Ritenuto, in fatto:
La Regione autonoma della Sardegna, con undici ricorsi regolarmente
notificati, denuncia a questa Corte la illegittimità costituzionale di
una serie di norme contenute nel decreto del Presidente della
Repubblica 19 maggio 1949, n. 250, recante disposizioni per
l'attuazione dello Statuto speciale per la detta Regione.
Con un primo gruppo di ricorsi denuncia la illegittimità degli
artt. 1 e 4, lettere d, e ed f, del capo 1 del decreto sopraindicato
per i seguenti motivi:
a) Quanto all'art. 1, che esso contrasterebbe con i precetti di cui
agli artt. 19, 20 e 54 dello Statuto speciale, perché segnerebbe una
non consentita ingerenza dello Stato in una materia, quale quella delle
sessioni ordinarie e straordinarie del Consiglio regionale, riservata
alla competenza regolamentare del Consiglio stesso e, comunque, nel suo
primo comma, contrasterebbe direttamente con lo Statuto, che prevede
due sole sessioni ordinarie, a febbraio e ottobre.
b) Quanto all'art. 4, lettere d ed e, sia perché le norme
inciderebbero su materie, come quelle dell'ordinamento degli uffici e
dei lavori pubblici, che lo Statuto speciale ricomprende tra quelle di
competenza esclusiva del legislatore regionale; sia perché,
attribuendo al Consiglio compiti di natura meramente esecutiva, si
offenderebbe il principio della separazione dei poteri.
c) Quanto all'art. 4, lett. f, perché questa norma, assegnando al
Consiglio regionale "ogni altra attribuzione per la quale la legge
richiede l'approvazione del Consiglio", parrebbe autorizzare il
legislatore ordinario ad allargare la competenza legislativa del
Consiglio; ciò che invece non sarebbe statutariamente e
costituzionalmente consentito, dato che il legislatore ordinario non
avrebbe competenza ad introdurre modificazioni allo Statuto e, sotto
altro aspetto, perché la distribuzione della competenza tra gli organi
sarebbe compito del legislatore regionale.
Il secondo gruppo di precetti di cui è denunciata la
illegittimità costituzionale è costituito dalle disposizioni
contenute nell'art. 11, lettere a e d, in relazione agli artt. 34, 37,
41 e 54 dello Statuto speciale.
Si deduce il contrasto di queste disposizioni con i principi che
informerebbero il sistema dei rapporti tra gli organi esecutivi della
Regione, e ciò perché spetterebbe solo alla legge regionale dire
quali sono gli uffici che dipendono dal Presidente e quali invece dagli
assessori. Si aggiunge che le norme di attuazione non avrebbero potuto
negare agli assessori veste di organi costituzionali esterni.
Delle disposizioni contenute nel capo V del decreto presidenziale
di attuazione formano oggetto di specifica impugnativa sia l'art. 19
che l'art. 20, ambedue in relazione con l'art. 3, lett. a, dello
Statuto speciale.
Le norme indicate come costituzionalmente illegittime attengono
alla nomina del Segretario generale della Regione e all'assunzione
degli impiegati amministrativi e tecnici. Si deduce che queste norme
contrasterebbero con la legge statutaria dal momento che lo Statuto
demanda alla Regione la regolamentazione dell'ordinamento degli uffici
e dello stato giuridico ed economico del personale.
Con altro ricorso la Regione denuncia la illegittimità
costituzionale dell'art. 31, comma 1, del più volte citato decreto
presidenziale in relazione agli artt. 46 e 54 dello Statuto speciale,
pel riflesso che la norma impugnata, conferendo al Rappresentante del
Governo il potere di richiedere al Presidente della Giunta regionale e
ai Presidenti delle Deputazioni provinciali notizie e chiarimenti
relativi alla attività degli organi regionali, lascerebbe intendere di
aver voluto attribuire al Rappresentante del Governo un potere di
controllo sugli atti degli enti locali, controllo che la legge
statutaria demanda agli organi della Regione.
Tra le norme contenute nel capo VIII, intitolato "Finanze, demanio
e patrimonio regionale", risultano impugnate le disposizioni degli
artt. 39 e 44.
L'art. 39 forma oggetto di ricorso nei suoi due primi commi, in
riferimento agli artt. 14, 54 e 58 dello Statuto speciale. Si deduce:
a) che il trapasso dei beni demaniali e patrimoniali dallo Stato alla
Regione doveva avvenire immediatamente e non con decorrenza 1 gennaio
1950 come dispone il decreto di attuazione; b) che gli elenchi dei beni
la cui proprietà trapassa alla Regione avrebbero dovuto comprendere
anche "i beni demaniali e patrimoniali connessi a servizi di competenza
statale e a monopoli fiscali", che lo Statuto regionale prevede restino
allo Stato solo finché duri tale destinazione. Questi beni
apparterrebbero infatti allo Stato ma non a titolo di proprietà.
L'art. 44, riguardante la Ragioneria generale della Regione, è
invece indicato come costituzionalmente illegittimo per una
molteplicità di motivi.
La istituzione, l'organizzazione e il funzionamento della
Ragioneria regionale - si dice - forma oggetto di competenza
legislativa esclusiva della Regione, perché quest'ufficio farebbe
parte integrante dell'organismo burocratico regionale. Si aggiunge che
il Ministero del Tesoro, che di concerto con il Presidente della
Regione provvede alla nomina del ragioniere regionale, viene per ciò
solo a svolgere una ingerenza non consentita sulla gestione del
patrimonio regionale, controllo che oltretutto risulterebbe un
duplicato di quello della Corte dei conti.
Gli ultimi due ricorsi riguardano precetti contenuti nelle
disposizioni transitorie e finali, e precisamente negli artt. 54 e 56.
L'art. 54, che dichiara soggette a vigilanza delle Amministrazioni
tecniche e finanziarie dello Stato le attività svolte dalla Regione
con speciali contributi dello Stato, sarebbe in contrasto con gli artt.
3, 4, 6 e 54 della legge statutaria, sia perché lo Statuto esclude che
attività amministrative della Regione possano essere in qualche modo
disciplinate con norme poste in essere da qualsiasi autorità che non
sia il legislatore regionale, sia perché in tal modo, e in diformita'
con quanto previsto dalla stessa Costituzione, verrebbe ad instaurarsi
un duplice controllo, accentrato, da esercitarsi nei limiti e con la
procedura che l'organo di controllo stabilirà con proprio atto
normativo.
L'art. 56, infine, risulterebbe incompatibile con l'art. 3, lett.
f, in relazione anche all'art. 6 dello Statuto speciale, perché
riconosce alla Regione solo la funzione preliminare di elaborazione
tecnica dei piani territoriali di coordinamento urbanistico, mentre
l'art. 3 sopracitato attribuisce alla Regione competenza legislativa in
materia urbanistica e di edilizia.
