REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 168-bis, primo comma, del codice penale, dell’art. 550, comma 2, del codice di procedura penale, dell’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e dell’art. 4, comma 3, del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 novembre 2023, n. 159; promossi complessivamente dal Tribunale ordinario di Padova, sezione penale, in composizione monocratica, con ordinanza del 24 maggio 2024, e dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale, in composizione monocratica, con ordinanza del 17 luglio 2024, iscritte rispettivamente ai numeri 149 e 194 del registro ordinanze 2024 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 35 e 44, prima serie speciale, dell’anno 2024.
Visti l’atto di costituzione di M. C. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’11 giugno 2025 il Giudice relatore Francesco Saverio Marini;
uditi l’avvocato Giuseppe Pavan per M. C. e l’avvocato dello Stato Andrea Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio dell’11 giugno 2025.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 24 maggio 2024 (r.o. n. 149 del 2024), il Tribunale ordinario di Padova, sezione penale, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 168-bis, primo comma, del codice penale, 550, comma 2, del codice di procedura penale, e 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui esclude, dall’ambito di applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova, il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti qualificato di lieve entità (d’ora in avanti, per comodità espositiva si utilizzerà anche la sineddoche “piccolo spaccio” o “spaccio di lieve entità”).
2.– Il rimettente premette di procedere in sede di giudizio direttissimo, dopo aver convalidato l’arresto in flagranza di M. C., avvenuto il 17 gennaio 2024, per il suddetto reato, «in quanto deteneva ai fini di cessione 51,65 grammi di hashish, suddivisi in 11 panetti, nonché materiale per il confezionamento dello stupefacente in singole dosi»; senza applicare, tuttavia, alcuna misura cautelare, «attesa la giovanissima età dell’imputato (maggiorenne da pochi mesi) e la totale assenza di precedenti a suo carico, non solo giudiziari ma anche di polizia».
All’udienza predibattimentale fissata successivamente alla concessione del termine a difesa ex art. 558, comma 7, cod. proc. pen., l’imputato ha formulato richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi degli artt. 168-bis cod. pen. e 464-bis cod. proc. pen., depositando, a tal fine, la documentazione richiesta dall’art. 141-ter norme att. cod. proc. pen. ed eccependo, contestualmente, l’illegittimità costituzionale del citato art. 168-bis, laddove «preclude l’accesso al rito speciale richiesto per il delitto contestato all’imputato». Su questa richiesta, il pubblico ministero esprimeva parere negativo.
3.– Ad avviso del Tribunale rimettente le questioni di legittimità costituzionale sarebbero rilevanti nel giudizio a quo, risultando soddisfatte le condizioni in presenza delle quali, ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen., la sospensione del procedimento con messa alla prova può essere disposta.
In primo luogo, avendo convalidato l’arresto in flagranza per la sussistenza dei «gravi indizi di colpevolezza a carico [dell’imputato] come emergenti dal verbale di arresto e dagli atti allegati allo stesso», il giudice a quo non ravvisa «elementi che consentano di ritenere infondata la contestazione del P.M. o che comportino una sentenza di proscioglimento per improcedibilità dell’azione o di estinzione del reato», ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.
In secondo luogo, egli ritiene «che sia possibile formulare un giudizio prognostico nel senso che l’imputato non commetterà altri reati», in quanto quella contestatagli costituisce «la prima violazione dei precetti penali, non essendo egli mai stato né segnalato né indagato né tantomeno condannato per altri reati». Peraltro, questa valutazione sarebbe supportata dalla «sua giovane età e [dal] contegno serbato in udienza di convalida dell’arresto», avendo, in sede di interrogatorio, «confessato il fatto e manifestato non solo a parole ma anche piangendo il proprio rammarico e il pentimento».
Tuttavia – osserva il rimettente – l’art. 4, comma 3, del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 novembre 2023, n. 159, ha innalzato, da quattro a cinque anni di reclusione, il limite edittale massimo della pena prevista per il reato di spaccio di lieve entità, contestato all’imputato, precludendogli così l’accesso alla messa alla prova.
L’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. limita, infatti, l’operatività di detto istituto alle ipotesi in cui si proceda «per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale».
In conclusione, la circostanza che il reato contestato all’imputato è, ora, punito con la pena «da sei mesi a cinque anni» di reclusione, oltre la multa, e non rientra nel novero di quelli a cui, ai sensi del comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen., si applica il procedimento per citazione diretta a giudizio costituisce l’«unico ostacolo all’ammissione dell’imputato alla sospensione del procedimento con messa alla prova», «essendo soddisfatti tutti gli altri requisiti».
4.– In ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene, in primo luogo, che il combinato disposto degli artt. 168-bis, primo comma, cod. pen., 550, comma 2, cod. proc. pen., e 73, comma 5, t.u. stupefacenti violi l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza e della disparità di trattamento.
Il decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), infatti, ha ampliato l’operatività dell’istituto della messa alla prova, aumentando i «casi di citazione diretta a giudizio» di cui all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., tra cui ha inserito, alla lettera c), il reato previsto dall’art. 82, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 («Istigazione, proselitismo e induzione al reato di persona minore»; d’ora in avanti, anche: “istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti”), che punisce, con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.032 a euro 5.164, «[c]hiunque pubblicamente istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze, ovvero induce una persona all’uso medesimo».
