Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un procedimento instaurato a seguito del reclamo
di un detenuto, condannato definitivamente nonché nuovamente
imputato per delitti richiamati dall'art. 4-bis dell'ordinamento
penitenziario, avverso il decreto del Ministro di grazia e giustizia
che aveva disposto l'applicazione del regime carcerario differenziato
di cui all'art. 41-bis, comma 2, del medesimo ordinamento
penitenziario, il Tribunale di sorveglianza di Napoli, con ordinanza
emessa il 18 marzo 1996, pervenuta a questa Corte il 17 luglio 1996
(r.o. n. 885 del 1996), ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25, 27 e 113
della Costituzione, del predetto art. 41-bis della legge 26 luglio
1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della libertà).
Il remittente premette che, secondo le sentenze nn. 349 e 410 del
1993 di questa Corte, ai detenuti va riconosciuta la titolarità di
situazioni soggettive attive, e va garantita quella parte di libertà
che non è intaccata dallo stato di detenzione, mentre restrizioni
ulteriori alla loro libertà possono intervenire solo con le garanzie
previste dall'art. 13 della Costituzione; i provvedimenti
dell'amministrazione che incidono sulle modalità di esecuzione della
pena non possono contrastare con i principi sanciti dagli artt. 13,
24, 27 e 113 della Costituzione, e su di essi si esercita un
sindacato giurisdizionale identico a quello previsto sui
provvedimenti di applicazione del regime di sorveglianza particolare
di cui all'art. 14-bis dell'ordinamento penitenziario.
Rileva quindi che l'applicazione del regime differenziato ex art.
41-bis, comma 2, opera senza possibilità di limitazioni temporali,
non previste dalla legge, e di fatto inesistenti poiché i decreti
ministeriali si susseguono nel tempo, prorogando il regime nei
confronti dello stesso detenuto, senza che nei provvedimenti di
proroga sia indicata alcuna motivazione nuova o diversa da quella
originaria.
Secondo il giudice a quo la norma censurata si porrebbe anzitutto
in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto ipotizzerebbe
"una specifica categoria di detenuti, imputati e condannati,
predeterminati per dettato normativo", sottoposti ad un regime di
esecuzione diverso da quello disposto "per la criminalità
ordinaria". Ancora, sarebbe in contrasto con gli artt. 3, primo
comma, 13, secondo comma, 27, secondo e terzo comma, della
Costituzione, in quanto la "proroga ripetuta e immotivata" del
decreto esulerebbe di fatto dai caratteri di "uguaglianza,
necessità, urgenza, provvisorietà e umanità" costituzionalmente
rilevanti. L'art. 41-bis opererebbe indipendentemente da situazioni
di eccezionalità ed emergenza, dettagliatamente motivate, nonché da
ogni previsione temporale e da una verifica costante degli sviluppi
della situazione.
In secondo luogo, secondo il remittente, nonostante la riconosciuta
impugnabilità del provvedimento ministeriale, il ripetersi,
attraverso le proroghe, "monotono e immotivato di contestazioni
consolidate, ancorate a episodi storici ormai datati", creerebbe
ostacoli all'esplicazione del diritto di difesa, garantito dall'art.
24 della Costituzione.
In terzo luogo, l'art. 41-bis sarebbe in contrasto con l'art. 27,
terzo comma, della Costituzione, in quanto il relativo regime,
comportando restrizioni influenti sul grado di libertà personale, si
concretizzerebbe in un trattamento contrario al senso di umanità, e
si opporrebbe al fine di rieducazione, poiché precluderebbe al
detenuto la possibilità di fruire del trattamento rieducativo e la
partecipazione alle attività culturali, ricreative e sportive
finalizzate alla realizzazione della personalità e alla
risocializzazione. Si porrebbe altresì in contrasto con l'art. 27,
primo (rectius: secondo) comma, della Costituzione, in quanto
introduce la possibilità di applicazione del regime differenziato
anche al solo imputato per taluno dei delitti di cui all'art. 4-bis
dell'ordinamento penitenziario.
Infine il giudice a quo censura il carattere retroattivo dell'art.
41-bis, comma 2, che, applicato a detenuti per fatti anteriori alla
sua entrata in vigore, realizzerebbe una violazione del divieto di
retroattività delle pene di cui all'art. 25, secondo comma, della
Costituzione, in quanto il relativo provvedimento aggiungerebbe "pena
a pena" e comunque restringerebbe ulteriormente "lo spazio vitale del
detenuto".
2. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, e
in subordine infondata, per le stesse ragioni fatte valere nell'atto
di intervento, prodotto in copia, relativo alla questione sollevata
con l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze del 7
settembre 1995, ed iscritta al n. 904 del registro ordinanze del
1995. In esso si eccepiva anzitutto l'inammissibilità della
questione per difetto di rilevanza, in quanto veniva posta in
discussione la costituzionalità dell'art. 41-bis nella
interpretazione datane dalla Corte di cassazione, senza nessun
riferimento al caso concreto che aveva dato origine al procedimento,
riconducendosi le censure alla norma in sé e non in quanto
applicabile al caso.
Nel merito si affermava poi la manifesta infondatezza della
questione. Le restrizioni disposte in applicazione dell'art. 41-bis
non comporterebbero di per sé violazione dell'art. 13, secondo
comma, della Costituzione, essendo la stessa legge che, in linea
generale, determina i casi e le situazioni in cui può farsi tale
applicazione.
Sarebbe altresì da escludere una violazione degli artt. 3 e 27,
secondo comma, Cost., in quanto la diversità delle situazioni
giustifica il differente trattamento disposto, mentre l'applicazione
della disposizione in esame non darebbe luogo di per sé a
trattamenti contrari al senso di umanità né escluderebbe il fine
rieducativo.
Infine, non sarebbe violato l'art. 113 della Costituzione poiché
il principio costituzionale della divisione dei poteri, che non può
essere stravolto dalla garanzia della tutela giurisdizionale,
comporterebbe che l'autorità giudiziaria può disapplicare gli atti
amministrativi illegittimi ma non può sostituirsi all'autorità
amministrativa nel regolamento delle fattispecie concrete, come
avverrebbe se si riconoscesse ad essa il potere di disapplicare il
provvedimento che ha disposto, in concreto, specifiche misure a
salvaguardia di esigenze di ordine e sicurezza.
3. - Nell'ambito di procedimenti concernenti la concessione della
liberazione anticipata a favore di due detenuti sottoposti a regime
differenziato in base all'art. 41-bis, comma 2, dell'ordinamento
penitenziario, il Tribunale di sorveglianza di Firenze, con due
ordinanze conformi emesse il 6 giugno 1996, e pervenute a questa
Corte il 7 ottobre 1996 (r.o. nn. 1216 e 1217 del 1996), ha sollevato
questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 41-bis,
comma 2, nonché dell'art. 14-ter dell'ordinamento penitenziario, per
contrasto con gli articoli 13, secondo comma, 3, primo comma, 27,
terzo comma, e 113 della Costituzione.
Il Tribunale richiama precedenti ordinanze dello stesso giudicante,
che avevano respinto le istanze dei medesimi detenuti volte alla
concessione della liberazione anticipata, fondando tale
provvedimento, anche in riferimento a contemporanee decisioni
confermative dell'applicazione agli stessi detenuti del regime
differenziato di cui all'art. 41-bis, comma 2, sulla assenza di
elementi che comprovassero la presa di distanza dei detenuti dalle
organizzazioni criminali, e sulla constatazione che l'applicazione
dell'art. 41-bis non consente l'acquisizione di dati sufficienti per
formulare il giudizio di effettiva partecipazione all'opera di
rieducazione, richiesto dall'art. 54 dell'ordinamento penitenziario
per la concessione della liberazione anticipata. Tali ordinanze erano
state annullate con rinvio dalla Corte di cassazione, la quale aveva
negato che, ai fini della liberazione anticipata di un detenuto
legato a organizzazioni criminali, fosse necessario richiedere la
prova positiva di un suo distacco interiore da tali organizzazioni; e
aveva affermato che la sottoposizione al regime differenziato
dell'art. 41-bis non doveva di per sé impedire la considerazione
della condotta del detenuto per valutare la sua partecipazione
all'opera di rieducazione: accennando altresì alla eventualità
della sottoposizione dell'art. 41-bis al controllo di legittimità
costituzionale, ove la situazione fattuale non consentisse
l'acquisizione di indicazioni sufficienti per la formulazione di tale
giudizio proprio a causa della normativa applicata.
