Ritenuto in fatto
1. - Con ricorso depositato il 27 ottobre 1989, Monica Stella,
premesso di aver lavorato alle dipendenze della S.p.A. G.A.M.B.A. con
contratto di lavoro individuale a tempo parziale, ha chiesto al Pretore di Firenze, quale giudice del lavoro, di dichiarare la nullità
della clausola che stabiliva che la prestazione lavorativa sarebbe
stata svolta ad orario ridotto, "durante gli orari stabiliti dalla
Direzione, nel limite complessivo di effettivo lavoro settimanale,
pari ad ore 20"; ha chiesto altresì di condannare la società al
pagamento in suo favore della differenza tra il trattamento economico
percepito e quello che le sarebbe invece spettato in base ad un
rapporto a tempo pieno e ciò in ragione sia della dedotta nullità
della clausola limitativa dell'orario, derivante dalla mancata
specificazione per iscritto della distribuzione e dislocazione delle
ore di lavoro da prestare in ciascun giorno, sia del fatto che, a
causa dell'effettuazione di prestazioni lavorative ulteriori rispetto
alle 20 ore settimanali pattuite e collocate ad orari variabili nel
corso di ciascuna giornata, le modalità concrete di attuazione del
rapporto avevano integrato una messa a disposizione delle energie
lavorative analoga a quella del rapporto a tempo normale.
Il Pretore, con ordinanza del 10 giugno 1991 (r.o. n. 600/91) ha
osservato che, secondo l'interpretazione data dalla giurisprudenza
della Corte di cassazione, all'art. 5, secondo comma, della legge 19
dicembre 1984, n. 863, nel rapporto di lavoro a tempo parziale non è
ammissibile una modifica unilaterale dell'orario di lavoro pattuito
(Cass. 21 aprile 1986, n. 2797; Cass. 22 marzo 1990, n. 2382) ma, sul
piano genetico, è possibile adottare clausole elastiche, con le
quali le parti si limitano a determinare la durata del periodo
lavorativo senza specificarne la collocazione temporale, che viene in
tal modo rimessa alle determinazioni unilaterali del datore di lavoro
(Cass. n. 2382 del 1990 cit.). Il giudice a quo osserva altresì
che, secondo la giurisprudenza della Cassazione, la forma scritta
prevista dalla norma impugnata è richiesta ad substantiam, ma la sua
mancanza non produce altro effetto che quello derivante dalla
nullità del contratto ex art. 2126 cod. civ. (Cass. 11 luglio 1989,
n. 3266; Cass. 11 agosto 1990, n. 8169; Cass. 3 maggio 1991, n.
4811).
Ciò premesso, il giudice a quo ritiene che l'art. 5, secondo
comma, della legge 19 dicembre 1984, n. 863, così interpretato,
possa confliggere con gli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione sotto
due profili: a) in quanto non specifica la necessità che la
distribuzione dell'orario sia precisata, oltre che rispetto al
giorno, alla settimana, al mese e all'anno, altresì nella sua
collocazione temporale nell'ambito della giornata; b) in quanto non
disciplina gli effetti della mancanza di forma scritta o della
mancanza o insufficiente formulazione della clausola di distribuzione
dell'orario, da ritenere equivalente a mancanza di forma scritta, nel
senso che in tal caso il rapporto si deve intendere a tempo pieno e a
tempo indeterminato.
Con riguardo al primo profilo, il Pretore osserva che se è vero,
sulla scorta degli enunciati della Suprema Corte, che - "il rapporto
di lavoro a tempo parziale, in dipendenza della riduzione
quantitativa della prestazione lavorativa e, correlativamente, della
retribuzione, lascia al prestatore d'opera spazio per altre eventuali
attività, la cui programmabilità deve essere salvaguardata, anche
all'ovvio fine di percepire, con più rapporti a tempo parziale, una
retribuzione complessiva sufficiente a realizzare un'esistenza libera
e dignitosa" (Cass. n. 2392 del 1990 cit.; Cass. 25 febbraio 1988, n.
