Ritenuto in fatto
1. - Fra il 1961 e il 1964 nell'ambito del Parco Nazionale
d'Abruzzo, si costruivano trenta villette, una rete stradale di
collegamento per la creazione di un centro residenziale nel
territorio del Comune di Lecce dei Marsi. Ritenendosi prodotto un
danno ambientale di natura erariale, il Procuratore Generale della
Corte dei Conti iniziava giudizio per responsabilità amministrativa
a carico di coloro che erano risultati autori del danno e cioè gli
amministratori del Comune, il Presidente dell'Ente Parco, i
componenti della Giunta Provinciale amministrativa di L'Aquila, un
Vice-prefetto e un sottosegretario al Ministero dell'Agricoltura e
Foreste. Essi venivano condannati al risarcimento dei danni per
importi di varia entità.
Costoro proponevano appello.
Essendo nelle more intervenuta la legge 8 luglio 1986 n. 349,
istitutiva del Ministero per l'Ambiente, la quale all'art. 18 ha
demandato i giudizi per il risarcimento dei danni alla compe tenza
del giudice ordinario, le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, con
ordinanza del 1° ottobre 1986 (R.O. n. 830/86) hanno sollevato, in
riferimento agli artt. 103, secondo comma, e 25 Cost., questione di
legittimità costituzionale del detto articolo 18 nella parte in cui
ha devoluto al giudice ordinario la materia relativa al risarcimento
per danno ambientale, salva la giurisdizione della Corte dei Conti in
limitate ipotesi di responsabilità amministrativo-contabile.
2. - Sul primo profilo le Sezioni remittenti hanno rilevato che,
mentre la norma primaria individua una competenza tendenzialmente
generale della Corte dei Conti nelle materie di contabilità
pubblica, la disposizione impugnata sembra limitare il suo ambito in
quanto difettano ragionevoli tratti differenziali tra la
responsabilità per danni ambientali e la responsabilità per danni
arrecati ad altri beni pubblici.
A parere delle Sezioni Riunite, il nucleo storico e fondamentale
della giurisdizione della Corte dei Conti, presente al Costituente,
in sede di redazione dell'art. 103, secondo comma, sarebbe costituito
oltre che dal giudizio sui conti (cioè nei confronti dei contabili)
anche da quello nei confronti dell'impiegato che, per azione od
omissione, anche solo colposa, nell'esercizio delle sue funzioni,
cagioni danno allo Stato, come precipuamente emerge dal T.U. delle
norme sulla contabilità dello Stato approvato con R.D. 18 novembre
1923 n. 2440, nonché dal coevo R.D. n. 2441, recante modifiche di
alcune norme della legge istitutiva della Corte dei Conti.
Il precetto costituzionale rimarrebbe, in pratica, svuotato di
contenuto ove lo si ritenesse idoneo a garantire l'estensione della
giurisdizione amministrativa contabile, almeno alle materie
riconducibili a tale nucleo fondamentale perché si riconoscerebbe al
legislatore ordinario il potere di ridurre tale estensione secondo le
sue scelte discrezionali pur in presenza di tutti gli elementi che,
tradizionalmente, giustificherebbero l'assoggettamento di tale
materia a quella giurisdizione.
D'altra parte per il danno ambientale imputabile a responsabilità
di pubblici dipendenti sussisterebbero tutti i presupposti di
siffatto assoggettamento sia sotto il profilo soggettivo che sotto
quello oggettivo.
In contrario non potrebbe invocarsi una presunta necessità di
unitaria cognizione dell'unico fatto causativo del danno nel quale
concorressero pubblici funzionari e soggetti privati o delle diverse
azioni dannose concorrenti di costoro poiché nel vigente ordinamento
sussiste la regola della ripartizione della cognizione del medesimo
danno unitariamente prodotto dal pubblico funzionario, il quale ne
risponde davanti alla Corte dei Conti, e dal privato, il quale ne
risponde davanti al giudice ordinario. Inoltre la materia della
responsabilità patrimoniale dei pubblici funzionari, che
nell'esercizio delle loro attribuzioni abbiano recato danno ai beni
ambientali, inteso come danno allo Stato, quale ente esponenziale
della collettività generale, è stata individuata dalla
giurisprudenza della Corte dei Conti, che ha ricostruito il relativo
modello giuridico in termini corrispondenti a quelli fatti propri dal
legislatore con la legge n. 349 del 1986.
