N. 7
SENTENZA 6 DICEMBRE 1995-18 GENNAIO 1996
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio promosso con ricorso del dott. Filippo Mancuso, nella
qualità di Ministro di grazia e giustizia-Guardasigilli pro-tempore,
notificato il 30 ottobre 1995, depositato in cancelleria il 2
novembre successivo ed iscritto al n. 35 del registro conflitti 1995,
per conflitto di attribuzione sorto a seguito:
1) della mozione in data 4 luglio 1995, così come presentata e
posta all'ordine del giorno del 18 ottobre 1995 e messa a votazione
nominale dal Senato della Repubblica nella seduta del 19 ottobre
1995;
2) dell'atto con cui il Presidente del Senato, per implicito o
per esplicito, ha ammesso a discussione la mozione di sfiducia;
3) della proclamazione dei risultati della votazione sulla
mozione impugnata, di accoglimento della mozione stessa, così come
dichiarata dal Presidente del Senato della Repubblica nella seduta
del 19 ottobre 1995;
4) della proposta del Presidente del Consiglio dei ministri per
il conferimento, a se medesimo, dell'incarico di Ministro di grazia e
giustizia ad interim;
5) del decreto in data 19 ottobre 1995, del Presidente della
Repubblica, con il quale è stato conferito l'incarico di Ministro di
grazia e giustizia ad interim al Presidente del Consiglio dei
ministri, dott. Lamberto Dini;
6) dell'atto successivo, in data 20 ottobre 1995, con il quale il
Presidente del Consiglio dei ministri, dott. Lamberto Dini, ha
chiesto ed ottenuto "il passaggio delle consegne" del Ministero di
grazia e giustizia;
Visti gli atti di costituzione del Senato della Repubblica, della
Camera dei deputati, del Presidente del Consiglio dei ministri e del
Presidente della Repubblica;
Udito nell'udienza pubblica del 5 dicembre 1995 il Giudice relatore
Massimo Vari;
Uditi gli avvocati Fabrizio Salberini, Donatella Resta e Franco G.
Scoca per il dott. Filippo Mancuso; gli av- vocati Giuseppe Guarino e
Paolo Barile per il Senato della Repubblica; gli avvocati Giuseppe
Abbamonte e Feliciano Benvenuti per la Camera dei deputati;
l'Avvocato generale dello Stato Giorgio Zagari per il Presidente del
Consiglio dei ministri e per il Presidente della Repubblica.
Ritenuto in fatto
1. - Con ricorso del 18 ottobre 1995, depositato il successivo 19,
il dott. Filippo Mancuso, nella qualità di Ministro di grazia e
giustizia-Guardasigilli pro-tempore, quale "titolare del potere di
esercizio delle funzioni amministrative della giustizia, conferite,
in via specifica ed esclusiva", dagli artt. 107 e 110 della
Costituzione, ha sollevato conflitto di attribuzione contro il Senato
della Repubblica, quale "titolare del potere di accordare o revocare
la fiducia al Governo conferito dall'art. 94 della Costituzione".
Ricordata la mozione del 18 maggio 1995, votata dal Senato in materia
di attività ispettiva del Ministro di grazia e giustizia, il
ricorrente impugna la successiva mozione del 4 luglio 1995 "da
discutere nella seduta in data 18 ottobre 1995", con la quale il
Senato avrebbe espresso "sfiducia" al Ministro di grazia e giustizia
pro-tempore, quale responsabile individuale degli atti del proprio
dicastero.
2. - Quanto all'individuazione e alla legittimazione delle parti in
conflitto, si osserva che "laddove entrino in conflitto con altri
poteri dello Stato, quelli attribuiti dalla Costituzione al Ministro
di grazia e giustizia, quale titolare del potere di esercizio delle
funzioni amministrative della giustizia ex artt. 107 e 110 della
Costituzione, è quel Ministro e non altri il legittimo
contraddittore dell'organo investito del potere contrapposto con
espressa esclusione del Presidente del Consiglio". Relativamente
all'altra parte in conflitto, è pacifico - secondo il ricorrente -
che il Senato della Repubblica sia organo competente "a dichiarare
definitivamente la volontà del potere" (art. 37 della legge n. 87
del 1953) "quanto alla formulazione delle mozioni di fiducia o
sfiducia costituenti un potere tipico, istituzionale, di
quell'Organo".
3. - Il profilo oggettivo del conflitto risiederebbe nella volontà
del Senato della Repubblica di sfiduciare, "personalmente e
singolarmente", il Ministro di grazia e giustizia, per le attività
di cui agli artt. 107 e 110 della Costituzione, che si assumono
esercitate con modalità "confliggenti con il recupero della
serenità istituzionale necessaria ad assicurare l'indipendente
esercizio della funzione giudiziaria". Pur dando atto che il
conflitto è, allo stato di proposizione del ricorso "soltanto
virtuale", si assume comunque la "inammissibilità della iniziativa
volta alla sfiducia de qua", sotto un triplice profilo: 1) della
"inammissibilità di una personalizzazione dell'istituto della
mozione parlamentare di sfiducia"; 2) della "inesistenza, nel caso di
specie, di una responsabilità politica (e di qualsiasi ulteriore
responsabilità) del ministro da sfiduciare"; 3) infine "della
vindicatio potestatis del Guardasigilli in relazione ai poteri
specifici che costituzionalmente gli competono". Dopo aver rilevato
che il rapporto fiduciario Camere-Governo "nel suo complesso" appare
"insuscettibile di essere parzializzato, e parzialmente revocato, a
scapito della unitarietà delle funzioni del Governo stesso (art. 95
della Costituzione e art. 2 della legge n. 400 del 1988) e della sua
collegialità", si osserva che, d'altra parte, le eventuali
conseguenze dell'approvazione di una mozione di sfiducia individuale
"sembrano difficilmente collocabili nel presente assetto
costituzionale se non ipotizzando le dimissioni dell'intero Governo,
in assenza di quelle del ministro sfiduciato, non certo revocabile in
mancanza di qualsiasi indizio normativo che ne consenta il ritiro dal
Governo con siffatte modalità". Sull'uso, invece, della mozione di
sfiducia come "procedura surrettizi amente allusiva all'impeachement
anglosassone", attraverso una chiamata di responsabilità del
Ministro di grazia e giustizia per atti e fatti del suo dicastero, si
ritiene - muovendo dalla distinzione fra responsabilità "politica" e
"giuridica" dei ministri - che la responsabilità politica
individuale si configuri come una responsabilità imperfetta,
"giacché le Camere possono bensì chiedere conto dell'operato dei
ministri mediante gli strumenti del sindacato parlamentare
(interrogazioni, interpellanze, inchieste parlamentari), ma non
possono attivare un provvedimento sanzionatorio a carico di un
ministro se non coinvolgendovi collegialmente l'intero Governo".
Quanto alla responsabilità giuridica, "neppure la mozione ostile
contro cui si ricorre ne ha potuto ipotizzare una qualsivoglia", a
carico del ricorrente. Lamentando un'"indebita interferenza" del
Senato nell'attività amministrativa del Guardasigilli, si rileva che
sia la mozione di sfiducia in discussione il 18 ottobre, sia quella
precedente del 18 maggio, "originano e si riducono sostanzialmente ad
una critica sommaria circa lo svolgimento di alcune incombenze
amministrative, ed in particolare di alcune ispezioni",
rappresentando siffatte valutazioni di merito come "risultato di un
incondivisibile (per i presentatori) indirizzo politico proprio del
ministro da sfiduciare", e suscitando il problema del "se" e "quanto"
un organo parlamentare, ancorché di indiscussa autorevolezza, possa
sovvertire le regole sulla responsabilità amministrativa, civile e
penale dei ministri per gli atti del loro dicastero. La mozione
impugnata, dando per scontato che l'esercizio dei poteri
autonomamente spettanti al Ministro di grazia e giustizia in materia
ispettiva "non si sarebbe sempre ispirato agli indirizzi generali del
Governo in materia di equilibrato rapporto tra i poteri dello Stato,
ovvero si sarebbe svolto secondo principi di inadeguatezza e di non
proporzionalità tra i comportamenti in astratto addebitabili ai
magistrati e la tutela dei beni a garanzia dei quali la facoltà di
azione disciplinare è attribuita al Ministro", lamenterebbe "la
mancanza di indirizzi di governo in ordine alle problematiche
dell'attività ispettiva del Ministro, rivolti per un verso ad
evitare interferenze di tale attività sull'indipendente esercizio
della funzione giudiziaria, e per altro verso a prevedere che
eventuali interruzioni del rapporto di collaborazione tra i
magistrati ispettori e il Ministro fossero adeguatamente motivate".