La difesa della Regione conclude pertanto, in tutti i ricorsi,
chiedendone l'accoglimento, per i sopra accennati motivi di
illegittimità costituzionale, anche sotto il riflesso della invasione
della competenza della Regione in ordine alla revisione dello Statuto,
procedura di revisione che, in ogni caso, si sarebbe dovuta seguire per
operare le modificazioni e le innovazioni denunciate. Con le
conseguenti pronuncie.
L'Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente
del Consiglio dei Ministri, resiste a tutti i ricorsi.
In linea generale l'Avvocatura osserva:
1) che le norme di attuazione dello Statuto speciale per la
Sardegna sono state emanate in virtù di una delega conferita dal
legislatore costituente, al fine, se non di abrogare o di modificare lo
Statuto, certo di integrarlo e di adattarlo, onde consentire
l'esercizio in concreto dell'autonomia regionale;
2) che queste norme, anche in ragione del loro carattere
evidentemente pattizio (la stessa Regione ha partecipato alla loro
formazione, attraverso la Commissione paritetica di cui all'art. 56
dello Statuto e al parere della Consulta regionale), formano con lo
Statuto, che esse integrano ed attuano, un corpo unico ed il prius
logico della stessa autonomia. Non potrebbero pertanto essere attaccate
per pretesa invasione di una assunta competenza regionale, competenza
che è effetto di quell'autonomia che Statuto e norme di attuazione
conferiscono alla Regione;
3) che in ogni modo, e fin tanto che la Regione non provvede con
proprie leggi a regolare tutti i settori della sua competenza, le leggi
dello Stato ben possono contenere disposizioni su queste materie di
competenza regionale.
Sul merito dei singoli ricorsi l'Avvocatura oppone:
1) che le norme di cui agli artt. 1, 4, lettere d, e, ed f, 11,
lettere a, c, d, 19 e 20, integrano disposizioni statutarie senza
derogare allo Statuto. In particolare esse o accrescono la
funzionalità del Consiglio regionale (art. 1), o meglio ne delimitano
la competenza in relazione a materie di particolare importanza (art. 4,
lettere d ed e), o specificano prescrizioni generiche dello Statuto
(art. 11), o contengono precetti di pura esecuzione (artt. 19 e 20);
2) che la richiesta di notizie e chiarimenti di cui all'art. 31 non
dà per sé sola luogo all'esercizio di alcun controllo;
3) che la data del trapasso dei beni demaniali e patrimoniali dallo
Stato alla Regione non era prevista nello Statuto sardo; mentre, per
ciò che attiene alla consegna degli elenchi, la Regione non può aver
interesse a riceverli fin tanto che non si estingua il diritto di
proprietà dello Stato;
4) che la disciplina dettata all'art. 44, a proposito della
Ragioneria regionale, soddisfa il precetto di cui all'art. 7 dello
Statuto, quale mezzo inteso ad assicurare il coordinamento della
finanza regionale con quella statale;
5) che l'art. 54 delle norme di attuazione ove, come si assume, si
riferisca all'ipotesi di attività di competenza regionale, per le
quali la Regione deve far ricorso al contributo dello Stato,
riguarderebbe un caso non previsto nello Statuto ma che, potendosi
verificare in pratica, doveva appunto essere considerato nelle norme di
integrazione;
6) che nel denunciare l'illegittimità costituzionale dell'art. 56
la Regione avrebbe omesso di tener conto che i piani di coordinamento
in materia urbanistica possono concernere zone territoriali ben più
estese della Regione. L'intervento del Ministero dei lavori pubblici
sarebbe quindi imposto dalla necessità di armonizzare in sede
nazionale i diversi piani di coordinamento.
L'Avvocatura dello Stato conclude, pertanto, chiedendo il rigetto
di tutti i ricorsi, con ogni statuizione di conseguenza.
La difesa della Regione e l'Avvocatura generale dello Stato hanno
poi depositato presso la cancelleria della Corte due memorie.
In quella propria, l'Avvocatura dello Stato si limita a riprodurre
vari brani dei lavori preparatori delle norme impugnate, dai quali è
dato desumere il punto di vista della Commissione paritetica o della
Consulta regionale, rilevando, a conclusione di siffatti richiami, che,
pure astraendo da ogni altra questione di forma e di fondo, i ricorsi
della Regione sarda non potrebbero trovare accoglimento, perché o la
Regione difetta di interesse a ricorrere avendo, quanto meno,
contribuito, attraverso la propria rappresentanza in seno alla
Commissione paritetica, alla formazione delle norme impugnate, o avendo
ad esse prestato acquiescenza in sede di voto della Consulta.
Dal canto suo, la difesa della Regione, nella propria memoria,
tratta ampiamente la questione della natura giuridica delle norme di
attuazione.
A riguardo osserva:
1) che le norme di cui trattasi sono espressione di una competenza
legislativa sostanzialmente regolamentare e formalmente delegata e,
quindi, necessariamente limitata sia quanto all'oggetto ed ai criteri,
che al teonpo del suo stesso esercizio;
2) che la limitazione di oggetto risulta dalla nozione stessa di
norme di attuazione, letteralmente e funzionalmente incompatibile con
la tesi che a queste norme vorrebbe invece riconoscere la possibilità
di un contenuto integrativo e di completamento del precetto statutario.
Ciò infatti contrasterebbe con il termine "attuazione", che
lessicalmente e giuridicamente non significa altro che esecuzione e
quindi, tutt'al più, sviluppo di principi che sono contenuti già
nello Statuto;
3) che le limitazioni di tempo sono insite nella funzione cui le
norme adempiono e che si soddisfa col fatto stesso del suo primo
esercizio;
4) che contro ciò non vale opporre la struttura pattizia delle
norme, dal momento che la funzione è stata esercitata con la forma del
decreto legislativo, che è tipica di alcune manifestazioni della
volontà normativa statuale, mentre non sarebbe vero affatto che la
Regione sarda abbia partecipato alla formazione di queste norme, per
l'assorbente motivo che la Regione, come organismo funzionante, non
preesisteva alla emanazione delle norme di attuazione;
5) che, per contro, la tesi della Regione sarda trova fondamento
nel fatto che le norme, di cui essa denuncia la illegittimità
costituzionale, o esorbitano dai limiti della mera attuazione,
ponendosi in conflitto diretto con il precetto statutario, o di questi
precetti tradiscono il principio ispiratore e, frapponendo ostacoli o
dettando prescrizioni sul modo di esercizio dell'autonomia, finiscono
praticamente per impedire l'esercizio concreto dell'autonomia stessa
pur statutariamente garantito.