2.1 - Per l'altro profilo (violazione dell'art. 25, primo comma,
Cost.), il giudice a quo ha rilevato che, ove si affermi l'esistenza
di una riserva costituzionale di giurisdizione della Corte dei Conti
ex art. 103 Cost., non potrebbero essere sottratti al giudice
naturale, individuabile alla stregua di tale ultima norma, i
funzionari pubblici responsabili di danno allo Stato. Tanto più se
si considerino le peculiarità strutturali di detta giurisdizione
rispetto a quella ordinaria: cioè l'affidamento del potere di azione
ad un organo pubblico neutrale posto a difesa degli interessi dello
Stato-ordinamento; i poteri ufficiosi di acquisizione delle prove,
non limitati dall'iniziativa delle parti; il potere del giudice di
porre a carico del responsabile anche solo una parte del danno
accertato.
La necessità dell'attribuzione alla giurisdizione della Corte dei
Conti della materia della responsabilità verso lo Stato dei pubblici
funzionari, giustificata dalle peculiarità, appare particolarmente
evidente dalla individuazione della responsabilità di organi di
vertice dell'Amministrazione: ad esempio, la disposizione impugnata,
non contenendo alcuna previsione circa la proposizione dell'azione
risarcitoria allorché autore del danno ambientale sia un Ministro o
altro organo di vertice che abbia agito per delega di questo, si
risolve in una causa di insufficiente tutela della collettività, che
non può giovarsi del potere di azione proprio del Procuratore
Generale presso la Corte dei Conti (artt. 82 della legge di
contabilità di Stato e 52 del T.U. delle leggi sulla Corte dei
Conti).
3. - Il medesimo giudice ha denunciato la stessa disposizione con
ordinanza emessa il 9 gennaio 1987 (Reg. Ord.
n. 221 del 1987) nel procedimento di appello avverso la decisione
parziale del 30 aprile 1985, con la quale la 1ª sezione
giurisdizionale della Corte dei Conti aveva, fra l'altro, affermato
la sussistenza della propria giurisdizione in un caso di azione
promossa dal Procuratore Generale presso la Corte stessa nei
confronti di taluni amministratori del Comune di Vasto e di altri
pubblici funzionari per il risarcimento del danno ambientale
provocato dalla realizzazione abusiva di determinate opere in
località Punta Penne (zona vincolata dal piano regolatore generale
di detto Comune), con riferimento alle quali i convenuti avevano
omesso di provvedere all'applicazione delle sanzioni pecuniarie di
legge.
La censura è stata proposta in riferimento all'art. 5 e, sotto
diverso profilo, ancora all'art. 103, secondo comma, Cost.
A sostegno della dedotta violazione della prima di dette norme si
assume che nel caso in cui la giurisdizione in subiecta materia fosse
conservata alla Corte dei Conti, la tutela dell'interesse dello Stato
sarebbe pienamente realizzata dalla imparzialità del Procuratore
Generale della Corte dei Conti, costituente indiretta garanzia
dell'esercizio dell'azione di danno; per converso, la facoltatività
dell'azione innanzi all'Autorità giudiziaria ordinaria in sede
civile, rimessa all'apprezzamento dell'Avvocatura dello Stato o degli
organi degli enti locali, si risolverebbe in un difettoso meccanismo
che non garantirebbe l'inderogabile tutela degli interessi delle
singole collettività locali e, di riflesso, dell'intera
collettività, perché le stesse persone fisiche potrebbero essere
nel contempo legittimate a deliberare la proposizione del giudizio di
responsabilità e poi esserne le convenute con tutte le conseguenti
possibili e notevoli ripercussioni sull'autonomia degli enti locali
che tali amministratori esprimono.
Il contrasto con l'art. 103, secondo comma, Cost., viene
prospettato sotto il profilo che le deroghe alla giurisdizione della
Corte dei Conti in tema di responsabilità per danni arrecati allo
Stato sono state "storicamente" apportate solo in ragione delle
funzioni di particolari categorie di soggetti (es., amministratori di
enti pubblici economici) e non anche per motivi oggettivi concernenti
la specie del danno.