Ad avviso del ricorrente, dette doglianze, "del tutto infondate nel
merito", costituirebbero "una indebita intromissione di un organo
legislativo nella attività dell'esecutivo, anche per la ulteriore
pretesa di voler dettare regole di buona amministrazione con un
mezzo, quello della mozione di sfiducia, assolutamente non
preordinato dal Costituente a tale scopo". Del resto, contro le
attività amministrative che si assumano illegitt ime, o addirittura
illegali, "l'ordinamento appronta più di un mezzo per la loro
rimozione dal mondo giuridico", senza necessità di chiamare in causa
"la credibilità politica del Ministro competente".
4. - Con atto del 21 ottobre 1995, depositato il 23 successivo, "il
Ministro dott. Filippo Mancuso, quale titolare del potere di
esercizio delle funzioni amministrative della giustizia, conferite,
in via specifica ed esclusiva", dagli artt. 107 e 110 della
Costituzione, ha proposto un ulteriore ricorso per conflitto di
attribuzione tra i poteri dello Stato contro: a) il Senato della
Repubblica, quale "titolare del potere di accordare o revocare la
fiducia al Governo conferito dall'art. 94 della Costituzione"; b) il
Presidente del Consiglio dei ministri, "quale titolare del potere di
proporre al Presidente della Repubblica il suo nome per assumere ad
interim le funzioni di Ministro Guardasigilli, ai sensi dell'art. 92
della Costituzione"; c) il Presidente della Repubblica, "quale
titolare del potere di affidare al Presidente del Consiglio
l'incarico ad interim di Ministro di Grazia e Giustizia, ai sensi
dell'art. 92 della Costituzione".
5. - Il ricorrente ha chiesto l'annullamento dei seguenti atti:
1) della mozione in data 4 luglio 1995, così come presentata e
posta all'ordine del giorno del 18 ottobre 1995 e messa a votazione
nominale dal Senato della Repubblica nella seduta del 19 ottobre
1995;
2) dell'atto con cui il Presidente del Senato, per implicito o
per esplicito, ha ammesso a discussione la mozione di sfiducia de
qua;
3) della proclamazione dei risultati della votazione sulla
mozione impugnata, di accoglimento della mozione stessa, così come
dichiarata dal Presidente del Senato della Repubblica nella seduta
del 19 ottobre 1995;
4) della proposta del Presidente del Consiglio dei ministri per
il conferimento, a se medesimo, ad interim, dell'incarico di Ministro
di grazia e giustizia;
5) del decreto in data 19 ottobre 1995, del Presidente della
Repubblica, con il quale è stato decretato il conferimento
dell'incarico di Ministro di grazia e giustizia ad interim al
Presidente del Consiglio dei ministri, dott. Lamberto Dini;
6) dell'atto successivo, in data 20 ottobre 1995, con il quale il
Presidente del Consiglio dei ministri, dott. Lamberto Dini, ha
chiesto ed ottenuto dal Ministro Mancuso, che ne contestava la
legittimità, "il passaggio delle consegne" del Ministero di grazia e
giustizia.
6. - Il ricorrente ribadisce, anzitutto, la propria legittimazione
soggettiva "quale titolare del potere di esercizio delle funzioni
amministrative della giustizia ex artt. 107 e 110 della
Costituzione"; osserva, poi, relativamente alle altre parti in
conflitto, che appare pacifico che esse siano organi competenti "a
dichiarare definitivamente la volontà dei poteri" (art. 37 della
legge n. 87 del 1953): il Senato "quanto alla formulazione delle
mozioni di fiducia o sfiducia"; il Presidente del Consiglio dei
ministri e il Presidente della Repubblica quanto alla nomina dei
ministri. Questi poteri risultano ora "degenerati in conflitto",
perché: a) il primo "non indirizzato, come stabilito dalla
Costituzione, al Governo nel suo complesso, ma al solo Ministro
Guardasigilli" e comunque volto a sindacare una funzione propria di
questo; b) gli altri due carenti dei necessari presupposti e comunque
al di là dei poteri istituzionali (ove il decreto del Presidente
della Repubblica voglia intendersi come atto di destituzione
implicita del Ministro dalla carica).
7. - Quanto, poi, al profilo oggettivo del conflitto, esso
risiederebbe: 1) nella volontà del Senato della Repubblica di
sfiduciare il Ministro di grazia e giustizia, per l'esercizio delle
attività di cui agli artt. 107 e 110 della Costituzione; 2) nella
volontà del Presidente della Repubblica di nominare, su proposta del
Presidente del Consiglio dei ministri, un altro Ministro
Guardasigilli (senza peraltro aver assunto alcuna determinazione
riguardo al primo). Premesso il carattere "attuale" del conflitto,
si ribadisce, conformem ente a quanto già assunto con il primo
ricorso, la inammissibilità della iniziativa volta alla sfiducia
verso un singolo ministro, sotto il triplice profilo già prospettato
nella prima impugnativa. Nel ribadire le considerazioni già svolte
nel primo ricorso sul fatto che il rapporto fiduciario Camere-Governo
"nel suo complesso" appare insuscettibile di essere "parzializzato, e
parzialmente revocato", si soggiunge che la fattispecie non potrebbe
essere "giustificata con il ricorso alle non consolidate figure della
convenzione parlamentare". Infatti, premesso che "il regolamento del
Senato non contempla le mozioni di sfiducia al singolo Ministro", si
potrebbe supporre "una ipotesi convenzionale", ove non fosse
intervenuto il dissenso di taluni gruppi parlamentari, come è invece
accaduto. Tanto rilevato, il ricorso riprende sostanzialmente le
argomentazioni già svolte nel primo, segnatamente per quanto attiene
alla mozione di sfiducia individuale.
8. - Quanto poi all'atto di proposta del Presidente del Consiglio
dei ministri al Presidente della Repubblica per il conferimento ad
interim dell'incarico di Ministro di grazia e giustizia, se ne
sostiene il "contrasto con il dettato costituzionale", per le ragioni
di seguito esposte. Premesso che "i conflitti tra ministri devono
essere risolti nell'ambi to del Consiglio dei ministri", si rileva
che la vicenda de qua denuncia invece l'esistenza di una "frattura
verificatasi in seno al Governo" e che "tale situazione sarebbe
inconcepibile se avesse riguardato un conflitto di carattere
politico", da risolvere comunque nel Consiglio dei ministri, "in
quanto una scelta politica assume sempre carattere globale ed è
imputabile all'intero Governo". Si ritiene che la vicenda in
questione sia "stata invece resa possibile per il fatto che non si è
mai contraddetto un atto politico del Ministro, ma piuttosto la
decisione di adottare, ovvero l'aver adottato uno o più atti
amministrativi rientranti nelle funzioni specifiche
costituzionalmente proprie del Guardasigilli". Osservato che dal
decreto presidenziale risulta che il Presidente della Repubblica ha
"preso atto" che con l'approvazione di una mozione di sfiducia
individuale è venuta meno la condizione essenziale e indefettibile
della permanenza del ricorrente nella carica di ministro, si rileva
l'anomalia del conferimento dell'incarico di Guardasigilli ad interim
"senza però nulla disporre riguardo al Ministro Mancuso in carica e
senza decretarne esplicitamente la revoca", non senza osservare che
"la pronuncia di sfiducia obbliga il Governo alle dimissioni", che
costituiscono comunque un atto spontaneo ed una autonoma
manifestazione di volontà da parte dell'organo sfiduciato.