In virtù del richiamo contenuto nell’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., al comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen., la fattispecie di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti rientra, quindi, nell’ambito dei reati per i quali può essere disposta la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Poiché si tratterebbe di una condotta lesiva del medesimo bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice dello spaccio di lieve entità, sanzionata peraltro con una pena edittale maggiore, «nel minimo e nel massimo», la mancata previsione della possibilità di accedere alla messa alla prova per l’imputato di quest’ultimo reato genererebbe un’«evidente disparità di trattamento tra le due fattispecie».
Peraltro – osserva il rimettente – «[d]etto irragionevole trattamento differenziato potrebbe costituire una conseguenza non contemplata dall’intervento legislativo che ha innalzato la pena massima del delitto» di piccolo spaccio, il quale, precedentemente, essendo punito con la pena edittale massima di quattro anni di reclusione, rientrava «nelle ipotesi di citazione diretta a giudizio da parte del Pubblico Ministero» di cui al primo comma dell’art. 550 cod. proc. pen. e, di conseguenza, nell’ambito di applicazione dell’art. 168-bis cod. pen.
Insomma, a seguito della modifica introdotta dall’art. 4, comma 3, del d.l. n. 123 del 2023, come convertito (d’ora in avanti, anche: “decreto Caivano”), il reato di spaccio di lieve entità è escluso dai casi di citazione diretta a giudizio di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 550 cod. proc. pen. e, di conseguenza, dall’ambito di applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova.
Ad avviso del giudice a quo, peraltro, anche qualora questa esclusione «fosse frutto di una precisa e consapevole scelta del Legislatore», «si tratterebbe [comunque] di una scelta arbitraria», in quanto non vi sarebbero motivi giustificativi della disparità di trattamento, ai fini dell’ammissione alla sospensione del procedimento con messa alla prova, tra le due fattispecie incriminatrici.
5.– Le questioni sarebbero non manifestamente infondate anche con riferimento all’art. 27 Cost.: «[l]a pretermissione del reato di cui ci si occupa dall’ambito della messa alla prova contrasta [infatti] con il finalismo rieducativo della pena, non permettendo a chi – come nel caso di specie – si trova per la prima volta a giudizio di riparare alla propria condotta, attraverso un programma appositamente elaborato di concerto con l’Ufficio Locale dell’Esecuzione Penale Esterna, comprensivo dello svolgimento di lavori di pubblica utilità, con ciò riducendo il pericolo di reiterazione dell’illecito e reinserendo l’imputato nella società».
6.– Il rimettente ritiene, invece, che non «superi il vaglio di non manifesta infondatezza […] la censura, sollevata dalla Difesa, in relazione alla violazione dell’art. 31, comma secondo, Cost. (tutela della gioventù), in quanto la circostanza che l’imputato sia da poco maggiorenne non impone un trattamento privilegiato, equiparabile a quello previsto per i minorenni».
7.– Ad avviso del giudice a quo, è, infine, da escludere un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme censurate, sia perché non sarebbe possibile «aumentare arbitrariamente i limiti edittali dell’art. 168 bis c.p. per la sospensione con messa alla prova dell’imputato», che peraltro appaiono non irragionevoli, avendo voluto il legislatore «limitare lo speciale rito premiale ai soli reati considerati meno gravi», sia perché non potrebbe ampliarsi l’elenco, di carattere tassativo, dei «casi di citazione diretta a giudizio» di cui all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen.
8.– È intervenuto in giudizio, con atto depositato il 17 settembre 2024, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.
Ad avviso della difesa erariale, il legislatore ha previsto, non irragionevolmente, per il reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, un trattamento sanzionatorio, complessivamente considerato, più favorevole di quello previsto per lo spaccio di lieve entità, pur nel «medesimo ambito di oggettività giuridica». Nonostante una cornice edittale più elevata, infatti, si deve tener conto «di altri indici della minor gravità del reato [di cui al citato art. 82, comma 1], ricavabili da ulteriori profili del trattamento sanzionatorio, quali l’inserimento [tra i reati] non necessitanti del vaglio dell’udienza preliminare e non preclusivi della messa alla prova».
Si sarebbe infatti assistito, «in materia di contrasto alla diffusione degli stupefacenti», a un mutato apprezzamento legislativo del disvalore del reato di piccolo spaccio, «evidentemente ritenuto più grave dell’omologo reato previsto dall’articolo 82, nell’ambito di quell’ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore» e il cui limite si rinviene solamente «nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato, sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato».
Nel caso di specie, in conclusione, le norme censurate non violerebbero l’art. 3 Cost., perché «la severità della risposta sanzionatoria» non risulterebbe «manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato».
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, sarebbe poi manifestamente infondata la questione sollevata in riferimento all’art. 27 Cost., «valendo per la scelta preclusiva dell’accesso all’istituto di favore le medesime considerazioni sinora svolte in punto di uso non irragionevole della propria discrezionalità da parte del legislatore».
Rientra, infatti, in detta discrezionalità «la definizione dell’ampiezza del ventaglio di possibilità di recupero dell’imputato (le quali rimangono intatte, nel caso di specie, tranne che per la messa alla prova), sia nella fase di cognizione che in quella di esecuzione», nell’ambito di un bilanciamento, che nel caso di specie non sarebbe irragionevole né arbitrario, «tra il favor per gli istituti di probation e l’esigenza di una risposta punitiva tradizionale per talune categorie di reati».
9.– Con memoria depositata il 17 settembre 2024, si è costituito in giudizio M. C., imputato nel giudizio principale, che ha chiesto che le questioni siano accolte.