2027) - appare contraddittorio consentire alle parti, nel momento
genetico, di attribuire al datore di lavoro un potere unilaterale di
determinazione e di variazione dell'orario confliggente con la
lettera e la finalità della norma e suscettibile di rendere
impossibili altre attività lavorative, sì da confliggere non solo
con l'art. 36, ma anche con l'art. 38 della Costituzione, in ragione
dei riflessi previdenziali e pensionistici del rapporto di lavoro a
tempo parziale.
Con riguardo al secondo profilo, il giudice a quo ricorda che le
prescrizioni laburistiche che richiedono la forma scritta trovano la
propria giustificazione nell'esigenza di tutelare il contraente
ritenuto più debole, esigenza che, del resto, costituisce la ragion
d'essere del diritto del lavoro e della sua specialità. Il vizio di
forma, quando questa è richiesta ad substantiam produce normalmente
la nullità della clausola cui il vizio stesso afferisce, ma nel
diritto del lavoro, proprio in ragione della funzione tutoria insita
nella specialità di tale ramo del diritto, il legislatore ha
disciplinato gli effetti di tale nullità in modo non coincidente con
quello previsto dalla disciplina dei contratti in generale, al fine
di raggiungere in ogni caso l'obiettivo di tutela in funzione del
quale è stata prescritta la forma solenne.
Così, il patto di prova orale o successivo all'assunzione, nulla
disponendo l'art. 2096 sugli effetti della nullità, è tamquam non
esset, e il rapporto di lavoro nasce privo di tale clausola
limitativa, e quindi come normale rapporto di lavoro a tempo
indeterminato (Cass. 20 agosto 1987, n. 6982). L'art. 2125 viceversa
dispone espressamente la nullità della durata del patto di non
concorrenza, per la parte eventualmente eccedente il limite di legge,
ma tale nullità non ha riflessi sulla validità del contratto.
L'art. 1, comma terzo, della legge n. 230 del 1962 sancisce
l'inefficacia del termine non risultante da atto scritto, e la
conseguente prosecuzione del rapporto a tempo indeterminato, a tutela
dell'interesse del lavoratore, comunemente sussistente, al carattere
definitivo del rapporto (Cass. 28 gennaio 1987, n. 832). L'art. 8,
settimo comma, legge 29 dicembre 1990, n. 407 dispone che in mancanza
di forma scritta del contratto di formazione e lavoro il lavoratore
si intende assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Tali ultime disposizioni paiono ispirate ad una presunzione di
interesse del lavoratore al rapporto a tempo indeterminato puro,
nonché ad un valore confirmatorio della norma e sanzionatorio della
sua inosservanza mediante la trasformazione del rapporto, da tempo
determinato, o di formazione e lavoro, in rapporto a tempo
indefinito. Tale funzione sanzionatoria è ancor più evidente nella
disposizione di cui all'art. 3, nono comma, stessa legge n. 863 del
1984, secondo cui "In caso di inosservanza da parte del datore di
lavoro degli obblighi del contratto di formazione e lavoro, il
contratto stesso si considera a tempo indeterminato fin dalla data
dell'instaurazione del relativo rapporto".
Dovendosi invece l'art. 5 della legge n. 863 del 1984 intendere,
secondo il diritto vivente, nel senso che la mancanza della forma
scritta produce il solo effetto, ex art. 2126 cod. civ., dell'obbligo
di retribuire le prestazioni pregresse, ne deriva una irrazionale
contraddittorietà tra voluntas legis di tutela del lavoratore part-time ex artt. 3, 36 e 38 della Costituzione e funzione pratica di
tutta la normazione sul tempo parziale, perché la norma non regola
più il conflitto di interessi tra le parti in funzione tutoria di
quella più debole, ma pone il lavoratore a tempo parziale, il cui
contratto sia nullo per vizio di forma, alla totale mercé del datore
di lavoro. Ciò costituisce lesione dei principi costituzionali
menzionati (ove infatti il lavoratore facesse rilevare la nullità e
manifestasse o notificasse al datore la sua intenzione o volontà di
proseguire a lavorare, a tempo parziale o a tempo pieno che sia, il
datore di lavoro potrebbe porre fine immediatamente alla prestazione
lavorativa di fatto, priva di valido atto genetico). La questione
proposta - conclude il giudice a quo - appare pertanto rilevante in
causa, rispetto alla domanda formulata di condanna al pagamento della
retribuzione corrispondente ad un normale rapporto a tempo pieno, e
non manifestamente infondata, ex art. 3 della Costituzione, sotto il
profilo della diversa coerenza di tutela conseguente alla violazione
di precetti a presidio di situazioni analoghe, di pari gravità, e
parimenti fornite della garanzia della forma solenne, ed ex art. 36 e
38 della Costituzione, per il venir meno della garanzia retributiva e
previdenziale per fatto esclusivo del datore di lavoro.