Ricordato che la dottrina si è a lungo interrogata sul punto se "il
rifiuto di dimissioni da parte del Presidente del Consiglio dei
ministri, il cui Governo sia stato colpito da sfiducia, consenta al
Presidente della Repubblica di intervenire autoritativamente per il
ripristino dell'ordine costituzionale con un atto di revoca
dell'incarico (rectius, di destituzione)", si rileva che "tanto meno
sarebbe ipotizzabile un atto di revoca nei confronti del singolo
ministro". Peraltro, non essendo, nel caso presente, intervenuta
"alcuna proposta né alcun decreto di revoca dall'incarico", l'unica
indicazione al riguardo risulterebbe costituita dalla premessa
formulata nel preambolo del decreto, "come "presa d'atto" di una
circostanza che, come tale, è insuscettibile di produrre l'effetto
giuridico della decadenza dall'incarico". Se ne ricaverebbe che,
affidato l'incarico di Ministro Guardasigilli al Presidente del
Consiglio dei ministri, il Ministro Mancuso sia stato "sospeso" dalle
funzioni di Guardasigilli, mantenendo la carica di Ministro,
"rimanendo così nella compagine governativa in posizione
assimilabile a quella del ministro senza portafoglio". Affermando,
in conclusione, che la revoca dalla carica di ministro, non prevista
in Costituzione, non è "né legittima, né possibile" e che essa
"comunque non è stata pronunciata", si chiede l'annullamento degli
atti impugnati.
9. - In data 23 ottobre 1995 il ricorrente ha presentato, in
riferimento al ricorso per conflitto di attribuzione contro il Senato
della Repubblica proposto a questa Corte in data 18 ottobre 1995, una
"memoria illustrativa" contenente "motivi aggiunti". Si precisa in
detta memoria che, a seguito della votazione nominale della mozione
approvata dal Senato nella seduta del 19 ottobre 1995, il ricorrente
reputa "necessario" impugnare, "oltre alla mozione in data 4 luglio
1995 così come presentata e messa all'ordine del giorno del 18
ottobre 1995" una serie di atti puntualmente indicati corrispondenti
a quelli già oggetto del secondo ricorso. Nel merito, si deduce che
la mozione di sfiducia inizialmente impugnat a, costituita da una
"proposta" e da un provvedimento di "messa in discussione" della
proposta medesima, avrebbe attivato "un meccanismo confittuale la cui
virtualità, nel caso di specie, è da riferire agli effetti
ulteriori, eventuali e concreti della sfiducia richiesta con la
mozione". Ne conseguirebbe che "la mozione di sfiducia de qua, e
l'atto che ne autorizzò la discussione, certamente condussero ad una
ipotesi, per così dire, iniziale, di conflitto di attribuzioni",
"suscettibile o di esaurirsi, o di condurre ad ulteriori effetti".
Riprendendo le argomentazioni già svolte, soprattutto nel secondo
ricorso, si osserva tra l'altro che:
a) la mozione di sfiducia de qua - la cui "praticabilità" si
definisce "scarsissima" - ha portato alla revoca, ancorché
implicita, al Ministro Mancuso della sola attribuzione del dicastero
della giustizia;
b) il Ministro Guardasigilli viene chiamato "a responsabilità
inesistenti e comunque inammissibili sul piano della fiducia
governativa", posto che l'ordinamento "prevede più di un mezzo a
tutela di quanti siano interessati dai provvedimenti ministeriali".
Anche in ordine al conferimento dell'incarico ad interim si ripetono
sostanzialmente le argomentazioni già svolte nel secondo ricorso,
chiedendo conclusivamente l'annullamento degli atti impugnati.
10. - Con ordinanza n. 470 del 27 ottobre 1995, la Corte, premesso
che ai fini della determinazione del thema decidendum il primo
ricorso può ritenersi contenuto e ricompreso nel secondo; e premesso
altresì che l'oggetto del conflitto riguarda essenzialmente la
mozione di sfiducia votata il 19 ottobre 1995, nonché il decreto in
pari data con il quale il Presidente della Repubblica, su proposta
del Presidente del Consiglio dei ministri, ha conferito a
quest'ultimo l'incarico ad interim di Ministro della giustizia, ha
dichiarato ammissibile il conflitto sollevato nei confronti del
Senato della Repubblica, del Presidente del Consiglio dei ministri e
del Presidente della Repubblica; ha disposto, a cura del ricorrente,
la notifica del ricorso e dell'ordinanza al Senato della Repubblica,
al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente della
Repubblica, nonché alla Camera dei deputati, ritenendo anche
quest'ultima interessata al conflitto.
11. - In data 17 novembre 1995 si è costituito in giudizio il
Senato della Repubblica, chiedendo di dichiarare inammissibile e
comunque infondato il ricorso. Dopo aver eccepito che il primo
ricorso, depositato il 19 ottobre 1995, non essendo stato notificato
al Senato, dovrebbe essere giudicato inammissibile od irricevibile,
si deduce, quanto al secondo ricorso e cioè quello recante la data
21 ottobre 1995, notificato al Senato della Repubblica in data 30
ottobre 1995, che alla data del ricorso il dottor Filippo Mancuso era
privo di qualsiasi legittimazione a ricorrere nella qualità di
Ministro della giustizia, in quanto tale qualità era venuta meno sin
dal 19 ottobre 1995 per effetto della nomina del nuovo Ministro. Né
il conflitto può ritenersi sollevato dal dott. Filippo Mancuso in
proprio, giacché, in questo caso, egli avrebbe dovuto rivolgersi
specificamente contro il Ministero della giustizia. Nel merito il
ricorso sarebbe infondato. La mozione, infatti, ivi compresa quella
di sfiducia, è un atto politico e come tale insindacabile nel
merito, anzi, irrilevante sotto qualsiasi profilo che non sia quello
politico. L'atto del Senato appare conforme alla Costituzione, né
rileva il fatto che la mozione sia o meno prevista dal regolamento
delle singole Camere. Gli effetti derivanti dalla approvazione di una
mozione siffatta sono esterni al Senato: in primis, l'obbligo del
titolare dell'organo colpito da sfiducia di dimettersi. Qualora
questo obbligo non sia rispettato, il Presidente della Repubblica
può nominare il nuovo titolare dell'ufficio, con sostituzione del
titolare sfiduciato.
12. - Nella medesima data si è costituita, altresì, in giudizio
la Camera dei deputati, la quale evidenzia che essa, a norma
dell'art. 115 del suo regolamento, può votare la sfiducia ad un
singolo ministro, affermando, nel contempo, che le Camere possono
sempre verificare la persistenza del rapporto di fiducia, anche per
quel che riguarda gli atti di competenza dei singoli ministri. Con
una successiva memoria depositata in data 21 novembre 1995, la difesa
della Camera dei deputati, eccepito che il primo ricorso dovrebbe
essere dichiarato improcedibile, per mancata notifica, deduce,
altresì, l'inammissibilità del secondo ricorso in quanto proposto
dal dott. Filippo Mancuso in una qualità, quella di Ministro della
giustizia, che aveva perduto fin dal 19 ottobre 1995. Nel merito, si
riafferma il potere della Camera di sfiduciare un singolo ministro,
ai sensi dell'art. 115 del proprio regolamento. Ricordato, altresì,
che non è ammesso il controllo della Corte costituzionale né sui
regolamenti parlamentari, né sulla loro applicazione, si deduce,
quanto alla sfiducia votata dal Senato al singolo ministro, che si
tratta di attività di controllo che non può non spettare all'uno e
all'altro ramo del Parlamento, anche in assenza di una previsione
regolamentare espressa. Ricordate le altre disposizioni
costituzionali che, in aggiunta all'art. 95 della Costituzione,
fondano la responsabilità dei singoli ministri, per le competenze
individualmente esercitate (in primis l'art. 89 della Costituzione),
si sostiene che è la stessa posizione costituzionale rivendicata dal
ricorrente, di autonomia nell'esercizio delle funzioni ex artt. 107 e
110 della Costituzione, che, in regime parlamentare, lo rende
individualmente responsabile verso il Parlamento. A seguito del voto
di sfiducia, la correttezza costituzionale e lo stesso tenore degli
artt. 94 e 95 della Costituzione avrebbero imposto le dimissioni. Il
Ministro ha risposto elevando conflitto ed il Capo dello Stato ha
garantito la continuità della funzione conferendo l'interim al
Presidente del Consiglio dei ministri.
