Ritenuto in fatto
1. - Il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante "Modifiche
urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di
contrasto alla criminalità mafiosa", dettando, nel titolo IV, "Norme
in materia penitenziaria", prevedendo, all'art. 15, il "divieto di
concessione di benefici per gli appartenenti alla criminalità
organizzata", ha, al comma 1, lettera a), modificato l'art. 4-bis
della legge 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario),
stabilendo tra l'altro - per quanto qui interessa - che:
a) " .. le misure alternative previste dal capo VI della legge
26 luglio 1975, n. 354, possono essere concesse ai detenuti .. per
delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo
416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività
delle associazioni previste dallo stesso articolo nonché per i
delitti di cui agli articoli 416-bis e 630 del codice penale e
all'art. 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre
1990, n. 309, solo nel caso in cui tali detenuti .. collaborano con
la giustizia a norma dell'art. 58-ter": collaborazione che, alla
stregua di quest'ultima disposizione - introdotta con l'art. 1 del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni,
nella legge 12 luglio 1991, n. 203 - si riferisce a "coloro che,
anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attività
delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato
concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella
raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per
l'individuazione o la cattura degli autori dei reati".
Il comma 2 del medesimo art. 15, a sua volta, dispone tra l'altro
che:
b) "nei confronti delle persone detenute .. per taluno dei
delitti indicati nel primo periodo del comma 1 (dell'art. 4-bis) che
fruiscano, alla data di entrata in vigore del presente decreto, delle
misure alternative alla detenzione .. l'autorità di polizia, ove lo
ritenga, comunica al giudice di sorveglianza competente che le
persone medesime non si trovano nella condizione per l'applicazione
dell'articolo 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354. In tal caso
il Tribunale .. di sorveglianza dispone la revoca della misura
alternativa alla detenzione .. ".
Il predetto decreto-legge n. 306 del 1992 è stato convertito, con
modificazioni, con la legge 7 agosto 1992, n. 356.
Le modifiche al testo del primo comma del citato art. 4-bis della
legge n. 354 del 1975 - così come innovato dall'art. 15, comma 1,
del decreto - sono le seguenti:
c) nella prima parte, si stabilisce che la disposizione si
applica, tra l'altro, alle misure alternative alla detenzione
previste dal capo VI "fatta eccezione per la liberazione anticipata";
d) viene aggiunta una seconda parte, del seguente tenore:
"Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei predetti
delitti, ai quali sia stata applicata una delle circostanze
attenuanti previste dagli articoli 62, n. 6), anche qualora il
risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, o
114 del codice penale, ovvero la disposizione dell'articolo 116,
secondo comma, dello stesso codice, i benefici suddetti possono
essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti
oggettivamente irrilevante purché siano acquisiti elementi tali da
escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti con la
criminalità organizzata".
La legge di conversione ha apportato modificazioni anche al comma
2 dell'art. 15 del decreto-legge, stabilendo che:
e) al primo periodo, le parole: ", ove lo ritenga," sono
soppresse; al secondo periodo, le parole: "In tal caso il tribunale o
il magistrato di sorveglianza" sono sostituite dalle seguenti: "In
tal caso, accertata l'insussistenza della suddetta condizione, il
tribunale di sorveglianza".
2. - Nella vigenza del predetto decreto-legge n. 306, le
disposizioni sub a) e b) hanno formato oggetto di varie questioni di
costituzionalità.
2.1. - La disposizione sub a) (art. 15, comma 1) è stata
impugnata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze con ordinanza del
10 giugno 1992 (r.o. n. 550/1992) emessa in un procedimento per la
concessione della liberazione condizionale: e ciò, nel presupposto
che, sebbene il citato art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 - nel
testo modificato con l'art. 15, comma 1, del decreto - non faccia
diretto riferimento alla liberazione condizionale, esso sia
applicabile anche a questa in virtù dell'art. 2 del predetto
decreto-legge n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203 del
1991, il quale dispone: "I condannati per i delitti indicati nel
comma I dell'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, possono
essere ammessi alla liberazione condizionale solo se ricorrono i
relativi presupposti previsti dallo stesso comma per la concessione
dei benefici ivi indicati".
Nella stessa data, poi, il medesimo Tribunale ha sollevato
un'identica questione di costituzionalità nell'ambito di un
procedimento concernente la concessione della liberazione anticipata,
nel presupposto che la norma impugnata si riferisca anche a tale
misura (r.o. n. 552/1992).
Lo stesso art. 15, comma 1 - nella parte, però, in cui prevede la
medesima disciplina descritta sub a) per la concessione dei permessi
premio (art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario) - è stato poi
impugnato dal Tribunale di sorveglianza di Sassari con tre ordinanze
identiche emesse il 7 agosto 1992 (r.o. nn. 766, 767 e 768/1992).
2.2. - La disposizione sub b) (art. 15, comma 2, del decreto-legge), a sua volta, è stata impugnata: dal medesimo Tribunale di
sorveglianza di Firenze, con ordinanza del 17 giugno 1992 (r.o. n.
551/1992); dal Tribunale di sorveglianza di Cagliari con ordinanza
del 2 luglio 1992 (annotata nel registro ordinanze come una
pluralità di ordinanze identiche: r.o. nn. da 565 a 580/1992); dal
Tribunale di sorveglianza di Sassari con sei ordinanze identiche
emesse il 3 luglio 1992 (r.o. nn. da 539 a 544/1992), nonché con
un'ulteriore ordinanza emessa il 10 luglio 1992 (peraltro annotata
come una pluralità di ordinanze relative a ciascuno dei soggetti
interessati: r.o. nn. da 511 a 527/1992).
Tutte le ordinanze ora indicate sono state emesse nell'ambito di
procedimenti di revoca della semilibertà instaurati a seguito
dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 306 nei confronti di
soggetti condannati, tra l'altro, per il delitto di cui all'art. 630
cod. pen. (sequestro di persona a scopo di estorsione).
Tanto il Tribunale di sorveglianza di Firenze che quello di
Sassari riferiscono le censure alla norma sub a) agli artt. 27, terzo
comma e 25, secondo comma, Cost.; il primo la impugna, inoltre, in
riferimento all'art. 24, secondo comma ed il secondo all'art. 3 Cost.
A sua volta, la norma sub b), nella parte in cui dispone la revoca
delle misure alternative alla detenzione, è impugnata: dai Tribunali
di sorveglianza di Firenze e Cagliari in riferimento agli artt. 27,
terzo comma, 24, secondo comma e 25, secondo comma, e dal secondo
anche in riferimento all'art. 3 Cost.; dal Tribunale di sorveglianza
di Sassari, in riferimento al primo, secondo e quarto di tali
parametri.
2.3. - La medesima norma sub b), nella parte in cui stabilisce la
procedura di revoca, è impugnata dai primi due Tribunali di
sorveglianza in riferimento agli artt. 25, primo comma, 101, secondo
comma e 111, primo comma, Cost., e da quello di Firenze anche in
riferimento all'art. 109 Cost. Le censure del Tribunale di
sorveglianza di Sassari assumono invece a parametro gli artt. 24,
secondo comma e 111, primo comma, Cost.
3. - Le sopracitate disposizioni sono state oggetto di numerose
impugnative anche nel testo risultante dalla legge di conversione n.
356 del 1992.
3.1. - In particolare, l'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975,
nel testo risultante dall'art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 306
del 1992, come modificato dalla legge di conversione - e cioè con le
modifiche sopra specificate alle lettere c) e d) (par. 1) - è stato
impugnato, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, 24, secondo
comma e 25, secondo comma, Cost. dal Tribunale di sorveglianza di
Firenze con ordinanza del 7 ottobre 1992 (r.o. n. 64/1993) emessa nel
corso di un procedimento per l'ammissione alla semilibertà, o
all'affidamento in prova al servizio sociale o alla liberazione
condizionale. Inoltre, in un procedimento relativo alla concessione
della prima di tali misure, la medesima norma è stata impugnata
anche dal Tribunale di sorveglianza di Brescia con ordinanza del 24
novembre 1992 (r.o. n. 97/1993), che assume a parametri gli artt. 27,
terzo comma, 24, secondo comma, 25, primo comma, Cost., nonché il
principio di ragionevolezza.
3.2. - Numerose ordinanze hanno poi sollevato questioni di
legittimità costituzionale del comma 2 dell'art. 15 del decreto-legge n. 306 del 1992, nel testo risultante dalle modifiche
introdotte con la legge di conversione, specificate sub e) (cfr. par.
1), nel corso di procedimenti vertenti tutti sulla revoca della
semilibertà. Tali questioni - per la parte in cui la norma
statuisce la revoca delle misure alternative già concesse - sono
state sollevate: dal Tribunale di sorveglianza di Firenze con
ordinanza del 21 ottobre 1992 (r.o. n. 72/1993) in riferimento agli
artt. 24, secondo comma, 25, secondo comma e 27, terzo comma, Cost.;
dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, con due ordinanze identiche
del 1° ottobre 1992 (r.o. nn. 67 e 108/1993), in riferimento ai primi
due di detti parametri; dal Tribunale di sorveglianza di Bari, con
quattro ordinanze identiche emesse, le prime due il 15 ottobre e le
altre il 12 ed il 26 novembre 1992 (r.o. nn. 12, 13, 78 e 102/1993) e
dal Tribunale di sorveglianza di Campobasso con ordinanza del 2
dicembre 1992 (r.o. n. 54/1993), in riferimento agli artt. 27, terzo
comma, 25, secondo comma e 3 Cost.; dal Tribunale di sorveglianza di
Brescia con ordinanza del 6 ottobre 1992 (r.o. n. 96/1993), che
coinvolge anche il già citato art. 58-ter dell'ordinamento
penitenziario ed assume a parametri, oltre che i tre da ultimo
citati, anche l'art. 24, secondo comma, Cost. ed il principio di
ragionevolezza.
3.3. - I Tribunali di sorveglianza di Firenze e Perugia censurano
anche con le ordinanze dianzi citate, la medesima disposizione nella
parte in cui disciplina la procedura di revoca, assumendo a parametri
gli artt. 25, primo comma, 101, secondo comma e 109 Cost., ed il
secondo anche l'art. 11, primo comma, Cost.
4. - I motivi di censura addotti dai giudici a quibus sono in
larga misura comuni, sicché nell'esposizione che segue si
assumeranno come base le ordinanze più diffusamente motivate ed il
riferimento alle restanti ordinanze verrà fatto, in via generale,
solo per evidenziarne le peculiarità e/o i tratti differenziali.
4.1. - Censure alla norma sub a).
4.1.1. - La censura mossa dal Tribunale di sorveglianza di Firenze
(r.o. nn. 550 e 552/1993) in riferimento all'art. 27, terzo comma,
Cost. muove dal rilievo che, secondo la sentenza di questa Corte n.