Né pare ostare a tale ordine di considerazioni la preoccupazione
dell'indebito arricchimento che il lavoratore, che abbia lavorato a
tempo parziale, riceverebbe dalla conversione a posteriori del
rapporto a tempo pieno, sia perché il valore deterrente di una
disposizione in tal senso eviterebbe il verificarsi di siffatte
situazioni, sia perché il valore sanzionatorio di disposizioni
similari già comporta effetti di tal genere (come nel caso dell'art.
3, nono comma, legge n. 863 del 1984 menzionato, in cui il datore di
lavoro inadempiente ha gli obblighi corrispondenti ad un rapporto
normale, pur a fronte di un sinallagma originario che contemplava una
prestazione presuntivamente ridotta dalle esigenze di formazione).
2. - Si è costituita la parte privata aderendo alle
argomentazioni svolte nell'ordinanza di rimessione.
Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto.
Considerato in diritto
1. - La norma che il Pretore di Firenze sottopone all'esame di
questa Corte è rappresentata dall'art. 5, secondo comma, della legge
19 dicembre 1984, n. 863, secondo cui "Il contratto di lavoro a tempo
parziale deve stipularsi per iscritto. In esso devono essere indicate
le mansioni e la distribuzione dell'orario con riferimento al giorno,
alla settimana, al mese e all'anno. Copia del contratto deve essere
inviata entro trenta giorni al competente ispettorato provinciale del
lavoro".
Il Pretore premette che la Corte di cassazione ha dato a tale
norma un'interpretazione che consente anche l'adozione di clausole
"elastiche", in virtù delle quali le parti si limitano a determinare
la durata del periodo lavorativo senza specificarne la collocazione
nell'unità di tempo immediatamente più ampia, con conseguente
facoltà, per il datore di lavoro, di determinare e variare
unilateralmente, nel corso del rapporto, la collocazione temporale
della prestazione lavorativa.
Così intesa, peraltro, la norma confliggerebbe con l'art. 36
della Costituzione, in quanto il potere dell'imprenditore di
determinare e variare unilateralmente l'orario di lavoro nel rapporto
a tempo parziale, rende impossibile al lavoratore di assumere e di
programmare altre occupazioni al fine di percepire, con più rapporti
a tempo parziale, una retribuzione complessiva sufficiente a
realizzare un'esistenza libera e dignitosa. Anche l'art. 38 della
Costituzione risulterebbe violato da un simile assetto normativo, per
il pregiudizio che esso determinerebbe alla posizione previdenziale e
pensionistica del lavoratore.