13. - In data 18 novembre 1995 si sono costituiti in giudizio anche
il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentati e difesi dall'Avvocato generale dello Stato,
per chiedere che il ricorso venga dichiarato inammissibile o comunque
infondato. Premesso che il ricorso ha sollevato "due diversi e
distinti conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato" - uno
contro il Senato della Repubblica, l'altro contro il Presidente della
Repubblica e il Presidente del Consiglio dei ministri - si chiede,
quanto al secondo, "una nuova valutazione della ricorrenza di tutti i
requisiti soggettivi e oggettivi del conflitto sollevato", osservando
che "il potere di nomina dei ministri non esprime un potere proprio
del Presidente della Repubblica": con la controfirma è il
Presidente del Consiglio dei ministri che assume ogni
responsabilità, non solo politica, ma anche giuridica, del
provvedimento. Atteso che il ricorrente lamenta la lesione delle
attribuzioni garantite al Ministro di grazia e giustizia dagli artt.
107 e 110 della Costituzione, si osserva che il provvedimento
impugnato "realizza ed esaurisce i suoi effetti in termini puramente
soggettivi", senza provocare "alcuna menomazione delle attribuzioni
dell'organo", per cui non può formare oggetto di conflitto. Quanto
ai presupposti soggettivi, all'atto della proposizione del secondo
ricorso il ricorrente non rivestiva più la carica di Ministro di
grazia e giustizia e non aveva pertanto legittimazione a sollevare
conflitto né a "proporre alcunché a nome e nell'interesse di quel
potere dello Stato". "Né il ricorrente potrebbe sostenere che,
tuttavia, egli rivestiva la carica di Ministro di grazia e giustizia
quando ha presentato il primo ricorso": questo, infatti, diretto
soltanto nei confronti del Senato della Repubblica, è stato
"correttamente ed opportunamente ritenuto" dalla Corte compreso nel
secondo, i cui effetti è da escludere che "possano, in qualche modo,
retroagire alla presentazione del primo ricorso", almeno per quanto
riguarda il conflitto elevato a seguito del decreto del Presidente
della Repubblica. "Del tutto destituita di fondamento in fatto e in
diritto" è infine la tesi del ricorrente secondo cui egli
"conserverebbe comunque la carica di ministro, pur senza le funzioni
proprie di titolare del Ministero di grazia e giustizia". E comunque,
in ogni caso, "atteso che la denunciata menomazione delle
attribuzioni costituzionali riguarda in modo esclusivo proprio quelle
del Ministro di grazia e giustizia", "nessun altro ministro può
ritenersi legittimato a sollevare conflitto" per la tutela delle
medesime. Ne consegue che al ricorrente "manca altresì titolo per
proseguire il giudizio". Nel merito, si osserva che la questione
riguarda due diversi profili: a) l'ammissibilità della sfiducia
individuale; b) l'ammissibilità della medesima nei confronti del
Ministro di grazia e giustizia, in relazione alle attribuzioni a lui
specificamente attribuite dalla Costituzione. Quanto al primo
profilo si osserva che il Costituente, pur introducend o la forma di
governo parlamentare, "ha poi lasciato tale forma aperta a diverse
opzioni e a possibili diverse soluzioni", per consentire "una
adattabilità nel tempo alle concrete esigenze del naturale sviluppo
della società civile e politica". In tale contesto, il costante
rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento "non può che valere
tanto per il Governo nel suo insieme, quanto per i singoli ministri".
Quanto alla circostanza che il regolamento del Senato, a differenza
di quello della Camera dei deputati, non prevede la mozione di
sfiducia individuale, si rammenta che il Senato ne ha tuttavia
riconosciuto l'ammissibilità sin dal 1984. Osservato, in fatto, che
"non risponde al vero che la mozione approvat a dal Senato riguardi
esclusivamente" le attribuzioni del Ministro di grazia e giustizia e,
in diritto, che le medesime non possono risultare insindacabili, si
osserva che "le funzioni attribuite dalla Carta costituzionale al
Ministro di grazia e giustizia non sono diverse, per natura e
finalità, da quelle che le norme ordinarie attribuiscono ad ogni
ministro nel settore di competenza": la ragione della specifica
previsione costituzionale consiste nell'obiettivo di delimitare la
sfera di competenza del Governo rispetto a quella del Consiglio
superiore della magistratura. Rilevato, poi, che, in sede di
conflitto tra poteri, non sono sindacab ili "le ragioni per le quali
l'altro potere sia stato esercitato", si deduce, in ordine al
provvedimento di conferimento dell'incarico ad interim ed ai connessi
atti, che: 1) è "assurda" la tesi secondo la quale un ministro,
privato dell'incarico a suo tempo attribuito, resti tuttavia
ministro, pur senza il conferimento di un altro incarico; 2) la
pronuncia di sfiducia comporta l'obbligo delle dimissioni; 3) la
necessità dell'intervento del Presidente della Repubblica o del
Presidente del Consiglio dei ministri può ben presentarsi di fronte
ad inerzie o mancati adempimenti di obblighi costituzionali, come nel
caso di mancate dimissioni; 4) il decreto impugnato contiene "quel
provvedimento di accertamento che è divenuta contro legge la
permanenza nell'incarico e quel conseguente provvedimento di
sostituzione" dei quali il ricorrente nega la sussistenza.
14. - In data 28 novembre 1995 la difesa del Senato della
Repubblica ha depositato una ulteriore memoria, nella quale si
sostiene che, ferma la responsabilità collegiale dei ministri nei
confronti delle Camere, il principio della responsabilità politica
solidale non può valere nel caso in cui un ministro operi in
contrasto con il Governo. Affermato che il fondamento del voto di
sfiducia individuale, con il conseguente obbligo del ministro
sfiduciato di presentare le dimissioni, deriva dal "principio che
contraddistingue il regime parlamentare, quello cioè della
responsabilità politica del Governo e dei singoli ministri nei
confronti del Parlamento", si rileva che "in Senato si è formata una
ormai non contestabile prassi nel senso dell'ammissibilità della
sfiducia al singolo ministro", che si configura come interpretazione
della disciplina costituzionale. Si osserva, tra l'altro, che, mentre
la fiducia al Governo non può che essere unica, poiché investe il
programma, la sfiducia individuale può essere necessaria proprio per
garantire il rispetto del programma governativo. Rammentato che il
principio espresso dall'art. 95 della Costituzione "non limita in
alcun modo la responsabilità del singolo Ministro alla
responsabilità giuridica", si rileva che, con la mozione di sfiducia
individuale, il Senato ha espresso un giudizio politico sull'operato
del ricorrente. D'altronde "è impensabile che l'attribuzione di
specifiche competenze costituzionali al Ministro di grazia e
giustizia valga a renderlo irresponsabile politicamente del suo
operato". Le censure del ricorrente sarebbero inammissibili anche
"per la parte in cui tendono a censurare il contenuto di un atto
politico espresso da un organo parlamentare". Nel contempo si
ribadiscono le considerazioni, già presenti nell'atto di
costituzione, secondo le quali il dottor Mancuso ha sollevato
conflitto in una qualità e cioè quella di ministro che alla data
della proposizione del ricorso non aveva più. Si insiste, infine,
sulla legittimità della proposta del Presidente del Consiglio dei
ministri e dell'atto del Presidente della Repubblica di nomina del
nuovo Ministro della giustizia, a fronte del mancato adempimento
dell'obbligo di dimissioni dell'organo colpito dalla sfiducia.
15. - Sempre in data 28 novembre 1995 anche la difesa del
ricorrente ha presentato una memoria per insistere nelle richieste
già formulate. Premesso, in fatto, un resoconto dettagliato
dell'attività relativa alle iniziative legislative assunte dal dott.
Mancuso come titolare del Ministero di grazia e giustizia, si
ribadisce, in diritto, che "nessun dubbio può residuare in ordine
alla legitimatio ad processum e alla legitimatio ad causam del
Ministro di grazia e giustizia", in considerazione della sua
peculiare posizione costituzionale, ex artt. 107 e 110 della
Costituzione. Precisato che "il conflitto involge la falsa
applicazione degli artt. 94 e 95 della Costituzione da cui discende
la lesione delle attribuzioni di cui agli artt. 107 e 110 della
Costituzione" si osserva quanto alle eccezioni di inammissibilità,
irricevibilità ed improcedibilità sollevate dalla Camera e dal
Senato che "così argomentando le Camere finiscono con il confondere
due fasi distinte delle procedure in esame", quella della verifica
dei requisiti soggettivi e oggettivi e quella della ammissibilità,
confondendo "il possesso dei requisiti con la legittimazione al
conflitto". Ad avviso del ricorrente, il giudizio sui requisiti
circa l'ammissibilità del conflitto va considerato nel contesto
della presentazione di due ricorsi, uno precedente e uno successivo
al voto sulla mozione di sfiducia, e nei quali la continuità stessa
della procedura e l'identità di motivi eliminavano ogni dubbio sul
possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti per accedere
a questo tipo di procedure. D'altra parte, l'assunto della difesa
del Senato "secondo il quale l'atto costituzionale lesivo delle
competenze o delle attribuzioni di un altro organo costituzionale,
non potrebbe, salvo ipotesi limite, considerarsi inesistente ma solo
illegittimo", "conduce a conseguenze inaccettabili proprio nelle
fattispecie più gravi (cioè quando un potere viene spogliato
sostanzialmente e formalmente delle attribuzioni costituzionali)".