204 del 1974, da tale disposto costituzionale "sorge il diritto per
il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di
diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa
punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la
quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo
fine rieducativo"; diritto questo - nota ancora la sentenza citata -
che "deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia
giurisdizionale". Rilevato che tali principi sono stati confermati
nelle successive sentenze nn. 343 del 1987, 282 del 1989 e 125 del
1992 (rispettivamente ai nn. 7, 8 e 4 della motivazione in diritto),
il Tribunale osserva che, in virtù della norma impugnata, la
mancanza di "collaborazione con la giustizia" rende irrilevante il
percorso rieducativo - risocializzativo compiuto dall'interessato,
sicché il diritto del condannato a vedere riesaminato se "la
quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo
fine rieducativo" ne risulta frustrato, e con esso la finalità
assegnata alla pena dal precetto costituzionale. Al riguardo, il
giudice rimettente rileva, innanzitutto, che la "collaborazione" in
questione ha la propria sede naturale ed è prestata di norma nel
processo, prima della condanna e comunque prima che inizi
l'esecuzione della pena, dato che resta confinata al momento
dell'accertamento dei reati e delle loro conseguenze, ed è possibile
ad esecuzione iniziata solo se tale fase di cognizione non si è
ancora esaurita. Il collegamento, poi, tra la "collaborazione" ed il
cammino della rieducazione-riabilitazione che deve caratterizzare il
processo di esecuzione della pena sarebbe sostanzialmente
mistificatorio, perché la prima è un'opzione pratica che nasce
dalla valutazione della convenienza processuale ed è fortemente
condizionata dall'andamento delle indagini e del processo, mentre il
secondo corrisponde invece ad un percorso di rivisitazione dei propri
valori, delle proprie condizioni di vita ed alla creazione, nella
fase riabilitativa, di valori e condizioni che favoriscano un
corretto reinserimento sociale. Di conseguenza, per un verso si può
collaborare senza interessarsi a compiere tale cammino e, per
l'altro, questo può essere correttamente percorso pur se non si sia
in condizione di collaborare. Vi sono infatti - esemplifica il
giudice rimettente - una serie di situazioni in cui la collaborazione
è addirittura impossibile: da quella in cui la flagrante
constatazione o, comunque, la rapida ricostruzione dei fatti abbia
già portato al completo chiarimento delle responsabilità che vi
sono connesse ed alla rimozione della loro conseguenza; a quella in
cui la partecipazione di secondo piano al delitto non consente di
conoscere fatti e condotte dei partecipi di livello superiore; a
quello, ancora, del soggetto il cui ingresso nel processo avvenga
quando ciò che poteva dire o su cui poteva incidere è già stato
detto o fatto; fino ad arrivare al caso, estremo ma pur sempre
possibile (stante la previsione normativa dell'errore giudiziario:
artt. 643 ss. cod. proc. pen.), di chi non sia responsabile del
delitto per cui è stato condannato e non possa perciò prestare
alcuna collaborazione. Inoltre, quanto più ci si distacca dal
momento dei fatti, tanto più la collaborazione può risultare non
verificabile o non praticabile: sicché la norma impugnata,
applicandosi indifferentemente a tutte le situazioni, comprese quelle
in cui la collaborazione è impraticabile, si risolve in una
inammissibilità pura e semplice al sistema di interventi
penitenziari alternativi alla detenzione. D'altra parte, osserva
ancora il giudice a quo, rispetto al presupposto su cui la norma
poggia - e cioè che i delitti in essa considerati siano commessi da
soggetti strettamente inseriti in organizzazioni criminali, dalle
quali è impossibile o improbabile il distacco - il metodo prescelto
per l'individuazione di costoro, ossia la tipizzazione per titoli di
reato, è inidoneo, dato che la casistica rivela che in molti casi il
collegamento con organizzazioni criminali non vi era all'epoca dei
fatti e tantomeno in fase esecutiva. Così è a dire, ad esempio, dei
sequestri di persona, talvolta frutto di aggregazioni estemporanee e
occasionali; o dell'associazione finalizzata allo spaccio di sostanze
stupefacenti, a volte riconosciuta nei confronti di tossicodipendenti
che gestivano in comune l'approvvigionamento ma non erano inseriti
nelle organizzazioni criminali fornitrici; od anche dell'associazione
di cui all'art. 416-bis cod. pen., dato che la dissociazione può
talvolta verificarsi per varie ragioni, quali la partecipazione di
secondo piano del soggetto, la dissoluzione del gruppo particolare in
cui era inserito, il distacco da persone e ambienti. Il vulnus al
precetto costituzionale starebbe quindi, secondo il Tribunale
rimettente, nella preclusione ad un esame nel merito di tali casi che
consenta di distinguerli da quelli che siano espressione di
permanente pericolosità.
4.1.2. - Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione
impugnata viola anche il diritto di difesa (art. 24, secondo comma,
Cost.), che è garantito anche nel procedimento di sorveglianza, dato
che esso ha sicuramente natura giurisdizionale e, per giurisprudenza
ormai costante, contenuto decisorio in quanto si conclude con un
provvedimento che produce il normale effetto del giudicato (sentenza
n. 267 del 1979). Dal momento che tale diritto comporta, in primo
luogo, la garanzia di contraddittorio, ossia la possibilità
dell'interessato di partecipare ad una effettiva dialettica
processuale (sentenza n. 149 del 1983), la relativa garanzia include
non soltanto la disponibilità degli strumenti con cui la difesa si
realizza, ma il merito stesso della difesa, cioè la scelta di una
linea difensiva piuttosto che un'altra: il che comporta
l'impossibilità di imposizione di una determinata linea di difesa.
Donde il rilievo per cui la normativa in esame, condizionando un vero
e proprio diritto del soggetto (il diritto cioè al riesame degli
effetti rieducativi prodotti dalla esecuzione della pena) alla c.d.
collaborazione, vincola il soggetto stesso ad una linea difensiva,
negandogli la libertà di scelta garantita costituzionalmente. Tutto
ciò, in un quadro in cui la collaborazione è cosa ben diversa dal
percorso rieducativo-riabilitativorichiesto per la concessione dei
benefici penitenziari, ed è talvolta impraticabile pur se questo si
sia già compiuto; e nel quale il sacrificio del diritto di difesa
che essa comporta avviene in fase di cognizione ma può essere fatto
valere solo nella procedura di sorveglianza, con sacrificio, in
particolare, delle posizioni di coloro che, pur volendo, non
avrebbero potuto collaborare, cui è preclusa ogni dialettica
processuale nella fase esecutiva.
4.1.3 - Ad avviso del giudice rimettente, la norma impugnata, in
quanto prevede la revoca dei benefici penitenziari già in corso da
tempo e perciò modifica profondamente il regime della pena per
coloro che vi sono già sottoposti, viola anche il principio di
irretroattività della legge penale, garantito dall'art. 25, secondo
comma, Cost. rispetto alla previsione legale non solo della
fattispecie di reato, ma anche della pena. La revoca comporta infatti
che diventi irrilevante il già compiuto percorso rieducativo-riabilitativo ed inammissibile il riesame del suo sviluppo,
finalizzato alla ricognizione che la pena abbia o meno raggiunto il
fine che le è proprio.
4.1.4. - A tali censure il Tribunale di sorveglianza di Sassari
aggiunge quella riferita all'art. 3 Cost., la cui violazione
consisterebbe nell'avere accomunato alla situazione di chi assume un
atteggiamento di non collaborazione o di perdurante solidarietà con
i correi quella di chi, per aver commesso da solo il reato a lui
ascritto o perché - come nei casi di specie - ogni aspetto della
vicenda criminosa che lo riguardi sia stato chiarito, nessuna
collaborazione può più prestare; con la conseguenza che in tale
modo si finisce, paradossalmente, per favorire proprio quei
condannati che, per avere agito nell'ambito di una struttura
criminale più articolata e segreta, sono di solito più pericolosi
ma si trovano poi nella condizione di potere utilmente "spendere" la
propria collaborazione.
4.2. - Censure alla norma sub b). Rispetto a tale disposizione, i
giudici a quibus ripetono le censure ex artt. 27, terzo comma, 24,
secondo comma, 25, secondo comma e 3 Cost. di cui al precedente par.
4.1.
4.2.1. - Il Tribunale di sorveglianza di Firenze osserva, in
particolare, che il contrasto della disposizione sulla revoca delle
misure alternative alla detenzione con l'art. 27, terzo comma, Cost.
è ancor più stridente di quanto non lo sia per la norma che limita
l'ammissibilità ai benefici penitenziari, dato che in tal caso,
essendo già stato compiuto (nella specie, ripetutamente) il riesame
del percorso rieducativo-riabilitativo e quindi del raggiungimento
delle finalità della pena, il diritto al riesame di cui alla
sentenza n. 204 del 1974 è stato già riconosciuto ed esercitato:
ond'è che per effetto della norma impugnata "la pena cambia natura e
finalità, diventando puramente afflittiva". Il Tribunale di
sorveglianza di Sassari osserva, ancora che la collaborazione non è
necessariamente sintomo di emenda, mentre la mancata collaborazione
dovrebbe non ostare alla prosecuzione del "convenuto" trattamento
penitenziario, se accompagnata da un'effettiva rottura con la
pregressa scala di valori.
4.2.2. - In riferimento all'art. 24, secondo comma, Cost. il
Tribunale di sorveglianza di Cagliari integra i rilievi di cui al
precedente punto 4.1.2. osservando che nel giudizio di sorveglianza,
ove la collaborazione con la giustizia deve essere accertata e fatta
valere, l'attività del difensore sarebbe impossibile, non potendo
egli concretamente svolgere alcuna utile funzione di critica e di
illustrazione del caso, posto che l'attività del giudice si
esaurisce in una presa d'atto della presenza o meno dell'attività di
collaborazione, senza alcun potere valutativo.
4.2.3. - In riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost., il
predetto Tribunale, premesso che l'irretroattività della legge
penale meno favorevole al reo concerne anche le disposizioni di
natura sostanziale relative alle misure alternative alla detenzione -
che, in quanto incidono sulla quantità e qualità della pena
inflitta, rivestono indubbiamente natura penale - osserva che nei
casi sottoposti al suo esame le condanne concernevano fatti puniti ex
art. 630 cod. pen. per i quali, al momento della loro commissione
(anteriore all'entrata in vigore della legge n. 663 del 1986) non era
consentita l'ammissione alla semilibertà. Ma, ad avviso del
rimettente, il diritto al riesame del percorso rieducativo va
valutato in riferimento alla norma sostanziale che ha consentito
l'ammissione al regime di semilibertà, con la conseguenza che il
principio di irretroattività è violato perché la norma impugnata
fa dipendere la prosecuzione della misura da un elemento
(collaborazione con la giustizia) non richiesto al momento della
concessione di essa. A conferma di tale assunto, il giudice a quo
richiama la norma transitoria introdotta con l'art. 4 della legge 12
luglio 1991, n. 203, di conversione del decreto-legge 13 maggio 1991,
n. 152, che ha circoscritto l'applicabilità della norma limitativa
della concessione dei benefici penitenziari per taluni delitti (di
cui all'art. 58-quater, quarto comma, della legge n. 354 del 1975) ai
condannati per delitti commessi dopo l'entrata in vigore del predetto
decreto: norma con la quale, perciò, il legislatore ha riconosciuto
la valenza del principio di irretroattività della norma penale meno
favorevole anche con riferimento al regime della pena, indicando che
il divieto di retroattività vale ogni qualvolta si voglia introdurre
un nuovo e più sfavorevole regime. Il Tribunale di sorveglianza di
Sassari, a sua volta premesso che il principio di irretroattività si
estende a tutte le norme che descrivono il quadro sanzionatorio,
osserva che "se è vero che è stata autorevolmente criticata la
costruzione teorica di chi voglia "fissare" al momento della
commissione del reato non solo l'entità della pena che da questo
può conseguire ma anche il tipo di trattamento penitenziario, si
dovrà pure ammettere, con la migliore dottrina, che almeno dal
momento del passaggio in giudicato della sentenza, si stabilisca fra
lo Stato e il condannato un "patto" che atterrà alla estensione
della pretesa del primo e - per converso - alle aspettative del
secondo. Patto che non sembra, durante lo svolgimento del trattamento
da esso disciplinato, possa essere modificato, neppure con legge che
stabilisce per il condannato condizioni deteriori e, pertanto aggravi
la punizione alla quale lo ha esposto la sua condotta".
4.2.4. - In riferimento all'art. 3 Cost., il Tribunale di
sorveglianza di Sassari ripete le censure esposte al par. 4.1.4.;
mentre quello di Cagliari, sulla premessa che il provvedimento di
ammissione al regime di semilibertà trova la sua giustificazione nei
progressi compiuti dal condannato nel corso del trattamento
penitenziario, reputa irragionevole una revoca retroattiva che non
sia fondata sulla sopravvenienza di fatti che rivelino la
infondatezza del giudizio prognostico su cui si fonda il
provvedimento di concessione; e ravvisa una violazione del principio
di uguaglianza (art. 3 Cost.) nella sottoposizione allo stesso
trattamento (revoca della misura) sia dei soggetti che si siano
rivelati particolarmente meritevoli, con la loro condotta, della
misura applicata, sia di quelli che abbiano serbato una condotta
diversa e abbiano commesso fatti risultati incompatibili con la
prosecuzione della misura alternativa.