4. - In entrambe le ordinanze per la rilevanza della questione si
osserva che la norma impugnata, per la sua natura processuale, è di
immediata applicazione nei giudizi pendenti, talché l'esame della
sua legittimità costituzionale riveste carattere di necessaria
pregiudizialità. Le ordinanze sono state regolarmente notificate e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale.
5. - Si sono costituiti taluni degli appellanti nei giudizi a
quibus ed hanno sollecitato la declaratoria di infondatezza della
questione. A tal fine, le rispettive difese hanno concordemente
rilevato che l'art. 103, secondo comma, Cost. distingue due settori
della giurisdizione della Corte dei Conti, uno solo dei quali può
ritenersi ad essa costituzionalmente riservato e cioè quello
attinente alle "materie di contabilità pubblica"; mentre ogni altra
competenza è "attribuita dalla legge" e, quindi, fuori di tale
riserva. Fra le competenze non riservate si colloca anche quella
attinente all'adempimento dei doveri di tutti gli agenti i quali, pur
non avendo maneggio di pubblico denaro o specifica custodia dei beni
pubblici, tuttavia, col loro comportamento, nell'espletamento del
rapporto di servizio, in senso lato, che li lega alla pubblica
amministrazione, possono cagionare danni destinati a ripercuotersi
direttamente o indirettamente sulle pubbliche finanze. In questi casi
l'attribuzione della giurisdizione alla Corte dei Conti non deriva
dall'appartenenza delle controversie alla materia della "contabilità
pubblica", ma da una valutazione discrezionale del legislatore,
fondata su considerazioni di opportunità politica, circa la maggiore
idoneità di detto giudice, rispetto a quello ordinario, alla
decisione delle controversie medesime.
La non riconducibilità della materia della responsabilità
amministrativa a quella della "contabilità pubblica" si apprezza poi
in modo particolare quando, come nella specie, si tratti di
responsabilità per danno all'ambiente, per la natura di esso di bene
immateriale non configurabile tecnicamente come patrimonio dello
Stato, ma come utilità della collettività generale, verso la quale
l'amministrazione ha doveri più che diritti. E proprio la
peculiarità di tale bene può individuarsi come ragionevole
fondamento delle valutazioni di opportunità che hanno determinato la
norma censurata.
Negata l'esistenza, in subiecta materia, di una riserva
costituzionale della giurisdizione della Corte dei Conti, ne discende
anche l'infondatezza del profilo di illegittimità costituzionale
afferente alla pretesa violazione del principio del giudice naturale.
Inoltre la pretesa garanzia di tutela ravvisata
nell'inderogabilità ed imparzialità dell'azione del Procuratore
Generale della Corte dei Conti non può configurarsi come requisito e
condizione inseparabile dalla funzione giurisdizionale e la mancanza
di tale garanzia nell'ambito della giurisdizione ordinaria può
essere fonte tutt'al più di inconvenienti pratici non suscettibili
di ascendere al livello di vizi di incostituzionalità della norma
censurata, neanche sotto il profilo di una presunta minorazione della
tutela delle autonomie locali. Invero l'art. 5 Cost., invocato al
riguardo come parametro dal giudice a quo, imponendo allo Stato di
adeguare i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze
dell'autonomia locale, appare la norma meno idonea a giustificare la
persistenza di uno strumento certamente limitativo dell'autonomia
medesima, quale nella ricostruzione fattane da detto giudice si
configura il potere di azione del Procuratore Generale.
Nell'imminenza dell'udienza hanno presentato memorie talune delle
parti costituite.
La difesa di Giuseppe Salari ha insistito sulle deduzioni già
formulate.
La difesa di Luigi Tavanti Tommasi ha pregiudizialmente sollevato
dubbi sulla rilevanza della questione, venendo censurata una norma
che, per essere di immediata attuazione, ha già privato il giudice a
quo della potestas judicandi.