Quanto alla tesi, sostenuta dall'Avvocatura generale, secondo la
quale la lamentata menomazione sarebbe solo conseguenziale alla
sostituzione nella titolarità dell'organo, si osserva che, stando al
tenore dell'ordinanza di ammissibilità, "il conflitto non è fondato
sulla incidenza soggettiva (nella persona del Ministro dott. Mancuso)
degli atti impugnati (in particolare del decreto del Presidente della
Repubblica), ma è stato sollevato in relazione ad atti e
comportamenti che invadono nella sostanza e nella forma le
attribuzioni costituzionali che spettano al Ministro Guardasigilli".
Circa la sfiducia individuale, se ne ribadisce l'inammissibilità,
anche alla luce dei lavori preparatori della Costituzione, anche
perché "la formalizzazione di un rapporto fiduciario
Parlamento-ministro, incidendo sulla distribuzione della sovranità,
modificherebbe la forma di governo", ponendo in dubbio "non soltanto
la supremazia del Presidente del Consiglio dei ministri, ma anche
quella del Consiglio dei Ministri". D'altro canto, se il Parlamento
non ha votato alcuna fiducia al singolo ministro, non si vede come si
possa poi procedere a troncare un rapporto che non si è mai formato.
Comunque, anche se si potesse ipotizzare l'ammissibilità
dell'istitut o, "la mozione di sfiducia ha come sua funzione tipica
quella di censurare soltanto le deviazioni dall'indirizzo politico su
cui il rapporto fiduciario si era instaurato". Nella specie, invece,
"tale istituto è stato impiegato per censurare la legittimità di
atti che il Ministro ha posto in essere nell'esercizio di una
funzione amministrativa a lui attribuita dalla Carta costituzionale"
non in quanto componente del Governo, quanto, piuttosto, come organo
monocratico posto al vertice del dicastero della giustizia, con
manifesto sviamento nell'esercizio del potere. Invero, piuttosto che
trattarsi di una mozione di sfiducia individuale , si sarebbe
trattato di una "mozione di censura" che "non determina alcun obbligo
di dimissioni". Rilevato poi che una eventuale incompatibilità tra
l'indirizzo politico dell'intero Governo e l'azione di un singolo
componente del Consiglio dei ministri va risolta all'interno di
quest'ultimo, specialmente attraverso iniziative e poteri del
Presidente del Consiglio, si contesta, in punto di fatto, che "sia
sorto un effettivo conflitto tra l'indirizzo politico del Governo e
quello perseguito dal Ministro Guardasigilli", stante la consapevole
approvazione delle iniziative da parte del Presidente del Consiglio e
stante il fatto che egli non avrebbe "mai portato tale (eventuale e
solo ipotetico) conflitto all'attenzione della collegialità del
Governo". Ricordato che "la legittimità dei provvedimenti assunti
dal Ministro Mancuso è stata ampiamente confermata dai giudici del
TAR di Milano", si nega, sempre in punto di fatto, con un dettagliato
resoconto, la fondatezza del rilievo secondo cui il Ministro non
avrebbe "assunto immediate iniziative per il recupero della
funzionalità del servizio giustizia", dirigendosi esclusivamente
verso "iniziative che hanno determinato condizioni di
conflittualità". Quanto agli effetti della mozione di sfiducia
votata dal Senato, si ribadisce che la stessa non comporta l'obbligo
di dimettersi. Comunque il ministro non si è dimesso; né può
ipotizzarsi una sua automatica decadenza. In conclusione, secondo la
memoria, il decreto del Presidente della Repubblica, nel disporre la
sostituzione del Ministro di grazia e giustizia, si basa su di un
presupposto erroneamente dato per certo, il cui mancato verificarsi
determina la nullità del dispositivo, producendo "l'anomalo effetto
della presenza contemporanea di due Ministri nello stesso dicastero",
e comunque l'effetto che "il Ministro Mancuso, pur spogliato delle
funzioni di Guardasigilli, in conseguenza del decreto e
dell'assunzione delle stesse funzioni da parte del Presidente Dini,
ha mantenuto la qualifica di Ministro, che non gli è stata tolta e
non ha volontariamente rimesso nelle mani del Presidente della
Repubblica", e che gli dà "piena legittimazione ad agire in questa
sede".
Considerato in diritto
1. - Come risulta dalla narrativa di fatto, sono stati portati
all'esame della Corte due ricorsi per conflitto di attribuzione. Con
il primo, depositato il 19 ottobre 1995, il dott. Filippo Mancuso,
nella qualità di Ministro di grazia e giustizia-Guardasigilli
pro-tempore, ha proposto censure nei confronti del Senato della
Repubblica, in relazione alla mozione presentata il 4 luglio 1995, da
discutere nella seduta del 18 ottobre 1995, con la quale il Senato
stesso "esprimeva sfiducia" nei suoi confronti, "ai sensi dell'art.
95 della Costituzione, quale responsabile individuale degli atti del
proprio dicastero".
Con il secondo, depositato il successivo 23 ottobre 1995, lo stesso
ricorrente ha chiesto - nei confronti del medesimo Senato della
Repubblica, nonché del Presidente del Consiglio dei ministri e del
Presidente della Repubblica - l'annullamento dei seguenti atti "in
quanto invasivi della sfera di attribuzioni conferita al Ministro di
grazia e giustizia sia dall'art. 95, che, e soprattutto, dagli artt.
107 e 110 della Costituzione":
1) la mozione presentata in data 4 luglio 1995 al Senato della
Repubblica, posta all'ordine del giorno della seduta del 18 ottobre
1995 e messa a votazione nominale nella seduta del 19 ottobre 1995;
2) l'atto con cui il Presidente del Senato, "per implicito o per
esplicito", ha ammesso a discussione la mozione di sfiducia;
3) la proclamazione dei risultati della votazione sulla mozione
impugnata, di accoglimento della mozione stessa, così come
dichiarata dal Presidente del Senato della Repubblica nella seduta
del 19 ottobre 1995;
4) la proposta del Presidente del Consiglio dei ministri per il
conferimento, a sé medesimo, dell'incarico di Ministro di grazia e
giustizia ad interim;
5) il decreto in data 19 ottobre 1995 del Presidente della
Repubblica, con il quale è stato conferito l'incarico di Ministro di
grazia e giustizia ad interim al Presidente del Consiglio dei
ministri dott. Lamberto Dini;
6) l'atto successivo in data 20 ottobre 1995 con il quale il
Presidente del Consiglio dei ministri, dottor Lamberto Dini, ha
chiesto ed ottenuto "il passaggio delle consegne" del Ministero di
grazia e giustizia.
2. - Vanno, preliminarmente, esaminate le eccezioni sollevate da
taluna delle parti in causa nel sostenere che il primo ricorso
sarebbe da dichiarare improcedibile (secondo la difesa della Camera
dei deputati), irricevibile o inammissibile (secondo la difesa del
Senato della Repubblica) in ragione della mancata notifica alle parti
stesse. Anche allo scopo di precisare l'ambito del presente
giudizio, è da rammentare che la Corte, nella fase delibativa
dell'ammissibilità dei conflitti, con l'ordinanza n. 470 del 27
ottobre 1995, "individuando" il thema decidendum e identificando
l'interesse del ricorrente, ha considerato il primo ricorso, in
ragione dei termini in cui risultava proposto, contenuto e ricompreso
nel secondo.