4.2.5. - Quanto alla disposizione che disciplina la procedura di
revoca, il Tribunale di sorveglianza di Firenze, dopo aver rilevato
che il riferimento all'art. 58-ter concerne solo le caratteristiche
della collaborazione con la giustizia, osserva che il suo
accertamento non avviene nei modi previsti da tale norma, bensì
attribuendo l'individuazione dei casi di non collaborazione e
l'iniziativa della procedura di revoca all'autorità di polizia,
rendendo tale iniziativa discrezionale ("ove lo ritenga") ed
assegnando al Tribunale di sorveglianza una funzione meramente
notarile. Di qui l'estensione dell'impugnativa agli artt.: 25, primo
comma, Cost., perché il momento decisionale è sottratto al giudice
naturale precostituito per legge, che per la revoca di una misura
alternativa è il tribunale di sorveglianza: al quale, invece, non
resta che prendere atto di una scelta discrezionale dell'autorità di
polizia nella individuazione dei casi da segnalare e nella
valutazione della sussistenza della collaborazione con la giustizia;
101, secondo comma, 109 e 111, primo comma, Cost., perché l'adozione
e il contenuto del provvedimento di revoca dipendono da una scelta
discrezionale dell'autorità di polizia, così rovesciando il
rapporto tra questa e l'autorità giudiziaria e deferendo a quella
scelta la motivazione del provvedimento medesimo. A tali rilievi il
Tribunale di sorveglianza di Sassari aggiunge quello - riferito agli
artt. 111, primo comma e 24, secondo comma, Cost. - secondo cui, una
volta pervenuta la comunicazione dell'autorità di polizia, il
giudice non può esprimere alcun apprezzamento circa la sussistenza
del presupposto della revoca della misura, sicché il suo
provvedimento si risolve in una mera presa d'atto e non può,
perciò, essere motivato; e che, di conseguenza, viene a mancare la
possibilità per il difensore di svolgere un'effettiva difesa.
5. - Censure alle norme risultanti dalla legge di conversione.
5.1. - In ordine alla norma sull'ammissione ai benefici
penitenziari, così come modificata dalla legge di conversione (sub
a)), con le variazioni specificate sub c)), il Tribunale di
sorveglianza di Firenze (r.o. n. 64/1993) ripropone con identiche
motivazioni le censure ex artt. 27, terzo comma, 24, secondo comma e
25, secondo comma, Cost. illustrate ai precedenti punti 4.1.1.,
4.1.2. e 4.1.3.
5.1.2. - Ad avviso del rimettente, la prima di tali censure (art.
27, terzo comma) non viene meno per effetto dell'innovazione di cui
alla precedente lett. b). Essa, infatti, non fa che prevedere, per
casi particolari e ristretti, la necessità di una collaborazione
attenuata, compensata, però, dalla dimostrazione "in maniera certa"
di un dato negativo quale è la mancanza di attuali "collegamenti con
la criminalità organizzata'; e perciò persiste, attraverso la
tipizzazione per titoli di reato, nell'accomunare situazioni
eterogenee, impedendo ogni distinzione a seconda del loro livello e
della loro pericolosità. Inoltre, dato che la norma fa pur sempre
riferimento ad una collaborazione, pur se attenuata, restano fermi -
ad avviso del rimettente - i rilievi concernenti i casi di
impossibilità o impraticabilità della collaborazione, cui si
aggiunge quello per cui la necessità di provare "in maniera certa"
la mancanza di attuali "collegamenti con la criminalità organizzata"
impone l'onere della prova di un dato negativo, tanto più
irraggiungibile quanto più l'interessato non abbia mai avuto
collegamenti del genere. Per altro verso, le modifiche introdotte
sono, secondo il giudice a quo, scarsamente razionali. Innanzitutto,
perché, rispetto alle fattispecie elencate nell'art. 4-bis, gli
artt. 62, n. 6 (risarcimento del danno) e 116 cod. pen. possono
riguardare solo le prime due ipotesi, legate all'art. 416-bis, e
quella di cui all'art. 630 cod. pen., non le altre. Inoltre, perché
il riferimento all'art. 116 (reato diverso da quello voluto da
taluni dei concorrenti) introduce un regime di minore sfavore per i
casi di maggiore gravità ma non è applicabile in quelli di minore
gravità (ad es. gioca in caso di sequestro di persona aggravato
dalla morte dell'ostaggio e non anche quando tale evento non si
verifichi). Quanto poi all'attenuante di cui all'art. 114 cod. pen.
(minima partecipazione), il Tribunale rileva che essa ricorre solo in
casi eccezionali, anche se il ruolo del compartecipe sia subalterno,
e che, essendo esclusa - in virtù del secondo comma - ove ricorra
l'aggravante di cui all'art. 112, n. 1 cod. pen. (concorso nel reato
di cinque o più persone), risulterà inapplicabile nella grande
maggioranza delle fattispecie considerate nell'art. 4-bis. In
aggiunta a tali rilievi, il Tribunale di sorveglianza di Brescia
(r.o. n. 97/1993) osserva, innanzitutto, che nel caso di specie il
condannato ha espiato oltre i due terzi della pena, ha compiuto
evidenti progressi nel trattamento serbando sempre ottima condotta e
non è socialmente pericoloso; tuttavia, non può collaborare con la
giustizia perché ha sempre negato ogni responsabilità. Posta tale
premessa in fatto, assume che la norma impugnata stabilirebbe "una
specie di presunzione iuris et de iure, senza possibilità di
indagini sulla effettiva, attuale appartenenza alla criminalità
organizzata, sulla effettiva pericolosità sociale (intesa rettamente
come attuale probabilità di commissione di altri reati); sulla
rilevanza del tempo trascorso dalla commissione del reato (nel caso
di specie, 10 anni) sulla impossibilità - oggettiva o soggettiva -
da parte del singolo a conformare la propria attuale condotta
all'art. 58-ter Ord. Penit.; sulla possibilità che molti condannati
per uno dei reati suddetti non appartengano all'area della
criminalità mafiosa".
5.1.3. - Secondo lo stesso Tribunale sarebbe violato, inoltre,
l'art. 25, primo comma, Cost. perché viene inibito al tribunale di
sorveglianza, giudice naturale in tema di misure alternative,
l'esercizio del proprio potere discrezionale, nonché l'art. 24,
secondo comma, perché, al di fuori della collaborazione, è inibito
al condannato di dimostrare alcunché. La complessa normativa in
questione - osserva ancora il giudice rimettente - è stata
condizionata da un clima emergenziale segnato da eventi gravissimi ed
è frutto di inadeguata meditazione: come dimostrerebbe, tra l'altro,
la brevità della discussione e l'approvazione in base a voto di
fiducia nei due rami del Parlamento, nonché la circostanza che al
Senato la relazione fu solo orale e che la discussione si svolse in
assenza del Ministro competente.
5.2. - In ordine alla norma (sub b)) che prevede la revoca delle
misure alternative alla detenzione, nel testo risultante dalla legge
di conversione (e cioè con le modifiche specificate sub e)), i
giudici a quibus ripetono sostanzialmente, con argomentazioni più o
meno ampie, le censure ex artt. 27, terzo comma, 24, secondo comma e
25, secondo comma, Cost. già esposte nei precedenti punti 4.1. e
4.2.
5.2.1. - A tali censure, il Tribunale di sorveglianza di Bari
aggiunge quella di violazione dell'art. 3 Cost., che si fonda sul
rilievo che la norma assoggetta ad identico trattamento sia i
soggetti che si siano rivelati particolarmente meritevoli, con la
loro condotta, della misura applicata, sia quelli che abbiano serbato
una condotta diversa ed abbiano commesso fatti risultati
incompatibili con la prosecuzione della misura alternativa. Secondo
il Tribunale di sorveglianza di Campobasso, poi, l'art. 3 Cost.
sarebbe violato perché la norma accomuna i casi di chi non presta la
collaborazione pur potendolo a quelli "in cui il condannato non può
prestare alcuna collaborazione: a) - perché i complici sono stati
già tutti assicurati alla giustizia; b) - perché l'episodio
criminoso è stato comunque chiarito; c) - perché a distanza di anni
i collegamenti con le strutture dei sodalizi criminosi son venuti
meno e non sussistono più riferimenti di fatto; d) - perché in
alcuni tipi di organizzazioni criminose a compartimento stagno il
soggetto è stato comunque posto ab initio nella impossibilità di
fornire un contributo, come recita l'art. 58-ter della legge
penitenziaria, nella raccolta di elementi decisivi per la
ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli
autori dei reati".
5.2.2. - Il Tribunale di sorveglianza di Brescia (r.o. n.
96/1993), dopo aver rilevato che nel caso sottoposto al suo esame non
poteva applicarsi l'ipotesi di collaborazione attenuata "anche dopo
la condanna" introdotta nell'art. 4-bis della legge di conversione,
in quanto gli autori del reato erano stati tutti identificati e
condannati e non erano state concesse le attenuanti di cui agli artt.
114 e 116 cod. pen., osserva che anche se, in ipotesi, tali
attenuanti fossero state concesse, occorrerebbe pur sempre una
"collaborazione offerta anche se oggettivamente irrilevante", oltre
alla certezza della - mancanza di attuali collegamenti con la
criminalità organizzata -; e peraltro, ad avviso del Tribunale, il
riconoscimento di esse nella procedura di sorveglianza (cioè "dopo
la condanna") non sarebbe possibile "perché inesorabilmente si
stravolgerebbe un giudicato ormai sul punto intoccabile". Né si
potrebbe concedere l'attenuante di cui all'art. 62, n. 6 cod. pen.,
sia perché, non essendo stata riconosciuta in sede di cognizione, si
urterebbe contro un giudicato ormai intangibile, sia perché nella
specie, a distanza di anni dal fatto, il condannato non potrebbe più
adoperarsi per evitare ulteriori conseguenze di esso. Infine, la
collaborazione "dopo la condanna" mediante apporto di "elementi
decisivi per la ricostruzione dei fatti" potrebbe verificarsi solo
attraverso una procedura di revisione o l'apertura di un procedimento
penale contro soggetti non coinvolti in quello già definito; ond'è
che delle ipotesi di cui all'art. 58-ter l'unica concretamente
possibile dopo la condanna sarebbe quella dell'individuazione e
cattura degli autori dei reati. Rispetto ai suesposti rilievi, il
giudice a quo riconosce che l'art. 58-ter, al secondo comma,
facoltizza il Tribunale di sorveglianza ad "accertare le condotte indicate nel comma 1", ma oppone che "la norma, estremamente generica,
urta contro il principio del giudice naturale garantito dall'art. 25,
1° comma, Cost.; fa sorgere gravi pericoli di contrasti tra giudicati
o conflitti di competenza; pone in serio pericolo la intangibilità
del giudicato penale". In ordine all'art. 58-ter, il rimettente
osserva, ancora, che non è chiaro se i "fatti" ed i "reati" cui
l'art. 58-ter riferisce la collaborazione siano solo quelli di cui
alla sentenza di condanna in espiazione ovvero anche reati diversi:
nel qual caso ritiene che "la costituzionalità della norma verrebbe
definitivamente compromessa". Sul rilievo, poi, che le misure
"emergenziali" previste dalla norma in questione sono definitive e
non temporanee, il giudice rimettente ricorda che questa Corte, con
la sentenza n. 15 del 1982, ritenne che misure consimili (nel caso,
relative alla durata della carcerazione preventiva) perdono
legittimità se si protraggono ingiustificatamente nel tempo fino a
condurre ad una "sostanziale vanificazione della garanzia"; ed
osserva che la disposizione impugnata, fondando il giudizio di
pericolosità sul solo reato anziché sulla personalità complessiva
dell'autore, desunta - attraverso un accertamento caso per caso - da
tutti gli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. (e non solo da
quelli di cui ai nn. 1 e 2), snatura il sistema penitenziario. Il
giudice a quo ricorda anche che la più recente giurisprudenza di
questa Corte (cfr. sentenza n. 313 del 1990) ha ritenuto superata
quella precedente che limitava la rieducazione alla fase esecutiva
della pena e ha confermato, invece, la polifunzionalità di questa e
l'essenzialità - accanto alla difesa sociale ed alla dissuasione -
della finalità rieducativa. È ben vero - soggiunge - che con la
sentenza n. 107 del 1980 e ordinanza n. 10 del 1981 la Corte ha
ritenuto rientrante nella discrezionalità legislativa l'esclusione
dall'affidamento in prova e dalla semilibertà dei condannati per
determinati delitti, e legittimo il divieto di concessione di misure
alternative ai condannati per determinati reati commessi
anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 354 del 1975: ma
la liceità, da ciò desumibile, del ritorno al regime di rigore
anteriore a tale legge non toglie che ciò dovrebbe valere solo per
il futuro, cioè senza "pretese di revoca" nei confronti di
condannati per reati ormai lontani nel tempo (come è avvenuto con il
precedente decreto-legge n. 152 del 1991, che ha riguardato solo i
reati commessi dopo la sua entrata in vigore).
