Ritenuto in fatto:
Nel corso del procedimento civile tra Sechi Antonio e Fancellu
Pietro, avente per oggetto il pagamento di canoni di affitto di fondi
rustici, il tribunale di Sassari, con ordinanza 17 dicembre 1971,
riteneva, oltre che rilevante, non manifestamente infondata, con
riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 3, primo comma, della
Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt.
1, 3 e 4, primo comma, della legge 11 febbraio 1971, n. 11, avente per
oggetto la nuova disciplina dell'affitto dei fondi rustici.
Secondo l'ordinanza di rimessione, la nuova normativa (artt. 3 e
4), che impone di determinare il canone moltiplicando il reddito
dominicale risultante dal catasto terreni, per il coefficiente che la
Commissione tecnica provinciale (di cui all'art 2 della legge 18 agosto
1948, n. 1140) stabilisce ogni quadriennio, per zone agrarie omogenee e
per ciascuna qualità di cultura e classe, ma entro i coefficienti che
la legge impugnata fissa nel minimo di 12 e nel massimo di 45, viola
l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, perché riduce il canone ad
una misura irrisoria e quindi produce, in sostanza, gli effetti di una
espropriazione della proprietà del concedente senza la corresponsione
del dovuto indennizzo.
Inoltre, il detto sistema automatico di determinazione del canone
in base ai redditi dominicali, la cui ultima revisione generale rimonta
all'anno 1939, viola l'art. 3, comma primo, della Costituzione, perché
applica un trattamento uguale a situazioni che sono andate fortemente
differenziandosi tra loro, con evoluzione variata da regione a regione,
negli oltre trenta anni da allora decorsi, a causa del mutamento dei
tipi di cultura, dei modi di lavorazione, delle trasformazioni delle
strutture aziendali e del prezzo dei prodotti, e su cui ha inciso anche
la svalutazione monetaria.
Infine, l'obbligo, sancito contro l'antica tradizione e l'anteriore
normativa, di determinare il canone soltanto in danaro (art. 1) viola
parimenti, secondo l'ordinanza di rimessione, l'art. 42, terzo comma,
della Costituzione, perché nullifica nel tempo il valore del canone
già irrisorio, ove si consideri la lunga durata stabilita per il
contratto e il fenomeno, connaturale alla economia moderna, della
svalutazione monetaria.
Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti sia il Sechi che
il Fancellu ed è anche intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato.
Nelle deduzioni e nelle memorie presentate, il Sechi ha sostenuto
che le disposizioni denunziate, determinando il canone con un
procedimento arbitrario, in misura irrisoria e in valori non stabili,
come quelli monetari, violano le norme della Costituzione cui
l'ordinanza fa riferimento; invece, secondo il Fancellu, le censure
prospettate dal giudice a quo, con riferimento all'art. 42, terzo
comma, Cost., non sono pertinenti, in quanto le norme denunciate non
incidono sul diritto di proprietà, ma sull'autonomia contrattuale che
non riceve una tutela diretta dalla Costituzione. Aggiunge il Fancellu
che, comunque, il canone, dato l'arco dei coefficienti entro i quali
esso viene determinato, non è affatto irrisorio né è avulso dalla
concreta situazione cui deve aderire.
La difesa dello Stato, nel chiedere che la Corte dichiari infondata
la questione proposta, sostiene che il sistema di determinazione del
canone con riferimento ai valori catastali ha il pregio della
obiettività e della certezza, mentre i coefficienti minimi e massimi,
proprio perché consentono di tenere conto delle situazioni
modificantisi nel tempo, conferiscono al canone un valore che risolve
nell'equità i contrapposti interessi delle parti contraenti, nel
quadro di un più razionale sfruttamento del suolo e della
instaurazione di più giusti rapporti sociali.
Con altra ordinanza, emessa in pari data, nel corso del
procedimento civile promosso da Gandolfo Carla contro i coniugi Onida
Raffaele e Mura Sebastiana, lo stesso tribunale di Sassari ha
denunciato soltanto gli artt. 1 e 3, secondo comma, della legge n. 11
del 1971, con riferimento non solo agli artt. 42, terzo comma, e 3,
primo comma, della Costituzione, ma anche alle disposizioni di cui agli
artt. 42, secondo comma, e 44 della Costituzione.
Il tribunale ribadisce in questa ordinanza gli argomenti esposti
nella precedente, ampliandone il discorso per quanto attiene alla
tutela del diritto di proprietà che, pur nei limiti previsti, è
riconosciuta e garantita dalla legge, e che, se piccola e media, è da
essa "aiutata".
Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituita, per le parti
private, soltanto la Gandolfo che, nelle sue deduzioni, aderisce alle
censure prospettate nella ordinanza di rinvio; è altresì intervenuta,
per il Presidente del Consiglio, l'Avvocatura generale dello Stato che,
con argomentazioni analoghe a quelle esposte nel precedente giudizio,
ha chiesto che la Corte dichiari infondate le dedotte questioni di
legittimità costituzionale.
Nella discussione orale le parti costituite hanno ulteriormente
illustrato le proprie tesi ed hanno insistito nelle rispettive
conclusioni.
Considerato in diritto:
1. - I giudizi proposti dal tribunale di Sassari con le due
ordinanze di pari data, poiché hanno per oggetto le medesime
questioni, vanno riuniti e decisi con unica sentenza.
2. - Nelle dette ordinanze vengono denunciati gli artt. 1, 3 e 4,
comma primo, della legge 11 febbraio 1971, n. 11, avente per oggetto
"nuova disciplina dell'affitto dei fondi rustici", perché ritenuti in
contrasto con gli artt. 3, comma primo, 42, commi secondo e terzo, e 44
della Costituzione.
Secondo il giudice a quo, la legge impugnata, per aver stabilito
che il canone debba essere determinato con riferimento al reddito
imponibile del fondo, espresso in catasto con la tariffa formata in
base ai prezzi del 1939 (1. 29 giugno 1939, n. 976) e aggiornata con
coefficienti di moltiplicazione fissati nel minimo di 12 e nel massimo
di 45, violerebbe, tra le altre norme costituzionali richiamate, l'art.
3, comma primo, della Costituzione perché "mentre si preoccupa di
assicurare l'equa remunerazione del fattore della produzione agricola,
che è costituito dal lavoro (garantito fin dai principi fondamentali
della Costituzione e massimamente degno di tutela), sembra però
ignorare le esigenze della proprietà della terra, frutto anch'essa di
lavoro e di risparmio, protetta da una norma costituzionale specifica
nelle forme piccole e media e fonte, non di rado, di un sostentamento
essenziale a favore della persona".
Secondo questa prima censura, sarebbe dunque illegittimo
comprimere, peraltro in modo massiccio, il reddito del proprietario
concedente per ampliare corrispondentemente l'utile dell'affittuario.
Accantonando per il momento il problema se la riduzione così
operata sul reddito rispetti o no, per la sua entità, il diritto del
proprietario a conseguire dalla cosa, anche se utilizzata direttamente
da altri, un beneficio, e restringendo l'esame al rilievo concernente
lo squilibrio apportato dalla legge nella ripartizione del rendimento
della terra, occorre dire che la questione, così proposta, è solo
parzialmente fondata.
Essa non è fondata se ad aver vantaggio della compressione che la
legge esercita sul beneficio fondiario sia un affittuario che coltivi
direttamente la terra con le forze di lavoro proprie e dei suoi
familiari, mentre è invece fondata se di quella compressione dei
diritti dominicali debba lucrare gli utili conseguenti un affittuario
imprenditore che la terra presa in fitto faccia lavorare da altri.
Ciò perché, mentre l'affittuario coltivatore gode della
situazione privilegiata che gli artt. 35 e segg. Cost. assicurano alla
posizione del lavoratore, garantendo, tra l'altro, che la sua
retribuzione sia in ogni caso sufficiente ad assicurare a lui e alla
sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, l'affittuario
imprenditore ha a sua tutela solo il principio sancito dall'art. 41
Cost. e relativo alla libertà della iniziativa economica privata.
La legge quindi, nel dettare, negli artt. 3 e 4, primo comma, le
nuove norme sulla formazione del canone con riferimento a tutti gli
affittuari, siano essi coltivatori diretti, come imprenditori non
coltivatori, viola l'art. 3, comma primo, della Costituzione che, nel
sancire, tra i principi fondamentali, l'eguaglianza fra i cittadini,
postula, come è stato sempre ritenuto da questa Corte, che a
situazioni differenziate tra loro non possa praticarsi identico
trattamento.
Con ciò, ed in riferimento al caso specifico, non vuol dirsi che
la determinazione del canone tra il proprietario concedente e
l'affittuario imprenditore debba lasciarsi affidata alle sole regole
dell'economia di mercato. Ma vuol dirsi soltanto che tra due forme di
attività economiche, più o meno equivalenti sul piano della tutela
costituzionale (perché entrambe fruenti di garanzie generiche), quali
appunto l'esercizio dei diritti dominicali sulla terra e la gestione
dell'impresa che provvede, con lavoro altrui, alla cultura di essa, il
pubblico interesse volto ad assicurare risultati vantaggiosi alla
comunità, quali il razionale sfruttamento del suolo, l'abbondanza
della produzione, il contenimento del prezzo dei prodotti, ecc., deve
utilizzare, perché il canone di affitto sia equo, altre forme di
intervento, che trovino la loro estrinsecazione in un'analisi più
approfondita dei dati economici del fenomeno produttivo e non possano
limitarsi alla semplice massiccia compressione del beneficio fondiario
come mezzo per devolvere l'ampio margine di differenza all'impresa, a
copertura delle spese di produzione e alla formazione del profitto.
3. - Le ordinanze deducono poi che il sistema introdotto dalla
legge, di determinare il canone assumendo a parametro il reddito
imponibile risultante dal catasto, la cui ultima revisione rimonta al
1939, "si presenta ictu oculi, ove appena si consideri i rivolgimenti
politici, sociali ed economici degli ultimi trent'anni, e la
svalutazione monetaria in questo tempo intervenuta, tanto falso e
anacronistico che vorrebbe dirsi arbitrario". Il che, sempre secondo le
ordinanze, produrrebbe anche gravi squilibri tra le varie zone agricole
del Paese, perché "l'ancoraggio al reddito dominicale del 1939, nelle
regioni che fin da allora avevano conseguito un alto grado di sviluppo
e di produzione agricola, non produce effetti così iniqui, e così
stridenti con la realtà, come in queste altre regioni" (Italia
meridionale e insulare) "in cui il progresso è cominciato da poco".
La censura investe gli artt. 3 e 4, primo comma, della legge e il
riferimento è all'art. 3, primo comma, della Costituzione.
La questione non sembra fondata.
Per quanto, in linea di massima, gli anzidetti argomenti non
possano dirsi privi di consistenza, tuttavia essi appaiono di scarso
rilievo se si considera che il legislatore, nella sua discrezionalità,
intendeva non instaurare, con quegli accorgimenti che si esamineranno
tra poco, un metodo di determinazione del canone che abbia il caranere
preminente della precisione (impossibile, per altro, a conseguirsi con
qualsiasi procedimento di valutazione), ma adoperare un mezzo che serva
solo a fissarne i valori in maniera più o meno prossima alla realtà,
mediante un sistema semplice e ispirato a un automatismo volto a
contenere le contestazioni cui aveva dato luogo la normativa
precedente.
Ma tale scopo che il legislatore si è proposto non varrebbe a
salvare il sistema dalla censura di irrazionalità se nel contempo non
si fosse dato cura, con quegli accorgimenti di cui è fatto cenno, di
rendere meno distanti dalla realtà attuale i dati catastali che si
riferiscono al lontano anno dell'ultima revisione.
Per conseguire tale accostamento dei vecchi dati alla odierna
realtà economica, la legge dispone (art. 4) che, qualora la qualità e
classe dei terreni componenti il fondo risultassero mutati, si possa
chiedere la revisione e il nuovo classamento; e dispone altresì che,
nei casi di migliorie introdotte (si intende fra il 1939 e l'entrata in
vigore della legge) dal proprietario del fondo, e che non giustifichino
una modifica della qualità e classe (costruzione di edifici ed altri
manufatti, ecc. non tassati in catasto), le Commissioni tecniche
provinciali possono stabilire criteri e misure di aumento del canone.
Ottenuto così un certo aggiornamento della consistenza dei dati
catastali, il legislatore, tenuto conto che le relative valutazioni,
anche in caso di revisione di qualità e classe, sono espresse in
moneta del 1939, ha cercato di effettuare una rivalutazione di quei
dati sul piano dei valori monetari, mediante coefficienti di
moltiplicazione fissati entro il minimo di 12 e il massimo di 45 e
stabiliti in 36 nel caso di cui al sesto comma dell'art. 3. Tuttavia
tali coefficienti, per quanto si dirà in seguito, risultano
inadeguati.
Ma, a questo punto, il discorso sulla utilizzabilità in astratto
dei dati catastali, ai fini della determinazione del canone può
concludersi in senso positivo, stante che non mancano, come si è
visto, nella legge, procedimenti che tendano ad aggiornare dati e
valori e, se non pervengono a risultati accettabili, non è detto che,
con opportune modifiche, non possano conseguire l'effetto.
Per gli stessi motivi non è fondato il rilievo che eccepisce la
violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione per
l'applicazione delle stesse norme denunciate alle zone agrarie del
territorio nazionale, senza tener conto del loro vario grado di
sviluppo.
4. - Si lamenta poi nelle ordinanze di rimessione che il
"pretendere di accertare il reddito dominicale secondo la stima di
prima della guerra, significa creare una finzione che può solo
condurre, qualunque coefficiente moltiplicatorio voglia congetturarsi,
a un canone legale incongruo, elusivo nella sostanza della garanzia
costituzionale, che esige un indennizzo serio, anche se non completo,
del diritto colpito, e che ha da essere lealmente rispettato". Dal che
deriverebbe la violazione dell'art. 42, secondo e terzo comma, della
Costituzione.
L'assunto dell'ordinanza, secondo il quale, qualsiasi coefficiente
si adottasse, si giungerebbe sempre a un canone incongruo, va precisato
nel senso che quelli stabiliti dalla legge sono insufficienti e
conducono alla formazione di un canone inaccettabile per la sua
distanza dai valori reali.
Quei coefficienti hanno infatti lo scopo di aggiornare i valori
monetari per eliminare o ridurre gli effetti della svalutazione, e
ragione della loro determinazione fra un minimo ed un massimo è quella
di fornire un dato variabile che meglio si adatti alla molteplicità
dei casi cui deve aderire, e che è differenziata in rapporto alle
modificazioni intervenute nel tempo nella formazione dei prezzi dei
prodotti, soprattutto a seguito dei mutamenti tecnologici nella cultura
della terra.
Ora, la assoluta inadeguatezza dei coefficienti stabiliti dalla
legge risulta innanzi tutto dal loro confronto con l'entità della
svalutazione monetaria che, rispetto al 1939, ha, secondo i dati Istat,
superato la quota 100. Ma, in modo che appare anche più evidente,
risulta dall'ammontare del carico fiscale che, per il solo complesso
dei tributi strettamente gravanti sul reddito dominicale dei terreni,
ha superato la cifra di lire 1.400 per ogni 100 lire accertate in
catasto a seguito della revisione del 1939. Ove si aggiungano a quei
tributi gli altri connessi, come l'imposta complementare e quella di
famiglia, si vedrà che una larga fascia di canoni, ottenuta con
coefficienti di rivalutazione anche superiori al minimo di 12, resta
assorbita dalle imposte e che il beneficio fondiario ne risulta
annullato. La constatazione resta confermata e non eliminata dal
successivo intervento legislativo (l. 4 agosto 1971, n. 592) che ha
esentato dal pagamento delle imposte e sovrimposte sui terreni quei
proprietari di fondi concessi in affitto il cui reddito dominicale
complessivo non superi le lire 8.000 e l'imponibile in complementare
non superi lire 1.800.000. Ciò perché tale intervento, se ha
sollevato i minori e i minimi proprietari, non ha modificato la
situazione rispetto a tutti gli altri, le cui condizioni economiche
meno disagiate, o anche addirittura floride, non autorizzano a privarli
di quanto è loro dovuto entro i limiti segnati dalla tutela
costituzionale loro spettante.
A conferma della assoluta inadeguatezza dei coefficienti fissati
tra 12 e 45 stanno, inoltre, altri elementi deducibili da uno studio
proveniente dall'Amministrazione del Catasto e pubblicato in calce alle
relazioni parlamentari sulla legge in esame. Trattasi del "promemoria
dell'Amministrazione del Catasto in data 18 giugno 1969", in cui si
rende noto che, nel primo scorcio degli anni sessanta, in vista di una
allora progettata e poi non attuata revisione generale degli estimi
catastali, si effettuò, operando, col metodo del campione, su 300
Comuni sparsi in quasi tutte le provincie del territorio nazionale e su
oltre ventimila aziende, la determinazione dei redditi catastali con
riferimento alla consistenza e ai valori monetari del triennio
1958-1960. I risultati ottenuti portarono alla conclusione che,
rispetto ai dati catastali del 1939, i nuovi si attestavano fra le 25 e
le 75 volte quelli anteriori. Partendo da questi dati, e, con un
calcolo assai semplice ma indicativo, applicando ad essi i coefficienti
di ulteriore svalutazione della lira 1971 rispetto a quella del 1960,
che è di 1,5365 (Istat, costo vita) si ha che ora essi dovrebbero
raggiungere i valori di 38 nel minimo e di 105 nel massimo.
La minore misura dei coefficienti, che la legge fissa in cifre
tanto lontane da queste, non è giustificata sul piano economico e
quindi neppure su quello giuridico-costituzionale.
Dalla assoluta inadeguatezza dei coefficienti consegue infatti una
misura del canone tanto esigua da rendere lo stesso privo di ogni
valore rappresentativo del reddito che la terra deve pur fornire al
proprietario ai sensi delle norme della Costituzione.
Al riguardo, le ordinanze richiamano l'art. 42 nei suoi commi
secondo e terzo e l'art. 44. Ora, ai sensi del secondo comma dell'art.
42, la proprietà è riconosciuta e garantita dalla legge la quale, per
l'art. 44, primo comma, aiuta la piccola e media proprietà. Entrambi
gli articoli indicano poi numerosi limiti che la legge può imporre
alla proprietà allo scopo di assicurarne la funzione sociale,
conseguire il razionale sfruttamento del suolo e stabilire equi
rapporti sociali. Ma è ovvio che tali limiti, se possono comprimere le
facoltà che formano la sostanza del diritto di proprietà, non possono
mai pervenire ad annullarle. Del che fornisce riprova il disposto del
terzo comma dello stesso art. 42 il quale, nel sancire che la
proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse
generale, fa salvo in tal caso per il proprietario il diritto alla
corresponsione di un indennizzo. La proprietà non può quindi cedere
del tutto, e cioè scomparire, senza che il proprietario ne riceva un
corrispettivo, e quindi un utile, persino quando il pubblico interesse
ne richieda il sacrificio, perché anche in tal caso è dovuta la
corresponsione di un indennizzo (nei limiti che la pubblica
amministrazione è in grado di corrispondere in rapporto all'interesse
che persegue), ma che, come questa Corte ha più volte affermato, non
sia né simbolico né irrisorio.
Ora, la legge impugnata, rendendo, specie a ragione della
insufficienza dei suoi coefficienti di rivalutazione, a volte
addirittura onerosa la proprietà della terra, ed a volte
determinandone il reddito in misura irrisoria, viola gli artt. 42,
secondo comma, e 44, primo comma, della Costituzione perché incide
fortemente, fino ad annullarlo, su di un diritto riconosciuto e
garantito, e talvolta addirittura oggetto di una specifica tutela.
Le ordinanze denunciano poi, in rapporto alla stessa fattispecie,
anche la violazione del comma terzo dell'art. 42 circa la mancanza di
un indennizzo in quella che viene prospettata come una sostanziale
espropriazione, attuata mediante la compressione dei diritti
dominicali.
Poiché, però, alla dichiarazione di illegittimità delle norme
della legge impugnata si perviene di già con riferimento al secondo
comma dello stesso articolo, questa ulteriore questione va dichiarata
assorbita.
5. - Le ordinanze denunciano infine "l'art. 1 della legge, in
rapporto anche all'art. 3, secondo comma, in cui il canone è
determinato in danaro, e per un tempo lungo" perché "allarga ancora la
divergenza tra diritto e indennità, a causa della continua
svalutazione monetaria e dell'inverso movimento di ascesa dei prodotti
agricoli".
Anche qui il riferimento è all'art. 42, secondo comma, della
Costituzione.
La questione è fondata.
È innanzi tutto da premettere che, per l'art. 17 della legge, la
durata del contratto di affitto per l'affittuario imprenditore è di
anni 15, mia quella durata può essere, a richiesta dell'affittuario, e
per effetto dell'art. 1, terzo comma, della richiamata legge 22 luglio
1966, n. 607, aumentata di altri 3 anni e, inoltre, può ancora essere,
a mezzo di sua iniziativa concretantesi nella esecuzione a sue spese di
miglioramenti, accresciuta di almeno altri 12 anni; laddove l'affitto a
coltivatore diretto non ha alcuna scadenza (art. 14 l. 15 settembre
1964, n. 756). In sostanza, il contratto, sol che l'affittuario lo
voglia, ha una durata superiore in complesso ai trenta anni, quando non
ne ha una illimitata, come per l'affittuario coltivatore. Di fronte a
una simile lunga o indefinita durata del rapporto, il disposto
dell'art. 1 della legge impugnata, stabilendo che "nell'affitto di
fondo rustico il canone è determinato e corrisposto in danaro"
introduce un nuovo strumento di riduzione del canone, la cui azione è
prevedibile come certa se si pensa che la svalutazione monetaria,
almeno nei limiti di quella così detta strisciante, è considerata
fenomeno naturale e, in certo senso, necessario, dell'economia dei
paesi moderni.
Ora, se la corresponsione del canone in danaro costituisce una
innovazione che trova ragione nel nuovo sistema di sua formazione
ottenuta con riferimento al reddito catastale, che è appunto espresso
in danaro, nessuna ragione può trovare la soppressione di ogni forma
di ragguaglio al prezzo di determinati prodotti che era antica regola
sancita anche, da ultimo, nell'art. 1 della legge 12 giugno 1962, n.
567; come nulla può giustificare la mancata introduzione di qualsiasi
altra forma di aggiornamento monetario.
Né alcun ausilio può fornire a tal fine la periodicità della
determinazione della tabella dei canoni di equo fitto che, per l'art. 3
della legge, la Commissione tecnica provinciale è tenuta ad elaborare
ogni quattro anni, perché, nel compimento di tale operazione, essa è
tenuta a restare entro i limiti dei coefficienti minimi e massimi
stabiliti dalla legge. Mentre è ovvio che, determinata che sia la
tabella e stabilito poi (art. 4) il canone entro quei limiti, il suo
ammontare, se si ammette che un aggiornamento monetario sia necessario,
deve essere indipendente dai limiti stessi, potendo anche, ove il
calcolo lo comporti, superarli.
Pertanto, la mancata previsione di un qualche strumento di
rivalutazione del canone, in ordine alla svalutazione, rappresenta una
grave carenza della legge, che appare ancor più evidente ove si tenga
presente che, nella disciplina generale della formazione dei prezzi
imposti, introdotta dal d.l.lgt. 19 ottobre 1944, n. 347, istitutivo
del Comitato interministeriale prezzi e norme successive, la revisione
di essi al variare dei presupposti è ritenuta connaturale al sistema,
mentre la legge 18 dicembre 1970, n. 1138, contenente nuove norme in
materia di enfitensi, ha stabilito all'art. 6, per quanto concerne le
enfiteusi urbane, che "il canone... può essere in ogni caso rivalutato
a richiesta della parte interessata, in misura proporzionale al mutato
potere di acquisto della lira quale risulta dalle statistiche
dell'Istituto Centrale di Statistica".
In un caso del genere, in cui, in tema di espropriazione per
pubblica utilità, la legge 167 del 1962 stabiliva che i prezzi dei
beni espropriandi nel previsto corso di 10 anni dovevano essere
determinati con riferimento a quelli vigenti nei due anni anteriori
alla entrata in vigore della legge stessa, la Corte, nella sentenza n.
22 del 1965, riteneva la illegittimità della disposizione, in quanto
essa poneva in essere, nei confronti dei proprietari compresi nei
piani, una situazione di incertezza o di alea, stante la "possibilità
che, nell'intervallo fra l'adozione dei piani e la loro attuazione, si
verifichino eventi perturbatori tali da condurre a una liquidazione
dell'indennità in misura irrisoria o addirittura simbolica".
Onde la Corte concludeva che, con la dichiarazione di
illegittimità, non si intendeva "disconoscere la discrezionalità del
legislatore di riportare la liquidazione dell'indennità ad una data
anteriore a quella dell'espropriazione", la qual cosa non avrebbe dato
luogo a rilievi purché fossero stati nel contempo dalla legge
predisposti "anche i necessari temperamenti, così da eliminare la
possibilità che l'indennizzo, con il concorso degli elementi di cui si
è fatta menzione, possa perdere consistenza, in modo tale da non
assolvere più la funzione di garanzia cui si è accennato".
L'analogia del caso è evidente: esproprio con indennizzo
retrodatato, canone da pagarsi in futuro a valori nominali costanti,
offrono le stesse alee e determinano gli stessi risultati erosivi della
consistenza reale di un valore che la svalutazione, prevedibile come
certa, produce nel tempo.
Si deve, in conclusione, riconoscere che la mancata previsione di
una rivalutazione dei canoni in una misura corrispondente alle
eventuali mutazioni del potere di acquisto della lira appare lesiva del
diritto del proprietario concedente a conservare invariato nel valore
di acquisto il canone autoritativamente determinato. Ed è ovvio che
ciò è vero sia che si tratti di canone già anteriormente determinato
in danaro, sia che si tratti di canone determinato in natura e
convertito in danaro per effetto dell'art. 1 della legge.
Dal che la parziale illegittimità dell'art. 1 della legge
impugnata per violazione dell'art. 42, secondo comma, Cost., per le
stesse ragioni esposte nei numeri precedenti.