Difatti, il ricorrente, sia con il primo che con il secondo
ricorso, lamenta una lesione delle sue attribuzioni da ascrivere ad
una unica sequenza di atti, imputabili, rispettivamente, al Senato
della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei ministri e al
Presidente della Repubblica.
I due ricorsi sono sostanzialmente sovrapponibili, pur nella
prospettazione di censure che tengono conto della diversa fase
temporale alla quale lo svolgimento della vicenda era pervenuto, nel
momento della proposizione di ciascuno di essi. La mozione di
sfiducia che all'atto del primo ricorso risultava solo iscritta
all'ordine del giorno dell'assemblea, una volta discussa e votata è
divenuta oggetto del secondo ricorso, che viene così naturalmente ad
assorbire e a ricomprendere anche l'oggetto del primo.
Le eccezioni sono, pertanto, infondate.
3. - Sempre in via preliminare, va esaminata la questione della
legittimazione a sollevare conflitto che il ricorrente, negli atti
introduttivi del giudizio, ritiene di far discendere dalle sue
peculiari attribuzioni, quale Ministro di grazia e giustizia, e dalla
specifica considerazione di cui esse godono a livello costituzionale,
segnatamente negli artt. 107 e 110, tali da collocarlo in una
posizione che egli reputa differenziata rispetto a quella degli altri
componenti del Governo, richiamando a tal fine un precedente della
giurisprudenza costituzionale che riguarda la legittimazione passiva
del medesimo in un conflitto con il Consiglio superiore della
magistratura (sentenza n. 379 del 1992).
Nel caso in esame non sono quelle sopra accennate le ragioni che
possono essere poste a base della legittimazione a ricorrere da parte
del Ministro di grazia e giustizia, la cui posizione infatti non si
differenzia, ai fini qui considerati, da quella degli altri ministri,
dovendosi ricondurre anch'essa in quella prospettiva generale che ha
indotto la giurisprudenza costituzionale ad escludere che la
posizione del singolo ministro possa assumere specifico rilievo
costituzionale in ordine ai conflitti di attribuzione e che,
pertanto, lo stesso si qualifichi come potere dello Stato agli
effetti dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953.
E questo in quanto il potere esecutivo, come la Corte ha avuto già
occasione di affermare più volte, non costituisce un potere
"diffuso", ma si risolve, sotto il profilo che qui interessa,
nell'intero Governo, abilitato a prendere parte ai conflitti tra i
poteri dello Stato in base alla configurazione dell'organo stabilita
nella Costituzione (v., da ultimo, in tal senso, la sentenza n. 420
del 1995).
La logica del governo parlamentare, proprio perché volta a
privilegiare l'unità di indirizzo, fa sì che l'individualità dei
singoli ministri resti di norma assorbita nella collegialità
dell'organo di cui essi fanno parte. Pertanto, il contrasto che
eventualmente insorga fra un potere dello Stato ed il singolo
ministro si profila come conflitto che interessa e coinvolge l'intero
Governo.
Diverso discorso va, invece, fatto quando la posizione del singolo
ministro sia messa in discussione da una mozione di sfiducia
individuale che, investendone l'operato, lo distingua e lo isoli
dalla responsabilità correlata all'azione politica del Governo nella
sua collegialità, dando luogo non solo ad una sua specifica
legittimazione sul piano del conflitto con le Camere, ma comportando
anche peculiari implicazioni, come si vedrà più avanti, sul piano
della responsabilità individuale.
4. - Sempre in ordine alla legittimazione del ricorrente, sotto il
profilo dei necessari requisiti soggettivi, il Senato della
Repubblica e la Camera dei deputati eccepiscono inoltre che i
provvedimenti impugnati realizzerebbero ed esaurirebbero i loro
effetti in termini puramente soggettivi e cioè esclusivamente
riferiti alla persona del ricorrente, senza provocare alcuna
menomazione delle attribuzioni dell'organo; e che il ricorrente, al
momento della proposizione del secondo ricorso, avrebbe perso il
titolo a ricorrere, perché ormai spogliato della carica. In ordine a
tali eccezioni, va osservato che il ricorrente lamenta, nel caso di
specie, che, a causa di un'illegittima interferenza esercitata sulle
sue attribuzioni da altri poteri, si è verificata, come effetto
finale e conclusivo, la sua estromissione dall'ufficio. E tanto
basta, dal punto di vista oggettivo, per rinvenire, nella
prospettazione del ricorso, la configurazione del petitum proprio dei
giudizi su conflitti, nei quali la Corte è chiamata a stabilire
l'ambito delle competenze di ciascuno dei poteri in causa. Al tempo
stesso è evidente la sussistenza dei requisiti soggettivi di
legittimazione, per l'impossibilità di opporre al ricorrente il
venir meno della carica, dal momento che nella prospettazione
dell'interessato è proprio l'illegittimità degli atti e della
spoliazione subita a costituire la ragione delle doglianze e quindi
il fondamento della causa petendi.
Le eccezioni sollevate vanno, perciò, respinte.
5. - Per quanto concerne la legittimazione a resistere, è
sufficiente ribadire quanto già affermato nella citata ordinanza
relativa all'ammissibilità del conflitto, e cioè che essa va
indubbiamente riconosciuta sia al Senato della Repubblica, quale
titolare del potere di accordare e revocare la fiducia ai sensi
dell'art. 94 della Costituzione, sia al Presidente del Consiglio dei
ministri e al Presidente della Repubblica, quali titolari
rispettivamente del potere di proposta e del potere di nomina di cui
all'art. 92 della Costituzione.
Va, inoltre, confermato che, poiché il conflitto investe, in
generale, come si dirà in seguito, il problema dell'ammissibilità
nel nostro ordinamento costituzionale dell'istituto della mozione di
sfiducia nei confronti di un singolo ministro, tra gli organi
interessati al conflitto medesimo, la cui individuazione spetta a
questa Corte (v. sentenza n. 420 del 1995), deve essere compresa
anche la Camera dei deputati.
6. - Nel merito il ricorso deve essere respinto.
Come già rilevato nell'ordinanza adottata in sede di giudizio
sull'ammissibilità del conflitto, gli atti che il ricorrente assume
lesivi delle sue attribuzioni sono da individuare essenzialmente
nella mozione di sfiducia votata dal Senato della Repubblica nella
seduta del 19 ottobre 1995, nonché nel decreto, in pari data, con il
quale il Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del
Consiglio dei ministri, ha conferito a quest'ultimo l'incarico di
Ministro di grazia e giustizia ad interim.
Nei confronti degli stessi, il ricorso prospetta tre ordini di
censura generali:
a) l'inammissibilità della personalizzazione dell'istituto della
mozione parlamentare di sfiducia;
b) l'inesistenza di una responsabilità politica (e di qualsiasi
ulteriore responsabilità) del Ministro da sfiduciare;
c) la lesione degli specifici poteri che costituzionalmente
competono al Guardasigilli e che vengono perciò fatti valere sotto
il profilo della vindicatio potestatis.
7. - Con la prima delle richiamate censure, il ricorrente sostiene
che "il rapporto fiduciario Camere-Governo nel suo complesso non
sarebbe suscettibile di essere parzializzato, e parzialmente
revocato", a scapito della unitarietà e della collegialità delle
funzioni del Governo.
Si solleva, in tal modo, il problema dell'ammissibilità,
nell'ordinamento costituzionale italiano, dell'istituto della
sfiducia individuale, quale conseguenza della responsabilità
politica dei singoli ministri.
Pur nel silenzio della Costituzione, il dibattito in argomento è
risalente, tanto che se ne trova traccia nei lavori preparatori della
Costituzione stessa, soprattutto negli aspetti della responsabilità
politica del singolo componente del Governo e dell'obbligo di
dimissioni eventualmente sul medesimo incombente. Già nella
Commissione Forti, istituita nell'ambito del Ministero per la
Costituente, si discusse ampiamente della possibilità di far valere
la responsabilità politica dei singoli ministri, pervenendo, però,
alla conclusione della inopportunità di "enunciare esplicitamente
che la responsabilità politica, oltre che dell'intero Gabinetto,
possa essere anche individuale, preferendo lasciare la questione a
principi non scritti".