5.2.3. - Rispetto, poi, alla parte della disposizione in esame che
disciplina la procedura di revoca, il Tribunale di sorveglianza di
Firenze (r.o. n. 72/1993) osserva che, anche nel nuovo testo
risultante dalle modifiche specificate sub c), la norma prevede che
il procedimento di revoca non sorga senza l'iniziativa dell'autorità
di polizia. Mentre nei primi tre commi del citato art. 4-bis
introdotti con la legge 12 luglio 1991, n. 203 i ruoli dell'organo
giudiziario, con funzione procedente e decidente, e dell'organo di
polizia, con esclusiva funzione informativa, sono rispettati nella
nuova disposizione - tanto nel comma 3-bis inserito nell'art. 4-bis
che nel comma secondo, inseriti con l'impugnato art. 15 - alla
funzione informativa dell'autorità di polizia si aggiunge quella di
iniziativa, che ha carattere discrezionale e condiziona e limita gli
spazi decisionali dell'organo di sorveglianza. Poiché, infatti, le
comunicazioni "presuppongono, in sostanza, un'attività di polizia
che verifica o la specifica pericolosità del caso o/e anche la
inutilità della gestione dello stesso a fini informativi", esse
potranno non esserci, a discrezione dell'organo di polizia, nei casi
che possono essere utili a fini informativi, con la conseguenza che
non potrà giungersi alla revoca ove la comunicazione sia omessa:
rilievi, questi, che, ad avviso del rimettente, non sono scalfiti dal
fatto che, alla stregua del nuovo testo, il tribunale decide non
automaticamente, ma "accertata la insussistenza" della collaborazione
e può previamente disporre ulteriori verifiche. Sulla base di
questi rilievi, il giudice a quo ritiene violato, innanzitutto,
l'art. 25, primo comma, Cost. perché l'iniziativa discrezionale
della autorità di polizia e, quindi, la possibilità della stessa di
dare o meno la "comunicazione", può sottrarre al giudice naturale
precostituito per legge, che è il tribunale di sorveglianza, la
revoca di una misura alternativa. La circostanza, poi, che sia la
scelta discrezionale della autorità di polizia che consente di
aprire la procedura di revoca e di pervenire alla pronuncia relativa,
comporta il rovesciamento del rapporto che dovrebbe intercorrere fra
organo giudiziario decidente e organo informativo di polizia, e
perciò infirma la soggezione del giudice "soltanto alla legge"
garantita dall'art. 101, secondo comma, Cost. Sarebbe violato, infine, anche l'art. 109 Cost., che, pur "se è scritto con riferimento
ad un aspetto organizzativo del procedimento di cognizione,
presuppone ovviamente ed esprime chiaramente la relazione necessaria
che deve intercorrere fra funzione informativa e funzione decisionale
e fra gli organi che, anche fuori del procedimento di cognizione,
gestiscono le funzioni stesse". Analoghi rilievi svolge, più
sinteticamente, il Tribunale di sorveglianza di Perugia, che assume a
parametro anche l'art. 111, primo comma, Cost.
6. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, è intervenuto, con atti
distinti, in tutti i predetti giudizi.
6.1. - Rispetto alle censure avanzate nei confronti delle norme
del decreto-legge (sub a) e b)), l'Avvocatura chiede, innanzitutto,
la restituzione degli atti ai giudici a quibus per riesame della
rilevanza alla luce delle modifiche apportate dalla legge di
conversione: ciò, a motivo sia della previsione di concedibilità
della liberazione anticipata, sia della "copertura" del segmento
ipotizzato dai remittenti (impossibilità di collaborazione)
attraverso la previsione del caso di chi - per posizione marginale
rivestita nello svolgimento dei fatti, o per intervenuto globale
chiarimento dei fatti stessi in sede processuale - offra una
collaborazione "oggettivamente irrilevante". La restituzione degli
atti si imporrebbe anche rispetto alle censure concernenti la
procedura di revoca, dato che la legge di conversione chiarisce in
modo inequivoco che la decisione del tribunale in ordine alla revoca
della misura alternativa in precedenza disposta deve essere adottata
previo accertamento dell'insussistenza delle condizioni richieste
dalla legge per la applicazione dei benefici: con il che sarebbe
lasciato intatto il pieno potere di accertamento giurisdizionale,
senza alcun "automatismo" nella previsione sulla revoca e senza alcun
indebito slittamento di competenze proprie dell'autorità giudiziaria
in capo a quella di polizia. Le questioni, ad avviso
dell'Avvocatura, sarebbero, comunque, inammissibili o infondate, dato
che:
a) non vi è contrasto neppure formale tra principio
costituzionale della finalità rieducativa della pena e fissazione
(per legge, col che la riserva è rispettata) di tetti e gradi di
fruizione di certi benefici, in relazione di proporzione diretta con
la gravità del reato per cui si è condannati;
b) collegare determinati effetti favorevoli a riscontrabili
comportamenti di segno positivo ed antagonistici rispetto alla
pregressa optata illegalità non solo non è affatto irrazionale, ma
è perfettamente coerente con larga parte della disciplina penale, in
particolare proprio sotto il profilo della sanzione e dell'esecuzione
correlativa, frequentemente "condizionati" da siffatti comportamenti,
che la legge penale valorizza in termini disparati (dalle attenuanti
ex art. 62 n. 6 cod. pen., al regime di comparazione delle
circostanze, all'entità della pena ex art. 133 cod. pen., ecc.);
c) una siffatta valorizzazione non "coarta" in alcun modo il
diritto di difesa, essendo il portato di opzione libera dell'imputato
(e poi condannato) quello dell'offerta di collaborazione e delle
conseguenze che ne derivano;
d) il tema della retroattività è, nelle ordinanze, incentrato
sul modo del trattamento di esecuzione, e così sovrapposto alla
nozione di pena di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.: mentre la
consistenza ed entità di questa rimane intatta, dato che le
impugnative giocano solo sul piano degli istituti attuativi della
pena.
6.2. - Rispetto alle questioni concernenti il testo delle norme
impugnate risultante dalla legge di conversione, l'Avvocatura dello
Stato, dopo aver richiamato i suesposti rilievi, aggiunge che non vi
è conflitto tra la prima parte del primo comma dell'art. 4-bis e la
finalità rieducativa della pena perché, al contrario, il fatto che
al detenuto sia richiesto un sincero pentimento, manifestato dalla
collaborazione effettiva ed attuale con gli organi della giustizia,
esalta il ruolo emendativo della sanzione penale. Né vi sarebbe,
secondo l'Avvocatura, violazione del diritto di difesa, "per
l'assorbente ragione che la "collaborazione" con la giustizia non è
solo una "particolare linea di difesa", lasciata quindi alla libera
valutazione dell'interessato, bensì il percorso riabilitativo per
eccellenza del condannato". E del resto, l'azione riparatrice "post
delictum" o, almeno, dopo l'esecuzione della condotta penalmente
censurabile, è contemplata da diverse norme del sistema penale (cfr.
art. 56, quarto comma, e 62, n. 6, cod. pen.) come motivo di
attenuazione della pena, senza che sia stata mai rilevata una lesione
alla libertà di scelta delle condotte difensive nel fatto che la
norma pretendesse specifici comportamenti del soggetto, volti ad
attenuare le conseguenze del reato. Quanto poi alle censure
concernenti la procedura di revoca (cfr. r.o. n. 72/1993),
l'Avvocatura sostiene l'irrilevanza della questione, perché nel caso
di specie l'iniziativa dell'autorità amministrativa vi è stata e
quindi non mette conto di discutere della sua eventuale inerzia.
Circa la violazione dell'art. 3 Cost. dedotta dal Tribunale di Bari,
l'Avvocatura osserva che appare tutt'altro che irrazionale collegare
pari effetti negativi a due situazioni pur differenti fra loro ma
valutate entrambe negativamente dal legislatore: l'una (quella in
questione) di non collaborazione o comunque di pericolosità attuale,
l'altra di violazione di obblighi di comportamento. Infondata
sarebbe anche la censura ex art. 25, primo comma, Cost. prospettata
dal Tribunale di Brescia, posto che la norma costituzionale non
impedisce certo al legislatore ordinario di porre determinate
condizioni per poter godere di certi benefici nella fase esecutiva
della pena; e che, comunque, al giudice è rimessa, dalla norma in
questione, la valutazione della consistenza della collaborazione
offerta (che in certi casi può essere addirittura "oggettivamente
irrilevante").
7. - Ulteriori questioni di legittimità costituzionale sono state
sollevate nei confronti della seconda parte del comma 1 dell'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, così come sostituito dall'art. 15,
comma 1, del decreto-legge n. 306 del 1992, che recita: "Quando si
tratta di detenuti o internati per delitti commessi per finalità di
terrorismo o di eversione dell'ordinamentocostituzionale ovvero di
detenuti o internati per i delitti di cui agli articoli 575, 628
terzo comma, 629 secondo comma del codice penale e all'articolo 73,
limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'articolo 80 comma
2, del predetto testo unico approvato con decreto del Presidente
della Repubblica n. 309 del 1990, i benefici suddetti possono essere
concessi solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la
sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o
eversiva". Tale disposizione è rimasta testualmente inalterata con
la legge di conversione, ma risente delle modifiche alla prima parte
dello stesso comma precisate sub c) e d) (v. par. 1).
7.1. - Nel corso di una procedura concernente la concessione della
liberazione anticipata ad Adamoli Roberto, detenuto per delitti
commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine
costituzionale, il Tribunale di sorveglianza di Milano esponeva che
nella specie il diniego della misura era stato annullato dalla Corte
di cassazione perché non erano state assunte le informazioni
finalizzate all'acquisizione di "elementi tali da escludere
l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o
eversiva" prescritte in tali casi dall'art. 4-bis della legge n. 354
del 1975 nel testo introdotto con l'art. 1 del decreto-legge 13
maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni nella legge 12
luglio 1991, n. 203; e che, peraltro, nel frattempo, tale
disposizione era stata modificata dall'art. 15 del decreto-legge 8
giugno 1992, n. 306, con la previsione che le misure alternative alla
detenzione previste dal capo VI della legge 26 luglio 1975, n. 354
possono essere concesse "solo se non vi sono elementi tali da far
ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità
eversiva". Ciò premesso, il Tribunale ha sollevato, con ordinanza
del 10 giugno 1992 (r.o. n. 583/1992), una questione di legittimità
costituzionale di quest'ultima disposizione, assumendone il contrasto
con gli artt. 3, 24 e 27 della Costituzione. In riferimento all'art.
3, il Tribunale rimettente osserva che, al di là della sua impropria
collocazione nel capo VI della legge penitenziaria, la liberazione
anticipata realizza una riduzione di parte della pena detentiva,
abbreviandone la durata, quale premio in favore dei detenuti che
abbiano dato prova di partecipazione all'opera rieducativa, ed ha
perciò contenuto ed effetti diversi dalle vere e proprie misure alternative alla detenzione, che sono invece sostitutive di un altro
trattamento penale. Quanto agli altri parametri, il giudice a quo
sostiene che l'obbligatorietà (e non facoltatività) degli
accertamenti imposti dalla norma impugnata comporta una grave
alterazione della valenza incentivante e pedagogica dell'istituto
della liberazione anticipata e quindi un grave svilimento della
finalizzazione rieducativa della pena. Il remittente sostiene, infine, che, per le stesse ragioni, l'illegittimità costituzionale
dovrebbe essere estesa, ex art. 27 della legge n. 87 del 1953, alla
prima parte del citato art. 4-bis, comma primo, nel punto in cui
richiede obbligatoriamente, ai fini della stessa liberazione
anticipata, accertamenti in ordine alla collaborazione con la
giustizia a norma dell'art. 58-ter della stessa legge.