Dopo aver chiesto alla Corte di dichiarare l'illegittimità
costituzionale della norma impugnata, "nella parte in cui non
specifica la necessità che la distribuzione dell'orario sia
precisata, oltre che rispetto al giorno, alla settimana, al mese e
all'anno, altresì nella sua collocazione temporale nell'ambito della
giornata", il Pretore affronta il problema delle conseguenze da
collegare alla presenza di clausole in cui manchi o sia insufficiente
la determinazione della distribuzione dell'orario. Al riguardo, il
Pretore deduce che tale ipotesi è equivalente a quella della
clausola di distribuzione dell'orario priva di forma scritta e
riferisce che la Cassazione, per quest'ultima ipotesi, ha ritenuto
che la forma scritta è richiesta ad substantiam, ma la sua mancanza
non produce altro effetto che quello derivante dalla nullità del
contratto ex art. 2126 cod. civ. A questa interpretazione si collega
la seconda censura che il giudice a quo formula nei confronti del
medesimo art. 5. Una simile disciplina, infatti - osserva il Pretore
di Firenze - appare determinare una irrazionale contraddizione con la
volontà di tutela del lavoratore a tempo parziale, che pur ispira la
stessa norma legislativa, nonché una irrazionale incoerenza con la
disciplina prevista per le altre ipotesi di nullità parziale del
contratto di lavoro subordinato, sì da confliggere con gli artt. 3,
36 e 38 della Costituzione. Il lavoratore a tempo parziale il cui
contratto sia nullo per vizio di forma è posto infatti alla totale
mercé del datore di lavoro (perché, se egli fa valere la nullità,
il datore di lavoro può porre immediatamente fine alla prestazione
lavorativa di fatto, priva di valido atto genetico), il che
costituisce lesione dei principi costituzionali sopra menzionati.
2. - L'interpretazione del citato art. 5, secondo comma, alla
quale il giudice a quo fa riferimento per la prima delle due
questioni di costituzionalità sottoposte all'esame di questa Corte,
è formulata nella sentenza della Cassazione, sezione lavoro, 22
marzo 1990, n. 2382, in cui, in effetti, si legge che "l'obbligo
della distribuzione dell'orario stabilito dal citato art. 5 l. 863
del 1984 .. non implica la necessità di determinare, oltre alla
durata unitaria, la dislocazione temporale della prestazione
lavorativa. Di guisa che nel contratto individuale possono utilmente
essere adottate clausole (cosiddette "rigide") recanti l'indicazione
sia della quantità che della collocazione temporale della
prestazione, ovvero clausole (cosiddette "elastiche"), con le quali
le parti si limitano a determinare la durata del periodo lavorativo
senza specificarne la dislocazione nell'unità di tempo
immediatamente più ampia".
Questa interpretazione è stata assunta dal Pretore di Firenze a
base e ad oggetto dell'ordinanza di remissione perché ritenuta
"diritto vivente", in ragione dell'affermazione di essa da parte del
Supremo Collegio.
Occorre invece osservare che non sussistono le condizioni perché
l'enunciato interpretativo in esame sia considerato idoneo a
rappresentare un consolidato indirizzo giurisprudenziale.
A questo riguardo, è da rilevare che l'affermazione suddetta -
che, peraltro, non risulta essere stata successivamente ripresa dalla
giurisprudenza della Cassazione - non costituiva la ratio decidendi
della richiamata pronunzia, ma rappresentava un semplice obiter
dictum. Il caso sottoposto all'esame della Cassazione, infatti,
riguardava contratti di lavoro a tempo parziale ai quali, come si
legge nella motivazione, la normativa impugnata non era applicabile,
essendo stati gli stessi conclusi prima della sua entrata in vigore.
La stessa pronunzia, del resto, dichiara che non aveva alcuna
rilevanza, nella fattispecie in esame, la questione relativa alla
dedotta essenzialità della specifica determinazione della
collocazione temporale della prestazione lavorativa.
3. - Se, quindi, non vi sono elementi per ritenere che
l'interpretazione presupposta dal giudice a quo si sia affermata come
"diritto vivente", vi è da osservare che essa non appare imposta e
neppur suggerita dai comuni canoni ermeneutici, mentre preminente
rilievo deve essere riconosciuto, in questo caso, al criterio secondo
cui, tra più significati possibili di una medesima disposizione,
l'interprete deve escludere quello, tra di essi, che non sia coerente
con il dettato costituzionale.