Il remittente rileva che nei confronti dei detenuti interessati
erano intervenuti provvedimenti applicativi dell'art. 41-bis
confermati in sede di reclamo, che avevano accertato i loro legami
con organizzazioni criminali di indiscussa pericolosità, legami che,
secondo esperienza, non sono allentati dallo stato di detenzione; e
si interroga sul rapporto fra decisione in ordine alla legittimità
del provvedimento di applicazione del regime differenziato e
decisione sulla istanza di liberazione anticipata. Poiché
quest'ultima presuppone l'accertamento della effettiva partecipazione
all'opera di rieducazione, e non può basarsi sulla semplice
regolarità della condotta in carcere del detenuto, e poiché d'altra
parte lo speciale regime detentivo applicato in base all'art. 41-bis
non consentirebbe l'acquisizione di dati sufficienti per la
formulazione del giudizio di effettiva partecipazione all'opera di
rieducazione, precludendo così la possibilità di ottenere la
liberazione anticipata, non resterebbe, secondo il giudice a quo che
provocare il controllo di costituzionalità sul medesimo art.
41-bis.
Ciò premesso, il giudice a quo richiama proprie precedenti
ordinanze che sottoponevano a questa Corte vari profili di
legittimità costituzionale relativi all'art. 41-bis e all'art.
14-ter dell'ordinamento penitenziario (si tratta delle questioni
decise con la sentenza n. 351 del 1996), e, richiamando alcuni passi
di una di esse, rileva che l'applicazione dell'art. 41-bis secondo la
interpretazione offertane dall'amministrazione penitenziaria in una
circolare del 21 aprile 1993, e come è confermato fattualmente nei
casi specifici sottoposti all'esame del medesimo remittente, comporta
la sospensione delle attività di osservazione e trattamento;
perciò, definendosi la conoscenza dei detenuti interessati
attraverso quello che viene chiamato il "pregiudizio interpretativo"
del loro perdurante collegamento con un'organizzazione criminale
dotata di stabilità e continuità, e mancando l'accertamento
aggiornato della continuità e attualità di tale collegamento, non
vi sarebbe una sede - in assenza di una scelta di collaborazione del
soggetto alle investigazioni - nella quale possa manifestarsi il
distacco dalla organizzazione criminale, così da permettere il
giudizio positivo sulla partecipazione all'opera di rieducazione. Ma
tale sospensione dell'attività di osservazione e trattamento,
frutto, ad avviso del giudice, del convincimento che per siffatti
detenuti l'esecuzione della pena deve avere sola funzione di
contenimento il più possibile afflittivo, contrasterebbe con l'art.
27, terzo comma, della Costituzione, che impone di attuare o quanto
meno di proporre l'osservazione e il trattamento anche nei confronti
dei soggetti gravemente compromessi con la criminalità, e di
realizzare la conoscenza individualizzata di tali soggetti.
Il remittente prospetta pertanto nuovamente gli stessi profili di
legittimità costituzionale già sollevati nelle citate precedenti
ordinanze, osservando che è la concreta applicazione dell'art.
41-bis come articolata attraverso i decreti ministeriali, che
sacrifica situazioni soggettive attive dei detenuti nonché il
diritto alla osservazione e al trattamento penitenziario; ed è
inoltre la esclusione del controllo giurisdizionale sul contenuto dei
decreti, secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione, che
attribuisce all'amministrazione un potere indebito di incidere sulla
normativa penitenziaria.
4. - È intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei
Ministri, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente
infondate, in quanto analoghe a quelle dichiarate infondate dalla
Corte con la sentenza n. 351 del 1996.
Considerato in diritto
1. - I giudizi hanno ad oggetto questioni identiche o analoghe, e
vanno perciò riuniti per essere decisi con unica pronunzia.
2. - Le questioni sollevate riguardano l'art. 41-bis, comma 2,
della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della libertà), introdotto nell'ordinamento penitenziario con l'art.
19 del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni
dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, con efficacia limitata a tre anni,
successivamente prorogata fino al 31 dicembre 1999 in forza della
legge 16 febbraio 1995, n. 36. Tale disposizione - a tenore della
quale, "quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza
pubblica, anche a richiesta del Ministro dell'Interno, il Ministro di
grazia e giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o
in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al
comma 1 dell'articolo 4-bis (vale a dire, sostanzialmente, dei
delitti connessi alla criminalità organizzata), l'applicazione delle
regole di trattamento e degli istituti previsti dalla stessa legge di
ordinamento penitenziario, che possano porsi in concreto contrasto
con le esigenze di ordine e sicurezza" - è ritenuta dai giudici
remittenti in contrasto con gli articoli 3, 13, 24, 25, 27, secondo e
terzo comma, e 113 della Costituzione.
