, dunque, comprensivo non solo
dell'occupazione tradizionale e stabile del lavoro dipendente.
4.3. - Altrettanto infondato è il dubbio che il rimettente
prospetta sotto il profilo del contrasto della denunciata
disposizione con gli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, della
Costituzione.
Invero, il riconoscimento del diritto al lavoro e la tutela del
lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni non sono pregiudicati
dal fatto che il titolare di pensione di anzianità non possa godere
di due diversi trattamenti, quello di lavoro e quello pensionistico
(per altre applicazioni dello stesso principio v. la sentenza n. 155
del 1969; analogamente le sentenze nn. 30 del 1976 e 105 del 1963).
5. - Fondata è da ritenere, invece, la censura relativa
all'"operatività retroattiva" dell'art. 1, comma 189, della legge n.
662 del 1996, benché non sotto il profilo della asserita "violazione
dell'art. 77 della Costituzione e delle altre norme costituzionali
(artt. 70 segg.) che disciplinano il procedimento di formazione delle
leggi", ma sotto quello del contrasto con l'art. 3 della
Costituzione.
Infatti, il dubbio sollevato dall'ordinanza, in ordine alla
sussistenza di un vizio "formale", censurabile alla stregua dei
principi desumibili dalla sentenza di questa Corte n. 360 del 1996
sulla non consentita iterazione o reiterazione dei decreti-legge,
appare del tutto privo di ragione.
Va considerato che il d.-l. 30 settembre 1996, n. 508, non è stato
oggetto, dopo la sua decadenza, di alcuna iterazione, ma è stato,
invece, seguito da una legge che, adottata con l'ordinario
procedimento, ha mutuato, parzialmente, con la norma oggetto di
censura (comma 189 dell'art. 1), il contenuto già proprio dell'art.
1, comma 4, dello stesso decreto; e, al tempo stesso, ha disposto (al
comma 216) che restano validi gli atti e sono fatti salvi gli effetti
prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo.
Giova, peraltro, osservare che, innanzi al giudice a quo, si
controverte di un pensionamento decorrente dal 30 novembre 1996,
allorché era già scaduto il termine per la conversione del d.-l. n.
508 del 1996 (del quale era così venuto meno ogni effetto), sicché
è evidente che la disposizione denunciata rileva, sotto il profilo
qui considerato, solo in quanto norma destinata ad incidere,
retroattivamente, su una situazione che è rimasta estranea alla
disciplina a suo tempo prevista dal decreto-legge stesso.
6.1. - Ciò premesso, mentre non appare pertinente l'evocazione del
parametro dell'art. 77, nessun dubbio sussiste circa il potere
spettante al legislatore di regolare autonomamente, sulla base
dell'art. 70, le situazioni testé accennate, assumendo
eventualmente come proprio il contenuto di un decreto-legge a suo
tempo decaduto.
Quanto ai limiti di tale potere, questa Corte ha più volte
affermato che il divieto di retroattività della legge - pur
costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica e principio
generale dell'ordinamento, cui il legislatore deve in linea di
principio attenersi - non è stato tuttavia elevato a dignità
costituzionale, se si eccettua la previsione dell'art. 25 della
Costituzione, relativa alla legge penale. Al legislatore ordinario,
pertanto, fuori della materia penale, non è inibito emanare norme
con efficacia retroattiva, a condizione però che la retroattività
trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non
si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente
protetti (da ultimo, v. sentenza n. 229 del 1999).
Tra questi la giurisprudenza costituzionale annovera, come è noto,
l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica che, quale
essenziale elemento dello Stato di diritto, non può essere leso da
disposizioni retroattive, le quali trasmodino in un regolamento
irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti (v.
sentenze nn. 211 del 1997 e 390 del 1995).
Nel caso di specie, va considerato che, allorché, per inutile
decorso dei termini di conversione, è decaduto il decreto-legge n.
508 del 1996, i pensionati di anzianità potevano, in generale,
confidare in un trattamento di quiescenza soltanto parzialmente
inciso - per effetto di quanto previsto dall'art. 10, comma 6, del
decreto legislativo n. 503 del 1992, come modificato dall'art. 11,
comma 9, della legge n. 537 del 1993 (e cioè, nella misura del 50
per cento della quota eccedente il trattamento minimo della pensione)
- dalla concorrenza con un'eventuale percezione di redditi da lavoro
autonomo; se non, addirittura, godere, al riguardo, di un regime di
piena cumulabilità, ove, alla data del 31 dicembre 1994, fossero
già titolari di pensione oppure in possesso dei requisiti minimi
contributivi per la relativa liquidazione (art. 10, comma 8, del
decreto legislativo n. 503 del 1992, come modificato dal comma 10 del
menzionato art. 11).
Va, pertanto, in parte condivisa la censura avanzata dal rimettente
in riferimento all'art. 3 della Costituzione, anche se non sotto il
profilo dell'asserita disparità di trattamento (quanto alla
decorrenza del divieto di cumulo fra titolari di pensioni da lavoro
dipendente e titolari di pensioni da lavoro autonomo), bensì sotto
quello del contrasto con la esigenza di tutelare l'affidamento del
cittadino.
Sotto il primo profilo va, infatti, osservato che si tratta di
situazioni non comparabili, in quanto riconducibili a regimi
previdenziali tuttora differenziati per taluni essenziali aspetti,
sebbene si assista, attualmente, ad un processo di progressiva
omologazione.
Sotto il secondo aspetto non può, invece, non reputarsi affetta da
irragionevolezza una disciplina, quale quella della censurata
disposizione, la quale è venuta a determinare, in modo retroattivo,
per i trattamenti liquidati dal 30 novembre in poi, l'elisione dei
ratei di pensione maturati a decorrere da detta data, nei casi in cui
i relativi titolari abbiano, oramai decaduto il ricordato
decreto-legge n. 508 del 1996, intrapreso un'attività libero
professionale o, comunque, avente natura di prestazione autonoma.
6.2. - La detta esigenza di garanzia non può, peraltro, non
arrestarsi nel momento a partire dal quale le disposizioni della
legge 23 dicembre 1996, n. 662 (in Gazzetta Ufficiale n. 303,
supplemento ordinario n. 233, del 28 dicembre 1996) sono entrate in
vigore (1 gennaio 1997, secondo quanto previsto dall'art. 3, comma
217) e cioè, in definitiva, nel momento in cui la regola contemplata
dall'art. 1, comma 189, della citata legge, risulta incidere ormai
sull'attualità di rapporti di durata, rispetto ai quali il
legislatore è abilitato, sia pure nei limiti della ragionevolezza
(che, per le ragioni precedentemente illustrate, non risultano
superati nel caso in esame), a dettare disposizioni che modifichino
sfavorevolmente la disciplina in atto (v. sentenze nn. 211 del 1997 e
409 del 1995). La data sopra indicata vale, pertanto, a definire
anche il termine entro il quale va limitata la pronunzia di
incostituzionalità della denunciata disposizione.