Ricostruita l’evoluzione normativa dell’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, la difesa della parte si è soffermata sulle novità introdotte dal “decreto Caivano”, che, mediante il suo art. 4, comma 3, oltre ad aver innalzato da quattro a cinque anni di reclusione il massimo della pena per il reato in esame, ha introdotto, al secondo periodo del citato art. 73, comma 5, la nuova fattispecie criminosa del «“fatto lieve non occasionale”», per la quale è previsto un più elevato minimo edittale, pari a diciotto mesi, ossia al doppio di quello previsto per l’«ipotesi c.d. occasionale (di cui al primo periodo)»; il che confermerebbe lo sdoppiamento del reato «in due titoli autonomi, il cui discrimine è rappresentato dalla “occasionalità” o meno della condotta».
Peraltro, l’introdotto «aggravio sanzionatorio» sarebbe dovuto alla volontà di rendere applicabile, «anche in queste situazioni (spaccio di lieve entità)», la misura cautelare della custodia in carcere; mentre la conseguente «esclusione […] dall’ambito di applicazione della messa alla prova non sembra essere stata oggetto di una scelta consapevole». Anzi, tenuto conto della natura e della ratio dell’istituto in esame, per come ricostruite dalla stessa giurisprudenza costituzionale, questa conseguenza «appare ancor più incoerente e distonica nel nostro quadro ordinamentale».
Tanto premesso, la difesa dell’imputato osserva che le questioni sollevate dal Tribunale di Padova sarebbero rilevanti nel giudizio a quo, in quanto, se venissero accolte, l’imputato stesso potrebbe accedere alla messa alla prova, sussistendone tutti gli altri presupposti di legge.
Chiarito, inoltre, che le questioni non concernono la «dosimetria sanzionatoria» del reato di spaccio di lieve entità, ma la sua esclusione dall’ambito di applicazione dell’istituto della messa alla prova, esse sarebbero non manifestamente infondate, in primo luogo in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della lesione del principio di uguaglianza.
Il d.lgs. n. 150 del 2022 (la cosiddetta “riforma Cartabia”), infatti, ha ampliato «il catalogo dei reati per cui è prevista la citazione diretta a giudizio ai sensi dell’art. 550, co. 2, c.p.p., con conseguente indiretta estensione dei reati per cui è possibile richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova», in quanto questa è consentita, alternativamente, per i reati puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, ovvero per quelli indicati dal comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen.
Da ciò è derivata l’irragionevole disparità di trattamento tra la fattispecie di piccolo spaccio – che all’epoca della riforma del 2022 era punita con la pena massima della reclusione fino a quattro anni e rientrava, per ciò stesso, tra i reati per cui era possibile accedere alla messa alla prova – e quella di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, che, nonostante sia punita, nel massimo, con la reclusione fino a sei anni, è oggi espressamente inserita tra i «casi di citazione diretta a giudizio» di cui al comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen.
I due reati, infatti, sarebbero omogenei sotto il profilo del bene giuridico tutelato, rispetto al quale si trovano in rapporto di sussidiarietà, tanto che «nel caso in cui un soggetto ceda a un altro un piccolo quantitativo di sostanza stupefacente, inducendolo […] a farne uso, l’autore della condotta risponderebbe soltanto della più grave fattispecie di cui all’art. 82, D.P.R. 309/1990 […], rimanendo […] assorbito […] il meno grave reato di cui all’art. 73, co. 5».
Le questioni sarebbero, poi, non manifestamente infondate anche in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza intrinseca, e all’art. 27, terzo comma, Cost.
Sarebbe, infatti, intrinsecamente irragionevole e contrario alla finalità rieducativa della pena escludere, dall’ambito di applicazione dell’istituto in esame, un reato che «rappresenta, per un verso, una ipotesi attenuata, ancorché autonoma, rispetto alla fattispecie base (quella di cui al primo comma dell’art. 73), nonché “minore” rispetto alla fattispecie gemella (quella di cui al secondo periodo), e per la cui sussistenza è richiesto il riscontro di una serie di indici che corrispondono parzialmente a quelli che il giudice è chiamato a valutare in presenza di una istanza di messa alla prova».
La normativa vigente finirebbe, allora, del tutto irragionevolmente, per escludere dall’accesso alla messa alla prova – che, conformemente alla finalità rieducativa della pena, mira a facilitare il recupero del condannato, mediante un percorso di riabilitazione e reinserimento sociale, evitandone l’ingresso in carcere – proprio quelle fattispecie criminose, non solo di lieve entità, ma addirittura occasionali.
10.– L’Unione delle camere penali italiane (UCPI) ha presentato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae, ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, argomentando a sostegno della fondatezza delle questioni sollevate. L’opinio è stata ammessa con decreto presidenziale del 6 maggio 2025.
L’UCPI sottolinea, in particolare, come recenti interventi normativi, non coordinati tra loro, abbiano, da un lato, «elevato i margini edittali della pena detentiva» del reato di piccolo spaccio, a opera del “decreto Caivano” – così escludendolo dall’ambito di applicazione dell’istituto della messa alla prova – dall’altro, abbiano aggiunto, all’elenco dei reati di cui all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., quello di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, in forza del d.lgs. n. 150 del 2022 – così inserendolo in detto ambito.
Questo assetto normativo darebbe luogo a una irragionevole disparità di trattamento lesiva dell’art. 3 Cost., se solo si considera che le due fattispecie incriminatrici in esame «presentano una sostanziale omogeneità quanto all’interesse giuridico tutelato», costituito, in entrambi i casi, dalla «tutela della salute pubblica», le cui cornici edittali fino al 2014 sono state uguali, consistendo nella reclusione da uno a sei anni, oltre la multa.
