Ritenuto in fatto:
1. - In un giudizio d'appello promosso da Bruno De Simone contro
"Fattoria Pavan", avente ad oggetto (fra l'altro) la corresponsione di
indennità d'anzianità per fine rapporto di lavoro in prova, la Corte
di appello di Roma, accogliendo le prospettazioni dell'attore, con
ordinanza in data 9 ottobre 1974 ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell'articolo 2096 cod. civ., in relazione agli artt. 3
e 36 Cost., nella parte in cui, in caso di risoluzione del rapporto
durante il periodo di prova, esclude il diritto del lavoratore alla
corresponsione dell'indennità di anzianità.
Sul presupposto, comunemente accettato, della natura retributiva
dell'indennità di anzianità, il giudice a quo ritiene che la norma in
questione "sembra ledere il diritto del lavoratore ad una retribuzione
proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro prestato,
perché a quantificare tale diritto concorre un ulteriore elemento
estraneo all'art. 36, cioè quello dell'eventuale recesso durante il
periodo di prova. E sembra violato lo stesso principio di eguaglianza
dei cittadini di cui all'art. 3 Cost., perché diversa tutela viene
accordata ai lavoratori in prova, secondo che sia esercitata, o non sia
esercitata, la facoltà di recesso".
Si osserva, inoltre, che tale conclusione resterebbe valida anche a
ritenere il rapporto di lavoro in prova come a tempo determinato, non
sembrando condivisibile la tesi secondo cui l'indennità d'anzianità
presupporrebbe un rapporto di durata indeterminata. Ciò si evince
dalla disciplina positiva del contratto di lavoro a tempo determinato
con la previsione (legge 18 aprile 1962, n. 230, art. 5) di un premio
di fine lavoro "proporzionato alla durata del contratto stesso e pari
alla indennità di anzianità prevista dai contratti collettivi".
2. - Intervenendo nel giudizio davanti alla Corte costituzionale,
l'Avvocatura generale dello Stato ha chiesto il rigetto della questione
sollevata. Quanto al preteso contrasto con l'art. 36 Cost., ha
osservato "che il riconoscimento della natura retributiva (differita)
della indennità di anzianità non implica che tale indennità
costituisca una componente necessaria ed indefettibile della
retribuzione, così come viene configurata ed intesa dall'art. 36
della Costituzione". Ravvisato come carattere essenziale della
retribuzione - oltre che la corrispettività, obbligatorietà,
congruità e sufficienza - la sua periodicità e continuità, si
conclude che "l'indennità di anzianità, essendo una retribuzione
differita, non entra come componente essenziale nella retribuzione in
senso tecnico poiché, per definizione, la retribuzione differita è
qualcosa, che si aggiunge, al momento della cessazione del rapporto di
lavoro a tempo indeterminato, alla retribuzione base dovuta al
lavoratore in costanza di rapporto e pertanto non presenta direttamente
e per se stessa quei caratteri essenziali cui è richiamo all'art. 36
Cost.".
Quanto al ritenuto contrasto col principio d'uguaglianza, si
argomenta la netta distinzione fra le situazioni derivanti
dall'esperimento negativo della "prova", e rispettivamente dalla
risoluzione di un rapporto di lavoro definitivo. Al riguardo si
richiama quanto ritenuto da Cass. 11 settembre 1972, n. 2737: "quando
è previsto un periodo di prova, la stipulazione del contratto crea
soltanto, rispetto al normale rapporto di lavoro, una posizione di
reciproca aspettativa ed un vincolo preparatorio, il cui oggetto
principale deriva dal legittimo interesse del lavoratore di attuare la
prestazione in modo che la controparte sia in grado di valutarla; ne
consegue che l'obbligo dell'imprenditore di corrispondere la
retribuzione contrattuale dipende dal risultato di tale valutazione, ed
allorché lo stesso imprenditore, durante o al termine del periodo di
prova, accerta l'inesistenza nel lavoratore di quelle qualità,
soprattutto professionali, che ne avevano determinato l'assunzione, la
semplice dichiarazione del giudizio negativo determina il recesso, che
non è un licenziamento, dato che l'imprenditore si limita a mettere
fine ad un rapporto solo in formazione; ove durante o al termine del
periodo di prova l'imprenditore abbia esercitato il recesso, il
lavoratore non potrà vantare pretese se non relativamente alle sue
prestazioni del periodo di prova".
Si è pure costituita la parte privata Bruno De Simone, facendo
proprie le considerazioni svolte nell'ordinanza di rimessione.
3. - In un procedimento cautelare d'urgenza ex art. 700 c.p.c.,
promosso da Spedicato Giuseppe nei confronti della S.a.s. Termil in
relazione al proprio licenziamento "in periodo di prova", il Pretore
del lavoro di Milano, con ordinanza in data 30 maggio 1975, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale della norma
applicabile al caso di specie - l'articolo 2096, terzo comma, cod. civ.
per contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, Cost.
Osserva il Pretore che la norma indicata consente, secondo un
costante orientamento giurisprudenziale, al datore di lavoro di
risolvere il rapporto in prova ad nutum, senza indicare i motivi del
recesso e per un qualunque motivo, ancorché diverso da quelli ammessi
nella legislazione sui licenziamenti individuali (legge n. 604/1966,
artt. 2-4). Anche se la funzione specifica del patto di prova comporta
una più lata determinazione del "giustificato motivo" di recesso, ciò
che non sembra giustificabile, secondo il giudice a quo, "è che in
costanza di prova il recesso del datore di lavoro possa avvenire senza
indicazione dei motivi che l'hanno determinato o per motivi che nulla
hanno a che vedere con la causa del patto di prova e che l'ordinamento
oggi considera ragione di nullità del recesso medesimo. Infatti, sotto
il primo aspetto, non sembra che si possano richiamare né la funzione
del patto di prova né la provvisorietà del rapporto per mantenere i
lavoratori in quel periodo, tuttora privi della garanzia della
motivazione del recesso: ciò era comprensibile e coerente con il
sistema delineato dall'art. 2118 c.c., cioè con il sistema del
recesso ad nutum; non lo è più adesso che il legislatore, dando corpo
ai principi enunciati dall'art. 3, secondo comma, della Costituzione,
ha chiaramente manifestato la tendenza a sottrarre il licenziamento
dalla sfera del mero arbitrio.
Inoltre, sotto altro aspetto, la funzione del patto di prova non è
affatto sufficiente a conservare ex art. 2096 c.c. la possibilità che
il datore di lavoro receda dal rapporto per motivi ad essa estranei ed
invece riconducibili al patrimonio ideale e morale del lavoratore; in
altri termini: la destinazione del patto e le caratteristiche del
rapporto, rispetto ai motivi indicati dall'art. 4 della legge n. 604
del 1966, sono elementi del tutto irrilevanti, così che ad identità
di condizioni obiettive non può non rispondere identità di
trattamento normativo. Né varrebbe obiettare che il patto di prova è
destinato ad accertare anche le qualità personali del lavoratore,
posto che di esse le sole rilevanti, sotto il profilo della diversità
del trattamento normativo, possono semmai essere quelle che vengono a
concretarsi in comportamenti tali da far temere dell'esatto adempimento
delle prestazioni dovute; non certo quelle riassumibili nella ideologia
del lavoratore, che su questo piano non incidono affatto".
4. - Intervenendo nel giudizio davanti alla Corte costituzionale
l'Avvocatura generale dello Stato ha riproposto le medesime
considerazioni sulla specificità del patto di prova, sopra riportate
in relazione all'ordinanza n. 74/75. Si sono pure costituite in
giudizio le parti private. La difesa della S.a.s. Termil, opponendosi
all'eccezione sollevata, osserva che al Pretore sarebbe "sfuggito il
disposto dell'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 sui
licenziamenti individuali, il quale chiaramente stabilisce che le norme
della legge stessa si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro
assunti in prova" "dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e
in ogni caso, decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro". Le
limitazioni della facoltà di recesso ed i poteri di controllo del
giudice derivanti dalla legge citata e dal successivo Statuto dei
lavoratori (legge n. 300/1970) riguardano i rapporti di lavoro
definitivo, e non il periodo di prova nel quale (giusta l'insegnamento
della Cassazione) si avrebbe un "rapporto in formazione". La questione
sollevata sarebbe in definitiva irrilevante (non essendo stato preso in
considerazione l'art. 10 della legge n. 604) e comunque infondata nel
merito.
La difesa di Spedicato Giuseppe, presentando memoria difensiva in
data 30 maggio 1979, riconosce che la costituzione in giudizio è
avvenuta oltre il termine risultante dall'art. 25 della legge n.
87/1953 e dall'art. 3 delle norme integrative per i giudizi avanti la
Corte costituzionale. Ritiene peraltro che tale normativa sia lesiva
del diritto di difesa, garantito dall'art. 24 Cost., posto che "dalla
pubblicazione dell'ordinanza sull'apposito supplemento della G.U. non
scaturisce per certo quella presunzione di conoscenza iuris et de iure
che sovviene alle leggi e regolamenti che divengono obbligatori perché
noti, ai sensi dell'art. 10 delle preleggi, nel decimoquinto giorno
successivo a quello della loro pubblicazione.
Deve quindi ritenersi il termine previsto dall'art. 25 della legge
n. 87/1953 come termine ordinatorio, che consente la costituzione in
giudizio fino a che sia utilmente esercitabile l'attività difensiva,
salva sempre la potestà regolamentare di stabilire che tale
costituzione non possa esercitarsi oltre un termine prefissato prima
della assegnazione del processo al relatore; ovvero di statuire
qualsiasi altro termine che riconuca la costituzione delle parti ad una
data certa nella imminenza della discussione avanti questa Alta Corte.
E da notare invero che dal punto di vista del diritto di difesa in
senso sostanziale, la Corte debba porsi il problema di ammettere le
parti ad esercitare l'attività difensiva in tempo congruo rispetto a
quello in cui verrà pronunciata la decisione".