Nel merito ha sottolineato che il complessivo disegno
costituzionale in materia di giurisdizione si ispira al principio
dell'unità di questa, alla luce del quale va intesa anche la
posizione riservata alla Corte dei Conti: la sola competenza
costituzionalmente inderogabile di tale giudice attiene ai giudizi di
conto, mentre altre materie possono essergli attribuite se ciò è
giustificato da una chiara connessione delle stesse con quella della
contabilità. Siffatto collegamento è assente per quanto riguarda la
materia della responsabilità per danno all'ambiente perché, anche
ove esso sia prodotto dal pubblico dipendente, attiene ad un bene
protetto che non è parte del patrimonio dello Stato e tanto meno del
demanio.
Si tratta, invece, di un bene immateriale che ha rilevanza
giuridica soltanto per il riconoscimento contenuto nella stessa legge
n. 349 del 1986 e che rientra fra le res communia omnium: le lesioni
di esso, da chiunque prodotte, non si sottraggono allo schema
ordinario della responsabilità civile extracontrattuale, talché si
giustifica la competenza giurisdizionale dell'A.G.O..
La difesa del Ciccarone ha svolto rilievi non dissimili, nella
sostanza, sottolineando che quand'anche si condividesse l'assunto del
giudice a quo secondo il quale dal "nucleo storico" della
giurisdizione della Corte dei Conti, già normativamente definito, si
sarebbe andato sviluppando, nella materia di "contabilità pubblica",
un processo evolutivo verso una nozione tendenzialmente generale
della giurisdizione stessa, dovrebbe nondimeno riconoscersi che
questo orientamento non può che arrestarsi di fronte alla tassativa
specificazione della norma censurata che, muovendosi in uno spazio
assegnato al legislatore ordinario dallo stesso art. 103, comma
secondo, Cost., attribuisce in modo non equivoco al giudice ordinario
la materia relativa alla responsabilità dei soggetti, pubblici o
privati agenti, che arrecano danno all'ambiente.
Ha rilevato poi che, nella legge n. 349 del 1986, la nozione di
ambiente è assunta in senso globale, tale da prescindere dalla
specifica considerazione dei singoli beni, isolatamente presi, che
formano il demanio o il patrimonio dello Stato e di altri enti
pubblici: tale nozione è indicativa di un bene nuovo e diverso da
questi, di natura immateriale e riferibile alla generalità dei
cittadini e, per essi, allo Stato-comunità, sicché agevolmente si
comprende come anche la tutela giudiziaria di detto bene non possa
atteggiarsi nelle medesime forme riservate alla tutela del demanio o
del patrimonio.
La memoria difensiva di Notaro Nicola è stata depositata fuori
termine.
Considerato in diritto
1. - I due ricorsi possono essere riuniti e decisi con un'unica
sentenza in quanto prospettano questioni in parte identiche ed in
parte connesse.
2. - Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, con le due
ordinanze di rimessione, sospettano l'illegittimità costituzionale
dell'art. 18, secondo comma, della legge 3 luglio 1986 n. 349, che ha
attribuito alla giurisdizione del giudice ordinario l'intera materia
del risarcimento del danno ambientale, facendo salva la giurisdizione
della Corte dei Conti solo in alcune limitate ipotesi di
responsabilità amministrativa in quanto, a loro giudizio,
risulterebbero violati:
a) l'art. 103, secondo comma, Cost. perché toglie alla
giurisdizione della Corte dei Conti una materia che, per
caratteristiche soggettive ed oggettive, rientra tra quelle
costituzionalmente ad essa riservate;
b) l'art. 25, primo comma Cost. perché sottrae i pubblici
funzionari responsabili del danno ambientale al giudice naturale
individuabile in base al suddetto precetto costituzionale;
c) l'art. 5 Cost. perché la carenza di un organo cui spetti,
in subjecta materia, un potere imparziale ed inderogabile di
esercizio dell'azione risarcitoria si risolve in una compressione
della tutela delle autonomie locali, particolarmente evidente
allorché il pubblico funzionario, competente a deliberare
l'esercizio dell'azione, sia anche il legittimato passivo nel
relativo giudizio, siccome autore e responsabile del danno
ambientale.