Che l'argomento, sia pure nella sua problematicità, fosse presente
nel dibattito allora in corso, si evince anche dal progetto che venne
sottoposto dalla "Commissione dei settantacinque" all'Assemblea
costituente; progetto che prevedeva, in quello che poi sarebbe
divenuto l'art. 94 della Costituzione, che la fiducia del Parlamento
dovesse investire "primo ministro e ministri", mentre solo in seguito
il destinatario divenne, con formula più sintetica, "il Governo".
Aggiungasi che vari emendamenti presentati, in tema di conseguenze di
un voto contrario ad una proposta governativa, prevedevano che esso
non avrebbe comportato "come conseguenza le dimissioni del Governo o
del ministro interessato".
D'altro canto, il fatto che l'istituto della sfiducia individuale
non sia stato tradotto in una espressa previsione non porta a farlo
ritenere fuori dal quadro costituzionale. Non avendo l'Assemblea
costituente preso esplicita posizione sul tema, è da ritenere che
essa non abbia inteso pregiudicare le modalità attuative che la
forma di governo, così come definita, avrebbe consentito. Nella
interpretazione della Costituzione, occorre privilegiare l'argomento
logico-sistematico: si tratta, allora, di accertare se la sfiducia
individuale, benché non contemplata espressamente, possa, tuttavia,
reputarsi elemento intrinseco al disegno tracciato negli artt. 92, 94
e 95 della Costituzione, suscettibile di essere esplicitato in
relazione alle esigenze poste dallo sviluppo storico del governo
parlamentare.
8. - La Costituzione, nel prevedere, all'art. 95, secondo comma, la
responsabilità collegiale e la responsabilità individuale,
conferisce sostanza alla responsabilità politica dei ministri, nella
duplice veste di componenti della compagine governativa da un canto e
di vertici dei rispettivi dicasteri dall'altro. Risulta dai lavori
preparatori che, nella discussione relativa alla responsabilità del
singolo ministro, la stessa, qualificata in un primo momento come
"personale", diventò nel testo definitivo "individuale", con una
modifica alla quale sarebbe ingiustificato attribuire solo rilievo
lessicale, ignorando così il ben più sostanziale intento, che è
invece dato cogliere, di stabilire una correlazione fra le due forme
di responsabilità - collegiale ed individuale - nel comune quadro
della responsabilità politica.
Nella forma di governo parlamentare, la relazione tra Parlamento e
Governo si snoda secondo uno schema nel quale là dove esiste
indirizzo politico esiste responsabilità, nelle due accennate
varianti, e là dove esiste responsabilità non può non esistere
rapporto fiduciario.
L'indirizzo politico che si colloca al centro di una siffatta
articolazione di rapporti è assicurato, dunque, nella sua
attuazione, dalla responsabilità collegiale e dalla responsabilità
individuale contemplate dall'art. 95 della Costituzione;
responsabilità che fanno capo ai soggetti specificamente indicati
dall'art. 92 della Costituzione, vale a dire il Presidente del
Consiglio dei ministri ed i ministri, nella duplice veste di
componenti del Governo e di vertici dei dicasteri; e responsabilità,
infine, definite, giusta l'art. 94 della Costituzione, nei loro
termini anche temporali di riferimento, dall'instaurazione, da un
canto, e dal venir meno, dall'altro, del rapporto fiduciario.
L'attività collegiale del Governo e l'attività individuale del
singolo ministro - svolgendosi in armonica correlazione - si
raccordano all'unitario obiettivo della realizzazione dell'indirizzo
politico a determinare il quale concorrono Parlamento e Governo. Al
venir meno di tale raccordo, l'ordinamento prevede strumenti di
risoluzione politica del conflitto a disposizione tanto
dell'esecutivo, attraverso le dimissioni dell'intero Governo ovvero
del singolo ministro; quanto del Parlamento, attraverso la sfiducia,
atta ad investire, a seconda dei casi, il Governo nella sua
collegialità ovvero il singolo ministro, per la responsabilità
politica che deriva dall'esercizio dei poteri spettantigli.
Né a smentire tali conclusioni può valere il rapporto di
simmetria che il ricorrente tende a delineare fra mozione di fiducia
e mozione di sfiducia. Ad escludere, infatti, che la sfiducia si
configuri come atto eguale e contrario alla fiducia, donde una
identica conseguente finalizzazione all'organo nella sua
collegialità, è sufficiente considerare che la fiducia è la
necessaria valutazione globale sulla composizione e sul programma
politico del Governo al momento della sua presentazione alle Camere
(art. 94), mentre la sfiducia è giudizio eventuale e successivo su
comportamenti e, quindi, è valutazione non necessariamente rivolta
al Governo nella sua collegialità, bensì suscettibile di essere
indirizzata anche al singolo ministro.
Il vizio di fondo che inficia il ragionamento del ricorrente sta
non certo nella convinzione che l'attività di governo debba
ispirarsi al criterio della collegialità, quale mezzo necessario per
assicurarne l'unitarietà dell'indirizzo, quanto piuttosto nella tesi
che il principio della collegialità debba astringere tutti i
componenti del Governo ad una comune sorte nella simultanea
permanenza in carica ovvero nella cessazione dalla medesima, senza
considerare che la collegialità stessa è metodo dell'azione
dell'esecutivo che può essere infranto proprio dal comportamento
dissonante del singolo, e che il recupero dell'unitarietà di
indirizzo può essere favorito proprio dal ricorso, quando una delle
Camere lo ritenga opportuno, all'istituto della sfiducia individuale.
Se una corrispondenza sul piano logico è dato istituire, essa
attiene, invece, al rapporto fra responsabilità e sfiducia, giacché
la Costituzione - in particolare nell'art. 95, secondo comma -
configura una responsabilità politica individuale che non può non
avere correlate implicazioni per quanto attiene alle conseguenze. Né
v'è da temere che dall'ammissibilità dell'istituto della sfiducia
individuale derivi, nel rapporto fra Parlamento e Governo, il rischio
di una preminenza dell'organo parlamentare tale da amplificarne il
ruolo e tale da esporre individualmente i singoli componenti
dell'esecutivo ai mutevoli e contingenti orientamenti di maggioranze
parlamentari, anche occasionali. Di fronte a mozioni di sfiducia
presentate nei confronti dei singoli ministri, il Presidente del
Consiglio che ne condivida l'operato può sempre, come del resto già
accaduto in passato, trasferire la questione della fiducia
sull'intero Governo.
9. - A disegnare il modello di rapporti sopra indicato concorrono
anche le fonti integrative del testo costituzionale. A questo
proposito non vengono qui in considerazione tanto le convenzioni
parlamentari, che il ricorrente definisce figure non consolidate,
quanto piuttosto i regolamenti parlamentari e le prassi applicative,
che, nel caso in esame, rappresentano l'inveramento storico di
principi contenuti nello schema definito dagli artt. 92, 94 e 95
della Costituzione.
In tal senso, e al fine di assicurare alla sfiducia individuale le
stesse garanzie procedimentali previste dalla Costituzione in via
generale per la mozione di sfiducia, va considerata la modifica
apportata, nel 1986, dalla Camera dei deputati al proprio regolamento
(art. 115), con la quale si è disposto che "alle mozioni con le
quali si richiedono le dimissioni di un ministro", si applica la
stessa disciplina della mozione di sfiducia al Governo. Quanto al
Senato della Repubblica, non si rinviene analoga disposizione nel
relativo regolamento, ma gli atti parlamentari testimoniano, nella
prassi, il tutt'altro che isolato ricorso al medesimo istituto, con
il supporto di conformi pareri della Giunta per il regolamento.
A questi elementi - quando siano in armonia con il sistema
costituzionale, come nel caso di specie - non può non essere
riconosciuto grande significato, perché contribuiscono ad integrare
le norme costituzionali scritte e a definire la posizione degli
organi costituzionali, alla stregua di principi e regole non scritti,
manifestatisi e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di
comportamenti uniformi (o comunque retti da comuni criteri, in
situazioni identiche o analoghe): vale a dire, nella forma di vere e
proprie consuetudini costituzionali.
10. - Sotto altro profilo, il ricorrente, dopo aver negato che, nei
suoi comportamenti, possano ravvisarsi gli estremi di una
responsabilità sia politica che di qualsiasi altro tipo, lamenta che
si sia fatto un uso dello strumento della sfiducia individuale in
vista di un fine diverso da quello proprio di tale mezzo, con lo
scopo di censurare iniziative rientranti nell'ambito delle competenze
amministrative del Guardasigilli.