Nella seconda parte della memoria, la difesa della Regione si
sofferma ad illustrare le doglianze dedotte con i singoli ricorsi e
conclude insistendo nelle conclusioni già rese.
In conformità del disposto dell'art. 15 delle norme integrative
per i giudizi davanti a questa Corte, gli undici ricorsi sono stati
chiamati nella stessa udienza del 6 giugno 1956 per essere
congiuntamente discussi.
Considerato, in diritto:
La Corte ha ravvisato opportuna la riunione dei ricorsi per la loro
decisione con unica sentenza. Ha rilevato infatti che, oltre alla
identità delle parti in causa, è comune ai ricorsi stessi la
risoluzione di varie questioni riguardanti la natura delle norme di
attuazione, di cui si discute, e innanzi tutto, la eccezione di
inammissibilità, sotto il profilo della acquiescenza o della mancanza
di interesse a ricorrere della Regione, sollevata dall'Avvocatura dello
Stato.
L'eccezione di inammissibilità dei ricorsi dev'essere respinta
perché giuridicamente infondata.
Essa non è infatti fondata sotto il profilo della acquiescenza che
avrebbe prestato la Regione a seguito della partecipazione di due
membri regionali alla Commissione paritetica, ed anche per effetto del
parere dato sulle emanande norme dalla Consulta regionale, giacché,
anche a prescindere dalla questione se i due membri della Commissione
paritetica nominati dall'Alto Commissario per la Sardegna avessero o
meno la veste di veri e propri rappresentanti della Regione ai fini del
compito precipuamente collegiale, che era stato demandato alla detta
Commissione, di proporre le norme, è fin troppo evidente - e ciò vale
anche rispetto al parere successivamente espresso dalla Consulta
regionale - che le disposizioni legislative, una volta emanate, si
distaccano dalla volontà delle persone o degli organi che le hanno
proposte, discusse o approvate. Una volta emanata una legge, è la
volontà della legge, nel suo contenuto e in virtù della sua forza
cogente, che si sovrappone a quella degli organi o delle persone che
hanno collaborato a formularla e che si afferma per sé stante, in modo
del tutto autonomo e indipendente. Ma anche a volere ammettere - per
mera ipotesi - che un qualche elemento di volontà, attraverso la
proposta della Commissione paritetica o il parere della Consulta
regionale, sia entrato a far parte delle emanate norme legislative, è
fuori dubbio che ciò non poteva infirmare in alcun modo il potere-dovere - di ordine pubblico di un diverso organo, qual'è l'Ente
Regione, di impugnare di illegittimità costituzionale quelle norme,
che avesse ravvisato affette da tal vizio, a difesa delle proprie
attribuzioni e della propria autonomia.
Non è poi fondata la sollevata eccezione di inammissibilità dei
ricorsi sotto il profilo della mancanza di interesse della Regione a
ricorrere, in quanto è da rilevare che la Regione medesima si è
trovata di fronte a disposizioni legislative che assume
costituzionalmente illegittime, ma che però hanno pieno, completo e
immediato vigore: si è trovata, cioè, in una posizione analoga a
quella prevista nell'art. 57 dello Statuto speciale, secondo cui nelle
materie attribuite alla competenza della Regione, fino a quando non sia
diversamente disposto con leggi regionali, si applicano le leggi dello
Stato. Il che conferma la sussistenza di un interesse attuale della
Regione per l'impugnativa delle norme in questione.
Ciò posto, ai fini dell'affermazione della competenza di questa
Corte e per l'esame di merito dei ricorsi, occorre previamente
accertare quale sia la natura e quale la portata delle norme di
attuazione di cui si tratta.
È noto che con l'art. 56 dello Statuto sardo si è conferito al
Capo dello Stato una potestà legislativa, quella di emanare le norme
di attuazione dello Statuto, con la forma e seguendo la procedura
stabilite in detto articolo.
Ma, innanzi tutto, è da rilevare che, pur provenendo siffatto
conferimento di potestà legislativa dall'Assemblea costituente e pur
trovando esso la sua fonte formale nello Statuto - che è legge
costituzionale - le emanate norme non hanno la natura di legge
costituzionale. Infatti l'Assemblea costituente aveva il potere di
emanare lo Statuto, ma non quello, diverso, di attribuire al Governo il
potere costituente, e cioè, nella specie, il potere suo proprio
caratteristico, giacché il potere dell'organo costituente non può
essere mai ad altro organo conferito o delegato. Ci si trova, quindi,
di fronte ad ordinarie norme aventi forza di legge, sulle quali
pienamente può essere esercitato il sindacato di legittimità
costituzionale di questa Corte, ai sensi dell'art. 134 della
Costituzione, dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948,
n. 1, e dell'art. 32 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87.
Più precisamente è da rilevare che è lo stesso art.56 dello
Statuto sardo che dà una denominazione giuridica al decreto del Capo
dello Stato contenente le norme di attuazione: lo chiama "decreto
legislativo". Ma è da osservare che esso va distinto tanto dai decreti
legislativi - così anche denominati - che nel periodo transitorio e
durante quello della Costituente furono emanati in base al D.L.L. 25
giugno 1944, n. 151, e all'altro D.L.L. 16 marzo 1946, n. 98, quanto
dalle leggi delegate - anch'esse usualmente dette decreti legislativi -
emanati in base alla disposizione contenuta nell'art. 76 dalla
Costituzione. Quei primi avevano la loro giustificazione e trovavano la
loro fonte nella necessità del Governo di provvedere quando non
esisteva il Parlamento e durante il periodo della Costituente, fino
alla costituzione delle nuove Camere; gli altri - le leggi delegate in
base all 'art. 76 della Costituzione - trovano la loro fonte e il loro
regolamento nella Carta costituzionale e sono legati ai limiti e alle
condizioni che lo stesso art. 76 pone, e cioè la determinazione dei
principi e dei criteri direttivi, per quanto riguarda il loro
contenuto, la limitazione del tempo per la loro emanazione e la
determinazione di oggetti definiti, per quanto riguarda la materia.
Limiti e condizioni che all'infuori dell'oggetto - non si riscontrano
nel caso dell'art. 56 dello Statuto sardo; onde bisogna concludere che
si è trattato di una speciale attribuzione di facoltà legislativa,
fatta dall'organo costituente, subordinata alle determinate forme
stabilite nel detto articolo - quale la formazione della Commissione
paritetica e il parere della Consulta regionale - per raggiungere la
finalità di porre in essere quelle norme di attuazione che dovevano
accompagnare la nascita della Regione e renderne praticamente e
giuridicamente possibile l'attività. Esattamente quindi, nel
preambolo del decreto del Presidente della Repubblica del 19 maggio
1949, n. 250, col quale furono emanate le norme in questione, è stato
in modo espresso richiamato l'art. 87 della Costituzione che, fra
l'altro, contiene l'attribuzione al Capo dello Stato della facoltà di
emanare decreti aventi forza di legge.