7.1.1. - In ordine a tale questione il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello
Stato, ha chiesto la restituzione degli atti al giudice a quo per
riesame della rilevanza, dato che la legge di conversione ha escluso
la liberazione anticipata dal novero dei benefici cui si applicano le
disposizioni restrittive introdotte con la prima parte dello stesso
comma.
7.2. - Dovendo decidere sull'istanza di liberazione anticipata
avanzata da Tripi Paolino, condannato per il delitto di rapina
aggravata (art. 628, terzo comma, cod. pen.), il Tribunale di
sorveglianza di Palermo ha sollevato, con ordinanza del 29 settembre
1992 (r.o. n. 800/1992), una questione di legittimità costituzionale
dell'art. 4-bis, primo comma, seconda parte, della legge 26 luglio
1975, n. 354, così come modificato dall'art. 15, primo comma, del
decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni,
dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui non consente la
concessione di liberazione anticipata per i condannati per i delitti
ivi indicati - tra i quali quello sopracitato - assumendone il
contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. Il Tribunale
premette, sul piano interpretativo, che l'inciso "fatta eccezione per
la liberazione anticipata", introdotto con la legge di conversione
nella prima parte dell'art. 15, va inteso nel senso che per i delitti
in questa indicati i benefici penitenziari possano essere concessi
solo a chi collabora con la giustizia, ma che per costoro sia esclusa
la concedibilità della liberazione anticipata. Ciò si ricaverebbe
"non solo dall'evidente tenore letterale della norma, ma anche dalla
lettura sistematica di tutta la normativa contenuta nella stessa
legge concernente la c.d. protezione dei collaboratori, per i quali,
se è possibile accedere ai benefici indicati nell'art. 13 della
legge 356/1992 anche in deroga alle disposizioni 'relative ai limiti
di pena', non esiste alcuna ragione trattamentale che giustifichi la
concessione soltanto di una riduzione di 45 giorni di pena per ogni
semestre". La dizione "i benefici suddetti" usata nella seconda e
terza parte della lettera a) dell'art. 4-bis significherebbe, poi,
che la liberazione anticipata sarebbe da escludere anche per le
categorie in essa indicate. Ciò si ricaverebbe, per altro verso,
"dalla constatazione che nella quarta categoria di condannati presa
in esame dall'art. 15, legge n. 356/1992 ('detenuti e internati per
delitti dolosi' per i quali 'il Procuratore Nazionale Antimafia o il
Procuratore Distrettuale comunica .. l'attualità di collegamenti con
la criminalità organizzata') si torna a fare riferimento alle
'misure alternative alla detenzione previste dal capo VI'": sicché
"se il legislatore avesse inteso comprendere la liberazione
anticipata fra i benefici concedibili alla categoria di condannati in
esame (artt. 575, 628 cpv., 629 cpv., cod. pen., 73 e 80 cpv. del
d.P.R. n. 309 del 1990), non avrebbe dovuto usare il riferimento ai
"benefici suddetti", ma avrebbe dovuto parlare di "misure alternative
alla detenzione". Tanto premesso, il giudice a quo osserva che il
divieto di liberazione anticipata per coloro che risultino condannati
"per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione
dell'ordinamento costituzionale", per omicidio volontario, per rapina
e estorsione aggravata, per detenzione di ingenti quantità di
sostanze stupefacenti, introduce nel nostro ordinamento penitenziario
una discriminazione assolutamente ingiustificata e priva di qualsiasi
ragionevolezza. Non ha infatti alcun senso, a suo avviso, che tutti i
benefici penitenziari siano esclusi qualora siano stati acquisiti
"elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la
criminalità organizzata o eversiva", mentre ove questi elementi non
vi siano il detenuto può accedere a tutti i benefici ma non alla
liberazione anticipata. In riferimento, poi, all'art. 27, terzo
comma, Cost., il Tribunale rimettente sostiene che con la norma
impugnata non si è fatto buon uso del c.d. "sinallagma carcerario",
che consente di modulare la pena detentiva in funzione della
personalità del condannato, della sua attuale pericolosità e delle
possibilità di reinserimento sociale; essendo paradossale che chi ha
dato prova di fattiva e consapevole partecipazione all'opera di
rieducazione possa accedere - sussistendone le condizioni di
ammissibilità - all'affidamento in prova al servizio sociale ed alla
semilibertà ma non anche alla liberazione anticipata.
7.2.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che la
predetta questione sia dichiarata infondata in quanto basata su un
erroneo presupposto interpretativo. L'innovazione apportata in sede
di conversione andrebbe, infatti, intesa nel senso che la liberazione
anticipata non è soggetta ad alcuna delle restrizioni e dei limiti
indicati nell'intero comma 1 dell'articolo 4-bis: il che comporta che
tale istituto, che non ha natura premiale ma consegue alla sola
corretta partecipazione all'opera di rieducazione in carcere, sarà
applicato per tutti i reati indicati nell'articolo 4-bis seguendo le
regole generali previste dall'articolo 54 in riferimento a qualunque
reato.
8. - Con due ordinanze di identico tenore emesse il 7 luglio 1992,
(r.o. nn. 774 e 775/1992), il Pretore di Venezia ha sollevato
questioni di legittimità costituzionale degli artt. da 1 a 10
(titolo I) del citato decreto-legge n. 306 del 1992, assumendone il
contrasto con l'art. 77, secondo comma, Cost. Premesso, in punto di
rilevanza, di dover applicare nei giudizi - di cui peraltro non
indica l'oggetto - quantomeno l'art. 238 cod. proc. pen., il
remittente contesta la sussistenza dei requisiti di necessità e
urgenza per introdurre con decreto-legge modifiche al codice di
procedura penale: sia perché avrebbe dovuto essere adottata la
procedura di cui all'art. 7 della legge delega n. 81 del 1987, sia
perché la sussistenza di tali requisiti non potrebbe riconoscersi
nell'esigenza di contrasto della criminalità mafiosa. Questa,
infatti, è fenomeno diffuso da decenni, e d'altra parte le modifiche
apportate dalle norme impugnate si applicano a tutti i procedimenti
penali e non solo a quelli di criminalità organizzata.
8.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che la
predetta questione sia dichiarata inammissibile, per una pluralità
di motivi, e cioè: a) perché investe un intero gruppo di
disposizioni del decreto-legge n. 306 del 1992, di contenuto
disparato e non collegate necessariamente tra di loro; b) perché non
indica quali norme entrano in gioco, e di quali istituti il giudice a
quo possa o debba fare applicazione: con la conseguenza, fra l'altro,
che non può controllarsi se le modifiche apportate dalla legge di
conversione non ne abbiano fatto venir meno la rilevanza; c) perché
la rilevanza di questioni ex art. 77 Cost. viene meno quando il
decreto-legge sia stato convertito (cfr. ordinanza n. 810 del 1988);
d) per l'inapplicabilità della procedura ex art. 7 della legge
delega, essendo incompatibili con questa talune delle innovazioni
introdotte col decreto; e) per la singolarità dell'assunto della
non-urgenza della lotta al fenomeno della criminalità mafiosa, che
è il substrato di fondo che sorregge i singoli, specifici articoli
del complesso provvedimento.
Considerato in diritto
1. - Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o
analoghe, o comunque coinvolgenti lo stesso articolo o altre
disposizioni del medesimo testo legislativo. È perciò opportuna la
riunione dei relativi giudizi.
2. - Il Pretore di Venezia, con le due ordinanze di identico
tenore indicate in epigrafe, dubita che gli artt. da 1 a 10 (titolo
I) del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 contrastino con l'art. 77,
secondo comma, della Costituzione, dato che a suo avviso non
ricorrono i requisiti di necessità ed urgenza per introdurre con
tale strumento modifiche al codice di procedura penale. La questione
è però manifestamente inammissibile perché il giudice a quo,
omettendo qualsivoglia indicazione in ordine al procedimento
principale, non ha posto la Corte in condizione di verificare la
rilevanza rispetto ad esso di tutte, o anche di una soltanto delle
disposizioni impugnate, che nell'ordinanza è solo apoditticamente
affermata.
3. - Il Tribunale di sorveglianza di Milano dubita, con l'ordinanza
indicata in epigrafe, che l'art. 4-bis, primo comma, seconda parte,
della legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo modificato con l'art.
15, primo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, nella parte
in cui prevede che ai condannati per delitti commessi per finalità
di terrorismo o di eversione dell'ordine costituzionale, la
liberazione anticipata - così come le misure alternative alla
detenzione - può essere concessa "solo se non vi sono elementi tali
da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità
eversiva", contrasti: - con l'art. 3 Cost., dato che la liberazione
anticipata ha contenuto ed effetti diversi dalle vere e proprie
misure alternative, in quanto non è sostitutiva di un altro
trattamento penale ma realizza una riduzione di parte della pena
detentiva; - con gli artt. 24 e 27, terzo comma, Cost., dato che
l'obbligatorietà dei predetti accertamenti comporta una grave
alterazione della valenza incentivante e pedagogica dell'istituto
della liberazione anticipata e quindi un grave svilimento della
finalizzazione rieducativa della pena.
3.1. - Con la legge di conversione n. 356 del 1992, la prima parte
del primo comma del predetto art. 4- bis è stata modificata, nel
senso che si è stabilito che la limitazione alla concessione dei
benefici penitenziari ai soli collaboratori con la giustizia vale per
le misure alternative alla detenzione di cui al capo VI "fatta
eccezione per la liberazione anticipata". Poiché tale locuzione,
come si dirà meglio in seguito, va intesa nel senso che la predetta
limitazione non opera per tale istituto, ne consegue che esso non è
ricompreso tra i "benefici suddetti" cui si applica la condizione
posta dalla seconda parte del primo comma. Perciò la questione in
esame deve essere dichiarata inammissibile.
4. - Muovendo dal presupposto interpretativo che l'inciso "fatta
eccezione per la liberazione anticipata" introdotto dalla legge di
conversione n. 356 del 1992 nel testo del citato art. 4-bis, primo
comma, prima parte, sia da intendere nel senso che la liberazione
anticipata non possa essere concessa neanche a coloro che collaborano
con la giustizia, e che perciò essa sia da escludere anche per i
condannati per i delitti indicati nella seconda parte del medesimo
primo comma, il Tribunale di sorveglianza di Palermo dubita, con
l'ordinanza indicata in epigrafe, che tale preclusione, per questi
ultimi, contrasti: - col principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.),
posto che sarebbe privo di giustificazione che tutti i benefici
penitenziari siano esclusi qualora siano stati acquisiti "elementi
tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la
criminalità organizzata o eversiva", mentre ove questi elementi non
vi siano il detenuto può accedere a tutti i benefici ma non alla
liberazione anticipata; - con l'art. 27, terzo comma, Cost., essendo
in contrasto con la funzione rieducativa della pena che chi ha dato
prova di fattiva e consapevole partecipazione all'opera di
rieducazione possa accedere - sussistendone le condizioni di
ammissibilità - all'affidamento in prova al servizio sociale ed alla
semilibertà ma non anche alla liberazione anticipata.
4.1. - L'interpretazione dell'inciso "fatta eccezione per la
liberazione anticipata" che il giudice a quo pone a base della
questione sollevata - e cioè che in virtù di essa tale beneficio
non sarebbe mai concedibile ai condannati per i delitti specificati
nella stessa norma, neanche se essi "collaborano con la giustizia a
norma dell'articolo 58- ter" - è contraddetta da quella adottata
dalla Corte di cassazione, da gran parte dei giudici di merito e da
questa stessa Corte (cfr. ordinanze nn. 413 e 483 del 1992, 83 del
1993). In effetti, che l'inciso in questione sia volto ad escludere
l'applicabilità alla liberazione anticipata della disposizione
limitativa in cui esso è inserito lo si deduce non solo dal dato
letterale, ma soprattutto dai lavori preparatori, univocamente
contrassegnati dall'intento di mitigare il rigore della norma
originaria del decreto-legge (come dimostrano anche le altre
modifiche inserite in sede di conversione nei commi primo e secondo
dello stesso art. 15). Sarebbe stato ben strano, del resto, che in un
testo legislativo in cui ad accentuate restrizioni nei confronti dei
condannati per reati di criminalità organizzata si accompagnano
misure di marcato favore (come quelle di cui al secondo comma
dell'art. 13) nei confronti di quanti collaborano con la giustizia,
venisse introdotta per costoro una limitazione incisiva quale
l'esclusione dalla liberazione anticipata. La questione in esame va
quindi dichiarata infondata perché poggia su un presupposto
interpretativo erroneo.