Sul piano letterale, la prescrizione secondo cui nel contratto di
lavoro a tempo parziale devono essere indicate, oltre alle mansioni,
anche "la distribuzione dell'orario, con riferimento al giorno, alla
settimana, al mese e all'anno" non appare poter essere interpretata
nel senso che il legislatore abbia considerato sufficiente
l'indicazione della durata della prestazione lavorativa in
riferimento ai parametri temporali specificati nella norma (e tanto
meno in riferimento ad alcuni soltanto di essi). Il ricorso al
termine "distribuzione" ed il riferimento congiunto a tutti i
parametri temporali denotano con chiarezza che il legislatore non ha
considerato sufficiente che il contratto specifichi il numero di ore
di lavoro al giorno (ovvero il numero di giorni alla settimana, al
mese o all'anno, ovvero il numero di settimane al mese o all'anno,
ovvero il numero di mesi all'anno) in cui la prestazione lavorativa
deve svolgersi, ma ha inteso stabilire che, se le parti si accordano
per un orario giornaliero di lavoro inferiore a quello ordinario, di
tale orario giornaliero deve essere determinata la "distribuzione" e
cioè la collocazione nell'arco della giornata; se le parti hanno
convenuto che il lavoro abbia a svolgersi in un numero di giorni alla
settimana inferiore a quello normale, la "distribuzione" di tali
giorni nell'arco della settimana deve essere preventivamente
determinata; se le parti hanno pattuito che la prestazione lavorativa
debba occupare solo alcune settimane o alcuni mesi, deve essere
preventivamente determinato dal contratto quali (e non solo quante)
sono le settimane e i mesi in cui l'impegno lavorativo dovrà essere
adempiuto.
In definitiva, il legislatore ha escluso, appunto,
l'ammissibilità di qualunque forma di contratto c.d. a chiamata o a
comando (ove, con tali formule si intenda far riferimento a rapporti
nei quali il contratto individuale consente al datore di lavoro di
decidere in modo unilaterale quando utilizzare il singolo
dipendente), e di certo lo ha fatto - adottando una precisa
formulazione letterale - con piena consapevolezza e con piena
intenzione, posto che simili figure contrattuali erano già presenti
nell'esperienza di alcuni paesi europei e nel dibattito che aveva
preceduto e accompagnato l'elaborazione del testo legislativo.
L'ammissibilità di un contratto di lavoro a tempo parziale nel
quale sia riconosciuto il potere del datore di lavoro di determinare
o variare unilateralmente, a proprio arbitrio, la collocazione
temporale della prestazione lavorativa, sarebbe del resto in
contraddizione con le ragioni alle quali è ispirata la disciplina di
tale rapporto. Come ha giustamente rilevato la giurisprudenza della
Cassazione, il rapporto di lavoro a tempo parziale "si distingue da
quello a tempo pieno per il fatto che, in dipendenza della riduzione
quantitativa della prestazione lavorativa (e, correlativamente, della
retribuzione), lascia al prestatore d'opera un largo spazio per altre
eventuali attività, la cui programmabilità, da parte dello stesso
prestatore d'opera, deve essere salvaguardata, anche all'ovvio fine
di consentirgli di percepire, con più rapporti a tempo parziale, una
retribuzione complessiva che sia sufficiente (art. 36, primo comma,
della Costituzione) a realizzare un'esistenza libera e dignitosa". E
su tali rilievi la medesima giurisprudenza ha basato l'affermazione
che "il carattere necessariamente bilaterale della volontà in ordine
a tale riduzione nonché alla collocazione della prestazione
lavorativa in un determinato orario (reputato dalle parti come il
più corrispondente ai propri interessi) comporta che ogni modifica
di detto orario non possa essere attuata unilateralmente dal datore
di lavoro in forza del suo potere di organizzazione dell'attività
aziendale, essendo invece necessario il mutuo consenso di entrambe le
parti" (Cass., sez. lav., 22 marzo 1990, n. 2382).
È del tutto evidente, peraltro, che le stesse ragioni che
escludono il potere del datore di lavoro di variare unilateralmente
la pattuita collocazione temporale della prestazione lavorativa
ridotta, conducono altresì ad escludere l'ammissibilità di
pattuizioni che attribuiscano al datore di lavoro un simile potere.