Se tale, ad avviso della Corte, è la natura giuridica delle norme
in esame, occorre tuttavia precisarne la portata.
Esse non sono norme di mera esecuzione dello Statuto regionale. Se
tali avessero dovuto essere, sarebbe forse bastata, per molte di esse,
la forma del regolamento esecutivo. Ma esse si differenziano dal
regolamento che contenga disposizioni di mera esecuzione di una legge
per la rilevata loro finalità e per la struttura organica che è
facilmente in esse riscontrabile. La loro finalità è quella non già
di stabilire semplicemente, come in un regolamento, quelle disposizioni
più dettagliate che occorrano per la esecuzione della legge, ma di
porre, ove necessario, disposizioni di carattere normativo - anche per
le relazioni fra Stato e Regione - per l'"attuazione" dello Statuto,
secondo la precisa espressione adoperata dall'art. 56. Da ciò il
carattere legislativo e non regolamentare stabilito dallo stesso
legislatore costituente.
Ora, emanare disposizioni legislative per l'attuazione dello
Statuto, significava e significa non soltanto emanare norme non in
contrasto con la Costituzione - il che è ovvio -, ma, ancora, non in
contrasto, sibbene in aderenza - per la finalità specifica delle norme
stesse - con le disposizioni dello Statuto speciale. Tale aderenza si
riferisce ben vero a due settori nettamente distinti: quello di
merito, avente riguardo alla bontà, alla opportunità di tali norme
nell'interesse da un lato dello Stato e dall'altro della Regione - onde
la creazione della Commissione paritetica composta di membri nominati
dal Governo della Repubblica e di membri nominati dall'Alto Commissario
per la Sardegna -, settore rispetto al quale non può estendersi il
sindacato di legittimità costituzionale di questa Corte senza
sconfinare in apprezzamenti di carattere amministrativo; e l'altro
settore, quello della costituzionalità delle norme, che forma appunto
il campo proprio del sindacato di legittimità costituzionale della
Corte stessa. In questo settore, di competenza della Corte, l'indagine
dev'essere volta ad accertare se le norme di attuazione, nel loro
formale e sostanziale contenuto, siano, con riferimento alle formulate
impugnative, in contrasto con le disposizioni dello Statuto o col
fondamentale principio dell'autonomia regionale quale risulta da
espresse disposizioni dello Statuto stesso.
Questo conflitto - a giudizio della Corte - sarà da ravvisarsi
ogni qualvolta le norme di attuazione siano contra legem, ossia contra
Statutum. In questo caso - ed esclusivamente in esso - se si fossero
volute modificare le disposizioni statutarie, si sarebbero dovute
seguire le prescrizioni stabilite dall'art. 54 per la revisione dello
Statuto; e in tal senso - e soltanto nella prospettata ipotesi -
sarebbe fondata la doglianza della difesa della Regione, che, fra
l'altro, deduce appunto la violazione del detto art. 54; mentre, ai
fini del presente giudizio, basta la dichiarazione di illegittimità
costituzionale delle norme contra legem per privarle di ogni giuridica
efficacia.
Se poi le norme di attuazione siano praeter legem, nel senso che
abbiano integrato le disposizioni statutarie od abbiano aggiunto ad
esse qualche cosa che le medesime non contenevano, bisogna vedere se
queste integrazioni od aggiunte concordino innanzi tutto con le
disposizioni statutarie e col fondamentale principio dell'autonomia
della Regione, e se inoltre sia giustificata la loro emanazione dalla
finalità dell'attuazione dello Statuto.
Laddove, infine, si tratti di norme secundum legem, è ovvio che se
esse, nel loro effettivo contenuto e nella loro portata, mantengano
questo carattere, non è a parlarsi di illegittimità costituzionale,
ma sarebbe pur sempre da dichiararsene la illegittimità nel caso che
esse, sotto l'apparenza di norme secundum legem, sostanzialmente non
avessero tal carattere, ponendosi in contrasto con le disposizioni
statutarie e non essendo dettate dalla necessità di dare attuazione a
queste disposizioni.
Fatte queste premesse e passando all'esame del merito dei singoli
ricorsi, la Corte osserva:
Col primo ricorso la Regione sarda muove due lagnanze.
Sostiene, con la prima, che il 1 comma dell'art. 1 delle norme di
attuazione, che fissa tre sessioni ordinarie del Consiglio regionale, a
febbraio, giugno e ottobre, sarebbe in contrasto col 1 comma dell'art.
20 dello Statuto, che stabilisce che il Consiglio si riunisce "di
diritto" il primo giorno festivo di febbraio e di ottobre. Senza
entrare in quella che può essere l'opportunità, dal punto di vista
amministrativo, di stabilire tre sessioni obbligatorie del Consiglio,
con l'aumento delle sessioni ordinarie da due a tre - con l'aggiunta
cioè della sessione di giugno -, il che esula dalla competenza di
questa Corte (ed è ovvio che il Consiglio potrà riunirsi in via
straordinaria tutte le volte che lo si riterrà necessario, su
iniziativa del suo Presidente, del Presidente della Giunta o su
richiesta dei suoi componenti), ritiene la Corte che la doglianza della
Regione sia fondata in quanto, aumentandosi il numero delle sessioni
ordinarie, si modifica una disposizione statutaria, mutandosi in un
obbligo quella che è una semplice facoltà stabilita dallo Statuto.
Non fondata, invece, si appalesa l'altra doglianza, dedotta col
medesimo primo ricorso, riguardante il 2 comma dello stesso art. 1
delle norme di attuazione. Col detto 2 comma delle norme si stabilisce
che "la convocazione in sessione straordinaria è disposta dal
Presidente del Consiglio (regionale) e deve aver luogo in ogni caso
entro dieci giorni dalla data in cui sia pervenuta alla Presidenza la
richiesta di cui all'art. 20, secondo comma, dello Statuto speciale";
mentre il richiamato 2 comma dell'art. 20 dello Statuto prescrive che
il Consiglio "si riunisce in via straordinaria per iniziativa del suo
Presidente o su richiesta del Presidente della Giunta regionale o di un
quarto dei suoi componenti". Dall'esame di questi due commi
chiaramente si evince che mentre quello dell'art. 20 dello Statuto
contiene la norma di carattere sostanziale riguardante la facoltà
della convocazione del Consiglio in via straordinaria, l'impugnato
comma delle norme di attuazione regola soltanto l'uso di tale facoltà,
stabilendo il termine per la convocazione straordinaria, il che era pur
necessario fare ed era compito delle norme di attuazione stabilirlo.