«Nel tempo il legislatore ha mostrato di ritenere il reato di cui all’art. 73, comma 5, del D.P.R. n. 309/1990 complessivamente meno grave di quello di cui all’art. 82, comma 1. Infatti, mentre le cornici edittali del primo sono state progressivamente abbassate a opera del D.L. n. 146/2013 e D.L. n. 36/2014, quelle del secondo sono rimaste invariate». Peraltro, anche dopo l’intervento del “decreto Caivano”, che si è posto in termini di discontinuità rispetto alle modifiche precedenti e ha irrigidito la pena prevista per l’art. 73, comma 5, «tale reato continua ad essere punito meno gravemente di quello contemplato dall’art. 82, comma 1».
A entrambi i reati, poi, si applica l’istituto della particolare tenuità del fatto, previsto dall’art. 131-bis cod. pen., avendo entrambi una pena detentiva minima non superiore ai due anni di reclusione.
Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova sarebbero, infine, non manifestamente infondate anche in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto «appare incongruo […] che i fatti di lieve entità sanzionati dall’art. 73, comma 5 del D.P.R. n. 309/1990 siano esclusi dal perimetro applicativo dell’art. 168 bis c.p.».
11.– Il 19 maggio 2025 la parte ha depositato una memoria, contestando le deduzioni dell’Avvocatura dello Stato e insistendo per l’ammissibilità e la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.
12.– Con ordinanza del 17 luglio 2024 (r.o. n. 194 del 2024), il Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, 168-bis, primo comma, cod. pen., e 550, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui esclude, dall’ambito di applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova, il reato di spaccio di lieve entità.
Il giudice a quo dubita, altresì, della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., dell’art. 4, comma 3, del d.l. n. 123 del 2023, come convertito, nella parte in cui ha innalzato la pena edittale massima per il reato di piccolo spaccio da quattro a cinque anni di reclusione, così precludendo l’accesso all’istituto della messa alla prova.
13.– Il rimettente premette di procedere in sede di giudizio direttissimo, dopo aver convalidato l’arresto in flagranza di R. B., avvenuto il 3 febbraio 2024 per il reato di spaccio di lieve entità, «per aver detenuto a fini di spaccio grammi 15,790 di sostanza stupefacente del tipo cocaina e grammi 9,618 di sostanza stupefacente di tipo hashish».
All’udienza all’uopo fissata, l’imputato ha formulato richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi degli artt. 168-bis cod. pen. e 464-bis cod. proc. pen., «depositando [la] documentazione inerente l’attivazione della procedura» ed eccependo, contestualmente, l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 168-bis cod. pen., 550 cod. proc. pen. e 73, comma 5, t.u. stupefacenti, come modificato dall’art. 4, comma 3, del “decreto Caivano”; il pubblico ministero si rimetteva alla decisione del giudice.
14.– In punto di rilevanza, il rimettente osserva che, a seguito della modifica apportata dall’art. 4, comma 3, del d.l. n. 123 del 2023, come convertito, il limite edittale massimo della pena detentiva prevista per il reato di spaccio di lieve entità è stato aumentato, da quattro a cinque anni di reclusione, con conseguente «esclusione dell’applicabilità del rito speciale di cui all’art. 168-bis cod. pen.». Di conseguenza, all’imputato ne è precluso l’accesso, nonostante possa «essere sin d’ora ritenuta positiva la prognosi rispetto alla futura astensione dalla commissione di ulteriori reati, posto che l’imputato, di giovane età, ha effettivamente due precedenti, ma si tratta di contravvenzioni relative a violazioni del Codice della Strada, commesse nel giro di pochi giorni, tre anni prima dei fatti per cui qui si procede».
L’istanza da questi presentata, inoltre, è tempestiva e accompagnata dalla richiesta del programma trattamentale presentata all’Ufficio esecuzione penale esterna di Bolzano, di cui però non può valutarsi l’idoneità perché non ancora elaborata.
L’unico elemento ostativo all’ammissione dell’imputato alla messa alla prova è, quindi, la modifica normativa relativa al massimo edittale della pena del reato per cui si procede; dal che discende la rilevanza delle questioni. Detta rilevanza sarebbe confermata dall’impossibilità, in virtù della «chiarezza del dato normativo», di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme censurate.
15.– In ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo richiama l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Padova sopra esaminata, con riferimento alle censure di violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
Ribadito che l’esclusione del reato di spaccio di lieve entità dall’ambito applicativo dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova è «con ogni probabilità effetto non previsto e non voluto dal legislatore, che mirava esclusivamente […] all’inserimento» di detto reato tra quelli «per cui fosse possibile disporre la custodia cautelare in carcere», il rimettente sottolinea come si sia creata una «manifesta discrasia con il fatto che il delitto di cui all’art. 82 d.P.R. 309/1990 […] sia stato invece recentemente ricompreso espressamente nell’art. 550, comma secondo, lett. c) cod. proc. pen. […]» e, pertanto, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., tra quelli per cui detto istituto è ammesso.