Clausole di questo genere, infatti, farebbero venir meno la
possibilità, per il lavoratore, di programmare altre attività con
le quali integrare il reddito lavorativo ricavato dal rapporto a
tempo parziale. Tale possibilità - come è stato osservato - deve
invece essere salvaguardata, poiché soltanto essa rende legittimo
che dal singolo rapporto il lavoratore possa ricevere una
retribuzione inferiore a quella sufficiente ad assicurare a lui e
alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
Sarebbe inoltre certamente lesivo della libertà del lavoratore
che da un contratto di lavoro subordinato potesse derivare un suo
assoggettamento ad un potere di chiamata esercitabile, non già entro
coordinate temporali contrattualmente predeterminate od
oggettivamente predeterminabili, ma ad libitum, con soppressione,
quindi, di qualunque spazio di libera disponibilità del proprio
tempo di vita, compreso quello non impegnato dall'attività
lavorativa. A questo riguardo non è superfluo ricordare quale
particolare rilievo riveste il rapporto a tempo parziale per il
lavoro femminile: per molte donne è questa, infatti, la figura
contrattuale che rende possibile il loro ingresso o la loro
permanenza nel mondo del lavoro, perché consente di contemperare
l'attività lavorativa con quegli impegni di assistenza familiare che
ancor oggi gravano di fatto prevalentemente sulla donna. Ma è chiaro
che queste esigenze verrebbero completamente obliterate ove fosse
consentito pattuire la variabilità unilaterale della collocazione
temporale della prestazione lavorativa.
Il significato proprio della rigorosa formulazione della norma
legislativa appare pienamente coerente con la necessaria salvaguardia
di tali principi e di tali esigenze. Non vi è quindi alcuna ragione
né alcuna possibilità di attribuire alla norma stessa
un'interpretazione tale da consentire la pattuizione di contratti di
lavoro a tempo parziale nei quali la collocazione temporale della
prestazione lavorativa nell'ambito della giornata, della settimana,
del mese e dell'anno non sia determinata - o non sia resa
determinabile in base a criteri oggettivi - ma sia invece rimessa
allo jus variandi del datore di lavoro.
La questione di costituzionalità in esame - fondata su un'opposta
interpretazione della norma - deve quindi essere dichiarata non
fondata.
4. - La seconda questione di costituzionalità investe, come già
si è rilevato, la disciplina applicabile - secondo la giurisprudenza
della Cassazione - al contratto di lavoro a tempo parziale privo
della forma scritta richiesta dal comma secondo del citato art. 5,
ipotesi alla quale il giudice a quo ritiene assimilabile quella della
clausola di distribuzione dell'orario priva della necessaria
determinatezza.
Per il profilo che ha riguardo al difetto di forma scritta del
contratto di lavoro a tempo parziale o della clausola di riduzione e
di distribuzione dell'orario, la questione non può essere esaminata
perché priva di rilevanza nel giudizio
a quo.
Nel caso che il Pretore di Firenze deve decidere, infatti, il
contratto era stato stipulato per iscritto e scritta era altresì la
clausola che regolava la distribuzione dell'orario rimettendola alla
determinazione unilaterale del datore di lavoro. La contrarietà alla
legge della clausola pattuita attiene al contenuto e non alla forma
di essa ed un'eventuale identità o connessione di profili logici e
giuridici non toglie che la questione relativa agli effetti del vizio
di forma è diversa dalla questione relativa agli effetti della
contrarietà a norme imperative del contenuto sostanziale della
clausola di distribuzione dell'orario.
5. - Per gli stessi motivi deve escludersi che - con riferimento
alla disciplina degli effetti di una clausola di distribuzione
dell'orario priva della necessaria determinatezza e che lasci al
datore di lavoro il potere di decidere unilateralmente, nel corso del
rapporto, la collocazione temporale della prestazione lavorativa - vi
sia un'interpretazione giurisprudenziale consolidata - conforme a
quella che il giudice a quo ha posto a base della questione - secondo
cui dalla nullità di una simile clausola deriverebbe, o potrebbe
derivare, la nullità dell'intero contratto, con conseguente
applicazione dell'art. 2126 cod. civ.
L'indirizzo della Cassazione richiamato nell'ordinanza di
rimessione ha infatti riguardo ad ipotesi di contratti di lavoro a
tempo parziale ritenuti nulli per difetto di forma scritta, sicché
la ratio decidendi di tali sentenze non coinvolge direttamente la
soluzione interpretativa presupposta dalla questione di
costituzionalità che il Pretore di Firenze sottopone all'esame di
questa Corte.
Di tale soluzione interpretativa deve quindi essere esaminata la
validità, prima di poter basare su di essa una censura di
incostituzionalità della norma legislativa. Ed anche in questo caso
viene in rilievo il fondamentale principio ermeneutico, secondo cui
l'interprete deve comunque escludere, tra più significati possibili
di una disposizione, quello che non sia coerente con il dettato
costituzionale, cosicché una legge non può essere ritenuta
invalida, perché incostituzionale, fino a quando ne sia possibile
un'interpretazione costituzionalmente conforme.
6. - Nel caso di nullità della clausola di riduzione e
distribuzione dell'orario, la nullità dell'intero contratto di
lavoro (e la conseguente applicabilità della sola salvaguardia
prevista dall'art. 2126 cod. civ.) è stata sostenuta principalmente
sulla base dell'art. 1419, primo comma, cod. civ., secondo cui la
nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole
importa la nullità dell'intero contratto, se risulta che i
contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo
contenuto che è colpita dalla nullità.
È da condividere l'opinione del Pretore di Firenze, secondo cui
sarebbe palesemente irrazionale che dalla violazione di una norma
imperativa regolante il contenuto del contratto di lavoro a tempo
parziale e posta proprio al fine di tutelare il lavoratore contro la
pattuizione di clausole vessatorie, potesse derivare la liberazione
del datore di lavoro da ogni vincolo contrattuale. Se questi fossero
gli effetti della normativa in esame, essa di certo non sarebbe in
sintonia con la Costituzione.
Ma la suddetta paradossale conclusione non è certamente imposta
dall'ordinamento legislativo.
L'art. 1419, primo comma, infatti, non è applicabile rispetto al
contratto di lavoro, allorquando la nullità della clausola derivi
dalla contrarietà di essa a norme imperative poste a tutela del
lavoratore, così come, più in generale, la disciplina degli effetti
della contrarietà del contratto a norme imperative trova in questo
campo (come anche in altri) significativi adattamenti, volti appunto
ad evitare la conseguenza della nullità del contratto. Ciò, in
ragione del fatto che, se la norma imperativa è posta a protezione
di uno dei contraenti, nella presunzione che il testo contrattuale
gli sia imposto dall'altro contraente, la nullità integrale del
contratto nuocerebbe, anziché giovare, al contraente che il
legislatore intende proteggere. Così non si dubita che non si
estende all'intero contratto la nullità, per motivi di forma o di
contenuto, del patto di prova (art. 2096 cod. civ.) o del patto di
non concorrenza (art. 2125), oppure del patto con cui venga
attribuito al datore di lavoro un potere illimitato e incondizionato
di variare unilateralmente le mansioni o il luogo di lavoro (art.
2103, secondo comma) ovvero della clausola appositiva di un termine
alla durata del contratto di lavoro (legge 18 aprile 1962, n. 230),
ovvero della clausola che preveda la risoluzione del rapporto di
lavoro in caso di matrimonio (art. 1 legge 9 gennaio 1963, n. 7), e
così via. Ed il medesimo assetto si registra anche rispetto a
pattuizioni che incidono sullo stesso schema causale del contratto:
così è per l'apprendistato (legge 19 gennaio 1955, n. 25 e successive modificazioni) e per il contratto di formazione lavoro (art. 3
decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726 e art. 8 legge 29 dicembre
1990, n. 407), posto che la nullità delle relative pattuizioni - per
motivi di forma o procedimentali ovvero per difetto delle condizioni
sostanziali di ammissibilità di tali figure contrattuali - non è
comunque idonea a travolgere integralmente il contratto, ma ne
determina la c.d. conversione in un "normale" contratto di lavoro (o
meglio, la qualificazione del rapporto come normale rapporto di
lavoro, in ragione della inefficacia della pattuizione relativa alla
scelta del tipo contrattuale speciale) senza che vi si spazio per
l'indagine - oggettiva o soggettiva - circa la comune volontà dei
contraenti in ordine a tale esito.