Non vi è quindi nessun contrasto fra le due disposizioni, di natura
diversa e aventi diversa finalità.
Con il secondo ricorso la Regione lamenta che con l'art. 4, lett.
d, delle norme di attuazione, in contrasto con i principi contenuti
negli articoli 3, lettere a ed e, 27 e 34 dello Statuto speciale, si
sia stabilito che il Consiglio regionale ha competenza a provvedere
alla approvazione di piani di opere pubbliche di competenza della
Regione e ai relativi finanziamenti. Sostiene che si sarebbe invasa la
competenza legislativa della Regione per il riflesso che la norma
inciderebbe nel campo dell'ordinamento degli uffici amministrativi (per
quanto riguarda il controllo sull'opera di elaborazione dei piani)
nonché in quello dei lavori pubblici, mentre l'una e l'altra materia
sono riservate alla legislazione regionale primaria. Vi sarebbe poi
violazione dei precetti statutari che distribuiscono la competenza del
Consiglio e della Giunta in base alla natura legislativa o
amministrativa dell'attività.
Tali doglianze non si appalesano fondate. Vero è che con la lett.
e dell'art. 3 dello Statuto si attribuisce alla competenza legislativa
primaria della Regione la materia dei "lavori pubblici di esclusivo
interesse della Regione"; ma la lett. d dell'art. 4 delle norme di
attuazione non riguarda le opere pubbliche in generale, ma
l'approvazione di "piani" di opere pubbliche e i "finanziamenti
relativi". I "piani" costituiscono programmi organici di opere e per
l'attuazione di essi si prevedono appositi finanziamenti e cioè
finanziamenti eccedenti il bilancio ordinario; epperò è pienamente
giustificato che di essi si occupi il Consiglio, sotto il rilevato
duplice profilo della loro approvazione e del finanziamento. Né ciò
tocca l'ordinamento degli uffici, la cui competenza rimane integra, sia
nel momento dell'elaborazione dei piani, sia in quello della loro
esecuzione. È da aggiungere che lo Statuto regionale (richiamati artt.
27 e 34), mentre indica nel Consiglio e nella Giunta gli organi
competenti ad esercitare rispettivamente, le funzioni legislative e
regolamentari e quelle esecutive, non dispone affatto nel senso che
l'organo depositario del potere legislativo non possa, in forma
legislativa, emanare atti di natura amministrativa, che assurgano, come
si è visto, a determinata importanza. Ciò sembra anzi necessario
quando derivi un impegno straordinario per le finanze della Regione.
L'importanza della materia su cui si richiede una delibera del
Consiglio, l'opportunità che su di essa abbia luogo un dibattito con
le stesse forze dell'opposizione, giustificano appieno la norma in
questione, che è sì praeter Statutum, ma non è in contrasto, sibbene
in armonia con le sue disposizioni.
Il secondo ricorso va quindi respinto.
Nemmeno il terzo ricorso si appalesa fondato.
Con esso la Regione impugna di illegittimità costituzionale l'art.
4, lett. e, delle norme di attuazione che attribuisce al Consiglio
regionale la competenza circa "la nomina di commissioni o di membri di
commissioni, devoluta da leggi speciali alla Regione" . Ma è da
osservare che con questa disposizione, col riferimento a leggi speciali
che lo stabiliscano, non si invade il campo dei competenti organi della
Regione per la formazione di ordinarie commissioni e la nomina dei loro
componenti. Tale competenza non viene toccata. Infatti, per nulla
risulta, dalla norma in questione, che le leggi dello Stato possano
imporre alla Regione la nomina di qualsiasi commissione. La norma in
esame prevede, invece, il caso in cui lo Stato abbia un interesse
proprio ad ottenere la collaborazione della Regione, attraverso
competenti od esperti designati appunto dalla Regione e costituiti in
commissione, per l'indagine, lo studio e il parere su problemi aventi
riflessi generali o nazionali. Non di comuni commissioni amministrative
si tratta, ma di commissioni ad alto livello per lo studio di problemi
alla cui risoluzione, nel quadro delle finalità generali dello Stato e
della Regione, siano interessati e Stato e Regione.
Si tratta, anche qui, di una norma praeter Statutum, la cui
legittimità costituzionale non è dubbia.
Col quarto ricorso la Regione denuncia la illegittimità
costituzionale dell'art. 4, lett. f, delle norme di attuazione, che
dispone che il Consiglio regionale è competente a deliberare in ogni
altra materia per la quale la legge richieda l'approvazione del
Consiglio stesso.
La Corte ritiene che il contenuto, deltutto generico, di questa
disposizione, non giustifichi il riconoscimento della dedotta
illegittimità costituzionale. La norma in questione dev'essere
interpretata entro i limiti delle generali attribuzioni statutarie
assegnate al Consiglio regionale, giammai al di fuori di tali limiti.
Infatti, o una legge attuale eccede i limiti di quella competenza
statutaria, e la Regione già avrà provveduto ad impugnarne la
legittimità costituzionale; o si tratterà di legge futura, e la
Regione potrà sempre sottoporla a tale sindacato di legittimità.
Fondato è, invece, il quinto ricorso.
Con questo la Regione impugna l'art. 11 delle norme di attuazione
nelle disposizioni contenute alle lettere a, c e d. Le disposizioni,
la cui illegittimità costituzionale è denunciata, dispongono: che il
Presidente della Giunta rappresenta la Regione e ne firma gli atti
(lett. a); sovraintende a tutti gli uffici e servizi regionali (lett.
c); firma i titoli di spese (lett. d). Ora, mentre l'art. 35 dello
Statuto stabilisce la norma fondamentale e generale che "il Presidente
della Giunta regionale è il rappresentante della Regione autonoma
della Sardegna", ed altri articoli dello Statuto stesso meglio
delineano la figura e le attribuzioni del Presidente (artt. 15, 19, 20,
21, 36, 37, 41, 47, ecc.), l'art. 34 dello Statuto elenca fra gli
organi esecutivi della Regione i "componenti della Giunta", ossia gli
assessori, e l'art. 37 stabilisce che essi sono nominati dal Consiglio,
su proposta del Presidente, e sono "preposti ai singoli rami
dell'Amministrazione". Non sono dunque, gli assessori, dei
collaboratori del Presidente, ma ad essi sono attribuiti singoli
settori dell'attività regionale, adottano i provvedimenti di loro
competenza e ne rispondono verso la Giunta. L'art. 41 dello Statuto
riconosce ai membri della Giunta potestà di emettere provvedimenti
impugnabili davanti alla Giunta stessa, col che è riconosciuta la loro
qualità di organi esterni della Regione. Il fatto che, in tal caso, è
da ravvisare la figura del ricorso gerarchico improprio, conferma
quella qualità. Contro questa precisa regolamentazione statutaria,
nella quale si snoda la struttura organica della Regione, con la
attribuzione agli assessori di competenze proprie nei singoli settori,
contrastano le denunciate disposizioni dell'art. 11 delle norme di
attuazione, che vorrebbero accentrare nel Presidente della Regione
funzioni che sono proprie degli assessori.