Tuttavia, questa differenza di trattamento tra le due fattispecie incriminatrici sarebbe priva di giustificazione e, quindi, irragionevole, perché sono poste, entrambe, a tutela della salute pubblica e privata e, anzi, «nel delitto di cui all’art. 82 il bene giuridico è messo in maggior pericolo, in quanto la condotta di diffusione dell’assunzione di stupefacenti coinvolge soggetti evidentemente non assuntori o comunque che non sarebbero autonomamente portati al consumo». Invece, lo spaccio di lieve entità presuppone «un rapporto “paritario” di compravendita, in cui il consumatore si approvvigiona dal reo per la soddisfazione di un desiderio di consumo che ha maturato personalmente».
Il piccolo spaccio, inoltre, «coinvolge nella stragrande maggioranza dei casi soggetti che sono a loro volta assuntori e che utilizzano i proventi dell’attività illecita per approvvigionarsi di stupefacente». Di conseguenza, per questo reato, l’istituto della messa alla prova consentirebbe, conformemente alla finalità rieducativa della pena, di evitare l’ingresso in carcere, che può mettere «in contatto il condannato con soggetti ben più professionali nell’ambito dello spaccio di stupefacenti», di «affrontare in via privilegiata il problema della tossicodipendenza», nonché di «consentire all’imputato di affrontare il percorso rieducativo in tempi prossimi alla commissione del delitto».
16.– Ad avviso del Tribunale di Bolzano, le questioni sarebbero non manifestamente infondate anche in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto il “decreto Caivano” è stato adottato per far fronte a un «“caso straordinario” determinato da episodi di criminalità giovanile ritenuti pericolosamente in aumento», come emerge dai lavori preparatori e dal preambolo dello stesso. Rispetto alle finalità perseguite dal legislatore, «l’intervento di cui all’art. 4, terzo comma, appare affatto inconferente», ponendosi come «norma oggettivamente e teleologicamente sconnessa con il resto del corpo dell’atto».
L’aumento del massimo edittale della pena detentiva per il reato di spaccio di lieve entità, infatti, non può «in alcun modo, nemmeno astrattamente, essere ricondotto alla necessità di contrastare il disagio giovanile, la criminalità minorile o la sicurezza dei minori in ambito digitale». Peraltro, non risulterebbe alcun legame tra «i delitti in tema di stupefacenti (in particolare le ipotesi lievi)» e la «criminalità minorile», considerato comunque che l’esclusione dell’accesso alla messa alla prova riguarda solamente «gli indagati adulti» e, quindi, l’eventuale obiettivo legislativo di contrasto alla criminalità minorile sarebbe «manifestamente mancato».
17.– È intervenuto in giudizio, con atto depositato il 18 novembre 2024, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.
Ribadite le argomentazioni già svolte in ordine alle censure di violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., con la memoria depositata nel giudizio di legittimità costituzionale instaurato dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Padova, la difesa statale ritiene insussistente anche la lesione dell’art. 77 Cost. In considerazione dell’eterogeneità dei contenuti e delle rationes del d.l. n. 123 del 2023, appare all’Avvocatura coerente con esse il censurato art. 4, comma 3, che persegue a suo avviso, indubbiamente, anche lo scopo di contrasto alla criminalità minorile.
Considerato in diritto
1.– Con le ordinanze indicate in epigrafe, i Tribunali ordinari di Padova e di Bolzano, entrambi per mezzo delle rispettive sezioni penali, in composizione monocratica, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 168-bis, primo comma, cod. pen., 550, comma 2, cod. proc. pen., e 73, comma 5, t.u. stupefacenti, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
Entrambi i rimettenti lamentano che le norme censurate escludono dall’ambito di applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti qualificato di lieve entità (d’ora in avanti, per comodità espositiva si utilizzerà anche la sineddoche “piccolo spaccio” o “spaccio di lieve entità”), ponendosi così in contrasto, innanzitutto, con l’art. 3 Cost.
Il piccolo spaccio infatti – a seguito della modifica introdotta dall’art. 4, comma 3, del d.l. n. 123 del 2023, come convertito (d’ora in avanti, anche: “decreto Caivano”) – è ora punito con la pena della reclusione da sei mesi (diciotto in caso di “non occasionalità della condotta”) a cinque anni, oltre la pena pecuniaria, ossia con un massimo edittale superiore a quello entro cui il primo comma dell’art. 168-bis cod. pen. ammette la messa alla prova («pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria»).
Inoltre, lo spaccio di lieve entità non è ricompreso nell’elenco dei reati di cui al comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen., per i quali il pubblico ministero esercita l’azione penale con la citazione diretta a giudizio, disposizione alla quale l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. rinvia per ampliare le ipotesi in cui è ammessa la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Alla luce del vigente quadro normativo, quindi, la messa alla prova non è ammissibile per il reato di piccolo spaccio.
L’art. 82, comma 1, t.u. stupefacenti («Istigazione, proselitismo e induzione al reato di persona minore»; d’ora in avanti, anche: “istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti”), invece – in virtù del suo inserimento nella lettera c) del comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen. e del richiamo operato dall’art. 168-bis cod. pen. a detto articolo –, rientra nell’ambito dei reati per i quali può essere disposta la messa alla prova.
Poiché si tratta di condotta lesiva del medesimo bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice dello spaccio di lieve entità, sanzionata peraltro con una pena edittale maggiore, «nel minimo e nel massimo», la mancata previsione della possibilità di accedere alla messa alla prova per l’imputato di quest’ultimo reato genererebbe, ad avviso dei rimettenti, un’«evidente disparità di trattamento tra le due fattispecie».
Le questioni sarebbero non manifestamente infondate anche in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost.: l’esclusione del reato di spaccio di lieve entità dalla messa alla prova contrasterebbe, infatti, con il finalismo rieducativo della pena, non permettendo all’imputato di riparare alla propria condotta attraverso un programma appositamente elaborato, che riduca, tra l’altro, il pericolo di reiterazione dell’illecito.
2.– Il solo Tribunale di Bolzano dubita, altresì, della legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del d.l. n. 123 del 2023, come convertito, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.
L’aumento del massimo edittale del reato di piccolo spaccio, ad avviso del rimettente, non potrebbe «in alcun modo, nemmeno astrattamente, essere ricondotto alla necessità di contrastare il disagio giovanile, la criminalità minorile o la sicurezza dei minori in ambito digitale», che costituiscono le finalità perseguite dal provvedimento governativo d’urgenza. Peraltro, non risulterebbe alcun legame tra «i delitti in tema di stupefacenti (in particolare le ipotesi lievi)» e la «criminalità minorile», considerato comunque che l’esclusione della messa alla prova riguarda solamente «gli indagati adulti» e, quindi, l’eventuale obiettivo legislativo di contrasto alla criminalità minorile sarebbe «manifestamente mancato».
3.– I due giudizi concernono questioni in larga misura sovrapponibili e, pertanto, meritano di essere riuniti ai fini della decisione.
4.– Per ragioni di precedenza logico-giuridica, la questione da esaminare preliminarmente è quella relativa alla dedotta violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto attinente al corretto esercizio della funzione normativa primaria (ex plurimis, sentenze n. 151 del 2023, n. 8 del 2022, n. 115 del 2020, n. 288 e n. 247 del 2019).
Il rimettente lamenta che l’art. 4, comma 3, del “decreto Caivano” abbia modificato la cornice edittale dello spaccio di lieve entità – modifica da cui è conseguita, a suo dire involontariamente, l’esclusione della messa alla prova – in assenza dei presupposti della decretazione di urgenza.
L’assunto, implicito, su cui il Tribunale di Bolzano fonda la propria censura è che l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma impugnata farebbe rivivere quella da essa sostituita.
Detto assunto è corretto.
Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, infatti, «l’atto affetto da vizio radicale nella sua formazione è inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010)» (sentenza n. 32 del 2014).
In considerazione del particolare vizio procedurale censurato – la carenza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost. –, quindi, a seguito della caducazione della disposizione censurata, tornerebbe a essere applicabile la norma incriminatrice del piccolo spaccio nella formulazione precedente, che consente l’accesso dell’imputato alla messa alla prova.
Da qui la rilevanza della questione.
5.– Nel merito, il Tribunale rimettente lamenta, in sostanza, che la modifica del trattamento sanzionatorio del reato di piccolo spaccio, introdotta dalla norma censurata, sia del tutto avulsa, per materia e finalità, rispetto al decreto-legge in cui è inserita.
La questione non è fondata.
5.1.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, l’omogeneità costituisce un requisito del decreto-legge sin dalla sua origine, poiché «[l]’inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed “i provvedimenti provvisori con forza di legge”, di cui alla norma costituzionale» (sentenze n. 8 del 2022, n. 149 del 2020 e n. 22 del 2012; nello stesso senso, da ultimo, sentenza n. 146 del 2024).
Il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali, di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., resta, dunque, collegato a una intrinseca coerenza delle norme del decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico. L’urgente necessità del provvedere può riguardare, cioè, una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate oppure dall’intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata, che richiede interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione (tra le altre, sentenze n. 8 del 2022, n. 149 del 2020, n. 137 del 2018, n. 170 del 2017, n. 244 del 2016 e n. 22 del 2012).
Per i decreti-legge ab origine a contenuto plurimo, dunque, quel che rileva è il profilo teleologico, ossia l’osservanza della ratio dominante l’intervento normativo d’urgenza (sentenze n. 146 del 2024, n. 8 del 2022, n. 213 del 2021, n. 170 e n. 16 del 2017, e n. 287 del 2016). Su tale fronte, il sindacato di questa Corte resta, peraltro, circoscritto ai casi in cui la rottura del nesso tra la situazione di necessità e urgenza che il Governo mira a fronteggiare e la singola disposizione del decreto-legge risulti evidente, così da connotare quest’ultima come «totalmente “estranea”» o addirittura «intrusa», analogamente a quanto avviene con riguardo alle norme aggiunte dalla legge di conversione (sentenze n. 8 del 2022 e n. 213 del 2021).
5.2.– Come emerge dal titolo del provvedimento d’urgenza, dal suo preambolo e dai lavori preparatori, il d.l. n. 123 del 2023 reca un complesso di norme accomunate dall’obiettivo di fronteggiare situazioni di disagio e degrado giovanili e, al contempo, di contrastare la criminalità minorile, in risposta a episodi delittuosi di particolare gravità, perpetrati da minori in danno di minori nel territorio del comune di Caivano.
Il decreto si articola in quattro capi, raggruppanti disposizioni relative a «[i]nterventi infrastrutturali nel territorio del comune di Caivano» (Capo I), «in materia di offerta educativa» (Capo III), «per la sicurezza dei minori in ambito digitale» (Capo IV).
Il Capo II (artt. 3-9), in cui è inserita la norma censurata, detta invece disposizioni «in materia di sicurezza e di prevenzione della criminalità minorile», con lo scopo – dichiarato nel preambolo del decreto-legge – di «contrasto alla criminalità minorile e all’elusione scolastica, e [di] tutela delle minori vittime di reato».