2.1 - Le remittenti sostengono:
a) che la norma primaria individua una competenza
tendenzialmente generale della Corte dei Conti nelle materie di
contabilità pubblica qualificata dalla concorrenza del carattere
pubblico dell'ente dalla natura pubblica del bene e della sua
gestione;
b) che l'art. 103 Cost. attribuisce alla giurisdizione della
Corte dei Conti, oltre al giudizio sui conti, anche quello nei
confronti dell'impiegato che, per azione od omissione anche colposa
nell'esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato;
c) che nella materia di danno ambientale si è in presenza di
tutti gli elementi che tradizionalmente giustificano
l'assoggettamento di tale materia alla giurisdizione della Corte dei
Conti;
d) che nel caso di danno ambientale imputabile a
responsabilità del pubblico dipendente, sussistono tutti gli
elementi soggettivi ed oggettivi i quali determinano l'attribuzione
della giurisdizione alla Corte dei Conti;
e) che la riserva costituzionale di giurisdizione alla Corte
qualifica, in subjecta materia, la stessa Corte dei Conti come
giudice naturale nei relativi giudizi; si aggiunge poi la
considerazione che la presenza attiva nel giudizio del Procuratore
Generale della Corte, il quale è detentore del potere di azione e di
tutti gli altri connessi, specie di quello in ordine all'acquisizione
diretta delle prove, garantirebbe la piena tutela della collettività
e delle stesse autonomie locali.
2.2 - Le censure non sono fondate.
Il secondo comma dell'art. 103 Cost. è stato più volte
interpretato da questa Corte (sentt. nn. 17/85; 189/84; 241/84;
102/77), nel senso che alla Corte dei Conti è riservata la
giurisdizione sulle materie di contabilità pubblica, la quale va
intesa nel senso tradizionalmente accolto dalla giurisprudenza e
dalla legislazione, cioè come comprensiva sia dei giudizi di conto
che di responsabilità a carico degli impiegati e degli agenti
contabili dello Stato e degli enti pubblici non economici che hanno
il maneggio del pubblico denaro; che la materia di contabilità
pubblica non è definibile oggettivamente ma occorrono apposite
qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo
rispetto all'oggetto ma anche rispetto ai soggetti; che, comunque,
essa appare sufficientemente individuata nell'elemento soggettivo che
attiene alla natura pubblica dell'ente (Stato, Regioni, altri enti
locali e amministrazione pubblica in genere) e nell'elemento
oggettivo che riguarda la qualificazione pubblica del denaro e del
bene oggetto della gestione.
Si è anche affermato che la giurisdizione della Corte dei Conti,
nelle dette materie, è solo tendenzialmente generale (tanto che
nell'ordinamento precostituzionale la si qualificava giurisdizione
speciale) e che sono possibili deroghe con apposite disposizioni
legislative, specie nella materia della responsabilità
amministrativa non di gestione e che la cognizione delle cause
attinenti alla responsabilità patrimoniale per danni cagionati agli
enti pubblici da pubblici funzionari, nell'esercizio delle loro
funzioni, siccome involge questioni relative a diritti soggettivi,
sarebbe spettata al giudice ordinario se non vi fosse stata la
previsione legislativa derogatoria la quale sancisce una diversa
ripartizione giurisdizionale.
La richiamata giurisprudenza non è in contrasto con l'altra di
questa stessa Corte (sentt. nn. 110/70; 68/71; 211/72; 102/77;
241/84; 53/85) che ha affermato la espansione tendenziale della
giurisdizione della Corte dei Conti, ove sussista identità di
materia e di interesse tutelato, in carenza di regolamentazione
specifica da parte del legislatore che potrebbe anche prevedere la
giurisdizione ed attribuirla ad un giudice diverso (per es. in tema
di responsabilità amministrativa dei funzionari regionali in
fattispecie di gestione di interessi patrimoniali pubblici).
A parte la rilevata necessità della carenza di una diversa
disciplina legislativa si rimane sempre nel campo della giurisdizione
contabile, come sopra specificata.
Trattasi sempre di un limite funzionale alla giurisdizione del
giudice ordinario che nell'ordinamento è il giudice dei diritti
soggettivi, tranne le eccezioni legislativamente stabilite.
