Sentenza 189/1980 (ECLI:IT:COST:1980:189)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: AMADEI - Redattore:
Udienza Pubblica del 10/12/1980;    Decisione  del 16/12/1980
Deposito del 22/12/1980;   Pubblicazione in G. U.  n. 0
Norme impugnate:
Massime:  9970  9971  9972  9973  15124 
Massime:  9970  9971  9972  9973  15124 
Atti decisi:

Massima n. 9970 Massima successiva
Titolo
SENT. 189/80 A. LAVORO (RAPPORTO DI) - PERIODO DI PROVA - INDENNITA' DI ANZIANITA' - NON SPETTANZA AL LAVORATORE ASSUNTO CON PATTO DI PROVA IN CASO DI RECESSO DURANTE IL SUDDETTO PERIODO - RICONSIDERAZIONE DELLA QUESTIONE - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PARZIALE.

Testo
Il patto di prova inerisce ad un rapporto di lavoro nel quale al lavoratore, di regola professionalmente gia` formato, si chiede l'adempimento di normali prestazioni di lavoro, uguali, per quantita` e qualita`, a quelle fornite dagli altri lavoratori di pari giustificazione. Pertanto, le disposizioni di legge, le quali negano al lavoratore assunto in prova, nei casi di recesso durante il periodo di prova stesso, l'indennita` di anzianita`, lo pongono in una situazione ingiustamente deteriore rispetto al lavoratore assunto a tempo indeterminato e violano, in quanto prive di razionale giustificazione, il principio di uguaglianza, di cui all'art.3, comma primo, Cost. E' percio' illegittimo costituzionalmente per violazione degli artt. 3 e 36 Cost., l'art. 2096, comma terzo, c.c. nella parte in cui non riconosce il diritto all'indennita` di anzianita`, di cui agli artt. 2120 e 2121 c.c., al lavoratore assunto con patto di prova nel caso di recesso dal contratto durante il periodo di prova medesimo. - cfr. SS. nn. 204/1976, 66/1963, 3/1957, 81/1969, 35/1965, 194/1970, 129/1976.
Parametri costituzionali
Costituzione  art. 3
Costituzione  art. 36

Riferimenti normativi
codice civile  n. 0  art. 2096  co. 3
codice civile  n. 0  art. 2120  co. 0
codice civile  n. 0  art. 2121  co. 0

Titolo
SENT. 189/80 B. LAVORO (RAPPORTO DI) - INDENNITA' - ANZIANITA' - PERIODO DI PROVA - SPETTANZA DELL'INDENNITA' DALLA DEFINITIVITA' DELL'ASSUNZIONE - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PARZIALE CONSEGUENZIALE.

Testo
Il prestatore di lavoro che rivesta la qualifica di impiegato o di operaio ai sensi dell'art. 2095 c.c. ha diritto a percepire l'indennita` di anzianita` di cui all'art. 9 l. n. 604 del 1966 quando assunto in prova e licenziato durante il periodo di prova medesimo. Va percio' dichiarato incostituzionale, in via conseguenziale, ex art. 27 l. 11 marzo 1953, n.87, l'art. 10 della l. n. 604 del 1966, nella parte in cui esclude l'indennita` di anzianita` quando il lavoratore assunto in prova e` licenziato durante il periodo di prova medesimo. - cfr. S. n. 204/1976
Riferimenti normativi
legge  15/07/1966  n. 604  art. 9  co. 0
legge  15/07/1966  n. 604  art. 10  co. 0

Titolo
SENT. 189/80 C. LAVORO (RAPPORTO DI) - FERIE - FERIE ANNUALI - LAVORATORE ASSUNTO IN PROVA - RECESSO DURANTE DETTO PERIODO DI PROVA - ESCLUSIONE DEL DIRITTO A FERIE RETRIBUTIVE - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PARZIALE.

Testo
Il diritto alle ferie annuali retribuite e` garantito dall'art. 36, ultimo comma, Cost. ad ogni lavoratore senza distinzione di sorta e quindi il periodo di riposo, seppur ragguagliato ad un anno, ben puo` essere frazionato e riconosciuto in proporzione alla quantita` di lavoro effettivamente prestata dal lavoratore presso l'imprenditore che procede al suo licenziamento anche prima che sia maturato un anno di ininterrotto servizio. E' percio' illegittimo costituzionalmente, per violazione degli artt. 3 e 36, ultimo comma, Cost., l'art. 2109 c.c. nella parte in cui non prevede il diritto a ferie retribuite anche per il lavoratore assunto in prova in caso di recesso dal contratto durante il periodo di prova medesimo. - cfr. S. n. 66/63
Parametri costituzionali
Costituzione  art. 3
Costituzione  art. 36

Riferimenti normativi
codice civile  n. 0  art. 2109  co. 0

Titolo
SENT. 189/80 D. LAVORO (RAPPORTO DI) - PERIODO DI PROVA - RECESSO AD NUTUM - ESCLUSIONE DELL'OBBLIGO DI MOTIVAZIONE DEL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE DURANTE IL PERIODO DI PROVA - NON FONDATEZZA DELLA QUESTIONE NEI SENSI DI CUI IN MOTIVAZIONE.

Testo
Va riconosciuta la sindacabilita` del concreto esercizio del recesso operato dall'imprenditore in costanza del periodo di prova e l'annullabilita` dell'atto nel quale si esprime tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato. Cosi` interpretate, le disposizioni di cui agli artt. 2096, comma terzo, c.c. e 10, l. 15 luglio 1966, n.604, nelle parti in cui, rispettivamente, consentono il recesso immotivato del datore di lavoro dal rapporto di lavoro in prova, non contrastano con gli artt. 3, commi primo e secondo, 4, 25 e 41, comma secondo, Cost.. Infatti appaiono non equiparabili le situazioni del lavoratore in prova e del lavoratore assunto a tempo indeterminato (e non giova richiamare le norme sul pubblico impiego dato che l'assunzione avviene a mezzo di concorso); l'art. 4 Cost. non garantisce il diritto alla conservazione del posto di lavoro; ne` l'art. 35 Cost. impone l'applicazione indiscriminata del principio della giusta causa e del giustificato motivo nei licenziamenti; la liberta` e dignita` del lavoratore, ex art. 41, comma secondo, Cost., e` garantita dalla riconosciuta possibilita` di impugnazione del licenziamento effettivamente fondato su motivi illeciti; infine l'inversione dell'onere della prova sul lavoratore risponde ad un criterio generale ogni qualvolta questi assume la nullita` del licenziamento determinato da motivi politici, religiosi e sindacali. - cfr. SS. nn. 174/1972, 3/1957, 81/1969, 35/1965, 194/1970, 129/1976
Parametri costituzionali
Costituzione  art. 3  co. 1
Costituzione  art. 3  co. 2
Costituzione  art. 4
Costituzione  art. 35
Costituzione  art. 41  co. 2