La Corte osserva che la sfiducia - quali che ne possano essere le
varianti, di atto indirizzato al Governo ovvero al singolo ministro -
comporta un giudizio soltanto politico; e, in ogni caso, che la
doglianza con la quale il ricorrente deduce che si sarebbe fatto
ricorso all'istituto della mozione di sfiducia in vista di un
risultato improprio - indipendentemente dal fondamento o meno delle
ipotesi avanzate in ordine ai motivi ispiratori della mozione stessa
- si risolve in una prospettazione di per sé inammissibile, perché
presuppone la sindacabilità nelle ragioni e nel fine dell'iniziativa
assunta dal Senato. L'atto oggetto del ricorso contiene valutazioni
del Senato che, proprio perché espressione della politicità dei
giudizi a quest'ultimo spettanti, si sottraggono, in questa sede, a
qualsiasi controllo attinente al profilo teleologico. Nel caso della
mozione di sfiducia, si tratta di un atto che va annoverato fra gli
strumenti funzionali al ruolo proprio delle Camere di verificare la
consonanza con il Governo rispetto all'indirizzo politico, il cui
svolgimento spetta a quest'ultimo; ruolo che muove dall'approvazione
del programma governativo e che, attraverso successive
specificazioni, integrazioni ed anche modifiche degli orientamenti
dettati, si traduce in un apprezzamento continuo e costante
dell'attività svolta.
11. - Per motivi analoghi sono da disattendere le censure con le
quali il ricorrente sostiene che l'iniziativa del Senato avrebbe il
fine di dettare regole di buona amministrazione utilizzando un mezzo
assolutamente non preordinato dal Costituente a tale scopo.
Peraltro, poiché il ricorrente stesso si dà carico di precisare di
agire in chiave di vindicatio potestatis "in relazione ai poteri
specifici che costituzionalmente gli competono", sembra opportuno
chiarire che la previsione in Costituzione delle funzioni del
Ministro di grazia e giustizia, specie per quanto attiene all'art.
110 e ai poteri di organizzazione ivi contemplati, fu introdotta, a
suo tempo, essenzialmente con l'intento, nel momento in cui si
prevedeva l'istituzione del Consiglio superiore della magistratura,
di definire anche le competenze del Ministro della giustizia.
Se, pertanto, la ratio delle disposizioni costituzionali in parola
è di delimitare il campo di intervento del Ministro rispetto a
quello riservato al Consiglio superiore della magistratura, il
sindacato del Parlamento, nei confronti degli atti del Guardasigilli,
è identico a quello che si esercita nei confronti di qualsiasi
componente del Governo, salva la particolare garanzia che circonda le
relative competenze che, discendendo direttamente dalla Costituzione,
non potrebbero essere caducate con una legge ordinaria.
Il controllo del Parlamento, proprio perché politico, non incontra
dunque limiti, investendo l'esercizio di tutte le competenze del
ministro, considerato che lo stesso è, ad un tempo, organo politico
e vertice del dicastero, e che il suo compito è quello di raccordare
l'ambito delle scelte politiche con i tempi e i modi di attuazione
delle stesse da parte dell'amministrazione.
A mutare una siffatta conclusione non possono valere le
osservazioni del ricorrente, secondo le quali l'intervento
parlamentare troverebbe ostacolo nell'incidenza sulla sfera di
funzioni tipicamente amministrative, giacché non v'è
incompatibilità fra natura amministrativa delle funzioni e controllo
del Parlamento, nella prospettiva propria di quest'ultimo.
Né può valere l'ulteriore considerazione del ricorrente secondo
cui un'eventuale incompatibilità tra l'indirizzo del Governo e
l'azione del singolo ministro avrebbe dovuto trovare soluzione
nell'ambito del Consiglio dei ministri, attraverso iniziative del
Presidente. Ed invero, anche se detta via appare in astratto
coerente con i poteri e le responsabilità del Presidente del
Consiglio dei ministri, quale garante dell'unità di indirizzo del
Governo, non è questa la sede per indagare sulle ragioni che non
hanno consentito, nel caso di specie, una soluzione siffatta,
essendo, invece, compito della Corte accertare solo se il potere di
controllo del Parlamento sia stato legittimamente esercitato, nel
rispetto dei limiti derivanti dalle competenze spettanti ad altri
poteri dello Stato.
12. - Restano da esaminare, a questo punto, le doglianze che
riguardano in modo specifico il provvedimento assunto dal Presidente
della Repubblica, nel conferire al Presidente del Consiglio dei
ministri, su proposta di quest'ultimo, l'incarico ad interim di
Ministro di grazia e giustizia.
Il provvedimento viene censurato sotto un duplice profilo: sia
perché adottato senza nulla disporre riguardo al Ministro in carica
e senza decretarne esplicitamente la revoca, sia perché le
dimissioni, ancorché obbligatorie per effetto della pronuncia di
sfiducia, costituirebbero - ad avviso del ricorrente - pur sempre un
atto spontaneo ed una autonoma manifestazione di volontà da parte
del titolare dell'organo.
Anche queste doglianze non sono fondate.
Muovendo dal secondo profilo che, per la sua portata di principio,
precede, dal punto di vista logico, l'altro, la Corte rammenta che,
per pacifica e comune opinione in materia, la fiducia del Parlamento
è il presupposto indefettibile per la permanenza in carica del
Governo e dei ministri, sicché, quando essa viene meno, le
dimissioni si configurano come atto dovuto in base ad una regola
fondamentale del regime parlamentare. In questo senso, l'obbligo di
dimissioni del Governo, in caso di sfiducia, ancorché non
espressamente previsto, può farsi discendere - oltre che dal
principio sancito nel primo comma dell'art. 94 - dall'argomento
desumibile a contrario dal quarto comma di tale disposizione, secondo
la quale "il voto contrario di una o d'entrambe le Camere su una
proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni". Se la
fiducia vale a creare il raccordo politico tra Parlamento e Governo,
la volontarietà delle dimissioni, dopo un voto di sfiducia, non
significa, contrariamente a quanto sembra ritenere il ricorrente,
libertà di valutazione in ordine al se ed al quando.
Poiché la revoca della fiducia esaurisce i suoi effetti
nell'ambito del rapporto Parlamento-Governo, ma non comporta la
caducazione dell'atto di nomina, la presentazione delle dimissioni è
il normale tramite per consentire al Presidente della Repubblica di
procedere alla nomina del nuovo Governo, ovvero del nuovo ministro.
Il Presidente della Repubblica, in tale fase, è chiamato, dunque, ad
un ruolo attivo che, in mancanza di dimissioni, richiede l'esercizio
di poteri che attengono alla garanzia costituzionale, in vista del
ripristino del corretto funzionamento delle istituzioni. Nel caso qui
in esame, sulla base di una presa d'atto della volontà del Senato
che ha espresso sfiducia nei confronti del Ministro della giustizia,
si è posto in essere un procedimento complesso, nell'ambito del
quale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con
l'atto di iniziativa inteso a tener conto della volontà
parlamentare, cioè con la proposta di sostituzione, nonché il
Presidente della Repubblica che, una volta investito della proposta
medesima, ha adempiuto il ruolo suo proprio di garante della
Costituzione, sollevando il Ministro dall'incarico, e provvedendo
alla sua sostituzione in conformità.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara che:
a) spetta a ciascuna Camera approvare una mozione di sfiducia
anche nei confronti di un singolo ministro e, pertanto, spettava al
Senato approvare la mozione di sfiducia nei confronti del Ministro di
grazia e giustizia votata il 19 ottobre 1995;
b) spetta al Presidente della Repubblica, su proposta del
Presidente del Consiglio dei ministri, sostituire il ministro nei cui
confronti una Camera abbia approvato una mozione di sfiducia, quando
questi non si sia dimesso e, pertanto, spettava al Presidente della
Repubblica adottare, su proposta del Presidente del Consiglio dei
ministri, il decreto del 19 ottobre 1995, col quale è stata
conferita al medesimo Presidente del Consiglio dei ministri la
titolarità ad interim del Ministero di grazia e giustizia in
sostituzione del ministro nei cui confronti il Senato aveva approvato
la mozione di sfiducia.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 dicembre 1995.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Vari
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 18 gennaio 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola