Ritenuto in fatto
1. - In un giudizio civile promosso da taluni dipendenti dell'Alfa
Romeo, per ottenere l'inquadramento della quarta (in luogo che nella
terza) categoria retributiva (di cui al C.C.N.L. 16 luglio 1979 dei
metalmeccanici), l'adito Pretore di Napoli, rilevato che i ricorrenti
non risultavano adibiti ad attività proprie della categoria
rivendicata e pur tuttavia, nell'ambito di un gruppo integrato non
omogeneo (Gino), svolgevano gli stessi compiti assegnati ad altri
lavoratori inquadrati nella predetta categoria quarta, ha ritenuto
rilevante e non manifestamente infondata, onde ha sollevato, con
ordinanza del 18 novembre 1986 (pervenuta alla Corte il 5 luglio
1988), in riferimento all'art. 41 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2095, 2096 e 2103
del codice civile "nella parte in cui consentono all'imprenditore di
attribuire ai dipendenti, a parità di mansioni e nello stesso
reparto, diversi livelli o categorie generali di inquadramento
retributivo".
E ciò in contrasto con il principio di rispetto della "dignità
umana" del lavoratore. Nel quale, appunto, si rifletterebbe - secondo
il giudice a quo - l'esigenza della "uguale retribuzione per uguale
lavoro", "alla stregua dei valori etici e politici vigenti nella
società, desumibili anche dalle scelte normative interne ed
internazionali, assunte ai vertici dello Stato".
2. - Nel giudizio innanzi alla Corte, si è costituito il Credito
Italiano (nella sua qualità di successore per incorporazione
dell'Alfa Romeo S.p.a.) eccependo l'inammissibilità della questione
per carenza di motivazione in ordine alla sua rilevanza nel giudizio
a quo (atteso che il Pretore avrebbe omesso di valutare la pur
decisiva circostanza che "gli altri dipendenti, di quarta categoria,
avevano ottenuto il correlativo inquadramento prima di essere adibiti
allo stesso reparto in cui operavano i ricorrenti"). E, in subordine,
ha contestato il fondamento dell'impugnativa.
Analoga conclusione di infondatezza della questione ha rassegnato
anche l'Avvocatura per l'intervenuto Presidente del Consiglio dei
ministri, all'uopo osservando:
che "l'eventuale ed ipotetica situazione svantaggiosa del
lavoratore dipende esclusivamente dall'autonomia dell'imprenditore e
dall'incontro delle volontà contrattuali e non invece dal complesso
delle disposizioni denunziate, che, dal canto loro, consentono e non
vietano (sono cioè di natura ampliativa e non restrittiva della
sfera giuridica dei destinatari) un diverso trattamento a parità di
mansioni";
che, comunque, non potrebbe farsi discendere dall'art. 41 della
Costituzione il preteso divieto all'attribuzione, non in funzione
discriminatoria, di diversi livelli di inquadramento retributivo a
parità di mansioni, "atteso che la tutela della dignità del
lavoratore non postula l'imposizione di una parità di trattamento
stipendiale".
Considerato in diritto
1. - Il Pretore di Napoli dubita della legittimità costituzionale
degli artt. 2086, 2087, 2095, 2099, 2103 del codice civile nella
parte in cui consentono all'imprenditore di attribuire ai dipendenti,
a parità di mansioni, diversi livelli o categorie generali di
inquadramento retributivo, in quanto risulterebbe violato l'art. 41
della Costituzione perché sarebbe compresso il diritto dei
lavoratori al rispetto della loro dignità umana, in ispregio dei
limiti che il richiamato precetto costituzionale impone alla libertà
di iniziativa economica.
2. - La questione non è fondata.
In base all'art. 2095 del codice civile, nel testo sostituito
dall'art. 1 della legge 13 maggio 1985, n. 190, i lavoratori
subordinati si classificano in quattro categorie: dirigenti, quadri,
impiegati ed operai.
Le leggi speciali e i contratti collettivi (ora anche i contratti
aziendali) determinano i requisiti di appartenenza alle dette
categorie in relazione a ciascun ramo della produzione e alla
particolare struttura dell'impresa.
Ma la contrattazione collettiva, stabilendo i detti requisiti, ha
creato, a volte, altre categorie (c.d. contrattuali) che si pongono
accanto a quelle legali.
Essa e, dopo lo Statuto dei lavoratori, la contrattazione
aziendale, consentono di tenere conto delle situazioni aziendali,
alcune volte complesse, e delle situazioni e delle condizioni dei
lavoratori (età, anzianità di lavoro ecc...). Sono poste anche
delle tecniche di classificazione, quali le declaratorie generali, le
definizioni generali delle posizioni dei lavoratori, i profili
professionali ecc.... All'interno delle categorie, comunque, si dà
rilievo precipuo, specie ai fini retributivi, alle mansioni svolte di
fatto dal lavoratore, in base alle quali si determinano le qualifiche
professionali ed ora i livelli retributivi.
Ormai, però, si tende a superare la rigida distinzione in
categorie, ad avvicinare, per esempio, gli operai agli impiegati e ai
quadri che hanno una posizione intermedia.
Per quanto riguarda le mansioni, l'art. 2103 del codice civile,
sostituito dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d.
Statuto dei lavoratori), prevede l'obbligo del datore di lavoro di
destinare il lavoratore alle mansioni per cui lo ha assunto o a
mansioni equivalenti, senza, però, diminuzione di retribuzione, o
alla categoria superiore successivamente acquisita. Sicché può
affermarsi che nella determinazione delle mansioni e dei conseguenti
livelli retributivi, l'autonomia del datore di lavoro, cui spetta
l'organizzazione dell'azienda, è fortemente limitata dal potere
collettivo, ossia dai contratti collettivi e dai contratti aziendali.
Tali contratti, quali estrinsecazioni del potere delle
associazioni sindacali, sono frutto e risultato di trattative e
patteggiamenti e costituiscono una regolamentazione che, in una
determinata situazione di mercato, è il punto di incontro, di
contemperamento e di coordinamento dei confliggenti interessi dei
lavoratori e degli imprenditori.
Ma per tutte le parti, anche quelle sociali, vige il dovere di
rispettare i precetti costituzionali. Essi assicurano, in via
generale, la tutela del lavoro (art. 35 della Costituzione);
l'elevazione morale e professionale dei lavoratori; la
proporzionalità tra retribuzione e quantità e qualità di lavoro e
la sufficienza, in ogni caso, di essa perché sia assicurata al
lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa; e,
in via più specifica, la pari dignità sociale anche dei lavoratori;
pongono il divieto di effettuare discriminazioni per ragioni di
sesso, di razza, di lingua e di religione (art. 3 della
Costituzione), anche se sono tollerabili e possibili disparità e
differenziazioni di trattamento, sempre che siano giustificate e
comunque ragionevoli.
Alla donna lavoratrice si devono assicurare gli stessi diritti dei
lavoratori e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni; i minori,
a parità di lavoro, hanno diritto alla parità di retribuzione (art.
37 della Costituzione).
I principi costituzionali di tutela della dignità sociale e di
divieto di discriminazioni nel campo del lavoro sono stati
testualmente trasfusi nello Statuto dei lavoratori.
Gli artt. 15 e 16 sanciscono espressamente il divieto di atti
discriminatori, ivi compresi i trattamenti di maggior favore,
nell'impiego del lavoratore, nell'organizzazione del lavoro e nella
gestione del rapporto da parte del datore di lavoro e,
specificamente, nell'assegnazione di qualifiche e mansioni.
Il datore di lavoro deve astenersi dal compiere atti che possano
produrre danni e svantaggi ai lavoratori, cioè lesioni di interessi
economici, professionali e sociali; in particolare, dell'interesse
allo sviluppo professionale (riferito sia alla carriera che alla
valorizzazione delle relative capacità).
La vasta serie di interessi dei quali è portatore il lavoratore
è protetta anche per la sfera esterna all'azienda: sono protetti non
solo gli interessi di natura economico-professionale ma altresì
quelli personali e sociali.
La dignità sociale del lavoratore è tutelata contro
discriminazioni che riguardano non solo l'area dei diritti di
libertà e l'attività sindacale finalizzata all'obiettivo
strumentale dell'autotutela degli interessi collettivi, ma anche
l'area dei diritti di libertà finalizzati allo sviluppo della
personalità morale e civile del lavoratore. La dignità è intesa
sia in senso assoluto che relativo, cioè per quanto riguarda la
posizione sociale e professionale occupata dal cittadino nella
qualità di prestatore di lavoro dipendente.
Risulta notevolmente limitato lo ius variandi del datore di
lavoro, mentre, proprio in virtù del precetto costituzionale di cui
all'art. 41 della Costituzione, il potere di iniziativa
dell'imprenditore non può esprimersi in termini di pura
discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto
da una causa coerente con i principi fondamentali dell'ordinamento ed
in ispecie non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o
in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla
dignità umana.
Le norme richiamate sono, peraltro, anche attuazione dei principi
contenuti in vari atti e convenzioni internazionali. E cioè della
Dichiarazione dei diritti dell'uomo, resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, secondo cui ogni individuo, senza
discriminazioni, ha diritto a uguale retribuzione per uguale lavoro;
della Convenzione Generale dell'Organizzazione internazionale del
lavoro del 6/22 giugno 1962, ratificata con legge 13 luglio 1966, n.
657 (art. 14) secondo cui uno degli scopi della politica sociale
degli Stati stipulanti o aderenti deve essere quella di sopprimere
ogni discriminazione basata sulla razza, il colore, il sesso, la
fede, l'appartenenza ad un gruppo tradizionale o alla iscrizione
sindacale: e ciò con specifico riguardo, tra l'altro, alla materia
dei tassi di salario, i quali dovranno essere stabiliti in
conformità del principio "a lavoro uguale salario uguale" in uno
stesso processo produttivo ed in una stessa impresa; e,
all'identificazione di tale scopo, si aggiunge l'impegno ad adottare
ogni misura pratica per ridurre tutte le differenze retributive
nascenti da discriminazioni del tipo suddetto ed a migliorare il
trattamento economico dei lavoratori meno retribuiti.
Principi analoghi sono contenuti nel Patto internazionale relativo
ai diritti economici sociali e culturali, adottato a New York il 16 e
19 dicembre 1966, ratificato dall'Italia con la legge 25 ottobre
1977, n. 881, secondo cui al lavoratore deve essere assicurato un
salario equo ed una remunerazione eguale per lavoro di valore eguale,
senza alcuna distinzione.
È demandato al giudice l'accertamento e il controllo
dell'inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli
retributivi in base alle mansioni effettivamente svolte, con
osservanza della regolamentazione apprestata sia dalla legge, sia
dalla contrattazione collettiva ed aziendale, e con il rispetto dei
richiamati precetti costituzionali e dei principi posti in via
generale dall'ordinamento giuridico vigente, ispirato, come si è
detto, anche ai principi contenuti nelle convenzioni e negli atti
internazionali regolarmente ratificati. Il giudice deve provvedere
alle necessarie verifiche ed ha il potere di correggere eventuali
errori, più o meno volontari, perché il lavoratore riceva
l'inquadramento che gli spetta nella categoria o nel livello cui ha
diritto.