Riferimenti normativi
codice civile  n. 0  art. 2096  co. 3
legge  15/07/1966  n. 604  art. 10  co. 0

Massima n. 15124 Massima precedente
Titolo
SENT. 189/80 E. (ORDINANZA PRONUNCIATA ALL'UDIENZA DEL 16 GENNAIO 1980) GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE - COSTITUZIONE DELLE PARTI - TERMINE - NATURA PERENTORIA E CONGRUITA' - ASSUNTA VIOLAZIONE DEL DIRITTO DI DIFESA NEL GIUDIZIO DAVANTI ALLA CORTE - MANIFESTA INFONDATEZZA DELL'ECCEZIONE - INAMMISSIBILITA' DI COSTITUZIONE TARDIVA.

Testo
Come la Corte ha gia' avuto occasione di ribadire, il termine previsto per la costituzione delle parti nel giudizio avanti alla Corte costituzionale ha natura perentoria in considerazione del fatto che l'inutile decorso di esso ha influenza nell'ulteriore svolgimento del giudizio, consentendo che la decisione possa essere assunta in camera di consiglio invece che in udienza pubblica; la congruita' del termine previsto, e' tale da garantire la effettivita' del diritto di difesa anche in considerazione del fatto che la decorrenza di esso dipende da un evento certo (pubblicazione dell'ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica) facilmente conoscibile dalle parti interessate. (Inammissibilita', per tardivita', della costituzione, nel giudizio di legittimita' costituzionale cui si riferisce la sentenza n. 189/1980, del Sig. Spedicato Giuseppe). - S. 141/1970 e 166/1972.
Altri parametri e norme interposte
legge  11/03/1953  n. false  art. 25
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (16/3/1956 e s.m.)  n. false  art. 3


Pronuncia

N. 189

SENTENZA 16 DICEMBRE 1980

Deposito in cancelleria: 22 dicembre 1980.

Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 357 del 31 dicembre 1980.

Pres. AMADEI - Rel. MALAGUGINI


LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Avv. LEONETTO AMADEI, Presidente - Dott. GIULIO GIONFRIDA - Prof. EDOARDO VOLTERRA - Dott. MICHELE ROSSANO - Prof. ANTONINO DE STEFANO - Prof. LEOPOLDO ELIA - Avv. ORONZO REALE - Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - Avv. ALBERTO MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Dott. ARNALDO MACCARONE - Prof. ANTONIO LA PERGOLA - Prof. VIRGILIO ANDRIOLI - Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 2096, 2109, 2120 cod. civ in rel. all'art. 5 della legge 18 aprile 1962, n. 230, e dell'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (rapporto di lavoro durante il periodo di prova - periodo di riposo - indennità di anzianità), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 9 ottobre 1974 dalla Corte d'appello di Roma nel procedimento civile vertente tra De Simone Bruno e la Fattoria Pavan di Antonio Mario Zaccheo, iscritta al n. 74 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 88 del 2 aprile 1975;

2) ordinanza emessa il 30 maggio 1975 dal Pretore di Milano nel procedimento civile vertente tra Spedicato Giuseppe e la S.a.s. Termil, iscritta al n. 496 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 320 del 3 dicembre 1975;

3) ordinanza emessa il 12 febbraio 1976 dal Pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra Cadoni Antonio e l'E.N.E.L., iscritta al n. 394 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 170 del 30 giugno 1976;

4) ordinanza emessa il 22 settembre 1976 dal Pretore di Napoli nel procedimento civile vertente tra Rosati Daniela e la American Express Bank, iscritta al n. 635 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 346 del 22 dicembre 1976;

5) ordinanza emessa il 25 maggio 1979 dal Pretore di Genova nel procedimento civile vertente tra Ruzzi Liliana e la S.p.a. W.I.N.A.C., iscritta al n. 655 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 325 del 28 novembre 1979.

Visti gli atti di costituzione di De Simone Bruno, della S.a.s. Termil, di Spedicato Giuseppe, di Cadoni Antonio e di Rosati Daniela e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 dicembre 1980 il Giudice relatore Alberto Malagugini;

uditi gli avvocati Luciano Ventura per De Simone, Francesco Fornario per la Soc. Termil, Luciano Ventura per Rosati e Roberto Muggia per Cadoni e l'avvocato dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto:

1. - In un giudizio d'appello promosso da Bruno De Simone contro "Fattoria Pavan", avente ad oggetto (fra l'altro) la corresponsione di indennità d'anzianità per fine rapporto di lavoro in prova, la Corte di appello di Roma, accogliendo le prospettazioni dell'attore, con ordinanza in data 9 ottobre 1974 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo 2096 cod. civ., in relazione agli artt. 3 e 36 Cost., nella parte in cui, in caso di risoluzione del rapporto durante il periodo di prova, esclude il diritto del lavoratore alla corresponsione dell'indennità di anzianità.

Sul presupposto, comunemente accettato, della natura retributiva dell'indennità di anzianità, il giudice a quo ritiene che la norma in questione "sembra ledere il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, perché a quantificare tale diritto concorre un ulteriore elemento estraneo all'art. 36, cioè quello dell'eventuale recesso durante il periodo di prova. E sembra violato lo stesso principio di eguaglianza dei cittadini di cui all'art. 3 Cost., perché diversa tutela viene accordata ai lavoratori in prova, secondo che sia esercitata, o non sia esercitata, la facoltà di recesso".

Si osserva, inoltre, che tale conclusione resterebbe valida anche a ritenere il rapporto di lavoro in prova come a tempo determinato, non sembrando condivisibile la tesi secondo cui l'indennità d'anzianità presupporrebbe un rapporto di durata indeterminata. Ciò si evince dalla disciplina positiva del contratto di lavoro a tempo determinato con la previsione (legge 18 aprile 1962, n. 230, art. 5) di un premio di fine lavoro "proporzionato alla durata del contratto stesso e pari alla indennità di anzianità prevista dai contratti collettivi".

2. - Intervenendo nel giudizio davanti alla Corte costituzionale, l'Avvocatura generale dello Stato ha chiesto il rigetto della questione sollevata. Quanto al preteso contrasto con l'art. 36 Cost., ha osservato "che il riconoscimento della natura retributiva (differita) della indennità di anzianità non implica che tale indennità costituisca una componente necessaria ed indefettibile della retribuzione, così come viene configurata ed intesa dall'art. 36 della Costituzione". Ravvisato come carattere essenziale della retribuzione - oltre che la corrispettività, obbligatorietà, congruità e sufficienza - la sua periodicità e continuità, si conclude che "l'indennità di anzianità, essendo una retribuzione differita, non entra come componente essenziale nella retribuzione in senso tecnico poiché, per definizione, la retribuzione differita è qualcosa, che si aggiunge, al momento della cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, alla retribuzione base dovuta al lavoratore in costanza di rapporto e pertanto non presenta direttamente e per se stessa quei caratteri essenziali cui è richiamo all'art. 36 Cost.".

Quanto al ritenuto contrasto col principio d'uguaglianza, si argomenta la netta distinzione fra le situazioni derivanti dall'esperimento negativo della "prova", e rispettivamente dalla risoluzione di un rapporto di lavoro definitivo. Al riguardo si richiama quanto ritenuto da Cass. 11 settembre 1972, n. 2737: "quando è previsto un periodo di prova, la stipulazione del contratto crea soltanto, rispetto al normale rapporto di lavoro, una posizione di reciproca aspettativa ed un vincolo preparatorio, il cui oggetto principale deriva dal legittimo interesse del lavoratore di attuare la prestazione in modo che la controparte sia in grado di valutarla; ne consegue che l'obbligo dell'imprenditore di corrispondere la retribuzione contrattuale dipende dal risultato di tale valutazione, ed allorché lo stesso imprenditore, durante o al termine del periodo di prova, accerta l'inesistenza nel lavoratore di quelle qualità, soprattutto professionali, che ne avevano determinato l'assunzione, la semplice dichiarazione del giudizio negativo determina il recesso, che non è un licenziamento, dato che l'imprenditore si limita a mettere fine ad un rapporto solo in formazione; ove durante o al termine del periodo di prova l'imprenditore abbia esercitato il recesso, il lavoratore non potrà vantare pretese se non relativamente alle sue prestazioni del periodo di prova".

Si è pure costituita la parte privata Bruno De Simone, facendo proprie le considerazioni svolte nell'ordinanza di rimessione.

3. - In un procedimento cautelare d'urgenza ex art. 700 c.p.c., promosso da Spedicato Giuseppe nei confronti della S.a.s. Termil in relazione al proprio licenziamento "in periodo di prova", il Pretore del lavoro di Milano, con ordinanza in data 30 maggio 1975, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma applicabile al caso di specie - l'articolo 2096, terzo comma, cod. civ. per contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, Cost.

Osserva il Pretore che la norma indicata consente, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, al datore di lavoro di risolvere il rapporto in prova ad nutum, senza indicare i motivi del recesso e per un qualunque motivo, ancorché diverso da quelli ammessi nella legislazione sui licenziamenti individuali (legge n. 604/1966, artt. 2-4). Anche se la funzione specifica del patto di prova comporta una più lata determinazione del "giustificato motivo" di recesso, ciò che non sembra giustificabile, secondo il giudice a quo, "è che in costanza di prova il recesso del datore di lavoro possa avvenire senza indicazione dei motivi che l'hanno determinato o per motivi che nulla hanno a che vedere con la causa del patto di prova e che l'ordinamento oggi considera ragione di nullità del recesso medesimo. Infatti, sotto il primo aspetto, non sembra che si possano richiamare né la funzione del patto di prova né la provvisorietà del rapporto per mantenere i lavoratori in quel periodo, tuttora privi della garanzia della motivazione del recesso: ciò era comprensibile e coerente con il sistema delineato dall'art. 2118 c.c., cioè con il sistema del recesso ad nutum; non lo è più adesso che il legislatore, dando corpo ai principi enunciati dall'art. 3, secondo comma, della Costituzione, ha chiaramente manifestato la tendenza a sottrarre il licenziamento dalla sfera del mero arbitrio.

Inoltre, sotto altro aspetto, la funzione del patto di prova non è affatto sufficiente a conservare ex art. 2096 c.c. la possibilità che il datore di lavoro receda dal rapporto per motivi ad essa estranei ed invece riconducibili al patrimonio ideale e morale del lavoratore; in altri termini: la destinazione del patto e le caratteristiche del rapporto, rispetto ai motivi indicati dall'art. 4 della legge n. 604 del 1966, sono elementi del tutto irrilevanti, così che ad identità di condizioni obiettive non può non rispondere identità di trattamento normativo. Né varrebbe obiettare che il patto di prova è destinato ad accertare anche le qualità personali del lavoratore, posto che di esse le sole rilevanti, sotto il profilo della diversità del trattamento normativo, possono semmai essere quelle che vengono a concretarsi in comportamenti tali da far temere dell'esatto adempimento delle prestazioni dovute; non certo quelle riassumibili nella ideologia del lavoratore, che su questo piano non incidono affatto".

4. - Intervenendo nel giudizio davanti alla Corte costituzionale l'Avvocatura generale dello Stato ha riproposto le medesime considerazioni sulla specificità del patto di prova, sopra riportate in relazione all'ordinanza n. 74/75. Si sono pure costituite in giudizio le parti private. La difesa della S.a.s. Termil, opponendosi all'eccezione sollevata, osserva che al Pretore sarebbe "sfuggito il disposto dell'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 sui licenziamenti individuali, il quale chiaramente stabilisce che le norme della legge stessa si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro assunti in prova" "dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e in ogni caso, decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro". Le limitazioni della facoltà di recesso ed i poteri di controllo del giudice derivanti dalla legge citata e dal successivo Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970) riguardano i rapporti di lavoro definitivo, e non il periodo di prova nel quale (giusta l'insegnamento della Cassazione) si avrebbe un "rapporto in formazione". La questione sollevata sarebbe in definitiva irrilevante (non essendo stato preso in considerazione l'art. 10 della legge n. 604) e comunque infondata nel merito.

La difesa di Spedicato Giuseppe, presentando memoria difensiva in data 30 maggio 1979, riconosce che la costituzione in giudizio è avvenuta oltre il termine risultante dall'art. 25 della legge n. 87/1953 e dall'art. 3 delle norme integrative per i giudizi avanti la Corte costituzionale. Ritiene peraltro che tale normativa sia lesiva del diritto di difesa, garantito dall'art. 24 Cost., posto che "dalla pubblicazione dell'ordinanza sull'apposito supplemento della G.U. non scaturisce per certo quella presunzione di conoscenza iuris et de iure che sovviene alle leggi e regolamenti che divengono obbligatori perché noti, ai sensi dell'art. 10 delle preleggi, nel decimoquinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione.

Deve quindi ritenersi il termine previsto dall'art. 25 della legge n. 87/1953 come termine ordinatorio, che consente la costituzione in giudizio fino a che sia utilmente esercitabile l'attività difensiva, salva sempre la potestà regolamentare di stabilire che tale costituzione non possa esercitarsi oltre un termine prefissato prima della assegnazione del processo al relatore; ovvero di statuire qualsiasi altro termine che riconuca la costituzione delle parti ad una data certa nella imminenza della discussione avanti questa Alta Corte.

E da notare invero che dal punto di vista del diritto di difesa in senso sostanziale, la Corte debba porsi il problema di ammettere le parti ad esercitare l'attività difensiva in tempo congruo rispetto a quello in cui verrà pronunciata la decisione".

Nel merito, si propone un ulteriore allargamento della portata della questione sollevata dal Pretore, "includendo nel presente giudizio incidentale anche l'autonoma denuncia di incostituzionalità dell'art. 2096 per disparità di trattamento dei lavoratori in prova rispetto a quelli non in prova in modo del tutto svincolato dalle ragioni del sistema degli artt. 2 e 4 della legge n. 604 fra i quali l'art. 3 si inserisce, eppertanto, assumendo a parametro di confronto anche il solo art. 3".

La rilevanza della questione, così riformulata, nel giudizio a quo appare "indubbia: se secondo l'ordinanza di remissione, l'art. 2096 deve soccombere e conseguentemente dal rapporto di lavoro in prova non si può recedere ad nutum nel senso indicato dall'ordinanza, onde cade conseguentemente anche l'art. 10 della legge 604 in parte qua, la pronuncia della Corte non potrebbe essere completa se non aggiungendovi il complemento che il rapporto di lavoro in prova deve ritenersi assoggettato agli artt. 2 e 4 della legge n. 604 e per necessario legame sistematico anche all'art. 3 di tale legge; ma questo complemento la Corte non può enunciare, se non statuendo parimenti che il rapporto di lavoro in prova è altresì sottratto all'art. 2118 c.c. che rimarrebbe applicabile cadendo l'art. 2096; sicché in sostanza la Corte non potrebbe statuire una interpretazione inconciliabile con l'art. 2118 c.c. senza rimuoverlo in parte qua (cioè con riferimento al recesso dal contratto di lavoro con clausola di prova). E del pari deve essere dichiarata la incostituzionalità degli artt. 11 lex 604 e 35 lex 300 (Statuto) in quanto se queste norme non fossero rimosse con riferimento al rapporto di lavoro in prova, esso rapporto continuerebbe a essere escluso dalle statuizioni di incostituzionalità della Corte per effetto delle norme limitatrici dell'ambito, laddove l'art. 2096 c.c. si applica qualunque sia l'ambito estensionale dell'azienda".

La memoria conclude argomentando che "l'interpretazione corrente dell'art. 2096 risente della confusione concettuale inseritasi nella disciplina del recesso prima della legislazione garantistica, a causa della allora esistente contiguità fra il recesso in prova e il recesso ad nutum, con la conseguenza che, a tutto concedere, il datore di lavoro che recedeva illecitamente in periodo di prova sarebbe stato tenuto a dare preavviso.

È stato facile allora per esegeti distratti, sovrapporre al recesso ex art. 2096, terzo comma, il recesso ex art. 2118 con esclusione tipica del preavviso, senza riflettere alle profonde disparità genetiche delle due fattispecie.

Sicché il recesso ex art. 2096 è recesso causale e tipico collegato all'insuccesso dell'esperimento come condizione risolutiva implicita nel patto di prova annesso al contratto di lavoro definitivo. L'accertata natura causale del recesso ex art. 2096, terzo comma, impone o una sentenza interpretativa dell'art. 2096, terzo comma, collegata alla reiezione della denunciata questione di incostituzionalità di questa norma, ovvero l'accoglimento di essa con riferimento agli artt. 2, 3, 4 e 6 della legge 604 e con incidenza sulla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 10 della legge 604 e dell'art. 2118 c.c., da sollevare dunque in sostituzione di quella dell'art. 2096 c.c. e per gli stessi motivi evidenziati nell'ordinanza di remissione, e cioè per il contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, Cost.".

5. - In una causa di lavoro promossa da Antonio Cadoni nei confronti dell'E.N.E.L., in relazione al licenziamento fondato sull'art. 2096, terzo comma, cod. civ., senza comunicazione dei motivi né prima né durante il giudizio, il Pretore del lavoro di Roma, accogliendo un 'eccezione del ricorrente, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost., dell'art. 2096, terzo comma, cod. civ., nonché dell'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

Il giudice a quo - ritenuto che anche nel periodo di prova è configurabile un rapporto di lavoro - osserva che il regime giuridico di questo differisce da quello normale solo per essere soggetto, in virtù delle norme sopra indicate, a condizione risolutiva potestativa. Ma tale diversità di disciplina, secondo i criteri adottati dalla Corte costituzionale, può giustificarsi alla stregua dell'art. 3 Cost. "solo se nei limiti in cui sia ragionevolmente giustificata in stretto collegamento con quanto rende diverse le due fattispecie. Il rapporto di lavoro in prova differisce - sul piano della funzione economico-sociale presa in considerazione dal legislatore - da quello ordinario, in quanto nel primo si inserisce, accanto alla funzione economico-sociale tipica del rapporto di lavoro in genere, la specifica funzione di assicurare alle parti la possibilità di "sperimentare" il rapporto, prima di conferire ad esso la normale stabilità. La diversità di disciplina in materia di licenziamento - ed in particolare la recedibilità senza giusta causa o giustificato motivo anche nelle ipotesi per ogni altro verso rientranti nell'ambito di applicazione della legge 604 e dello Statuto dei lavoratori - può trovare quindi giustificazione se sia limitata a quanto è necessario per consentire all'istituto della prova di assolvere tale sua funzione. L'attuale assetto normativo, invece, consentendo il recesso ad nutum del datore di lavoro, senza obbligo cioè di indicarne i motivi, senza delimitazione di quelli che rendono il recesso legittimo e senza facoltà di contestare la sussistenza di quelli addotti, rende possibile il recesso dal rapporto in prova anche per motivi che nulla hanno a che fare con l'esperimento, quale che sia il contenuto che a quest'ultimo attribuisca l'interprete dell'articolo 2096 c.c. ed anche per motivi contrari alla legge o all'ordine pubblico. Ne deriva che la deroga alla disciplina comune è più ampia di quella resa necessaria dalla diversità delle situazioni regolate ed appare perciò contraria - in tale misura - al principio di uguaglianza.

Tale disparità ingiustificata di trattamento, traducendosi in un difetto di tutela per i lavoratori della categoria in esame, appare violare anche l'art. 4 e l'art. 35 Cost. L'assetto normativo in esame, inoltre, rende praticamente impossibile al lavoratore, o, comunque estremamente difficile far valere la nullità del licenziamento nei casi previsti dall'art. 4 legge 604 e art. 15 legge 300/1970 e quindi si pone in contrasto anche con l'art. 41, secondo comma, Cost. poiché consente di fatto all'imprenditore di licenziare il lavoratore a proprio mero arbitrio e quindi anche in contrasto con la libertà e la dignità del lavoratore".

6. - Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale sono intervenuti l'Avvocatura generale dello Stato, che ha riproposto le considerazioni già sopra riferite, e la parte privata Cadoni Antonio, a sostegno delle considerazioni e conclusioni del giudice a quo.

7. - In una causa di lavoro promossa da Daniela Rosati nei confronti della American Express Bank, in relazione al recesso durante il pattuito periodo di prova, la parte attrice ha sollevato eccezione di legittimità costituzionale, in relazione all'art. 3 Cost., dell'art. 2096, terzo comma, cod. civ., qualora interpretato nel senso che, durante il periodo di prova, il datore di lavoro "possa recedere senza indicare i motivi del recesso o per motivi che nulla hanno a che vedere con la causa del patto di prova e che l'ordinamento considera ragioni di nullità del recesso medesimo".

Il Pretore del lavoro di Napoli, con ordinanza in data 22 settembre 1976, ha disatteso tale eccezione, argomentando che dal tenore della norma considerata "nulla è statuito circa l'obbligo di motivazione del recesso. Obbligo che poteva anche ritenersi insussistente nella logica del sistema corporativo consacrata dal codice del 1942, ma la cui necessità oggi non può più revocarsi in dubbio, sia alla luce dei principi costituzionali in materia (artt. 2, 3, 4, nonché 35 e segg. Cost.), sia nello spirito generale che ha informato la più recente legislazione in tema di garanzia della stabilità del posto di lavoro (legge 20 maggio 1970, n. 300).".

Nel sistema attuale, pertanto, "un recesso (ipoteticamente) giustificato con una motivazione del genere da parte del datore di lavoro sarebbe esplicitamente sanzionato di nullità dall'art. 15 legge 20 maggio 1970, n. 300, in quanto atto discriminatorio".

Così interpretato, alla luce dello stesso art. 3 Cost., l'articolo 2096 cod. civ., la prospettata questione di legittimità costituzionale acquista tuttavia, per il giudice a quo, rilievo in relazione ad altra norma: "quella dell'art. 10 legge 15 luglio 1966, n. 604 che, nel delimitare il proprio campo di operatività, ne esclude l'applicazione ai lavoratori in prova, per i quali la legge stessa si applica "dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro". Per tale modo l'obbligo della motivazione del licenziamento, che rappresenta una garanzia esplicitamente sancita per i lavoratori assunti in via definitiva, non sarebbe previsto in riferimento al periodo di prova, lasciando sprovvisti di tutela o con una tutela claudicante i prestatori di lavoro che non abbiano ancora superato tale periodo".

Sgombrato il campo della "bizantina distinzione" fra licenziamento e recesso in periodo di prova (differenziabili, si dice, appunto in relazione all'obbligo di motivazione; il che sarebbe una tautologia), il Pretore argomenta che "la stessa funzione del periodo di prova nel rapporto di lavoro postula la necessità che il datore di lavoro motivi il recesso, sia per garantire il lavoratore che la relativa facoltà venga correttamente esercitata in relazione al patto che forma oggetto di prova, sia per consentire, attraverso, il successivo sindacato giurisdizionale, la emanazione di quei provvedimenti che si rendessero necessari per reprimere eventuali comportamenti discriminatori o illegittimi.

Non si tratta, dunque, di negare al datore di lavoro la facoltà di recedere in costanza del periodo di prova, ma soltanto di non consentirne esercizi arbitrari o comunque sanzionati dall'ordinamento".

L'obbligo di motivazione sarebbe necessario non solo nell'interesse del lavoratore (l'assenza di motivazione potrebbe essere interpretata in senso sfavorevole alle sue attitudini), ma anche nell'interesse "della collettività a che vengano assunti al lavoro, in via prioritaria, a parità di ogni altra condizione, gli elementi più capaci e meritevoli.

Né va sottaciuto che un datore di lavoro svincolato dall'obbligo di motivare il recesso in periodo di prova potrebbe agevolmente eludere disposizioni imperative di legge stabilite per i lavoratori che abbiano superato quel periodo, attraverso continue assunzioni in prova, mantenute in vita ad libitum nell'ambito della durata massima del periodo di prova e troncate senza necessità di adempiere alcun obbligo".

Un ulteriore profilo di disuguaglianza vi sarebbe fra privati e pubblici dipendenti in prova. "Questi ultimi, infatti, in caso di esito sfavorevole, anche della proroga del periodo di prova, vengono estromessi dall'Amministrazione con decreto motivato del Ministro (art. 10, comma terzo, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3) e la motivazione deve fare riferimento, sia pure attraverso la relazione del capo- ufficio, al comportamento, all'attitudine, al grado di operosità e di cultura dell'impiegato (art. 14, comma secondo d.P.R. 3 maggio 1957, n. 686)".

Le censure sollevate, conclude il giudice a quo varrebbero anche "in rapporto agli artt. 35 e 41, secondo comma, Cost., nella misura in cui, rispettivamente, contrastano con la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, nonché con la dignità umana".

8. - Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale, l'Avvocatura generale dello Stato sottolinea la singolarità del ragionamento seguito dal Pretore, che con riferimento al medesimo art. 3 Cost. motiva, da un lato, la costituzionalità dell'art. 2096 cod. civ., e dall'altro l'incostituzionalità dell'art. 10 della legge n. 604. Nel merito, ripropone le argomentazioni già riferite. Si è pure costituita la parte privata Rosati Daniela, a sostegno delle considerazioni e conclusioni del giudice a quo.

9. - In una causa di lavoro promossa da Ruzzi Liliana nei confronti della S.p.a. W.I.N.A.C., per chiedere (fra l'altro) il pagamento dell'indennità di anzianità e dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute - durante il periodo di prova conclusosi con il recesso del datore di lavoro - il Pretore del lavoro di Genova ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riguardo agli artt. 3 e 36 Cost., degli artt. 2096, 2109 e 2120 cod. civ., nella parte in cui non prevedono, nella ipotesi di recesso del datore di lavoro durante il periodo di prova, il diritto del lavoratore alle indennità sopra indicate.

Il giudice a quo prende atto della sentenza n. 204 del 1976 della Corte costituzionale, che ha ritenuto costituzionalmente corretta l'esclusione, nell'ipotesi considerata, dall'indennità di anzianità. Osserva tuttavia che "già in quella sede la Corte costituzionale dichiarò di "prescindere da altri eventuali diritti, spettanti al lavoratore in funzione della durata del rapporto, in relazione ai quali non è stata sollevata questione di legittimità". Infatti l'assimilazione del rapporto di lavoro in prova, concluso con il recesso, al contratto a tempo determinato pone comunque problemi di legittimità costituzionale per la mancata previsione di una voce retributiva proporzionale alla durata del rapporto, se non altro in relazione alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, per il quale pure l'art. 5 della legge 18 aprile 1962, n. 230, prevede la corresponsione di un premio di fine lavoro proporzionato alla durata del contratto e pari all'indennità di anzianità.

Infatti non appare possibile dare una spiegazione ragionevole della differenza di trattamento attualmente prevista per i lavoratori a tempo determinato, che ricevono oltre alla retribuzione mensile anche il premio di fine lavoro sopra ricordato, e i lavoratori in prova che vengono retribuiti soltanto mensilmente, pur prestando in ipotesi un'attività lavorativa di pari qualità e quantità ed egualmente predeterminata nel tempo. Né tale differenza di trattamento pare giustificabile in relazione al diverso aspetto (non richiamato dalla Corte costituzionale nella sua precedente sentenza) della c.d. "precarietà" dei rapporto in prova, perché pacificamente una voce retributiva proporzionata alla durata del rapporto spetta, all'atto della risoluzione, anche ai lavoratori privi di qualsiasi garanzia di stabilità del rapporto, perché non rientranti nella sfera di applicabilità della legge n. 604 del 1966".

Le medesime considerazioni varrebbero con riguardo all'indennità sostitutiva delle ferie, esclusa per il lavoratore in prova nella corrente prassi aziendale, e nell'interpretazione giurisprudenziale degli artt. 2096 e 2109 cod. civ., che pure nulla dicono al riguardo. Vi sarebbe infine un dubbio di compatibilità con l'art. 36 Cost., che riconosce il diritto alle ferie ad ogni lavoratore, senza distinzioni di sorta.

Nel giudizio davanti alla Corte non vi è stata costituzione di parti.

I predetti procedimenti venivano discussi congiuntamente all'udienza del 16 gennaio 1980, nel corso della quale la Corte pronunciava ordinanza con la quale dichiarava inammissibile per tardività la costituzione nel giudizio avanti a sé della parte privata Giuseppe Spedicato (nel procedimento di cui all'ordinanza n. 496/75) previa declaratoria di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 25 legge 11 marzo 1953, n. 87 e 3 delle norme integrative per i giudizi avanti la Corte costituzionale sollevata da tale parte.

I procedimenti venivano poi rinviati a nuovo ruolo con ordinanza n. 145 del 1980 e quindi ridiscussi all'udienza del 10 dicembre 1980.


Considerato in diritto:

1. - Le cinque ordinanze indicate in epigrafe hanno tutte per oggetto la disciplina del rapporto di lavoro con patto di prova nelle ipotesi di recesso durante il periodo di prova stesso. Di conseguenza, i giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - La Corte di appello di Roma ed il Pretore di Genova (n. 74/ 1975 e 655/79) dubitano della legittimità costituzionale degli artt. 2096, terzo comma, prima parte e (il solo Pretore di Genova) dell'art. 2120 c.c., i cui disposti, secondo prassi e giurisprudenza consolidata, escludono, per i lavoratori assunti con patto di prova e licenziati durante il periodo di prova stesso, il diritto alla indennità di anzianità.

Secondo i giudici a quibus le norme in esame contrasterebbero con l'art. 3 Cost, per l'ingiustificata diversità di trattamento riservata ai lavoratori assunti in prova a seconda che l'imprenditore eserciti o meno la facoltà di recesso (Ord. 74/75) ovvero perché irrazionalmente verrebbe negata ai lavoratori assunti in prova e licenziati durante il periodo di prova l'indennità di anzianità o una voce retributiva equivalente che la legge (legge 18 aprile 1962, n. 230, art. 5) riconosce invece anche ai lavoratori assunti a tempo determinato (entrambe le ordinanze).

Sarebbe inoltre violato l'art. 36 Cost. perché, riconosciuta la natura retributiva della indennità di anzianità, al prestatore di lavoro assunto in prova e licenziato durante il periodo di prova stesso verrebbe ad essere riconosciuta una retribuzione complessiva non più proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto.

3. - Questa Corte, con la sentenza n. 204 del 1976, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge n. 604 del 1966, nella parte in cui delimita l'applicabilità dell'art. 9 della stessa legge ai lavoratori assunti in prova dal momento in cui la loro assunzione diviene definitiva e in ogni caso quando siano decorsi sei mesi dalla loro assunzione, sollevata in riferimento agli artt. 3, 35 e 36 Cost.

La motivazione della cennata decisione marca, da un lato, la "natura giuridica nettamente distinta" del contratto di lavoro con patto di prova, configurabile come contratto a tempo determinato, rispetto al contratto di lavoro a tempo indeterminato e, dall'altro, la "funzione di sussidio patrimoniale" dell'indennità di anzianità, "la cui necessità deriva dalla cessazione di un contratto di lavoro, il cui termine finale non era stato predeterminato dalle parti".

Riconsiderata ora la questione, la Corte ne ritiene la fondatezza.