A conferma di ciò sta l'art. 12 (non impugnato) delle norme di
attuazione, che espressamente stabilisce che "gli assessori preposti ai
singoli rami dell'Amministrazione regionale, ne dirigono l'attività e
rispondono dei loro atti alla Giunta". Questo non implica che
attribuzioni proprie del Presidente della Giunta non possano essere
assegnate agli assessori, tenendosi conto della sfera della loro
competenza; lo ammette lo stesso art. 12 delle norme di attuazione, ma
questo non nega, anzi conferma l'attribuzione delle competenze
specifiche ai singoli assessori, con le quali, come si è visto, sono
in contrasto le impugnate disposizioni dell'art. 11.
Il sesto ricorso investe gli artt. 19 e 20 delle norme di
attuazione in relazione all'art. 3, lett. a, dello Statuto. L'art. 19
stabilisce che la Regione ha un segretario generale, il quale
sovraintende al funzionamento di tutti gli uffici regionali. L'art. 20
poi prescrive che alla nomina del segretario generale della Regione si
provvede mediante pubblico concorso, aggiungendo che è altresì
obbligatorio il pubblico concorso per l'assunzione in carriera degli
impiegati amministrativi e tecnici della Regione quando la Giunta
regionale non ravvisi la possibilità di provvedere con personale
comandato appartenente a uffici statali o ad enti locali.
Non si discute che l'assunzione attraverso il pubblico concorso
degli impiegati e funzionari della Regione - ed anche del segretario
generale - corrisponda ad una buona regola amministrativa, sempre da
seguire, ad eccezione di casi particolari che giustifichino un diverso
criterio, e tale regola è ora consacrata nel precetto contenuto
nell'ultimo comma dell'art. 97 della Costituzione, che stabilisce:
"agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante
concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge". Senza dubbio la Regione
sarda si atterrà a questa regola fondamentale. Ma in questa sede non
si tratta di giudicare della intrinseca bontà o convenienza
amministrativa delle norme di attuazione impugnate, sibbene della loro
legittimità costituzionale e, sotto questo profilo, non si può non
convenire con le doglianze della Regione che ravvisa, nelle indicate
disposizioni delle norme di attuazione, una invasione nel campo
dell'ordinamento degli uffici e dello stato giuridico del proprio
personale. Lo Statuto speciale, infatti, alla lett. a dell'art. 3, dà
alla Regione una competenza piena circa l'ordinamento degli uffici e
degli enti amministrativi della Regione e lo stato giuridico ed
economico degli impiegati. Per quanto riguarda il segretario generale,
non può negarsi alla Regione la potestà propria di istituire o meno
una segreteria generale con competenza su tutti gli uffici regionali,
ovvero di creare altrimenti posti direttivi per i vari settori o
branche dell'amministrazione o di prescegliere, ancora, altre soluzioni
che le sembrino più adatte e convenienti, in relazione alle esigenze
amministrative. In tal senso quindi, nel senso cioè della invasione in
una sfera di specifica competenza attribuita alla Regione, il sesto
ricorso va accolto.
Privo di ogni giuridico fondamento è, invece, il settimo ricorso.
Con esso si sostiene la illegittimità costituzionale del 1 comma
dell'art. 31 delle norme di attuazione, che stabilisce che il
Presidente della Giunta regionale ed i Presidenti delle Deputazioni
provinciali forniscono le notizie e i chiarimenti relativi alle
attività degli organi regionali e provinciali, nonché copia delle
deliberazioni adottate, che siano richiesti dal Rappresentante del
Governo. La Regione ravvisa in questa richiesta di notizie e
chiarimenti una forma di esercizio di controllo sugli atti degli enti
locali, che è invece devoluto dall'art. 46 dello Statuto agli organi
della Regione. La disposizione impugnata nasconderebbe - secondo la
Regione una non consentita invasione in una sfera di competenza
esecutiva della Regione stessa. Senonché è da notare che siffatta
richiesta di notizie e chiarimenti e di copia delle delibere da parte
del Rappresentante del Governo - che per la norma fondamentale
dell'art. 124 della Costituzione, riprodotta nell'art. 48 dello Statuto
sardo, deve sovraintendere alle funzioni amministrative esercitate
dallo Stato e coordinarle con quelle esercitate dalla Regione - non
costituisce esercizio di controllo, ma semplicemente mezzo
indispensabile per potere adempiere quella vigilanza che è insita
nelle sue funzioni. Tale vigilanza, se pure può successivamente
determinare una attività di controllo da parte dei competenti organi,
non può per se stessa costituire un controllo, ed anche se è
continua, non tocca né la libertà, né l'autonomia degli enti od
amministrazioni. Tanto meno è confondibile con il controllo sugli atti
degli enti locali, di competenza degli organi della Regione, di cui
all'art. 46 dello Statuto.
Con l'ottavo ricorso viene sollevata una delicata questione in
ordine al passaggio dei beni dello Stato alla Regione, regolato
dall'art. 39 delle norme di attuazione.
Secondo la Regione, il passaggio della proprietà dei detti beni -
e quindi anche la percezione dei relativi redditi - avrebbe dovuto
effettuarsi, per il combinato disposto degli artt. 19 e 58 dello
Statuto, dalla data di nascita della Regione medesima, e cioè dalla
data di entrata in vigore dello Statuto (10 marzo 1948), e non già dal
1 gennaio 1950, come stabilisce il 1 comma dell'art. 39 delle norme di
attuazione. Inoltre il 2 comma dell'art. 39 che esclude dagli elenchi
dei beni trasferiti quelli del demanio marittimo, nonché le strade
statali e relative pertinenze e i beni demaniali e patrimoniali
connessi ai servizi di competenza statale e a monopoli fiscali o in uso
dell'Amministrazione militare - sarebbe in contrasto con l'intero art.
14 dello Statuto, poiché negli elenchi dovevano essere compresi anche
quei beni dei quali, pur passando alla Regione la proprietà, lo Stato
conservava il possesso e l'uso. Subordinatamente si prospetta dalla
Regione la ipotesi che l'art. 14 dello Statuto possa essere
interpretato nel senso che sui beni in questione lo Stato abbia
conservato un diritto temporaneo e risolubile di proprietà. Se tale
ipotesi dovesse essere accolta, la Regione sostiene che ad essa
spetterebbe, in tal caso, una proprietà potenziale sui beni predetti,
cioè una legittima aspettativa meritevole di tutela giuridica, per
cui, quanto meno, la Regione dovrebbe essere posta a conoscenza dei
beni costituenti l'oggetto di tale sua proprietà potenziale. E ciò
sia per reclamarne la consegna allo scadere del termine, sia per
difendere la sua proprietà potenziale contro eventuali alienazioni a
terzi, ecc.