Nel merito, si propone un ulteriore allargamento della portata
della questione sollevata dal Pretore, "includendo nel presente
giudizio incidentale anche l'autonoma denuncia di incostituzionalità
dell'art. 2096 per disparità di trattamento dei lavoratori in prova
rispetto a quelli non in prova in modo del tutto svincolato dalle
ragioni del sistema degli artt. 2 e 4 della legge n. 604 fra i quali
l'art. 3 si inserisce, eppertanto, assumendo a parametro di confronto
anche il solo art. 3".
La rilevanza della questione, così riformulata, nel giudizio a quo
appare "indubbia: se secondo l'ordinanza di remissione, l'art. 2096
deve soccombere e conseguentemente dal rapporto di lavoro in prova non
si può recedere ad nutum nel senso indicato dall'ordinanza, onde cade
conseguentemente anche l'art. 10 della legge 604 in parte qua, la
pronuncia della Corte non potrebbe essere completa se non aggiungendovi
il complemento che il rapporto di lavoro in prova deve ritenersi
assoggettato agli artt. 2 e 4 della legge n. 604 e per necessario
legame sistematico anche all'art. 3 di tale legge; ma questo
complemento la Corte non può enunciare, se non statuendo parimenti che
il rapporto di lavoro in prova è altresì sottratto all'art. 2118 c.c.
che rimarrebbe applicabile cadendo l'art. 2096; sicché in sostanza la
Corte non potrebbe statuire una interpretazione inconciliabile con
l'art. 2118 c.c. senza rimuoverlo in parte qua (cioè con riferimento
al recesso dal contratto di lavoro con clausola di prova). E del pari
deve essere dichiarata la incostituzionalità degli artt. 11 lex 604 e
35 lex 300 (Statuto) in quanto se queste norme non fossero rimosse con
riferimento al rapporto di lavoro in prova, esso rapporto continuerebbe
a essere escluso dalle statuizioni di incostituzionalità della Corte
per effetto delle norme limitatrici dell'ambito, laddove l'art. 2096
c.c. si applica qualunque sia l'ambito estensionale dell'azienda".
La memoria conclude argomentando che "l'interpretazione corrente
dell'art. 2096 risente della confusione concettuale inseritasi nella
disciplina del recesso prima della legislazione garantistica, a causa
della allora esistente contiguità fra il recesso in prova e il recesso
ad nutum, con la conseguenza che, a tutto concedere, il datore di
lavoro che recedeva illecitamente in periodo di prova sarebbe stato
tenuto a dare preavviso.
È stato facile allora per esegeti distratti, sovrapporre al
recesso ex art. 2096, terzo comma, il recesso ex art. 2118 con
esclusione tipica del preavviso, senza riflettere alle profonde
disparità genetiche delle due fattispecie.
Sicché il recesso ex art. 2096 è recesso causale e tipico
collegato all'insuccesso dell'esperimento come condizione risolutiva
implicita nel patto di prova annesso al contratto di lavoro definitivo.
L'accertata natura causale del recesso ex art. 2096, terzo comma,
impone o una sentenza interpretativa dell'art. 2096, terzo comma,
collegata alla reiezione della denunciata questione di
incostituzionalità di questa norma, ovvero l'accoglimento di essa con
riferimento agli artt. 2, 3, 4 e 6 della legge 604 e con incidenza
sulla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 10 della legge 604
e dell'art. 2118 c.c., da sollevare dunque in sostituzione di quella
dell'art. 2096 c.c. e per gli stessi motivi evidenziati nell'ordinanza
di remissione, e cioè per il contrasto con l'art. 3, primo e secondo
comma, Cost.".
5. - In una causa di lavoro promossa da Antonio Cadoni nei
confronti dell'E.N.E.L., in relazione al licenziamento fondato
sull'art. 2096, terzo comma, cod. civ., senza comunicazione dei motivi
né prima né durante il giudizio, il Pretore del lavoro di Roma,
accogliendo un 'eccezione del ricorrente, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 4, 35 e 41
Cost., dell'art. 2096, terzo comma, cod. civ., nonché dell'art. 10
della legge 15 luglio 1966, n. 604.
Il giudice a quo - ritenuto che anche nel periodo di prova è
configurabile un rapporto di lavoro - osserva che il regime giuridico
di questo differisce da quello normale solo per essere soggetto, in
virtù delle norme sopra indicate, a condizione risolutiva potestativa.
Ma tale diversità di disciplina, secondo i criteri adottati dalla
Corte costituzionale, può giustificarsi alla stregua dell'art. 3 Cost.
"solo se nei limiti in cui sia ragionevolmente giustificata in stretto
collegamento con quanto rende diverse le due fattispecie. Il rapporto
di lavoro in prova differisce - sul piano della funzione
economico-sociale presa in considerazione dal legislatore - da quello
ordinario, in quanto nel primo si inserisce, accanto alla funzione
economico-sociale tipica del rapporto di lavoro in genere, la specifica
funzione di assicurare alle parti la possibilità di "sperimentare" il
rapporto, prima di conferire ad esso la normale stabilità. La
diversità di disciplina in materia di licenziamento - ed in
particolare la recedibilità senza giusta causa o giustificato motivo
anche nelle ipotesi per ogni altro verso rientranti nell'ambito di
applicazione della legge 604 e dello Statuto dei lavoratori - può
trovare quindi giustificazione se sia limitata a quanto è necessario
per consentire all'istituto della prova di assolvere tale sua funzione.
L'attuale assetto normativo, invece, consentendo il recesso ad nutum
del datore di lavoro, senza obbligo cioè di indicarne i motivi, senza
delimitazione di quelli che rendono il recesso legittimo e senza
facoltà di contestare la sussistenza di quelli addotti, rende
possibile il recesso dal rapporto in prova anche per motivi che nulla
hanno a che fare con l'esperimento, quale che sia il contenuto che a
quest'ultimo attribuisca l'interprete dell'articolo 2096 c.c. ed anche
per motivi contrari alla legge o all'ordine pubblico. Ne deriva che la
deroga alla disciplina comune è più ampia di quella resa necessaria
dalla diversità delle situazioni regolate ed appare perciò contraria
- in tale misura - al principio di uguaglianza.
Tale disparità ingiustificata di trattamento, traducendosi in un
difetto di tutela per i lavoratori della categoria in esame, appare
violare anche l'art. 4 e l'art. 35 Cost. L'assetto normativo in esame,
inoltre, rende praticamente impossibile al lavoratore, o, comunque
estremamente difficile far valere la nullità del licenziamento nei
casi previsti dall'art. 4 legge 604 e art. 15 legge 300/1970 e quindi
si pone in contrasto anche con l'art. 41, secondo comma, Cost. poiché
consente di fatto all'imprenditore di licenziare il lavoratore a
proprio mero arbitrio e quindi anche in contrasto con la libertà e la
dignità del lavoratore".
6. - Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale sono
intervenuti l'Avvocatura generale dello Stato, che ha riproposto le
considerazioni già sopra riferite, e la parte privata Cadoni Antonio,
a sostegno delle considerazioni e conclusioni del giudice a quo.
7. - In una causa di lavoro promossa da Daniela Rosati nei
confronti della American Express Bank, in relazione al recesso durante
il pattuito periodo di prova, la parte attrice ha sollevato eccezione
di legittimità costituzionale, in relazione all'art. 3 Cost.,
dell'art. 2096, terzo comma, cod. civ., qualora interpretato nel senso
che, durante il periodo di prova, il datore di lavoro "possa recedere
senza indicare i motivi del recesso o per motivi che nulla hanno a che
vedere con la causa del patto di prova e che l'ordinamento considera
ragioni di nullità del recesso medesimo".
Il Pretore del lavoro di Napoli, con ordinanza in data 22 settembre
1976, ha disatteso tale eccezione, argomentando che dal tenore della
norma considerata "nulla è statuito circa l'obbligo di motivazione del
recesso. Obbligo che poteva anche ritenersi insussistente nella logica
del sistema corporativo consacrata dal codice del 1942, ma la cui
necessità oggi non può più revocarsi in dubbio, sia alla luce dei
principi costituzionali in materia (artt. 2, 3, 4, nonché 35 e segg.
Cost.), sia nello spirito generale che ha informato la più recente
legislazione in tema di garanzia della stabilità del posto di lavoro
(legge 20 maggio 1970, n. 300).".
Nel sistema attuale, pertanto, "un recesso (ipoteticamente)
giustificato con una motivazione del genere da parte del datore di
lavoro sarebbe esplicitamente sanzionato di nullità dall'art. 15 legge
20 maggio 1970, n. 300, in quanto atto discriminatorio".
Così interpretato, alla luce dello stesso art. 3 Cost., l'articolo
2096 cod. civ., la prospettata questione di legittimità costituzionale
acquista tuttavia, per il giudice a quo, rilievo in relazione ad altra
norma: "quella dell'art. 10 legge 15 luglio 1966, n. 604 che, nel
delimitare il proprio campo di operatività, ne esclude l'applicazione
ai lavoratori in prova, per i quali la legge stessa si applica "dal
momento in cui l'assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando
sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro". Per tale
modo l'obbligo della motivazione del licenziamento, che rappresenta una
garanzia esplicitamente sancita per i lavoratori assunti in via
definitiva, non sarebbe previsto in riferimento al periodo di prova,
lasciando sprovvisti di tutela o con una tutela claudicante i
prestatori di lavoro che non abbiano ancora superato tale periodo".
Sgombrato il campo della "bizantina distinzione" fra licenziamento
e recesso in periodo di prova (differenziabili, si dice, appunto in
relazione all'obbligo di motivazione; il che sarebbe una tautologia),
il Pretore argomenta che "la stessa funzione del periodo di prova nel
rapporto di lavoro postula la necessità che il datore di lavoro motivi
il recesso, sia per garantire il lavoratore che la relativa facoltà
venga correttamente esercitata in relazione al patto che forma oggetto
di prova, sia per consentire, attraverso, il successivo sindacato
giurisdizionale, la emanazione di quei provvedimenti che si rendessero
necessari per reprimere eventuali comportamenti discriminatori o
illegittimi.
Non si tratta, dunque, di negare al datore di lavoro la facoltà di
recedere in costanza del periodo di prova, ma soltanto di non
consentirne esercizi arbitrari o comunque sanzionati dall'ordinamento".
L'obbligo di motivazione sarebbe necessario non solo nell'interesse
del lavoratore (l'assenza di motivazione potrebbe essere interpretata
in senso sfavorevole alle sue attitudini), ma anche nell'interesse
"della collettività a che vengano assunti al lavoro, in via
prioritaria, a parità di ogni altra condizione, gli elementi più
capaci e meritevoli.
Né va sottaciuto che un datore di lavoro svincolato dall'obbligo
di motivare il recesso in periodo di prova potrebbe agevolmente eludere
disposizioni imperative di legge stabilite per i lavoratori che abbiano
superato quel periodo, attraverso continue assunzioni in prova,
mantenute in vita ad libitum nell'ambito della durata massima del
periodo di prova e troncate senza necessità di adempiere alcun
obbligo".
Un ulteriore profilo di disuguaglianza vi sarebbe fra privati e
pubblici dipendenti in prova. "Questi ultimi, infatti, in caso di esito
sfavorevole, anche della proroga del periodo di prova, vengono
estromessi dall'Amministrazione con decreto motivato del Ministro (art.
10, comma terzo, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3) e la motivazione deve
fare riferimento, sia pure attraverso la relazione del capo- ufficio,
al comportamento, all'attitudine, al grado di operosità e di cultura
dell'impiegato (art. 14, comma secondo d.P.R. 3 maggio 1957, n. 686)".
Le censure sollevate, conclude il giudice a quo varrebbero anche
"in rapporto agli artt. 35 e 41, secondo comma, Cost., nella misura in
cui, rispettivamente, contrastano con la tutela del lavoro in tutte le
sue forme ed applicazioni, nonché con la dignità umana".
8. - Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale, l'Avvocatura
generale dello Stato sottolinea la singolarità del ragionamento
seguito dal Pretore, che con riferimento al medesimo art. 3 Cost.
motiva, da un lato, la costituzionalità dell'art. 2096 cod. civ., e
dall'altro l'incostituzionalità dell'art. 10 della legge n. 604. Nel
merito, ripropone le argomentazioni già riferite. Si è pure
costituita la parte privata Rosati Daniela, a sostegno delle
considerazioni e conclusioni del giudice a quo.
9. - In una causa di lavoro promossa da Ruzzi Liliana nei confronti
della S.p.a. W.I.N.A.C., per chiedere (fra l'altro) il pagamento
dell'indennità di anzianità e dell'indennità sostitutiva delle ferie
non godute - durante il periodo di prova conclusosi con il recesso del
datore di lavoro - il Pretore del lavoro di Genova ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, con riguardo agli artt. 3 e
36 Cost., degli artt. 2096, 2109 e 2120 cod. civ., nella parte in cui
non prevedono, nella ipotesi di recesso del datore di lavoro durante il
periodo di prova, il diritto del lavoratore alle indennità sopra
indicate.
Il giudice a quo prende atto della sentenza n. 204 del 1976 della
Corte costituzionale, che ha ritenuto costituzionalmente corretta
l'esclusione, nell'ipotesi considerata, dall'indennità di anzianità.
Osserva tuttavia che "già in quella sede la Corte costituzionale
dichiarò di "prescindere da altri eventuali diritti, spettanti al
lavoratore in funzione della durata del rapporto, in relazione ai quali
non è stata sollevata questione di legittimità". Infatti
l'assimilazione del rapporto di lavoro in prova, concluso con il
recesso, al contratto a tempo determinato pone comunque problemi di
legittimità costituzionale per la mancata previsione di una voce
retributiva proporzionale alla durata del rapporto, se non altro in
relazione alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato,
per il quale pure l'art. 5 della legge 18 aprile 1962, n. 230, prevede
la corresponsione di un premio di fine lavoro proporzionato alla durata
del contratto e pari all'indennità di anzianità.
Infatti non appare possibile dare una spiegazione ragionevole della
differenza di trattamento attualmente prevista per i lavoratori a tempo
determinato, che ricevono oltre alla retribuzione mensile anche il
premio di fine lavoro sopra ricordato, e i lavoratori in prova che
vengono retribuiti soltanto mensilmente, pur prestando in ipotesi
un'attività lavorativa di pari qualità e quantità ed egualmente
predeterminata nel tempo. Né tale differenza di trattamento pare
giustificabile in relazione al diverso aspetto (non richiamato dalla
Corte costituzionale nella sua precedente sentenza) della c.d.
"precarietà" dei rapporto in prova, perché pacificamente una voce
retributiva proporzionata alla durata del rapporto spetta, all'atto
della risoluzione, anche ai lavoratori privi di qualsiasi garanzia di
stabilità del rapporto, perché non rientranti nella sfera di
applicabilità della legge n. 604 del 1966".
Le medesime considerazioni varrebbero con riguardo all'indennità
sostitutiva delle ferie, esclusa per il lavoratore in prova nella
corrente prassi aziendale, e nell'interpretazione giurisprudenziale
degli artt. 2096 e 2109 cod. civ., che pure nulla dicono al riguardo.
Vi sarebbe infine un dubbio di compatibilità con l'art. 36 Cost., che
riconosce il diritto alle ferie ad ogni lavoratore, senza distinzioni
di sorta.
Nel giudizio davanti alla Corte non vi è stata costituzione di
parti.
I predetti procedimenti venivano discussi congiuntamente
all'udienza del 16 gennaio 1980, nel corso della quale la Corte
pronunciava ordinanza con la quale dichiarava inammissibile per
tardività la costituzione nel giudizio avanti a sé della parte
privata Giuseppe Spedicato (nel procedimento di cui all'ordinanza n.
496/75) previa declaratoria di manifesta infondatezza della questione
di legittimità costituzionale degli artt. 25 legge 11 marzo 1953, n.
87 e 3 delle norme integrative per i giudizi avanti la Corte
costituzionale sollevata da tale parte.
I procedimenti venivano poi rinviati a nuovo ruolo con ordinanza n.
145 del 1980 e quindi ridiscussi all'udienza del 10 dicembre 1980.
Considerato in diritto:
1. - Le cinque ordinanze indicate in epigrafe hanno tutte per
oggetto la disciplina del rapporto di lavoro con patto di prova nelle
ipotesi di recesso durante il periodo di prova stesso. Di conseguenza,
i giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.
2. - La Corte di appello di Roma ed il Pretore di Genova (n. 74/
1975 e 655/79) dubitano della legittimità costituzionale degli artt.
2096, terzo comma, prima parte e (il solo Pretore di Genova) dell'art.
2120 c.c., i cui disposti, secondo prassi e giurisprudenza consolidata,
escludono, per i lavoratori assunti con patto di prova e licenziati
durante il periodo di prova stesso, il diritto alla indennità di
anzianità.
Secondo i giudici a quibus le norme in esame contrasterebbero con
l'art. 3 Cost, per l'ingiustificata diversità di trattamento riservata
ai lavoratori assunti in prova a seconda che l'imprenditore eserciti o
meno la facoltà di recesso (Ord. 74/75) ovvero perché irrazionalmente
verrebbe negata ai lavoratori assunti in prova e licenziati durante il
periodo di prova l'indennità di anzianità o una voce retributiva
equivalente che la legge (legge 18 aprile 1962, n. 230, art. 5)
riconosce invece anche ai lavoratori assunti a tempo determinato
(entrambe le ordinanze).
Sarebbe inoltre violato l'art. 36 Cost. perché, riconosciuta la
natura retributiva della indennità di anzianità, al prestatore di
lavoro assunto in prova e licenziato durante il periodo di prova stesso
verrebbe ad essere riconosciuta una retribuzione complessiva non più
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto.
3. - Questa Corte, con la sentenza n. 204 del 1976, ha dichiarato
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10
della legge n. 604 del 1966, nella parte in cui delimita
l'applicabilità dell'art. 9 della stessa legge ai lavoratori assunti
in prova dal momento in cui la loro assunzione diviene definitiva e in
ogni caso quando siano decorsi sei mesi dalla loro assunzione,
sollevata in riferimento agli artt. 3, 35 e 36 Cost.
La motivazione della cennata decisione marca, da un lato, la
"natura giuridica nettamente distinta" del contratto di lavoro con
patto di prova, configurabile come contratto a tempo determinato,
rispetto al contratto di lavoro a tempo indeterminato e, dall'altro, la
"funzione di sussidio patrimoniale" dell'indennità di anzianità, "la
cui necessità deriva dalla cessazione di un contratto di lavoro, il
cui termine finale non era stato predeterminato dalle parti".
Riconsiderata ora la questione, la Corte ne ritiene la fondatezza.
Ai fini della decisione, invero, non occorre prender partito sulla
natura - se retributiva o indennitaria - della indennità di anzianità
né privilegiare alcuna delle tesi, sostenute in dottrina ed accolte in
giurisprudenza, sulla qualificazione giuridica del contratto di lavoro
con patto di prova, in particolare quella che considera il rapporto di
lavoro in prova un rapporto tipicamente a termine, muovendo dalla quale
la Corte di appello di Roma ed il Pretore di Genova denunciano la
violazione dello art. 3 Cost., ponendo a raffronto le situazioni
dedotte nei rispettivi giudizi con quella disciplinata dall'art. 5,
ultimo comma, della legge 230 del 1962 che attribuisce al lavoratore,
alla scadenza del contratto a termine, il diritto ad un "premio di fine
lavoro" "pari alla indennità di anzianità prevista dai contratti
collettivi".
Non può, infatti, dubitarsi che il patto di prova inerisce ad un
rapporto di lavoro nel quale al lavoratore, di regola professionalmente
già formato, si chiede l'adempimento di normali prestazioni di lavoro,
uguali, per quantità e qualità a quelle fornite dagli altri
lavoratori di pari qualificazione. Ciò tanto è vero che, ove sia
superato, senza esercizio della facoltà di recesso, il termine della
prova e comunque decorsi sei mesi dalla assunzione, l'attività
prestata durante il periodo di prova non si distingue, a tutti gli
effetti retributivi, da quella di un lavoratore assunto a tempo
indeterminato.
Si deve, allora, concludere restando assorbito ogni altro profilo
che le disposizioni di legge, le quali negano al lavoratore assunto in
prova, nei casi di recesso durante il periodo di prova stesso,
l'indennità di anzianità, lo pongono in tal modo in una situazione
ingiustamente deteriore rispetto al lavoratore assunto a tempo
indeterminato e violano, in quanto prive di razionale giustificazione,
il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, primo comma, Cost.
4. - Deve, a sensi dell'art. 27 legge 11 marzo 1953 n. 87,
dichiararsi la illegittimità conseguenziale dell'art. 10 della legge
604 del 1966, nella parte in cui esclude il diritto dei prestatori di
lavoro che rivestono la qualifica di impiegato o di operaio ai sensi
dell'art. 2095 cod. civ. a percepire l'indennità di cui all'art. 9
della legge 604 del 1966 medesima quando assunti in prova e licenziati
durante il periodo di prova.
5. - Il Pretore di Genova (ord. n. 655/79) dubita anche della
legittimità costituzionale degli artt. 2096, terzo comma e 2109 cod.
civ. assumendone il contrasto con gli artt. 3 e 36, ultimo comma,
Cost.
Anche questa questione appare fondata. Già con la sentenza n. 66
del 1963 questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima,
dell'art. 2109 c.c., la disposizione che pone il decorso di un anno di
ininterrotto servizio a presupposto del diritto del lavoratore ad un
periodo annuale di ferie retribuite. Motivando tale decisione, la Corte
ha sostanzialmente rilevato che il periodo di riposo ritenuto
necessario per ritemprare le energie psico-fisiche del lavoratore, se
pur ragguagliato ad un anno ben può essere frazionato e quindi
riconosciuto in proporzione alla quantità di lavoro da costui
effettivamente prestata presso l'imprenditore che, avendolo assunto,
procede al suo licenziamento anche prima che sia maturato un anno di
ininterrotto servizio.
A conferma dell'esattezza di una tale piana argomentazione, si deve
ricordare che il diritto alle ferie retribuite è garantito dall'art.
36, ultimo comma, Cost. ad ogni lavoratore senza distinzione di sorta,
mentre sarà questione di fatto verificare nelle singole situazioni se
sono e in che misura maturate le condizioni per il soddisfacimento di
un tale diritto.
6. - Le ordinanze del Pretore di Milano (n. 496/75) del Pretore di
Roma (n. 394/76) e del Pretore di Napoli (n. 635/76) sollevano
questione di legittimità costituzionale dell'art. 2096, terzo comma,
cod. civ. e/o dell'art. 10 della legge 604 del 1966, nella parte in cui
escludono l'obbligo dell'imprenditore di motivare il licenziamento del
prestatore di lavoro assunto in prova, effettuato durante il periodo di
prova.
In particolare: il Pretore di Milano ritiene, che il primo
capoverso del terzo comma dell'art. 2096 c.c. consente, secondo un
costante orientamento giurisprudenziale, al datore di lavoro di
risolvere il rapporto di lavoro ad nutum, senza obbligo cioè di
indicare i motivi del recesso e per qualunque motivo, ancorché diverso
da quelli indicati nella legislazione sui licenziamenti individuali. E
ben vero che il giudice a quo riconosce una diversità della situazione
giuridica del lavoratore assunto con patto di prova rispetto a quella
del lavoratore assunto a tempo indeterminato, ma ritiene ingiustificato
che il licenziamento del lavoratore in prova possa essere effettuato
dal datore di lavoro senza indicazione dei motivi che l'hanno
determinato o per motivi che nulla hanno a che vedere con le cause del
patto di prova e che l'ordinamento oggi considera ragione di nullità
del recesso medesimo.
Il Pretore di Roma, a sua volta, riconosce anch'egli giustificata
la diversità di disciplina normativa, purché "limitata a quanto è
necessario per consentire all'istituto della prova di assolvere tale
sua funzione". Anch'egli ravvisa nella mancanza dell'obbligo per
l'imprenditore di motivare il recesso durante il periodo di prova un
vizio di legittimità e più precisamente una violazione del principio
di uguaglianza, essendo possibile che il lavoratore in prova venga
licenziato per motivi che nulla hanno a che fare con l'esperimento e
persino per motivi contrari alla legge e all'ordine pubblico. In questa
situazione normativa egli ravvisa inoltre una lesione degli artt. 4, 35
e 41, secondo comma, Cost. La sua denunzia involge anche l'art. 10
della legge 604/66.
Il pretore di Napoli, viceversa, ritiene manifestamente infondata
la censura riguardante l'art. 2096, terzo comma, c.c., trattandosi di
norma a suo avviso, oggettivamente "neutra" e dubita invece della
legittimità costituzionale solo dell'art. 10 legge 604 del 1966.
Le questioni così poste non sono fondate.
7. - Va anzitutto ricordato che nel sistema del codice civile
(libro V, titolo II, sez. III) non è previsto l'obbligo
dell'imprenditore di motivare il recesso dal contratto a tempo
indeterminato e che tale obbligo (a richiesta del lavoratore) è stato
introdotto con l'art. 2 della legge 604 del 1966, nei rapporti di
lavoro di cui agli artt. 10 e 11 della legge medesima.
Ne deriva che la disposizione del c.c. (art. 2118) sul recesso dal
contratto a tempo indeterminato, non essendo stata dedotta nuova
questione di legittimità in ordine ai predetti artt. 10 e 11 legge 604
del 1966 per la parte che qui interessa, ha tutt'ora un suo campo di
applicazione e che pure l'art. 2096, terzo comma, c.c., al di fuori
dell'ambito di operatività della legge 604/66, non sembra confliggere
con gli invocati parametri costituzionali, non essendo adombrata alcuna
illegittimità del disposto che esclude l'obbligo del preavviso e delle
indennità sostitutive.
La questione posta in relazione al solo art. 2096, terzo comma,
c.d. appare quindi infondata.
8. - Viene, dunque, in discussione l'art. 10 della legge 604/66
nella parte in cui esclude l'applicazione delle norme della legge
medesima, - sussistendo le altre condizioni di cui al medesimo art. 10
ed al successivo art. 11, con le modificazioni introdotte dalla legge
300 del 1970 e dalla sentenza n. 174/1972 di questa Corte - agli
impiegati ed operai assunti in prova.
Invero, dalla lettura delle ordinanze di rimessione non sembra
potersi dedurre con sicurezza che della legge 604 si vogliano
applicabili anche al rapporto di lavoro con patto di prova tutte le
norme, in particolare quelle dell'art. 1 e dell'art. 3, che consentono
il licenziamento soltanto per giusta causa o giustificato motivo. Ciò
che i giudici a quibus ritengono confliggente con parametri
costituzionali è la mancanza dell'obbligo per l'imprenditore di
motivare il licenziamento del lavoratore in periodo di prova,
paventando che l'assoluta discrezionalità in tal modo garantita al
datore di lavoro possa dar luogo da parte sua a "comportamenti
vessatori e lesivi della dignità del lavoratore".
La questione, anche così posta, non è fondata.
9. - Affermato l'obbligo delle parti "a consentire e a fare
l'esperimento che forma oggetto del patto di prova"(art. 2096, secondo
comma, c.c.), ne discende un primo limite alla discrezionalità
dell'imprenditore, nel senso che la legittimità del licenziamento da
lui intimato durante il periodo di prova può efficacemente essere
contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita,
per la inadeguatezza della durata dell'esperimento o per altri motivi,
quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità
professionali alle quali il patto di prova è preordinato. Più in
generale, si può affermare che la "discrezionalità" dell'imprenditore
si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento
professionale del lavoratore, così che il lavoratore stesso il quale
ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento dello esperimento
nonché l'imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito ben
può eccepirne e dedurne la nullità in sede giurisdizionale.
Così definiti i termini della questione, la norma impugnata è
immune da censure di costituzionalità.
Non appare, infatti, vulnerato il principio di uguaglianza, non
essendo equiparabili, sotto l'aspetto che qui interessa, le situazioni
poste a confronto, del lavoratore in prova e del lavoratore assunto a
tempo indeterminato, mentre il riferimento ai pubblici dipendenti
assunti in prova ed all'obbligo di motivazione del decreto ministeriale
che li estrometta dall'Amministrazione, (d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3,
art. 10 e d.P.R. 3 maggio 1957, n. 686, art. 14, comma secondo) ignora
le ben diverse modalità di assunzione di questi ultimi, che
comportano, già attraverso l'esperimento del concorso, una prima
valutazione della loro idoneità professionale.
Neppure è prospettabile lesione degli artt. 4 e 35 Cost., vuoi per
la portata del principio di cui all'art. 4, primo comma, Cost., che,
"come non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di
una occupazione, così non garantisce il diritto alla conservazione del
posto di lavoro, (che nel primo dovrebbe trovare il suo logico e
necessario presupposto)" (sent. n. 3 del 1957; 81 del 1969; 45 del
1965; 194 del 1970), vuoi perché l'art. 35 Cost., esaminato appunto in
relazione all'art. 4, primo comma, Cost., non impone "una applicazione
indiscriminata del principio della giusta causa, e del giustificato
motivo nei licenziamenti, ma "lascia" al legislatore ampia
discrezionalità in materia" (sent. 129 del 1976). Quanto, infine,
all'art. 41, secondo comma, Cost., che riguarda lo svolgimento del
rapporto di lavoro, invocato dai Pretori di Roma e di Napoli, non si
ravvisa nelle disposizioni di legge censurate alcun attentato alla
libertà e alla dignità del lavoratore, soprattutto quando si
riconosca la sindacabilità nei limiti anzidetti, del concreto
esercizio del recesso operato dall'imprenditore in costanza del periodo
di prova e l'annullabilità dell'atto nel quale si esprime, tutte le
volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in
presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente
motivato.
Quanto infine alla denunziata inversione dell'onere della prova
rispetto al sistema della legge 604/66, vanno ricordati, da un lato, la
portata generale delle disposizioni di cui all'art. 4 legge 604/66,
che torna pacificamente applicabile anche al di fuori dell'ambito di
operatività fissata dai precitati artt. 10 e 11 della legge medesima,
e dall'altro la costante incidenza sul lavoratore dell'onere della
prova nei giudizi di nullità dei licenziamenti determinati da motivi
politici, religiosi e sindacali.