Le ordinanze del Tribunale di sorveglianza di Firenze impugnano
altresì l'art. 14-ter della stessa legge di ordinamento
penitenziario, concernente il procedimento di reclamo avverso il
provvedimento che dispone o proroga il regime di sorveglianza
particolare previsto dall'art. 14-bis nella parte in cui,
estendendosi detto procedimento di reclamo anche ai provvedimenti
ministeriali di applicazione dell'art. 41-bis, comma 2, e unitamente
allo stesso art. 41-bis non consentirebbe, nella interpretazione
datane dalla Corte di cassazione, di esercitare il sindacato
giurisdizionale sul contenuto delle singole misure restrittive con
essi adottate, così comportando la violazione dei numerosi parametri
costituzionali invocati.
3. - L'eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza,
sollevata dall'Avvocatura dello Stato nei confronti della questione
promossa dal Tribunale di sorveglianza di Napoli, non può essere
accolta. È impugnata infatti, nel corso dei giudizi promossi con
reclamo avverso un provvedimento ministeriale di applicazione del
regime carcerario differenziato di cui all'art. 41-bis, comma 2,
proprio quest'ultima disposizione, che sta a fondamento dell'atto
contro cui è volto il reclamo.
4. - Nel merito, le questioni non sono fondate nei sensi di seguito
indicati.
L'art. 41-bis, comma 2, dell'ordinamento penitenziario, introdotto
dal legislatore per apprestare uno strumento di intervento efficace
di fronte a ben noti e pericolosi caratteri della criminalità
organizzata, ha dato luogo sin dall'inizio a incertezze in sede
applicativa, derivanti anche dalla sua formulazione.
Questa Corte ha più volte chiarito che esso non è
costituzionalmente illegittimo, in quanto sia interpretato nei sensi
dalla stessa Corte precisati (sentenze n. 349 e n. 410 del 1993, n.
351 del 1996; ord. n. 332 del 1994).
Le due ordinanze del Tribunale di sorveglianza di Firenze
ripropongono, peraltro con un rinvio per relationem gli stessi
profili e argomenti già prospettati nelle ordinanze che hanno dato
luogo ai giudizi decisi con la sentenza n. 351 del 1996, successiva
alla instaurazione dei presenti giudizi: in proposito si può dunque
richiamare integralmente quanto chiarito in detta sentenza, nonché
in quelle precedenti già citate.
In particolare, questa Corte ha ribadito la piena sindacabilità,
ad opera del giudice ordinario, e precisamente del Tribunale di
sorveglianza adito col reclamo di cui all'art. 14-ter
dell'ordinamento penitenziario, dei provvedimenti ministeriali di
applicazione dell'art. 41-bis, comma 2, sia sotto il profilo
dell'esistenza dei presupposti per tale applicazione e della
congruità della relativa motivazione, sia sotto il profilo del
rispetto - nel contenuto delle misure restrittive disposte - dei
limiti del potere ministeriale: tanto quelli "esterni", collegati
cioè al divieto di incidere sul residuo di libertà personale
spettante al detenuto, e dunque pure sugli aspetti dell'esecuzione
che toccano, anche indirettamente, la qualità o la quantità della
pena detentiva da scontare o i presupposti per l'applicazione delle
misure così dette extramurali, quanto quelli "interni", discendenti
dal necessario collegamento funzionale fra le restrizioni
concretamente disposte e le finalità di tutela dell'ordine e della
sicurezza cui devono essere rivolti i provvedimenti applicativi del
regime differenziato, nonché dal divieto di trattamenti contrari al
senso di umanità e dall'obbligo di non vanificare la finalità
rieducativa della pena.
Così interpretate le disposizioni impugnate, si rivela
evidentemente non fondata la censura di violazione dell'art. 113
della Costituzione, poiché nessun limite è frapposto al sindacato
giurisdizionale sulla legittimità degli atti dell'amministrazione.