Tutto ciò, del resto, rappresenta una naturale e generale
conseguenza del fatto che, nel campo del diritto del lavoro - in
ragione della diseguaglianza di fatto delle parti del contratto,
dell'immanenza della persona del lavoratore nel contenuto del
rapporto e, infine, dell'incidenza che la disciplina di quest'ultimo
ha rispetto ad interessi sociali e collettivi - le norme imperative
non assolvono solo al ruolo di condizioni di efficacia giuridica
della volontà negoziale, ma, insieme alle norme collettive, regolano
direttamente il rapporto, in misura certamente prevalente rispetto
all'autonomia individuale, cosicché il rapporto di lavoro, che pur
trae vita dal contratto, è invece regolato soprattutto da fonti
eteronome, indipendentemente dalla comune volontà dei contraenti ed
anche contro di essa. Non hanno quindi modo di trovare applicazione,
in questo campo, quei limiti alla operatività del principio di
conservazione del rapporto che sono strettamente collegati
all'identificazione nel contratto della fonte primaria del
regolamento negoziale, come si verifica nell'ambito della disciplina
comune dei contratti. E la violazione del modello di contratto e di
rapporto imposto all'autonomia individuale dà luogo, di regola, alla
conformazione reale del rapporto concreto al modello prescritto - per
via di sostituzione o integrazione della disciplina pattuita con
quella legale ovvero per via del disconoscimento di effetti alla sola
disposizione contrattuale illegittima - e non già alla riduzione del
rapporto reale ad una condizione di totale o parziale irrilevanza
giuridica.
L'art. 2126 cod. civ., del resto - come risulta dall'esame della
giurisprudenza - ha sempre trovato applicazione rispetto ad ipotesi
in cui la nullità del contratto derivava dalla contrarietà a norme
imperative riguardanti il fatto stesso della costituzione e
dell'esistenza del rapporto (ad esempio, ipotesi in cui l'esercizio
di una determinata attività lavorativa era condizionata
all'iscrizione in un albo o elenco o al possesso di una determinata
autorizzazione; ipotesi in cui l'instaurazione del rapporto era
vietata da una norma di legge, come si verifica per le assunzioni
senza concorso ove tale procedimento sia prescritto dalla legge a
pena di nullità; ipotesi di lavoro prestato da minori di età
inferiore a 14 anni; e così via) e non anche ad ipotesi di
difformità tra la disciplina del rapporto pattuita dalle parti
rispetto a quella dettata dalla legge o dalla contrattazione
collettiva.
Deve quindi escludersi che, nell'ipotesi di nullità della
clausola di riduzione e distribuzione dell'orario di lavoro che dia
al datore di lavoro il potere di variare liberamente e
unilateralmente la collocazione temporale della prestazione
lavorativa, si possa verificare l'estensione della nullità
all'intero contratto.
7. - La configurazione da dare alla fattispecie che risulta da
tale evenienza costituisce un problema suscettibile di una pluralità
di soluzioni, la scelta tra le quali dipende dalle caratteristiche
del caso concreto ed anche da opzioni interpretative che spettano ai
giudici ordinari e non alla Corte.
Non può quindi trovare avallo, in questa sede, l'implicazione che
il giudice a quo ha chiesto invece alla Corte di dichiarare, e cioè
che in caso di nullità della clausola di distribuzione dell'orario
il rapporto si deve intendere a tempo pieno, con conseguente diritto
alla retribuzione integrale per il periodo pregresso.