Ora è da osservare che è vero che l'art. 14 dello Statuto
stabilisce che la Regione, nell'ambito del suo territorio, "succede"
nei beni e diritti patrimoniali dello Stato; ma l'espressione
adoperata, "succede", sta semplicemente ad indicare il soggetto di
diritto a beneficio del quale avviene il trasferimento e la natura
giuridica del trasferimento stesso, ma del trasferimento non specifica
il momento. Per determinare tale momento - e cioè l'effettivo
passaggio della proprietà e degli altri diritti - bisogna perciò
riferirsi ad altre disposizioni. Occorre ricordare che l'art. 61 delle
stesse norme di attuazione (non impugnato) stabiliva, con una
disposizione transitoria, che dalla data di cessazione dell'Alto
Commissariato per la Sardegna e fino al 31 dicembre 1949, il
Rappresentante del Governo avrebbe esercitato, anche per gli affari in
corso, le attribuzioni amministrative già spettanti all'Alto
Commissario e alla Consulta regionale: dal che deve desumersi che
l'amministrazione dei beni fu tenuta fino al 31 dicembre 1949 dal
Rappresentante del Governo, con le entrate e gli oneri relativi. In
correlazione con la indicata data del 31 dicembre 1949, l'art. 53 delle
stesse norme di attuazione (articolo anch'esso non impugnato)
stabilisce: "Le entrate erariali di cui all'art. 8 dello Statuto
saranno devolute alla Regione a decorrere dal 1 gennaio 1950. Dalla
stessa data dovrà effettuarsi il trasferimento alla Regione dei
servizi ad essa spettanti e degli oneri connessi". È ancora più
precisamente - se pur ve ne fosse bisogno - si esprime il 3 comma del
richiamato art. 53: "Fino al 31 dicembre 1949 il totale gettito delle
entrate indicate nel primo comma sarà devoluto allo Stato, il quale
provvederà al finanziamento dei servizi da trasferire alla Regione e
metterà a disposizione della medesima le somme occorrenti per le spese
di funzionamento degli organi regionali e di primo impianto degli
uffici, salvo conguaglio". Si noti che fra le entrate della Regione, di
cui all'art. 8 dello Statuto, richiamato dall'art. 53, sono
espressamente indicati i "redditi patrimoniali". Dunque la data 1
gennaio 1950 risulta stabilita in concordanti disposizioni come quella
del passaggio effettivo dei beni e diritti alla Regione, delle entrate
- e delle spese, quindi non ha fondamento, di fronte alle ricordate
esplicite disposizioni, l'impugnativa del 1 comma dell'art. 39 che
stabilisce la data del 1 gennaio 1950 per la consegna dei beni dello
Stato che passavano alla Regione, compresi i redditi che da tale data
si producevano.
Nemmeno ha fondamento l'altra doglianza circa una presunta
proprietà potenziale della Regione sui beni demaniali e patrimoniali
connessi a servizi di competenza statale e a monopoli fiscali o in uso
all'amministrazione militare. A parte la indeterminatezza del concetto
di una proprietà potenziale riferita ai casi di specie, sta di fatto
che il secondo comma dell'art. 14 - al quale articolo, come sopra si è
visto, pur si è richiamata la Regione per sostenere le sue tesi - nel
modo più chiaro stabilisce che i beni e diritti connessi a servizi di
competenza statale, finché duri tale condizione, "restano allo Stato".
E se "restano" allo Stato, in contrapposto al "succede" del 1 comma di
tale art. 14, è evidente che lo Stato ne continua ad essere il
proprietario finché non cessi la loro destinazione, e quindi i detti
beni non potevano essere compresi negli elenchi di quelli dei quali
veniva trasferita la proprietà alla Regione. Onde la legittimità
costituzionale anche del 20 comma dell'art. 39 delle norme di
attuazione.
Col nono ricorso la Regione impugna le disposizioni contenute nei
due commi dell'art. 44 delle norme di attuazione. Il 1 comma
stabilisce: "La Ragioneria regionale esercita le funzioni delle
Ragionerie centrali per la gestione dei fondi comunque iscritti nel
bilancio della Regione". E il 2 comma: "Il direttore della Ragioneria
regionale è nominato con decreto del Ministro del Tesoro, su proposta
del Ragioniere generale dello Stato, di concerto con il Presidente
regionale".
A parte il rilievo che, nell'indicato modo, si è applicato alla
Regione un ordinamento proprio dello Stato, il quale però accanto alla
Ragioneria generale ha le Ragionerie centrali presso i singoli
Ministeri, con attribuzioni e finalità ben precise, e quindi si è
prescelto un tipo di organizzazione che la Regione può ritenere non
confacente a quella propria, sta di fatto che effettivamente si è
invasa una sfera di competenza propria della Regione, in quanto lo
Statuto speciale all'art. 3, lett. a, attribuisce alla competenza
propria della Ragione l'ordinamento degli uffici e degli enti
amministrativi della Regione. È noto che le Ragionerie centrali dei
Ministeri, alle quali è stata assimilata per le sue funzioni la
Ragioneria regionale, controllano, nei limiti della propria competenza,
l'amministrazione dei Ministeri stessi e possono informare il Ministro
del Tesoro in quei casi in cui, dopo di avere rifiutato di vistare un
determinato atto, sono obbligate ad apporvi il visto per ordine scritto
del Ministro (art. 64 R.D. 18 novembre 1923, n. 2440). In questo caso,
il Ministro del Tesoro, può, a sua volta, sottoporre l'affare al
Consiglio dei Ministri. Mettendosi la Ragioneria regionale nella
stessa posizione delle Ragionerie centrali, verrebbe attribuito al
Ministro del Tesoro un potere di ingerenza e di controllo - in
contrasto con gli specifici controlli stabiliti nello Statuto speciale
- sulla gestione del patrimonio regionale, analogo a quello che gli
spetta con riguardo al patrimonio statale.
Il contrasto col potere autonomo della Regione - che trova la sua
fonte nella citata lett. a dell'articolo 3 dello Statuto - appare
ancora più evidente per l'ingerenza data col 2 comma del l'art. 44 in
questione, delle norme di attuazione, al Ministro del Tesoro, al quale
si attribuisce la nomina del direttore della Ragioneria regionale,
facendo degradare il potere autonomo della Regione ad un semplice
"concerto" con il Presidente regionale, per la detta nomina.
Tutti e due i commi dell'art. 44 debbono perciò essere dichiarati
costituzionalmente illegittimi.