Proprio in applicazione dell'art. 103, secondo comma, Cost., e nei
limiti ad esso imposti, spetta al legislatore la determinazione della
sfera di giurisdizione dei giudici (ordinario, amministrativo,
contabile, militare ecc...). E nella interpositio del legislatore
deve individuarsi il limite funzionale delle attribuzioni giudicanti
della Corte dei Conti.
La scelta a favore del giudice ordinario operata dal legislatore
con il secondo comma dell'art. 18 della legge n. 349 del 1986,
oggetto della impugnazione, risulta, quindi, conforme al precetto
costituzionale (art. 103, secondo comma, Cost.).
Si osserva, anche, che il legislatore può scegliere sanzioni più
idonee alla salvaguardia dei pubblici interessi nelle varie materie
ed effettuare altresì la conformazione tipologica delle
responsabilità. Il che è avvenuto nella materia di cui trattasi.
Inoltre, la infondatezza della questione di legittimità
costituzionale di cui trattasi si evince anche dall'esame delle altre
norme non impugnate dell'art. 18 (nn. dal 3 all'8) e di tutta la
legge in generale.
Anzitutto, con essa si è creato un Ministero per l'ambiente che,
per le funzioni attribuite, assurge a centro di riferimento dello
interesse pubblico ambientale e di fatto realizza il coordinamento e
la riconduzione ad unità delle azioni politico-amministrative
finalizzate alla sua tutela.
L'ambiente è stato considerato un bene immateriale unitario
sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche
costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di
tutela; ma tutte, nell'insieme, sono riconducibili ad unità.
Il fatto che l'ambiente possa essere fruibile in varie forme e
differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che
assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa
venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene
unitario che l'ordinamento prende in considerazione.
L'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità
della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità
naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat
naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla
collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente
sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e
32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto.
Vi sono, poi, le norme ordinarie che, in attuazione di detti
precetti, disciplinano ed assicurano il godimento collettivo ed
individuale del bene ai consociati; ne assicurano la tutela imponendo
a coloro che lo hanno in cura, specifici obblighi di vigilanza e di
interventi. Sanzioni penali, civili ed amministrative rendono la
tutela concreta ed efficiente.
L'ambiente è, quindi, un bene giuridico in quanto riconosciuto e
tutelato da norme.
Non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva
di tipo appropriativo: ma, appartenendo alla categoria dei c.d. beni
liberi, è fruibile dalla collettività e dai singoli.
Alle varie forme di godimento è accordata una tutela civilistica
la quale, peraltro, trova ulteriore supporto nel precetto
costituzionale che circoscrive l'iniziativa economica privata (art.
41 Cost.) ed in quello che riconosce il diritto di proprietà, ma con
i limiti della utilità e della funzione sociale (art. 42 Cost.).
È, inoltre, specificamente previsto il danno che il bene può
subire (art. 18 n. 1). Esso è individuato come compromissione
(dell'ambiente) e, cioè, alterazione, deterioramento o distruzione,
cagionata da fatti commissivi o omissivi, dolosi o colposi, violatori
delle leggi di protezione e di tutela e dei provvedimenti adottati in
base ad esse.
Le dette violazioni si traducono, in sostanza, nelle vanificazioni
delle finalità protettive e per se stesse costituiscono danno.
La responsabilità che si contrae è correttamente inserita
nell'ambito e nello schema della tutela aquiliana (art. 2043 cod.
civ.).
Questa Corte (sentt. n. 247/74 e n. 184/86) ha già ritenuto
possibile il ricorso all'art. 2043 cod. civ. in tema di lesione della
salute umana, dell'integrità dell'ambiente naturale e di danno
biologico.
Si è così in grado di provvedere non solo alla reintegrazione
del patrimonio del danneggiato ma anche a prevenire ed a sanzionare
l'illecito. Il tipo di responsabilità civile ben può assumere, nel
contempo, compiti preventivi e sanzionatori.
Questa Corte ha messo in rilievo la nuova valenza del citato art.
2043 cod. civ., a seguito e per effetto dell'entrata in vigore della
Costituzione, come strumento per la protezione dei valori che essa
prevede ed assicura, tra cui ha rilievo precipuo il principio della
solidarietà, nonché la stretta relazione che ne deriva tra la detta
norma e i precetti costituzionali, al fine della determinazione
dell'illecito e della riparazione che consegue alla violazione del
precetto.