5. - Le restanti questioni, sollevate dai Tribunali di
sorveglianza di Firenze, Cagliari, Sassari, Perugia, Bari, Brescia e
Campobasso, investono le disposizioni restrittive che in materia di
misure alternative alla detenzione (ed in un caso, anche di permessi
premio) sono state dettate con l'art. 15 del decreto-legge n. 306 del
1992 - nel testo originario, ovvero in quello modificato con la legge
di conversione n. 356 del 1992 - nei confronti dei detenuti per
taluni delitti c.d. di criminalità organizzata, e cioè "per delitti
commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis
del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle
associazioni previste dallo stesso articolo nonché per i delitti di
cui agli articoli 416-bis e 630 del codice penale e all'articolo 74
del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309".
In particolare, le questioni investono:
a) la norma che dispone che per i suddetti delitti le misure
alternative alla detenzione (o i permessi premio: r.o. nn. 766, 767 e
768/1992) possono essere concesse "solo nei casi in cui tali detenuti
.. collaborano con la giustizia a norma dell'articolo 58- ter", e
cioè solo "a coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati
per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze
ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorità di polizia o
l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la
ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli
autori dei reati": art. 4-bis, lettera a), primo comma, prima parte
della legge n. 354 del 1975, nel testo modificato col primo comma
dell'art. 15 del decreto;
b) la medesima norma sub a), così come integrata dalla legge
di conversione, la quale ha previsto che "Quando si tratta di
detenuti o internati per uno dei predetti delitti, ai quali sia stata
applicata una delle circostanze attenuanti previste dagli articoli
62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto
dopo la sentenza di condanna, o 114 del codice penale, ovvero la
disposizione dell'articolo 116, secondo comma, dello stesso codice, i
benefici suddetti possono essere concessi anche se la collaborazione
che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante purché siano
stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa
l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata";
c) la norma (art. 15, secondo comma) che prevede che le misure
alternative alla detenzione di cui i detenuti per i predetti delitti
fruiscano alla data di entrata in vigore del decreto sono revocate
dal tribunale di sorveglianza a seguito di comunicazione
dell'autorità di polizia che i medesimi "non si trovano nelle
condizioni per l'applicazione dell'articolo 58-ter";
d) la norma originaria del decreto che dispone che la revoca
avvenga in base a comunicazione fatta, "ove lo ritenga",
dall'autorità di polizia che i medesimi non si trovano nelle
condizioni (collaborazione con la giustizia) per l'applicazione
dell'art. 58-ter;
e) la medesima norma, nel testo modificato dalla legge di
conversione, la quale prevede che la revoca avvenga in base alla
predetta comunicazione, ma non più discrezionale e previo
accertamento da parte del tribunale di sorveglianza
dell'insussistenza della predetta condizione.
6. - Rispetto alla norma sub c), è da precisare che, in quanto è
impugnata nel testo risultante dalla legge di conversione, essa deve
ritenersi integrata da quella specificata sub b), pur se di questa
manca un esplicito richiamo per un chiaro difetto di coordinamento.
È infatti evidente che se le condizioni considerate in tale norma
legittimano l'ammissione ai benefici in discorso, a maggior ragione
esse debbono valere a precludere la revoca di quelli già concessi.
In ragione di tale modifica, di quella alla norma sub d) specificata
sub e) e di quella alla norma sub a) indicata sub b), nonché
dell'esclusione della liberazione anticipata dal novero delle misure
considerate in tali disposizioni (cfr. par. 4.1.), per le questioni
sollevate nei confronti delle norme originarie del decreto-legge n.
306 dai Tribunali di sorveglianza di Firenze (r.o. nn. 550, 551,
552/1992), Cagliari (r.o. nn. da 565 a 580/1992) e Sassari (r.o. nn.
da 539 a 544, da 511 a 527, da 766 a 768/1992) deve disporsi la
restituzione degli atti ai giudici a quibus perché riesaminino la
rilevanza delle questioni sollevate alla stregua delle modificazioni
sopravvenute.
7. - La norma che disciplina la procedura di revoca delle misure
alternative alla detenzione (sub e)) è stata impugnata dai Tribunali
di sorveglianza di Firenze (r.o. n. 72/1993) e Perugia (r.o. nn. 67 e
108/1993) nonostante che nel testo risultante dalla legge di
conversione l'iniziativa al riguardo dell'autorità di polizia non
risulti più discrezionale (essendo stato soppresso l'inciso "ove lo
ritenga") e si preveda che, a seguito della comunicazione di detta
autorità circa la mancanza della condizione della "collaborazione
con la giustizia", il tribunale di sorveglianza dispone la revoca
"accertata l'insussistenza della suddetta condizione". Si sostiene,
al riguardo, che l'iniziativa dell'autorità di polizia è comunque
indispensabile perché sorga il procedimento di revoca, resta
discrezionale quanto alla verifica della specifica pericolosità del
caso e può essere omessa in quelli che possono essere utili ai fini
informativi. Di conseguenza, sarebbero violati: - l'art. 25, primo
comma, Cost. perché tale facoltà comporterebbe la possibile
sottrazione del potere di revoca al giudice naturale precostituito
per legge, che è il tribunale di sorveglianza; - gli artt. 101,
secondo comma e 109 Cost., perché tale discrezionalità
comporterebbe il rovesciamento del rapporto tra organo giudiziario
decidente, soggetto "soltanto alla legge", e organo informativo di
polizia; - l'art. 111, primo comma, Cost., perché la motivazione del
provvedimento sarebbe rimessa alla scelta dell'autorità di polizia.
7.1. - La questione non è fondata. Le predette censure, invero,
muovono dal presupposto che la norma attribuisca all'autorità di
polizia la facoltà discrezionale di segnalare o meno i casi di non
collaborazione all'autorità giudiziaria. Ma ciò non risulta affatto
dal testo della disposizione, la quale, stabilendo che detta
autorità "comunica" tali casi, prevede la comunicazione come
obbligatoria: il che è reso evidente dalla soppressione dell'inciso
"ove lo ritenga" contenuto nel testo originario del decreto. Che poi
l'iniziativa della comunicazione sia attribuita all'autorità di
polizia è coerente sia con le funzioni informative a questa demandate, sia con l'attribuzione ad essa del potere di avere con i
detenuti "colloqui" "al fine di acquisire informazioni utili per la
prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata"
prevista dal successivo art. 16. Il che non toglie, per altro verso,
che la magistratura di sorveglianza, ove abbia in altro modo notizia
di casi di non collaborazione, abbia il potere-dovere di promuovere
essa stessa la procedura di revoca. Né può dirsi che i poteri del
tribunale di sorveglianza siano in qualche modo menomati, perché ad
esso spetta di accertare la condizione di non collaborazione,
svolgendo al riguardo tutte le opportune verifiche.
8. - Tanto la norma (sub a)) che condiziona alla collaborazione
con la giustizia l'ammissione alle misure alternative alla
detenzione, quanto quella (sub c)) che prevede la revoca di tali
misure in caso di non collaborazione - entrambe, con l'integrazione
specificata sub b) - sono variamente censurate dai giudici a quibus
in riferimento agli artt. 27, terzo comma, 24, secondo comma, 25,
secondo comma, 3 Cost. ed al principio di ragionevolezza. Le censure
ex art. 27, terzo comma, poggiano sul presupposto che esso garantisca
al condannato il diritto a vedere riesaminato se "la quantità di
pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine
rieducativo" (sentenze nn. 204 del 1974, 343 del 1987, 282 del 1989,
125 del 1992): e la violazione consisterebbe in ciò, che in mancanza
di collaborazione con la giustizia - che peraltro nasce da una
valutazione di convenienza processuale ed è possibile in fase
esecutiva solo se quella di cognizione non si è ancora esaurita -
viene reso irrilevante il percorso rieducativo-riabilitativo già
compiuto, dal quale la collaborazione è, per altro verso,
scollegata. Tali motivi di censura varrebbero a maggior ragione in
caso di revoca di benefici già concessi, dato che in essi è stato
già riconosciuto il raggiungimento della finalità rieducativa -
sicché la pena diventa puramente afflittiva - e che, in assenza di
motivi di demerito del condannato e di possibilità del medesimo di
collaborare, viene stabilita una presunzione di non rieducabilità.
Ancora all'art. 27, terzo comma, ma anche all'art. 3 Cost. è
riferito il motivo di censura fondato sulla considerazione dei casi
in cui la collaborazione con la giustizia è impossibile, quali
quelli: di flagrante constatazione o rapida ricostruzione dei fatti
o, comunque, di completo accertamento delle responsabilità; di
partecipazione di secondo piano al delitto (ad es., nelle
organizzazioni criminali strutturate a compartimenti stagni) che non
consente di conoscere fatti e condotte dei partecipi di livello
superiore; di cessazione, a distanza di anni, dei collegamenti con
l'organizzazione criminale; di innocenti che siano vittime di errore
giudiziario. Rispetto a tali casi, il requisito della collaborazione,
da un lato si tradurrebbe - rispetto alla norma sub a) - in una pura
e semplice inammissibilità ai benefici penitenziari, contraria al
principio rieducativo (Tribunale di sorveglianza di Firenze);
dall'altra comporterebbe - ai fini della revoca (sub e)) -
un'ingiustificabile assimilazione nel trattamento penitenziario tra
chi non può prestare alcuna collaborazione e chi assume, invece, un
atteggiamento di non collaborazione o di perdurante solidarietà con
i correi (Tribunale di sorveglianza di Campobasso). Incoerente col
principio rieducativo sarebbe, inoltre, l'adozione del metodo di
tipizzazione per titoli di reato, perché il presupposto - su cui la
norma poggia - dell'inserimento del soggetto in stabili
organizzazioni criminali, da cui è impossibile o improbabile il
distacco, è suscettibile di non verificarsi, come nei casi di
aggregazioni estemporanee ed occasionali per il compimento di
sequestri di persona, o di dissoluzione del gruppo marginale, non
inserito nell'organizzazione mafiosa o dedita al traffico di
stupefacenti. Con la conseguenza che, nei casi suddetti, è precluso
un esame di merito che consenta di distinguerli da quelli in cui la
pericolosità permanga. I suesposti rilievi incentrati sui casi di
impossibilità di collaborazione e sulle conseguenze della
tipizzazione per titoli di reato, ad avviso del Tribunale di
sorveglianza di Firenze, investono la norma (sub a)) concernente
l'ammissibilità ai benefici penitenziari, anche in quanto integrata
dalla previsione (sub b)) di casi di collaborazione attenuata,
peraltro compensata dall'onere di provare un dato negativo, quale la
mancanza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata. Al
riguardo, il giudice rimettente sottolinea la ristrettezza di tali
casi, osservando che le attenuanti di cui agli artt. 62, n. 6 e 116
cod. pen. sarebbero inapplicabili al delitto di cui all'art. 74 del
d.P.R. n. 309 del 1990, la seconda sarebbe applicabile ai casi più
gravi (ad es., sequestro di persona seguito da morte dell'ostaggio)
ma non a quelli meno gravi (mancanza di tale evento), e l'attenuante
di cui all'art. 114 cod. pen. sarebbe inapplicabile nella grande
maggioranza della fattispecie di cui all'art. 4-bis, essendo esclusa
ove ricorra l'aggravante di cui all'art. 112, n. 1, cod. pen.