Il decimo ricorso riguarda l'art. 54 delle norme di attuazione.
Tale articolo dispone: "Le attività svolte dalla Regione con speciali
contributi dello Stato saranno soggette alla vigilanza delle
amministrazioni statali, tecniche e finanziarie, secondo norme da
determinarsi con provvedimenti del Ministro competente, udita la Giunta
regionale, sempre che leggi dello Stato non dispongano diversamente".
Anche rispetto a questa norma, la Regione si lamenta di una
indebita ingerenza dello Stato nella sfera delle proprie attribuzioni
amministrative, con violazione degli artt. 3, 4 e 6 dello Statuto
speciale, e rileva che, mentre la Costituzione (art. 125) prevede
l'esercizio in forma decentrata di controlli di legittimità e di
merito sugli atti delle Regioni a statuto ordinario, si sarebbe qui in
presenza di un ampio controllo, in forma accentrata, sulla legittimità
e sul merito. Osserva, inoltre, che con la disposizione in esame si
giunge ad affidare ad un organo dello Stato la competenza a dettare
norme concernenti atti di amministrazione e, per giunta, l'organo
competente ad emanare tali norme è un Ministro ed è lo stesso organo
controllore che determinerebbe da sé i limiti e la procedura del
proprio sindacato.
Ora queste doglianze si appalesano infondate, sol che si rifletta
che con le disposizioni dell'art. 54 in parola non si istituisce nessun
controllo dello Stato sugli atti amministrativi della Regione
riguardanti la materia di cui si tratta. Già questa è limitata nel
suo oggetto, in quanto riguarda le attività svolte dalla Regione con
speciali contributi dello Stato, e con l'articolo in esame si
sottopongono siffatte attività non già a controllo ma a semplice
"vigilanza" delle Amministrazioni statali tecniche e finanziarie. Ma
occorre notare che, in questo caso non si tratta delle ordinarie
entrate della Regione, di cui all'art. 8 dello Statuto speciale bensì
di "speciali contributi" dello Stato, al di fuori di quelle entrate,
onde pienamente si giustifica la vigilanza delle Amministrazioni
statali, che non si esplica quale potere sostitutivo degli ordinari
controlli della Regione - che non subiscono alcuna menomazione - ma che
ha l'unica finalità di accertare che l'erogazione di quei contributi
raggiunga lo scopo per il quale i medesimi vengono concessi. Si tratta
perciò di una collaborazione con la Regione in attività nelle quali
lo Stato, che somministra i fondi, non è estraneo, collaborazione che
viene esercitata d'accordo con la Regione, dato che anche le
disposizioni per l'esercizio della detta vigilanza debbono adottarsi
udita la Giunta regionale. Se tale è il contenuto di questo potere di
vigilanza - che non può confondersi col potere di controllo inteso nel
suo preciso significato giuridico - cade anche la osservazione della
difesa della Regione, che sarebbe lo stesso organo di controllo che
determinerebbe da se stesso i limiti e la procedura del proprio
sindacato. Porre i limiti e stabilire le forme di una semplice
vigilanza, udita la Giunta regionale, in ordine ad attività connesse
alla concessione di speciali contributi, non può ritenersi
illegittimo, e ciò tanto più in quanto nell'ultima parte
dell'impugnato art. 54 espressamente si stabilisce che le norme
relative a quella vigilanza debbono determinarsi con provvedimento del
Ministro competente "sempre che le leggi dello Stato non dispongano
diversamente". Fra le leggi dello Stato è ovviamente compreso lo
Statuto speciale della Sardegna, che adeguatamente tutela l'autonomia
della Regione e disciplina l'estensione e i limiti degli ordinari
controlli e della Regione e dello Stato.
Con l'ultimo degli undici ricorsi la Regione sarda impugna di
illegittimità costituzionale l'art. 56 delle norme di attuazione.
Col 1 comma del detto articolo si dispone: "I piani territoriali di
coordinamento sono compilati a cura dell'Ente Regione in base ai
criteri indicati nell'art. 6 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n.
1150, e sono approvati con decreto del Presidente della Regione, su
proposta del Ministro per i lavori pubblici, sentito il Consiglio
superiore dei lavori pubblici". E col 2 comma: "I piani regolatori
comunali, compilati e pubblicati a tenore delle disposizioni contenute
nella suindicata legge urbanistica, sono approvati con decreto del
Presidente della Giunta regionale, previo esame e parere del Consiglio
superiore dei lavori pubblici".
La Regione, con riferimento, specialmente, alle lettere a ed f
dell'art. 3 e all'art. 6 dello Statuto speciale, osserva, sul primo
comma, che la conservazione della competenza del Ministro dei lavori
pubblici limiterebbe i poteri della Regione e contrasterebbe col
precetto statutario che attribuisce la materia edilizia e urbanistica
alla legislazione regionale; e, sul secondo comma, che la disposizione
in esso contenuta, concernendo da un lato l'organizzazione di uffici
regionali e dall'altro la materia urbanistica, invaderebbe la
competenza regionale.
Contro siffatti rilievi devesi osservare, che è pacifico - e
risulta testualmente dall'art. 5 della legge sull'urbanistica, 17
agosto 1942, n. 1150 - che i piani territoriali di coordinamento
riguardano "parti del territorio nazionale". Non può pertanto
escludersi che vi sia un interesse generale a che l'urbanistica di una
intera Regione si armonizzi con quella dei territori di altre Regioni.
Di qui la necessità dell'intervento dello Stato in sede di
coordinamento. E da rilevare altresì che l'elaborazione dei piani
territoriali di coordinamento è in correlazione evidente con lo
sviluppo delle principali linee di comunicazione, stradali,
ferroviarie, marittime, aeree, con l'impianto di zone da riservare a
speciali destinazioni, con la scelta di località da riservare ad
impianti di particolare natura ed importanza. A questi vincoli e alla
necessità del coordinamento in sede nazionale non è estranea la
Sardegna, nonostante che il suo territorio sia tutto circondato dal
mare. D'altra parte questi piani, secondo la precisa disposizione
dell'art. 56, sono compilati dalla stessa Regione, che ha così modo di
tener conto di ogni proprio diritto od interesse.
Quanto alla disposizione contenuta nel secondo comma dello art. 56,
riguardante i piani regolatori comunali, è da rilevare che
l'intervento degli organi statali si sostanzia esclusivamente nel
preventivo esame e parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici.
Tale parere, ancorché obbligatorio, non è vincolate per il Presidente
della Giunta regionale, al quale solo, con la norma dell'art. 56, è
devoluta l'approvazione dei piani regolatori comunali in questione.
Pertanto anche questa disposizione non può dirsi in contrasto con le
prescrizioni statutarie.