Ai fini della decisione, invero, non occorre prender partito sulla natura - se retributiva o indennitaria - della indennità di anzianità né privilegiare alcuna delle tesi, sostenute in dottrina ed accolte in giurisprudenza, sulla qualificazione giuridica del contratto di lavoro con patto di prova, in particolare quella che considera il rapporto di lavoro in prova un rapporto tipicamente a termine, muovendo dalla quale la Corte di appello di Roma ed il Pretore di Genova denunciano la violazione dello art. 3 Cost., ponendo a raffronto le situazioni dedotte nei rispettivi giudizi con quella disciplinata dall'art. 5, ultimo comma, della legge 230 del 1962 che attribuisce al lavoratore, alla scadenza del contratto a termine, il diritto ad un "premio di fine lavoro" "pari alla indennità di anzianità prevista dai contratti collettivi".

Non può, infatti, dubitarsi che il patto di prova inerisce ad un rapporto di lavoro nel quale al lavoratore, di regola professionalmente già formato, si chiede l'adempimento di normali prestazioni di lavoro, uguali, per quantità e qualità a quelle fornite dagli altri lavoratori di pari qualificazione. Ciò tanto è vero che, ove sia superato, senza esercizio della facoltà di recesso, il termine della prova e comunque decorsi sei mesi dalla assunzione, l'attività prestata durante il periodo di prova non si distingue, a tutti gli effetti retributivi, da quella di un lavoratore assunto a tempo indeterminato.

Si deve, allora, concludere restando assorbito ogni altro profilo che le disposizioni di legge, le quali negano al lavoratore assunto in prova, nei casi di recesso durante il periodo di prova stesso, l'indennità di anzianità, lo pongono in tal modo in una situazione ingiustamente deteriore rispetto al lavoratore assunto a tempo indeterminato e violano, in quanto prive di razionale giustificazione, il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, primo comma, Cost.

4. - Deve, a sensi dell'art. 27 legge 11 marzo 1953 n. 87, dichiararsi la illegittimità conseguenziale dell'art. 10 della legge 604 del 1966, nella parte in cui esclude il diritto dei prestatori di lavoro che rivestono la qualifica di impiegato o di operaio ai sensi dell'art. 2095 cod. civ. a percepire l'indennità di cui all'art. 9 della legge 604 del 1966 medesima quando assunti in prova e licenziati durante il periodo di prova.

5. - Il Pretore di Genova (ord. n. 655/79) dubita anche della legittimità costituzionale degli artt. 2096, terzo comma e 2109 cod. civ. assumendone il contrasto con gli artt. 3 e 36, ultimo comma, Cost.

Anche questa questione appare fondata. Già con la sentenza n. 66 del 1963 questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima, dell'art. 2109 c.c., la disposizione che pone il decorso di un anno di ininterrotto servizio a presupposto del diritto del lavoratore ad un periodo annuale di ferie retribuite. Motivando tale decisione, la Corte ha sostanzialmente rilevato che il periodo di riposo ritenuto necessario per ritemprare le energie psico-fisiche del lavoratore, se pur ragguagliato ad un anno ben può essere frazionato e quindi riconosciuto in proporzione alla quantità di lavoro da costui effettivamente prestata presso l'imprenditore che, avendolo assunto, procede al suo licenziamento anche prima che sia maturato un anno di ininterrotto servizio.

A conferma dell'esattezza di una tale piana argomentazione, si deve ricordare che il diritto alle ferie retribuite è garantito dall'art. 36, ultimo comma, Cost. ad ogni lavoratore senza distinzione di sorta, mentre sarà questione di fatto verificare nelle singole situazioni se sono e in che misura maturate le condizioni per il soddisfacimento di un tale diritto.

6. - Le ordinanze del Pretore di Milano (n. 496/75) del Pretore di Roma (n. 394/76) e del Pretore di Napoli (n. 635/76) sollevano questione di legittimità costituzionale dell'art. 2096, terzo comma, cod. civ. e/o dell'art. 10 della legge 604 del 1966, nella parte in cui escludono l'obbligo dell'imprenditore di motivare il licenziamento del prestatore di lavoro assunto in prova, effettuato durante il periodo di prova.

In particolare: il Pretore di Milano ritiene, che il primo capoverso del terzo comma dell'art. 2096 c.c. consente, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, al datore di lavoro di risolvere il rapporto di lavoro ad nutum, senza obbligo cioè di indicare i motivi del recesso e per qualunque motivo, ancorché diverso da quelli indicati nella legislazione sui licenziamenti individuali. E ben vero che il giudice a quo riconosce una diversità della situazione giuridica del lavoratore assunto con patto di prova rispetto a quella del lavoratore assunto a tempo indeterminato, ma ritiene ingiustificato che il licenziamento del lavoratore in prova possa essere effettuato dal datore di lavoro senza indicazione dei motivi che l'hanno determinato o per motivi che nulla hanno a che vedere con le cause del patto di prova e che l'ordinamento oggi considera ragione di nullità del recesso medesimo.

Il Pretore di Roma, a sua volta, riconosce anch'egli giustificata la diversità di disciplina normativa, purché "limitata a quanto è necessario per consentire all'istituto della prova di assolvere tale sua funzione". Anch'egli ravvisa nella mancanza dell'obbligo per l'imprenditore di motivare il recesso durante il periodo di prova un vizio di legittimità e più precisamente una violazione del principio di uguaglianza, essendo possibile che il lavoratore in prova venga licenziato per motivi che nulla hanno a che fare con l'esperimento e persino per motivi contrari alla legge e all'ordine pubblico. In questa situazione normativa egli ravvisa inoltre una lesione degli artt. 4, 35 e 41, secondo comma, Cost. La sua denunzia involge anche l'art. 10 della legge 604/66.

Il pretore di Napoli, viceversa, ritiene manifestamente infondata la censura riguardante l'art. 2096, terzo comma, c.c., trattandosi di norma a suo avviso, oggettivamente "neutra" e dubita invece della legittimità costituzionale solo dell'art. 10 legge 604 del 1966.

Le questioni così poste non sono fondate.

7. - Va anzitutto ricordato che nel sistema del codice civile (libro V, titolo II, sez. III) non è previsto l'obbligo dell'imprenditore di motivare il recesso dal contratto a tempo indeterminato e che tale obbligo (a richiesta del lavoratore) è stato introdotto con l'art. 2 della legge 604 del 1966, nei rapporti di lavoro di cui agli artt. 10 e 11 della legge medesima.

Ne deriva che la disposizione del c.c. (art. 2118) sul recesso dal contratto a tempo indeterminato, non essendo stata dedotta nuova questione di legittimità in ordine ai predetti artt. 10 e 11 legge 604 del 1966 per la parte che qui interessa, ha tutt'ora un suo campo di applicazione e che pure l'art. 2096, terzo comma, c.c., al di fuori dell'ambito di operatività della legge 604/66, non sembra confliggere con gli invocati parametri costituzionali, non essendo adombrata alcuna illegittimità del disposto che esclude l'obbligo del preavviso e delle indennità sostitutive.

La questione posta in relazione al solo art. 2096, terzo comma, c.d. appare quindi infondata.

8. - Viene, dunque, in discussione l'art. 10 della legge 604/66 nella parte in cui esclude l'applicazione delle norme della legge medesima, - sussistendo le altre condizioni di cui al medesimo art. 10 ed al successivo art. 11, con le modificazioni introdotte dalla legge 300 del 1970 e dalla sentenza n. 174/1972 di questa Corte - agli impiegati ed operai assunti in prova.

Invero, dalla lettura delle ordinanze di rimessione non sembra potersi dedurre con sicurezza che della legge 604 si vogliano applicabili anche al rapporto di lavoro con patto di prova tutte le norme, in particolare quelle dell'art. 1 e dell'art. 3, che consentono il licenziamento soltanto per giusta causa o giustificato motivo. Ciò che i giudici a quibus ritengono confliggente con parametri costituzionali è la mancanza dell'obbligo per l'imprenditore di motivare il licenziamento del lavoratore in periodo di prova, paventando che l'assoluta discrezionalità in tal modo garantita al datore di lavoro possa dar luogo da parte sua a "comportamenti vessatori e lesivi della dignità del lavoratore".

La questione, anche così posta, non è fondata.

9. - Affermato l'obbligo delle parti "a consentire e a fare l'esperimento che forma oggetto del patto di prova"(art. 2096, secondo comma, c.c.), ne discende un primo limite alla discrezionalità dell'imprenditore, nel senso che la legittimità del licenziamento da lui intimato durante il periodo di prova può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita, per la inadeguatezza della durata dell'esperimento o per altri motivi, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato. Più in generale, si può affermare che la "discrezionalità" dell'imprenditore si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore, così che il lavoratore stesso il quale ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento dello esperimento nonché l'imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito ben può eccepirne e dedurne la nullità in sede giurisdizionale.

Così definiti i termini della questione, la norma impugnata è immune da censure di costituzionalità.

Non appare, infatti, vulnerato il principio di uguaglianza, non essendo equiparabili, sotto l'aspetto che qui interessa, le situazioni poste a confronto, del lavoratore in prova e del lavoratore assunto a tempo indeterminato, mentre il riferimento ai pubblici dipendenti assunti in prova ed all'obbligo di motivazione del decreto ministeriale che li estrometta dall'Amministrazione, (d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 10 e d.P.R. 3 maggio 1957, n. 686, art. 14, comma secondo) ignora le ben diverse modalità di assunzione di questi ultimi, che comportano, già attraverso l'esperimento del concorso, una prima valutazione della loro idoneità professionale.

Neppure è prospettabile lesione degli artt. 4 e 35 Cost., vuoi per la portata del principio di cui all'art. 4, primo comma, Cost., che, "come non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di una occupazione, così non garantisce il diritto alla conservazione del posto di lavoro, (che nel primo dovrebbe trovare il suo logico e necessario presupposto)" (sent. n. 3 del 1957; 81 del 1969; 45 del 1965; 194 del 1970), vuoi perché l'art. 35 Cost., esaminato appunto in relazione all'art. 4, primo comma, Cost., non impone "una applicazione indiscriminata del principio della giusta causa, e del giustificato motivo nei licenziamenti, ma "lascia" al legislatore ampia discrezionalità in materia" (sent. 129 del 1976). Quanto, infine, all'art. 41, secondo comma, Cost., che riguarda lo svolgimento del rapporto di lavoro, invocato dai Pretori di Roma e di Napoli, non si ravvisa nelle disposizioni di legge censurate alcun attentato alla libertà e alla dignità del lavoratore, soprattutto quando si riconosca la sindacabilità nei limiti anzidetti, del concreto esercizio del recesso operato dall'imprenditore in costanza del periodo di prova e l'annullabilità dell'atto nel quale si esprime, tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato.

Quanto infine alla denunziata inversione dell'onere della prova rispetto al sistema della legge 604/66, vanno ricordati, da un lato, la portata generale delle disposizioni di cui all'art. 4 legge 604/66, che torna pacificamente applicabile anche al di fuori dell'ambito di operatività fissata dai precitati artt. 10 e 11 della legge medesima, e dall'altro la costante incidenza sul lavoratore dell'onere della prova nei giudizi di nullità dei licenziamenti determinati da motivi politici, religiosi e sindacali.


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1. - dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2096, terzo comma, cod. civ. nella parte in cui non riconosce il diritto alla indennità di anzianità di cui agli artt. 2120 e 2121 stesso codice, al lavoratore assunto con patto di prova nel caso di recesso dal contratto durante il periodo di prova medesimo.

2. - Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 nella parte in cui esclude il diritto del prestatore di lavoro, che riveste la qualifica di impiegato o di operaio a sensi dell'art. 2095 cod. civ., a percepire l'indennità di anzianità di cui all'art. 9 della medesima legge 604 del 1966, quando assunto in prova è licenziato durante il periodo di prova medesimo.

3. - Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2109 cod. civ. nella parte in cui non prevede il diritto a ferie retribuite anche per il lavoratore assunto in prova in caso di recesso dal contratto durante il periodo di prova medesimo.

4. - Dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2096, terzo comma, cod. civ. e dell'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 sollevate, con riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 4, 35 e 41, secondo comma, Cost., con le ordinanze dei Pretori di Milano, Roma e Napoli di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1980.

F.to: LEONETTO AMADEI - GIULIO GIONFRIDA - EDOARDO VOLTERRA - MICHELE ROSSANO - ANTONINO DE STEFANO - LEOPOLDO ELIA - ORONZO REALE - BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - ALBERTO MALAGUGINI - LIVIO PALADIN - ARNALDO MACCARONE - ANTONIO LA PERGOLA - VIRGILIO ANDRIOLI - GIUSEPPE FERRARI,

GIOVANNI VITALE - Cancelliere