(concorso nel reato di cinque o più persone). Il Tribunale di
sorveglianza di Brescia aggiunge che le predette attenuanti, se non
applicate in sede di cognizione, non potrebbero essere riconosciute
nella procedura di sorveglianza, ostandovi un giudicato ormai
intangibile e - in riferimento a quella di cui all'art. 62, n. 6 -
ché non sarebbe possibile, a distanza di anni dalla condanna,
adoperarsi per evitare ulteriori conseguenze del reato. Rileva,
inoltre, che delle ipotesi di collaborazione di cui all'art. 58-ter,
l'unica concretamente possibile dopo la condanna sarebbe quella
dell'individuazione e cattura degli autori del reato. In
riferimento, poi, all'art. 24, secondo comma, Cost. i giudici a
quibus sostengono che il diritto di difesa - garantito nel
procedimento di sorveglianza in quanto questo ha natura
giurisdizionale e contenuto decisorio - sarebbe violato in ragione
del fatto che la norma impugnata, condizionando alla c.d.
collaborazione il diritto al riesame degli effetti rieducativi,
costringerebbe alla scelta di una determinata linea difensiva e
precluderebbe ogni dialettica processuale a chi, pur volendo, non
avrebbe potuto collaborare: ed aggiungono che, al di fuori della
collaborazione, è inibito al condannato di dimostrare alcunché.
Tra le ordinanze qui in esame, la censura di violazione dell'art.
25, secondo comma, Cost. è svolta dal Tribunale di sorveglianza di
Firenze anche in quella (r.o. n. 64/1993) che, in quanto emessa in un
procedimento relativo alla concessione di benefici penitenziari,
investe solo la norma sull'ammissibilità di questi. In realtà,
però, la motivazione sul punto concerne solo la retroattività della
revoca di essi: ond'è che tale censura può essere considerata -
unitamente a quelle analoghe dello stesso Tribunale (r.o. n. 72/1993)
e di quelli di Bari e di Brescia (r.o. n. 96/1993) - solo in
riferimento alla disposizione di cui al secondo comma dell'art. 15.
Le censure a quest'ultima disposizione muovono dal presupposto che il
principio di irretroattività della legge penale meno favorevole al
reo riguardi non solo la previsione della fattispecie legale di
reato, ma anche le disposizioni di natura sostanziale (quali quelle
relative alle misure alternative alla detenzione) che incidono sulla
qualità e quantità della pena. Ciò stante, i giudici a quibus
osservano che la revoca delle misure già in godimento comporta che
il regime della pena venga retroattivamente modificato in peius,
rendendo con ciò irrilevante il già compiuto percorso rieducativo-riabilitativo (r.o. n. 72/1993); ed aggiungono (r.o. n. 96/1993)
che, se è vero che è stata riconosciuta (sentenza n. 107 del 1980 e
ordinanza n. 10 del 1981) la legittimità costituzionale
dell'esclusione dall'affidamento in prova e dalla semilibertà dei
condannati per determinati delitti - e perciò lecito il ripristino
di un precedente regime più rigoroso - ciò dovrebbe valere solo per
il futuro, ma non dovrebbe autorizzare la revoca dei benefici già
concessi ai condannati per reati ormai lontani nel tempo. La norma
sulla revoca, infine, è censurata dal Tribunale di Bari in
riferimento all'art. 3 Cost. in quanto assoggetta ad identico
trattamento sia i detenuti che si siano rivelati particolarmente
meritevoli, con la loro condotta, della misura applicata, sia quelli
che abbiano serbato una condotta diversa ed abbiano commesso fatti
risultati incompatibili con la prosecuzione della misura alternativa.
9. - La normativa in esame è frutto di scelte di politica
criminale che si muovono in una triplice direzione, l'analisi delle
quali è utile premessa allo scrutinio delle censure dianzi illustrate. La prima di tali scelte consiste nell'enucleazione di una
serie di figure delittuose che, per se stesse o per le modalità
della condotta, sono espressive del fenomeno della c.d. criminalità
organizzata e nella statuizione, in via generale, che ai condannati
per tali reati non sono concedibili - e se già concessi, vanno
revocati - i benefici che comportano un sia pur temporaneo distacco,
totale o parziale, dal carcere (c.d. misure extramurali): scelta,
questa, che nel testo originario del decreto-legge si estendeva a
tutti i benefici penitenziari, e che è stata poi, in sede di
conversione, ridimensionata mantenendo la concedibilità a tutti i
detenuti della liberazione anticipata. A fronte, cioè, dell'acuto
allarme sociale creatosi nella contingenza in cui il decreto fu
emanato - ampiamente testimoniato dai lavori parlamentari - il
legislatore ha ritenuto di adottare una misura drastica, nettamente
ispirata a finalità di prevenzione generale e di tutela della
sicurezza collettiva, nella convinzione che per il contenimento del
crimine organizzato fosse necessaria una decisa inversione di
tendenza rispetto agli indirizzi della legge n. 663 del 1986:
inversione che si era già in parte manifestata con la legge n. 203
del 1991, di conversione del decreto-legge n. 152 dello stesso anno,
(nonché con i decreti-legge non convertiti che precedettero
quest'ultimo: nn. 324 del 1990, 5 e 76 del 1991). La seconda scelta
legislativa è consistita nello stabilire che, invece, tutti i
benefici penitenziari sono concedibili ai detenuti per delitti di
criminalità organizzata che si inducano a collaborare con la
giustizia. Tale indirizzo di favore per i collaboratori si era già
concretizzato, nella legislazione più recente, con l'introduzione di
specifiche attenuanti (art. 8 legge n. 203 del 1991); v. anche l'art.
630, comma settimo, cod. pen. ), l'ammissione a speciali programmi di
protezione (capo II della legge n. 82 del 1991, di conversione del
decreto-legge n. 8 del 1991) e l'esenzione dagli inasprimenti della
quota di pena necessaria per l'ammissione a taluni benefici
penitenziari (art. 58-ter, introdotto con l'art. 1 della citata legge
n. 203). Ma con il decreto-legge n. 306 del 1992 l'indirizzo è stato
significativamente rafforzato, eccettuando i collaboratori dalla
generalizzata esclusione dai benefici penitenziari prevista per gli
altri detenuti per gli stessi reati (art. 15) e stabilendo, tra
l'altro, che per coloro che sono stati ammessi a speciale programma
di protezione i benefici penitenziari siano concedibili "anche in
deroga alle vigenti disposizioni" (art. 13). Tale differenziazione
- che certo rappresenta un forte incentivo alla collaborazione - è
essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale, e non
penitenziaria: come si evince dalla stessa dichiarazione del Ministro
Guardasigilli proponente (Assemblea del Senato, seduta del 6 agosto
1992, resoconto stenografico, p. 61) che l'ha rappresentata come
"l'arma più efficace .. per contrastare la criminalità
organizzata", dato che "praticamente tutti i processi che hanno
ottenuto qualche risultato .. sono stati fondati .. sulla
collaborazione di ex appartenenti alle associazioni di stampo
mafioso". Va peraltro rilevato che lo stesso Ministro ha pure
sostenuto, nella relazione alla legge di conversione del decreto-legge n. 306 del 1992 (p. 11), che il fulcro dell'intervento
legislativo non sta solo nel contributo alle indagini che la
collaborazione comporta, ma che la scelta collaborativa è la sola ad
esprimere con certezza la volontà di emenda, onde essa assume una
valenza anche penitenziaria. Ma sotto questo profilo, non può non
convenirsi con i giudici a quibus quando sostengono che la condotta
di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni
utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non
anche segno di effettiva risocializzazione. Con la legge di
conversione, infine, si è in parte temperato il rigore dei due
predetti indirizzi, ammettendo ai benefici penitenziari anche chi
offra una collaborazione oggettivamente irrilevante nei risultati,
alla condizione che vi sia la prova dell'inesistenza di collegamenti
attuali con la criminalità organizzata. Tale condizione - già
introdotta come requisito di ammissione ai benefici penitenziari
dall'art. 1 della citata legge n. 203 del 1991 (e prima ancora, di
concessione dei permessi premio: art. 13 legge n. 55 del 1990) - è
stata peraltro assunta nella sua accezione più rigorosa (e quindi di
più difficile dimostrazione), richiedendosi non già che non sia
provata l'esistenza dei predetti collegamenti ma che sia certa la
loro insussistenza; e soprattutto ne è stata riconosciuta la
rilevanza solo per i condannati cui siano state concesse le
circostanze attenuanti di cui agli artt. 114 o 116 cod. pen., o che
abbiano provveduto, anche dopo la sentenza di condanna, al
risarcimento del danno. Si deve qui rilevare, peraltro, che, pur nei
detti limiti, si è adottato, con la condizione in questione, un
criterio pertinente all'area della prevenzione speciale, deducendosi
dalla commissione di determinati delitti di criminalità organizzata
una presunzione di persistenza dei collegamenti con questa - e quindi
di pericolosità specifica - e richiedendosi la dimostrazione della
loro rottura come requisito da aggiungere a quelli già vigenti per
l'ammissione alle misure alternative alla detenzione.
10. - Alla luce delle suesposte premesse, le censure alla
disposizione sull'ammissione ai benefici penitenziari (art. 4-bis,
lettera a), prima parte, primo e secondo periodo) riferite all'art.
27, terzo comma, Cost. non possono ritenersi fondate. Va
innanzitutto ribadito, al riguardo, che tra le finalità che la
Costituzione assegna alla pena - da un lato, quella di prevenzione
generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività
e retributività, e, dall'altro, quelle di prevenzione speciale e di
rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilità
della pena in funzione dell'obiettivo di risocializzazione del reo -
non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che
valga una volta per tutte ed in ogni condizione (cfr. sentenza n. 282
del 1989). Il legislatore può cioè - nei limiti della
ragionevolezza - far tendenzialmente prevalere, di volta in volta,
l'una o l'altra finalità dellapena, ma a patto che nessuna di esse
ne risulti obliterata. Per un verso, infatti, il perseguimento della
finalità rieducativa - che la norma costituzionale addita come
tendenziale sol perché prende atto "della divaricazione che nella
prassi può verificarsi tra quella finalità e l'adesione di fatto
del destinatario al processo di rieducazione" (sentenza n. 313 del
1990) - non può condurre a superare "la durata dell'afflittività
insita nella pena detentiva determinata nella sentenza di condanna"
(sentenza n. 282 cit.). Per altro verso, il privilegio di obiettivi
di prevenzione generale e di difesa sociale non può spingersi fino
al punto da "autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa
espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto
dell'istituto della pena" (sentenza n. 313 del 1990 cit.): tant'è
che questa Corte ha dedotto dal precetto dell'art. 27, terzo comma,
Cost. che l'incentivo ad un'attiva partecipazione all'opera di
rieducazione costituito dalla concedibilità della liberazione
anticipata non può essere precluso neanche nei confronti dei
condannati all'ergastolo (sentenza n. 274 del 1983).
11. - In questo quadro appare certamente rispondente alla esigenza
di contrastare una criminalità organizzata aggressiva e diffusa, la
scelta del legislatore di privilegiare finalità di prevenzione
generale e di sicurezza della collettività, attribuendo determinati
vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia. Non si può
tuttavia non rilevare come la soluzione adottata, di inibire
l'accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per
determinati gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione
della finalità rieducativa della pena. Ed infatti la tipizzazione
per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e
di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento
penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla
configurazione normativa di "tipi di autore", per i quali la
rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita.
Inoltre, non può non destare serie perplessità, pur in una
strategia di incentivazione della collaborazione, la vanificazione
dei programmi e percorsi rieducativi (in atto magari da lungo tempo)
che sarebbe conseguita alla drastica impostazione del decreto-legge,
particolarmente nei confronti di soggetti la cui collaborazione sia
incolpevolmente impossibile o priva di risultati utili e, comunque,
per i soggetti per i quali la rottura con le organizzazioni criminali
sia adeguatamente dimostrata. Il Parlamento, peraltro, ha corretto
tale impostazione, smentendo la tesi affacciata nella relazione alla
legge di conversione del predetto decreto - legge, secondo cui si
dovrebbe presumere pericoloso chi non collabora con risultati
rilevanti. Detta presunzione infatti, non è coerente con la
possibilità - recepita nella legge di conversione - per tutti i
soggetti, collaboranti o meno, qualunque sia stato il reato da essi
commesso, di usufruire della liberazione anticipata. Quest'ultima
disposizione ha certamente mantenuto aperta la possibilità per tutti
i detenuti che perseguono un programma di rieducazione di avvalersi
di uno degli istituti volti a tale scopo: e ciò esclude che possa
ritenersi vanificato, per i condannati di cui è questione, il
perseguimento in concreto della finalità rieducativa della pena e
perciò che sia violato l'art. 27, terzo comma, Cost. Tale
finalità, tuttavia, rimane compressa in misura rilevante per la
preclusione assoluta di tutte le misure extramurarie, delle quali il
legislatore ha riconosciuto l'utilità per il raggiungimento
dell'obiettivo di risocializzazione: ed al proposito i giudici a
quibus lamentano, più specificamente, che il principio rieducativo
sarebbe violato in una serie di casi in cui la condotta positiva
richiesta - e cioè la collaborazione - sarebbe oggettivamente
impossibile. Tra quelli che essi elencano, però, non può certo
farsi rientrare quello del condannato che assume di non poter
collaborare perché si protesta innocente, giacché dopo il giudicato
una simile evenienza può assumere giuridica rilevanza solo a seguito
dell'apposita procedura di revisione. Quanto agli ulteriori casi
menzionati, ad essi ben può essere estesa, in via interpretativa, la
disposizione aggiuntiva introdotta con la legge di conversione.