Le norme di questo Capo, caratterizzate da una certa eterogeneità contenutistica, si snodano lungo tre direttrici: a) potenziamento delle misure di prevenzione «a tutela della sicurezza pubblica e della sicurezza delle città» (art. 3); b) interventi di diritto penale sostanziale, consistenti nell’introduzione di nuove fattispecie di reato e nell’inasprimento sanzionatorio di quelle esistenti, in materia di armi e di stupefacenti (art. 4); c) modifiche in materia di processo e di esecuzione penali minorili (artt. 6-9).
Dai lavori preparatori emerge che l’aumento della pena detentiva per il reato di piccolo spaccio è finalizzato, tra l’altro, a consentire l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, anche per i soggetti adulti (art. 280, comma 2, cod. proc. pen.).
Con riferimento ai minori, peraltro, l’art. 6, comma 1, lettera c), numero 1), del “decreto Caivano” ha modificato l’art. 23 del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), riducendo da nove a sei anni di reclusione il limite edittale per l’applicazione della custodia cautelare ai minorenni, ma stabilendo che essa è comunque consentita per una serie di reati, tra cui quelli previsti dall’art. 73 t.u. stupefacenti.
Anche in considerazione di ciò è individuabile un collegamento tra l’incremento sanzionatorio per il reato di piccolo spaccio e gli obiettivi di fondo del provvedimento d’urgenza: che è anzitutto quello di contrastare la criminalità giovanile, e non solo minorile, intervenendo in modo più severo nella repressione di alcune fattispecie criminose, come quella dello spaccio di lieve entità, che di detta criminalità sono espressione e manifestazione frequenti.
Al contempo, questo intervento risponde alla finalità, anch’essa propria del decreto-legge in esame, di arginare situazioni di disagio e degrado minorile e, più specificamente, di tutelare le vittime di reato minori di età, considerato che spesso proprio i minori, e i giovani in genere, sono i destinatari dell’attività di spaccio cosiddetto di strada.
Peraltro, la modifica della cornice edittale del reato in esame non è neanche un intervento isolato.
Come si è visto, nell’ambito del Capo II del “decreto Caivano”, l’art. 4 opera diversi interventi di diritto penale sostanziale, consistenti nell’introduzione di nuove fattispecie di reato o nell’inasprimento sanzionatorio di quelle esistenti, relative alle armi e agli stupefacenti. Con specifico riferimento ai reati in materia di stupefacenti, poi, il decreto-legge oggetto di censura ha introdotto altre modifiche in ambito di produzione, traffico e detenzione illeciti degli stupefacenti di lieve entità, ad esempio in tema di cosiddetta confisca in casi particolari (art. 85-bis t.u. stupefacenti) e di misure cautelari diverse dalla custodia in carcere (art. 19, comma 5, del d.P.R. n. 448 del 1988).
In conclusione, deve escludersi che la norma censurata sia palesemente estranea alla «traiettoria finalistica portante del decreto» (sentenze n. 151 del 2023 e n. 8 del 2022). Detto decreto-legge, infatti, nell’intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata – come quella volta a reagire alla reiterata commissione di episodi delittuosi di notevole gravità, sintomatici di una situazione di degrado sociale di una determinata area territoriale e, in generale, della diffusione di comportamenti devianti e criminali da parte di giovani e a carico di vittime minori di età – ha sì previsto interventi oggettivamente eterogenei, perché afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione (così, sentenze n. 146 del 2024 e n. 8 del 2022).
5.– Può ora passarsi all’esame delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
5.1.– In via preliminare, questa Corte deve esaminare alcuni profili attinenti all’ammissibilità delle questioni stesse.
5.2.– I giudici rimettenti censurano, nel combinato disposto con gli artt. 168-bis, primo comma, cod. pen. e 550, comma 2, cod. proc. pen., anche l’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti.
Tuttavia, quest’ultima disposizione è estranea e non pertinente al contenuto delle questioni ora in esame, che non concernono la dosimetria sanzionatoria del reato di piccolo spaccio in sé considerata.
Né il Tribunale di Padova né quello di Bolzano, infatti, contestano, con dette questioni, la conformità a Costituzione della “nuova” cornice edittale dello spaccio di lieve entità, ma solamente la conseguenza che, dall’innalzamento del massimo edittale della pena detentiva per esso prevista, ne è derivata: la preclusione della messa alla prova.
Le questioni aventi a oggetto l’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti sono quindi inammissibili, perché non è su questa norma che i rimettenti dirigono le loro censure di illegittimità costituzionale.
5.3.– In sede di discussione orale l’Avvocatura generale dello Stato ha poi eccepito l’inammissibilità delle questioni per carente descrizione della fattispecie concreta, in quanto i rimettenti non avrebbero chiarito se le condotte contestate agli imputati nei rispettivi giudizi configurino fattispecie di piccolo spaccio “occasionale” o “non occasionale”.
In sede di conversione del “decreto Caivano”, infatti, la legge n. 159 del 2023 ha aggiunto un secondo periodo al comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, a mente del quale «[c]hiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da euro 2.500 a euro 10.329, quando la condotta assume caratteri di non occasionalità».
La novella legislativa ha così introdotto un aggravamento della pena edittale minima prevista per lo spaccio di lieve entità, qualora sia caratterizzato dalla non occasionalità della condotta.
L’eccezione non è fondata.