Lo stesso principio del neminem laedere, che era il supporto della
responsabilità aquiliana, assume una nuova e diversa rilevanza e
sopratutto un contenuto diverso, siccome comprensivo anche della
riparazione alle menomazioni di beni di valore assoluto e primario.
L'art. 2043 cod. civ. va posto in correlazione con la disposizione
che prevede il bene giuridico tutelato attraverso la posizione del
divieto primario.
La sanzione risarcitoria è conseguenza della lesione della
situazione giuridica tutelata. E l'illecito è fatto consistere nella
violazione della norma e dei provvedimenti adottati in base ad essa.
In tal modo si tiene esattamente conto della realtà e si pone
rimedio a tutta la gamma delle conseguenze dannose che derivano dalla
violazione effettuata.
Risultano rimedi a tutta la indefinita e sterminata serie degli
eventi lesivi che l'uomo quotidianamente si inventa utilizzando
anche, in maniera distorta e a proprio esclusivo vantaggio, il
progresso tecnologico. In tal modo il giudice poggia la sua decisione
su dati certi e applica regole di sicura conoscibilità.
Il danno è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una
concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella
rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o
l'alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé
e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene ad
essere gravata da oneri economici.
La tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone
una disciplina che eviti gli sprechi e i danni sicché si determina
una economicità e un valore di scambio del bene. Pur non trattandosi
di un bene appropriabile, esso si presta a essere valutato in termini
economici e può ad esso attribuirsi un prezzo.
Consentono di misurare l'ambiente in termini economici una serie
di funzioni con i relativi costi, tra cui quella di polizia che
regolarizza l'attività dei soggetti e crea una sorveglianza
sull'osservanza dei vincoli; la gestione del bene in senso economico
con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della
collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali. Si
possono confrontare i benefici con le alterazioni; si può effettuare
la stima e la pianificazione degli interventi di preservazione, di
miglioramento e di recupero; si possono valutare i costi del
danneggiamento. E per tutto questo l'impatto ambientale può essere
ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di dare
all'ambiente e quindi al danno ambientale un valore economico.
Lo schema seguito, però, porta a identificare il danno
risarcibile come perdita subita, indipendentemente sia dal costo
della rimessione in pristino, peraltro non sempre possibile, sia
dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e degli enti
minori.
Risulta superata la considerazione secondo cui il diritto al
risarcimento del danno sorge solo a seguito della perdita finanziaria
contabile nel bilancio dell'ente pubblico, cioè della lesione del
patrimonio dell'ente, non incidendosi su un bene appartenente allo
Stato.
Non si possono richiamare in senso proprio i principi della
responsabilità contabile e della responsabilità amministrativa dei
funzionari pubblici che, peraltro, è di natura contrattuale.
Né possono essere trasportati nel campo aquiliano i principi
affermati nel settore del danno erariale o danno pubblico in
generale. Non rileva nemmeno l'evoluzione che ha subito la nozione di
finanza pubblica come comprensiva anche della finanza degli enti
pubblici oltre che di quella propria dello Stato.
Il tipo di responsabilità non è stata nemmeno riduttivamente
concretata nei soli comportamenti in contrasto con i criteri della
buona amministrazione a seguito di valutazioni di tipo gestionale,
sia pure collegata a dati ordinamentali di fondo, ma è stata legata
a parametri certi e univoci, quale la esistenza di leggi e
provvedimenti emanati in base ad esse, la cui violazione determina
l'ingiustizia del danno.
Ma il formale rispetto della norma non deve coprire gli eventuali
comportamenti di negligenza e di mala fede nell'esercizio di
attività amministrativa o di impresa, i quali sono sempre vietati e
contrastano con i principi costituzionali del buon andamento
dell'amministrazione e della funzione sociale della proprietà e dei
limiti dell'iniziativa privata che in ogni caso non debbono essere
violati.
Del resto, nella concreta vita giudiziaria lo stesso art. 2043
cod. civ. del quale la stessa Corte ha già sottolineato il ruolo
importante sotto il profilo sistematico, spesso sorregge condanne di
pubblici amministratori responsabili di danneggiamenti non solo in
situazioni dalle quali emergevano profili penalistici.
La legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato ed agli
enti minori non trova fondamento nel fatto che essi hanno affrontato
spese per riparare il danno o nel fatto che essi abbiano subito una
perdita economica ma nella loro funzione a tutela della collettività
e delle comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi
all'equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che
ad essi fanno capo.
Per il privato cittadino il danno ambientale potrebbe essere
ingiusto nei limiti in cui si assume la rilevanza. Rimane, comunque,
ferma la tutela del cittadino che ha subito nocumento dal danno
ambientale.
La rilevanza del rapporto tra il soggetto e il bene risulta dai
luoghi e secondo la logica dell'ordinamento e non
dall'autoattribuzione del soggetto.
Per quanto si è detto, non sussiste nemmeno la dedotta violazione
dell'art. 25 Cost. non essendo la Corte dei Conti, in ogni caso, il
giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela
da danni pubblici.
Peraltro, secondo la costante interpretazione di detto precetto
costituzionale, il giudice naturale è quello precostituito per legge
la cui competenza è previamente determinata rispetto a fattispecie
astratte da verificarsi e non rispetto a quelle già verificatesi
(Corte Cost. n. 164/1983).
La nozione di giudice naturale non si cristallizza nella
determinazione legislativa di una competenza generale ma si forma
anche a seguito di tutte quelle disposizioni di legge le quali
possono anche derogare da tale competenza in base a criteri che
ragionevolmente valutano i disparati interessi in gioco.
Per quanto riguarda la lamentata violazione dell'art. 5 Cost., e
cioè delle autonomie locali, che si verificherebbe per effetto della
norma censurata in quanto, a dire del giudice remittente, questa non
avrebbe attribuito il potere di azione in subiecta materia ad un
organo imparziale quale può essere solo il Procuratore Generale
della Corte dei Conti, si osserva che la censura è priva di
consistenza. Invero, essa è riferita unicamente alla lamentata
mancata attribuzione della giurisdizione alla Corte dei Conti,
risultando impugnato solo il secondo comma dell'art. 18 che tale
giurisdizione prevede e non anche il terzo comma che, invece,
attribuisce la legittimazione ad agire allo Stato e agli enti sul cui
territorio incidono i beni oggetto del fatto lesivo, mentre il
successivo comma quarto facultizza le associazioni di cui all'art. 13
della stessa legge e i cittadini a denunciare i fatti lesivi dei beni
ambientali di cui sono a conoscenza al fine di sollecitare
l'esercizio dell'azione da parte dei soggetti legittimati.
Non sono mancate critiche alla norma così come è formulata in
ordine alla effettività del suo funzionamento e all'assicurazione
della voluta tutela del bene ambientale, ma spetta al legislatore
provvedere a colmare le eventuali lacune e le deficienze al fine di
assicurare la effettiva applicazione della norma stessa ai casi
concreti, mentre lo stesso ordinamento appresta già alcuni rimedi
(per es. la denuncia per omissione di atti di ufficio degli
amministratori inerti; la legittimazione degli organi di vigilanza
dell'ente; la nomina di commissari ad acta o curatori speciali (art.
78 cod. proc. civ.).
Va anche considerato che la possibilità del mutamento delle
persone elette o nominate alle cariche che importano la
rappresentanza dell'ente e della sostituzione degli amministratori
responsabili di eventuali danni con altri che abbiano maggiore cura
degli interessi pubblici e siano in grado di agire contro i detti
responsabili.
Soccorre, cioè, il principio della temporaneità delle cariche
pubbliche e la possibilità concreta di un avvicendamento che rende
possibile ai subentranti di perseguire gli uscenti che sono stati
inerti, anche per la prevista sospensione della prescrizione (art.
2941 cod. civ.).
Tuttavia va anche detto che la scelta del giudice ordinario
assicura una regolarità di giudizio sia per la sussistenza di tre
gradi di giurisdizione sia per la struttura del sistema istruttorio e
probatorio, sia, infine, per la maggiore idoneità del giudice
ordinario alla cura di interessi concernenti rapporti di natura
paritaria, attribuiti alla sua competenza.
Pertanto, la sollevata questione di legittimità costituzionale va
dichiarata non fondata.