Parimenti, la riaffermazione degli accennati limiti "esterni" ed
"interni" al potere ministeriale consente di superare altresì le
censure di violazione dell'art. 13, secondo comma, della
Costituzione, poiché le misure adottate non possono consistere in
restrizioni della libertà personale ulteriori rispetto a quelle che
già sono insite nello stato di detenzione, e dunque esulanti dalla
competenza dell'amministrazione penitenziaria in ordine alla
esecuzione della pena; dell'art. 3, primo comma, Cost., poiché il
regime differenziato non può constare di misure diverse da quelle
riconducibili con rapporto di congruità alle finalità di ordine e
sicurezza proprie del provvedimento ministeriale; dell'art. 27, terzo
comma, della Costituzione, poiché le misure disposte non possono
comunque violare il divieto di trattamenti contrari al senso
d'umanità né vanificare la finalità rieducativa della pena.
5. - Le stesse ordinanze del Tribunale di sorveglianza di Firenze,
e per altro verso l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di
Napoli, prospettano, più che profili nuovi, particolari aspetti o
conseguenze, ad avviso dei remittenti contrastanti con la
Costituzione, della norma in esame e del regime che in forza di essa
si viene ad instaurare nei confronti dei detenuti che sono oggetto
dei provvedimenti ministeriali.
Ma quelli denunciati sono a loro volta null'altro che aspetti
collegati ad una interpretazione della norma diversa da quella,
conforme alla Costituzione, affermata da questa Corte, o ad una
cattiva applicazione del sistema normativo, ricostruito in aderenza
ai principi costituzionali.
Ciò è a dirsi, in primo luogo, della censura, mossa dal Tribunale
di sorveglianza di Napoli, secondo cui l'art. 41-bis, comma 2,
condurrebbe a configurare, in contrasto con l'art. 3 della
Costituzione, una categoria di detenuti, "predeterminati per dettato
normativo", sottoposti ad un regime detentivo diverso da quello
ordinario.
Vero è che la lettera della disposizione normativa, col
riferimento a generici "motivi" ed "esigenze" di ordine e di
sicurezza pubblica, parrebbe consentire, in relazione al solo titolo
del reato, l'applicazione di un regime derogatorio indeterminato e
dunque non vincolato a specifici contenuti né a specifiche finalità
congruamente perseguibili nei limiti delle competenze attribuite
all'amministrazione carceraria.
Ma questa Corte ha già chiarito come sia possibile, e sia doverosa
proprio in forza del vincolo costituzionale, una diversa e più
restrittiva interpretazione della norma (sentenze n. 349 del 1993 e
n. 351 del 1996), la quale è volta a far fronte a specifiche
esigenze di ordine e sicurezza, essenzialmente discendenti dalla
necessità di prevenire ed impedire i collegamenti fra detenuti
appartenenti a organizzazioni criminali, nonché fra questi e gli
appartenenti a tali organizzazioni ancora in libertà: collegamenti
che potrebbero realizzarsi - come l'esperienza dimostra - attraverso
l'utilizzo delle opportunità di contatti che l'ordinario regime
carcerario consente e in certa misura favorisce (come quando si
indica l'obiettivo del reinserimento sociale dei detenuti "anche
attraverso i contatti con l'ambiente esterno": art. 1, sesto comma,
dell'ordinamento penitenziario).
In particolare, si è chiarito che i provvedimenti applicativi
dell'art. 41-bis, comma 2, devono, in primo luogo, essere
concretamente giustificati in relazione alle predette esigenze di
ordine e sicurezza.
Di conseguenza, da un lato, il regime differenziato si fonda non
già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o
dell'imputazione, ma sull'effettivo pericolo della permanenza di
collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati
costituiscono solo una logica premessa; dall'altro lato, le
restrizioni apportate rispetto all'ordinario regime carcerario non
possono essere liberamente determinate, ma possono essere - sempre
nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della
pena e di trattamenti contrari al senso di umanità - solo quelle
congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di
sicurezza; e anche di tale congruità al fine è garanzia ex post il
controllo giurisdizionale attivabile sui provvedimenti ministeriali.
Non vi è dunque una categoria di detenuti, individuati a priori in
base al titolo di reato, sottoposti ad un regime differenziato: ma
solo singoli detenuti, condannati o imputati per delitti di
criminalità organizzata, che l'amministrazione ritenga,
motivatamente e sotto il controllo dei Tribunali di sorveglianza, in
grado di partecipare, attraverso i loro collegamenti interni ed
esterni, alle organizzazioni criminali e alle loro attività, e che
per questa ragione sottopone - sempre motivatamente e col controllo
giurisdizionale - a quelle sole restrizioni che siano concretamente
idonee a prevenire tale pericolo, attraverso la soppressione o la
riduzione delle opportunità che in tal senso discenderebbero
dall'applicazione del normale regime penitenziario.
6. - Alla luce di questa interpretazione della norma, anche gli
ulteriori profili di censura mossi dal Tribunale di sorveglianza di
Napoli non sono fondati.
La mancanza, nell'art. 41-bis di indicazioni in ordine alla durata
temporale delle restrizioni non significa che limiti temporali non
debbano essere posti (come in effetti lo sono) dai provvedimenti
ministeriali di applicazione.
E poiché - come questa Corte ha già chiarito (sentenza n. 349 del
1993) - ogni provvedimento deve essere adeguatamente motivato, anche
ogni provvedimento di proroga delle misure dovrà recare una autonoma
congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli
per l'ordine e la sicurezza che le misure medesime mirano a
prevenire: non possono ammettersi semplici proroghe immotivate del
regime differenziato, né motivazioni apparenti o stereotipe,
inidonee a giustificare in termini di attualità le misure disposte.
Il che vale anche a far venir meno la censura di violazione del
diritto di difesa, garantito dall'art. 24 della Costituzione.
7. - Quanto poi all'asserito contrasto con l'art. 27, terzo comma,
della Costituzione, che deriverebbe dalla possibilità che, con i
provvedimenti applicativi dell'art. 41-bis, comma 2, si concreti un
trattamento contrario al senso di umanità o tale da precludere al
detenuto la fruizione di opportunità rieducative, basta richiamare
quanto già affermato da questa Corte nel delineare l'interpretazione
conforme a Costituzione della disposizione impugnata: essa deve
intendersi nel senso che è vietato adottare misure restrittive
concretanti un trattamento contrario al senso di umanità, o tali da
vanificare del tutto la finalità rieducativa della pena (sentenze n.
351 del 1996; n. 349 del 1993).
In particolare, va ribadito che - come del resto ha di recente
riconosciuto la stessa amministrazione penitenziaria, modificando
precedenti posizioni (cfr. la circolare del 7 febbraio 1997, prot.
n. 531938-1.1.41-bis/7975, dettata a seguito della sentenza di questa
Corte n. 351 del 1996; nonché le premesse del decreto del Ministro
di grazia e giustizia 4 febbraio 1997) - l'applicazione del regime
differenziato ex art. 41-bis, comma 2, non comporta e non può
comportare la soppressione o la sospensione delle attività di
osservazione e di trattamento individualizzato previste dall'art. 13
dell'ordinamento penitenziario, né la preclusione alla
partecipazione del detenuto ad attività culturali, ricreative,
sportive e di altro genere, volte alla realizzazione della
personalità, previste dall'art. 27 dello stesso ordinamento, le
quali semmai dovranno essere organizzate, per i detenuti soggetti a
tale regime, con modalità idonee ad impedire quei contatti e quei
collegamenti i cui rischi il provvedimento ministeriale tende ad
evitare. L'applicazione dell'art. 41-bis non può dunque equivalere,
contrariamente a quanto ritiene il Tribunale di sorveglianza di
Napoli, a riconoscere una categoria di detenuti che "sfuggono, di
fatto, a qualunque tentativo di risocializzazione".
8. - Le precisazioni interpretative offerte consentono, infine, di
superare le censure, secondo cui l'art. 41-bis contrasterebbe da un
lato con l'art. 27, secondo comma, della Costituzione, in quanto
consentirebbe di assoggettare alle misure restrittive il detenuto
anche solo imputato dei delitti di cui all'art. 4-bis
dell'ordinamento penitenziario, in violazione del principio di
presunzione di non colpevolezza; dall'altro lato con l'art. 25,
secondo comma, della Costituzione, in quanto consentirebbe di
aggravare il trattamento punitivo anche per reati commessi prima
della sua entrata in vigore.
Quanto al primo aspetto, non può invocarsi la presunzione di non
colpevolezza per impedire l'applicazione di misure che non hanno e
non possono avere natura e contenuto di anticipazione della sanzione
penale, bensì solo di cautela in relazione a pericoli attuali per
l'ordine e la sicurezza, collegati in concreto alla detenzione di
determinati condannati o imputati per delitti di criminalità
organizzata.
Parimenti, quanto al secondo aspetto, il principio di
irretroattività non si può estendere a provvedimenti che non
incidono e non possono incidere sulla qualità e quantità della
pena, ma solo sulle modalità di esecuzione della pena o della misura
detentiva, nell'ambito delle regole e degli istituti che appartengono
alla competenza dell'amministrazione penitenziaria.