All'ipotesi in cui vi sia offerta di collaborazione oggettivamente
irrilevante nei risultati può infatti agevolmente assimilarsi, per
identità di ratio, quella in cui un'utile collaborazione non sia
possibile perché fatti e responsabilità sono già stati
completamente acclarati o perché la posizione marginale
nell'organizzazione non consente di conoscere fatti e compartecipi
pertinenti al livello superiore. Per entrambe le ipotesi, peraltro,
la concessione dei benefici è subordinata alla assenza di
collegamenti con la criminalità organizzata: ed inoltre, al fatto
che anche dopo l'accertamento giudiziale si sia provveduto al
risarcimento del danno, ovvero che la sentenza di condanna sia stata
pronunziata riconoscendo o l'attenuante di cui all'art. 62, n. 6, o
le diminuzioni di pena di cui agli artt. 114 e 116, cod. pen. Ora,
è ben vero che queste ultime - come osservano i giudici a quibus -
sono fattispecie normativamente assai ristrette, e che possono darsi
ipotesi ad esse così prossime sul piano fattuale, da poterne
sostenere ragionevolmente l'assimilazione. Ma nessuna delle ordinanze
in esame ha mosso specifiche censure in questa prospettiva, né ha,
soprattutto, dato conto, ai fini della rilevanza, di aver accertato
l'ulteriore requisito posto dalla norma in esame, costituito dalla
prova certa, nel caso oggetto del giudizio principale,
dell'inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata.
Esclusa, pertanto, la violazione dell'art. 27, terzo comma, va
altresì respinta la censura di lesione dell'art. 24, secondo comma,
della Costituzione, incentrata sul rilievo che nel procedimento per
l'ammissione alle misure alternative il detenuto non sarebbe ammesso
a provare altro che la collaborazione e sarebbe costretto alla scelta
di una determinata linea difensiva. Per costante giurisprudenza di
questa Corte, infatti, il diritto di difesa opera nei limiti della
norma sostanziale che disciplina il diritto fatto valere, sicché se
essa vi appone limiti o condizioni è giocoforza che sia solo in
quest'ambito che le ragioni difensive abbiano modo di esplicarsi.
12. - Le censure alla norma che prevede la revoca delle misure alternative alla detenzione per chi non collabori con la giustizia o
non rientri nella condizione descritta nell'art. 4-bis, lettera a),
prima parte, secondo periodo (cfr. par. 6) sono principalmente
incentrate sulla dedotta violazione del principio di irretroattività
della legge penale sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost. Circa
il presupposto da cui i giudici a quibus muovono, e cioè che detto
principio sia dettato, oltre che per la pena, anche per le
disposizioni che ne regolano l'esecuzione, può astrattamente
ipotizzarsi - nel caso che tale assunto, che potrebbe meritare una
seria riflessione, fosse riconosciuto valido - che il divieto di
introdurre siffatte innovazioni sia fatto risalire, alternativamente:
o al momento della commissione del reato; o al momento del passaggio
in giudicato della sentenza di condanna; o al momento dell'inizio
dell'esecuzione; o, ancora, al momento della maturazione dei
presupposti ovvero a quello della concessione della misura
alternativa. In relazione a ciò, si deve rilevare che i sei casi
descritti nelle ordinanze concernono la revoca della semilibertà
(cui si accede dopo l'espiazione di metà della pena) nei confronti
dei condannati per i delitti di cui all'art. 630 cod. pen. (cinque
casi) o all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, per i quali sono previsti
livelli di pena assai elevati; che la disciplina della semilibertà
ha subito nel tempo modificazioni in tema di preclusioni oggettive
alla sua concessione; che, infine, le ordinanze di rimessione non
contengono i riferimenti in fatto idonei a precisare quale fosse la
legge applicabile in ciascuno dei predetti momenti. Di conseguenza,
al di fuori dell'ipotesi in cui debba farsi riferimento all'ultimo di
questi, l'indagine sul quesito principale circa l'applicabilità
dell'art. 25, secondo comma, Cost. nella materia in esame, dovendo
necessariamente muovere dalla premessa della sua sicura rilevanza nei
giudizi a quibus, non può essere compiuta perché rischia di restare
astratta.
13. - Ciò non significa, però, che la revoca di una misura che
ha comportato una sostanziale modificazione nel grado di privazione
della libertà personale possa considerarsi fenomeno privo di rilievo
sotto il profilo costituzionale. Questa Corte ha invero più volte
riconosciuto, anche in materie - quale quella dei diritti
patrimoniali - non soggette al principio di irretroattività della
legge, che la vanificazione con legge successiva di un diritto
positivamente riconosciuto da una legge precedente non può sottrarsi
al necessario scrutinio di ragionevolezza (cfr., ad esempio, la
sentenza n. 822 del 1988 e le altre ivi citate); e ciò,
evidentemente, vale a maggior ragione nella materia in esame. Sotto
questo profilo, occorre considerare che, con la concessione della
semilibertà, l'aspettativa del condannato a veder riconosciuto
l'esito positivo del percorso di risocializzazione già compiuto si
è trasformata nel diritto ad espiare la pena con modalità idonee a
favorire il completamento di tale processo; e che alla base
dell'ammissione alla misura sta il riconoscimento giudiziale che la
pericolosità sociale del reo è talmente scemata da consentire un
parziale riacquisto della libertà personale senza apprezzabile
pericolo per la sicurezza collettiva. Ora, se si considerano i
principi costituzionali vigenti in materia penitenziaria, si deve
constatare che tra di essi va innanzitutto annoverato il principio di
colpevolezza di cui all'art. 27, primo comma, Cost. che è "criterio
garantistico (non solo) dell'irrogazione(ma anche) dell'esecuzione
della pena" (sentenza n. 282 del 1989). A tale principio, del resto,
la legislazione ordinaria in materia di benefici penitenziari si è
costantemente attenuta, dato che la revoca di essi è stata sempre
ancorata ad una condotta addebitabile al condannato (cfr. artt. 47,
comma undicesimo, 47-ter, comma sesto, 51, 51-ter, 53-bis, 54, Vcomma
terzo, della legge sull'ordinamento penitenziario); ed esso è stato
osservato - proprio per i condannati per i delitti di cui all'art.
4-bis - nello stesso testo legislativo qui in esame, che prevede
(art. 14) che la revoca dei benefici in corso di fruizione debba
essere disposta in caso di commissione di un delitto doloso punito
con pena non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione. In
materia di benefici penitenziari, questa Corte ha inoltre stabilito
il principio che l'effetto della revoca di essi deve essere
proporzionato (oltre che al quantum di afflittività che da essi è
derivato) alla gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che
ha determinato la revoca (cfr. sentenze nn. 343 del 1987 e 282 del
1989): principio che consegue a quelli di proporzionalità e
individualizzazione della pena, cui l'esecuzione deve essere
improntata, i quali a loro volta discendono dagli artt. 27, primo e
terzo comma (cfr. sentenze nn. 50 del 1980 e 203 del 1991) e 3 della
Costituzione. L'uguaglianza di fronte alla pena significa infatti
"'proporzione' della pena rispetto alle 'personali' responsabilità
ed alle esigenze di risposta che ne conseguono" (sentenza n. 299 del
1992). Esaminando la fattispecie in discorso alla stregua di questi
principi, si deve innanzitutto rilevare che essa si caratterizza per
l'assenza di motivi di demerito da parte del condannato in
semilibertà ed anzi - come alcuni dei giudici a quibus sottolineano
- per l'avanzato stadio del processo di risocializzazione. Il
requisito della collaborazione con la giustizia non è d'altra parte,
coerente con i suddetti principi, perché nell'ottica della norma
esso è strumento di politica criminale (cfr. par. 9) e non indice di
colpevolezza o criterio di individualizzazione del trattamento. È
ben vero che la collaborazione consente di presumere che chi la
presta si sia dissociato dalla criminalità e che ne sia perciò più
agevole il reinserimento sociale. Ma dalla mancata collaborazione non
può trarsi una valida presunzione di segno contrario, e cioè che
essa sia indice univoco di mantenimento dei legami di solidarietà
con l'organizzazione criminale: tanto più, quando l'esistenza di
collegamenti con quest'ultima sia stata altrimenti esclusa. In caso
di revoca della semilibertà per condannati per i delitti in
questione, giocano infatti in senso contrario - oltre alle
considerazioni generali svolte dianzi in tema di revoca - il più
specifico dato costituito dal lungo tempo normalmente trascorso dal
momento del fatto, quale si desume dall'elevatezza delle pene per
essi comminate e dalla concedibilità del beneficio solo dopo
l'espiazione di metà di quelle irrogate. I casi dedotti nel
presente giudizio sono, inoltre, quasi tutti riferiti ad un reato -
il sequestro di persona a scopo di estorsione - che può bensì far
capo ad organizzazioni criminali stabili, ma non di rado è frutto di
aggregazioni occasionali o comunque di strutture criminali
circoscritte, che tendono a dissolversi con la cattura dei
compartecipi. In siffatte condizioni, la mancata collaborazione non
può essere assunta come indice di pericolosità specifica, ben
potendo essere frutto - come i giudici rimettenti sottolineano - di
incolpevole impossibilità di prestarla, ovvero essere conseguenza di
valutazioni che non sarebbero ragionevolmente rimproverabili, quale,
ad esempio, l'esposizione a gravi pericoli per sé o per i propri
familiari che la collaborazione del condannato possa eventualmente
comportare. La norma in esame (che come già detto ricomprende
necessariamente l'ipotesi della collaborazione con esiti rilevanti),
offre peraltro un criterio che - come già si è osservato - è
coerente coi canoni di colpevolezza ed individualizzazione cui una
previsione di revoca deve conformarsi, e che è nel contempo
sufficiente a soddisfare i bisogni di tutela della sicurezza
collettiva perseguiti dal legislatore. La persistenza dei
collegamenti con la criminalità organizzata è, in effetti, un indice di pericolosità sociale che può ragionevolmente autorizzare la
revoca della misura alternativa in quanto è addebitabile al
condannato e testimonia un'effettiva carenza del processo di
risocializzazione. Ma poiché in sede di concessione della misura la
pericolosità sociale del condannato è già stata valutata ed in
tale valutazione ben può essere stato considerato - pur se all'epoca
non espressamente prescritto - l'elemento concernente la persistenza
di collegamenti con la criminalità organizzata, è logica
conseguenza dei suesposti principi - considerati anche nel loro
raccordo con quello di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. - che la
revoca non possa essere legittimamente disposta se non quando sia
stata accertata l'attuale esistenza di siffatti collegamenti. Nel
contesto di tale verifica, la mancata collaborazione con la giustizia
può certo assumere valore indiziante. Ma quando il predetto
accertamento dia esito negativo, stabilire che la misura alternativa
già concessa debba essere revocata sulla sola base della mancata
collaborazione trasmoda in regolamentazione irragionevole della
materia. L'art. 15, secondo comma, va quindi dichiarato
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che la
revoca delle misure alternative alla detenzione sia disposta, per i
condannati per i delitti di cui al primo comma che non collaborano
con la giustizia a norma dell'art. 58-ter, anche quando non sia stata
accertata la sussistenza di collegamenti attuali dei medesimi con la
criminalità organizzata.