9. - Il Tribunale di sorveglianza di Firenze, a sua volta, pone il
problema della conciliabilità del regime differenziato ex art.
41-bis, comma 2, con la valutazione da effettuare, ai fini della
concessione della liberazione anticipata, sulla effettiva
partecipazione del detenuto all'opera di rieducazione, come richiesto
dall'art. 54, comma 1, dell'ordinamento penitenziario. Secondo il
remittente, poiché tale valutazione non potrebbe fondarsi solo sulla
regolarità della condotta in carcere del detenuto, e poiché d'altra
parte l'applicazione dell'art. 41-bis comporterebbe la sospensione di
ogni attività di osservazione e trattamento, e non consentirebbe
dunque di acquisire dati sufficienti per la formulazione della
valutazione medesima, si dovrebbe ritenere costituzionalmente
illegittimo lo stesso art. 41-bis comma 2.
Questa Corte ha però già chiarito che i provvedimenti
ministeriali applicativi dell'art. 41-bis non solo non possono
incidere sulle misure che comportano un distacco dal carcere, come la
liberazione anticipata (cfr. sent. n. 349 del 1993), la cui
concessione ai condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis
dell'ordinamento penitenziario non è, del resto, sottoposta alle
condizioni alle quali tale norma subordina invece l'adozione delle
altre "misure alternative alla detenzione"; ma nemmeno possono
precludere l'adempimento "delle condizioni cui la legge subordina la
concessione di detti benefici" (sent. n. 351 del 1996). Ciò
comporta fra l'altro il divieto di misure che escludano l'attività
di osservazione e di trattamento individualizzato, nonché l'offerta
di strumenti ed opportunità di risocializzazione - fra cui le
attività culturali, ricreative, sportive e di altro genere di cui
all'art. 27 dell'ordinamento penitenziario -, e più in generale di
misure che escludano l'opera di rieducazione, la partecipazione alla
quale è il presupposto normativo per la concessione della
liberazione anticipata. Onde non può in nessun modo intendersi
l'art. 41-bis, comma 2, nel senso che esso presupponga o consenta di
attribuire - come si esprime il giudice a quo - al "rapporto
penitenziario" il carattere di "sede di ulteriore penalizzazione" nei
confronti di chi apparteneva alla criminalità organizzata, o alla
esecuzione della pena, nei confronti dei detenuti considerati, la
"sola funzione di contenimento e di un contenimento il più possibile
afflittivo".
È evidente peraltro che il giudizio sulla partecipazione all'opera
di rieducazione non può che essere formulato sulla base della
risposta alle opportunità di risocializzazione concretamente offerte
al detenuto nel corso del trattamento, poche o tante che siano, e in
definitiva sulla base della condotta del detenuto nel corso del
trattamento così come concretamente realizzato, in conformità del
resto a quanto prevede l'art. 94, secondo comma, del regolamento di
esecuzione dell'ordinamento penitenziario (d.P.R. 29 aprile 1976, n.
431): non potendosi richiedere la partecipazione a un'opera
rieducativa che non venga di fatto intrapresa, né far gravare sul
detenuto le conseguenze della mancata offerta, in concreto, di
strumenti di risocializzazione.
In sostanza, le difficoltà e gli inconvenienti lamentati dal
Tribunale di sorveglianza di Firenze appaiono addebitabili ad una
erronea o cattiva applicazione del sistema normativo, e non alle
conseguenze inevitabili dell'applicazione della norma denunciata, che
può e deve essere interpretata, come chiarito da questa Corte, in
conformità alle esigenze costituzionali. D'altra parte, i dubbi che
il giudice remittente solleva circa l'influenza che l'accertata
esistenza di vincoli associativi con organizzazioni criminali dotate
di continuità e stabilità può avere sulla valutazione della
effettiva partecipazione del detenuto all'opera di rieducazione,
nonché circa il rapporto che in concreto si possa instaurare fra
decisioni giudiziali adottate in sede di reclamo contro i
provvedimenti applicativi del regime differenziato, e decisioni
adottate in sede di giudizio sulla concessione della liberazione
anticipata, attengono ancora una volta al piano dei fatti, e della
corretta interpretazione e applicazione del sistema normativo,
piuttosto che a quello della legittimità costituzionale delle norme
denunciate.