È corretto ritenere, conformemente alla giurisprudenza di legittimità, che la non occasionalità della condotta di spaccio di lieve entità configuri «una peculiare ipotesi circostanziale della fattispecie base prevista dal primo periodo del comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, come si desume [appunto] non solo dalla collocazione della previsione in esame all’interno del medesimo comma, ma anche dal rinvio, quanto alla descrizione della condotta punita, alla fattispecie prevista dal primo periodo del medesimo comma 5, differenziandosi, rispetto ad essa, per l’elemento specializzante della “non occasionalità” della condotta» (Corte di cassazione, terza sezione penale, sentenza 22 gennaio-13 febbraio 2025, n. 5842).
Poiché «il criterio distintivo di identificazione dei reati, per i quali è possibile la messa alla prova, riman[e] affidato alla pena edittale nel massimo, senza considerare gli accidentalia delicti, né le aggravanti, né le attenuanti, quantunque ad effetto speciale» (sentenza n. 146 del 2023), è evidente che la presunta omessa motivazione in ordine all’integrazione della fattispecie base o di quella aggravata è priva di rilievo, al fine dell’ammissibilità delle questioni.
5.4.– In via ulteriormente preliminare, questa Corte deve perimetrare «l’oggetto dell[e] question[i] da scrutinare, in quanto non coincidente con il portato letterale del petitum formulato» dai rimettenti (ex multis, sentenze n. 223 del 2022 e n. 145 del 2021).
Entrambi i giudici a quibus ritengono che l’esclusione della messa alla prova per il reato di piccolo spaccio integri un vulnus agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., rimediabile con una pronuncia additiva, che aggiunga, alla lettera c) dell’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., il riferimento allo spaccio di lieve entità accanto al reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, stante la presunta omogeneità tra le due fattispecie delittuose.
L’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., infatti, nel delineare i limiti oggettivi dell’ambito applicativo della messa alla prova, non si riferisce solamente alla pena massima del reato per cui si procede, ma rinvia anche all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., il quale, a sua volta, individua un catalogo di reati, puniti con pene eccedenti il suddetto massimo edittale, per i quali si procede con la citazione diretta a giudizio.
Tuttavia, l’accoglimento delle questioni così come formulate dai rimettenti produrrebbe effetti eccedenti il vulnus denunciato; in particolare, renderebbe applicabile alla fattispecie criminosa in questione l’intera disciplina processuale del rito semplificato della citazione diretta a giudizio, in luogo del solo istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova.
Il petitum è, quindi, eccedente rispetto alla reale portata delle questioni sollevate dalle ordinanze di rimessione.
Come più volte precisato dalla giurisprudenza costituzionale, il petitum dell’ordinanza di rimessione «ha la funzione di chiarire il contenuto e il verso delle censure», ma non vincola questa Corte, la quale, «ove ritenga fondate le questioni, rimane libera di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata» (ex multis, sentenze n. 138, n. 90 e n. 12 del 2024).
Nella specie, l’intervento che consente di rimuovere il denunciato vulnus costituzionale consiste in una pronuncia additiva di questa Corte, che inserisca il riferimento al reato di spaccio di lieve entità nella norma che prevede, in via generale, i limiti di applicabilità dell’istituto della messa alla prova (l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen.), a cui va, pertanto, limitato l’oggetto delle questioni sollevate. Le questioni relative all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen. vanno, invece, dichiarate inammissibili.
5.5.– Venendo al merito, la questione, così circoscritta, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., è fondata.
5.5.1.– Ad avviso di entrambi i rimettenti, l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. – nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato di spaccio di lieve entità – violerebbe l’art. 3 Cost., determinando un’irragionevole disparità di trattamento rispetto al reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, punito con pena più elevata, per il quale, tuttavia, la messa alla prova è astrattamente ammissibile.
Per costante giurisprudenza costituzionale, il raffronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la non manifesta irragionevolezza delle scelte legislative – nel caso di specie in ordine all’ammissibilità, in astratto, alla messa alla prova – deve avere a oggetto casistiche omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione (sentenze n. 120 del 2023, n. 156 del 2020, n. 282 del 2010 e n. 161 del 2009).
Le ipotesi di reato messe a confronto – il piccolo spaccio e l’istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti – attengono alla medesima materia e sono sostanzialmente omogenee sotto il profilo dell’oggettività giuridica, nonché della strutturazione come reati di pericolo astratto o presunto.
La ratio delle relative incriminazioni, infatti, è di combattere il mercato della droga, espellendolo dal circuito nazionale, per la tutela «sia della salute pubblica […], sempre più compromessa [dalla] diffusione [delle sostanze stupefacenti], sia […] della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico […] negativamente incisi [..] dal prosperare intorno a tale mercato del fenomeno della criminalità organizzata […], nonché a fini di tutela delle giovani generazioni» (sentenza n. 333 del 1991).
Tali fattispecie inoltre si iscrivono, entrambe, nell’ambito dei reati di pericolo astratto o presunto, nei quali – data la rilevanza dei beni giuridici tutelati – la soglia di punibilità è anticipata, non essendo richiesta, per il loro perfezionamento, la lesione di detti beni, bensì la mera esposizione a pericolo, che la legge presume sussistente nel caso di realizzazione delle condotte incriminate.
Tuttavia, mentre l’art. 82, comma 1, t.u. stupefacenti, incrimina, alternativamente, l’istigazione pubblica, il proselitismo e l’induzione al consumo di sostanze stupefacenti, sanzionandoli con la pena detentiva da uno a sei anni di reclusione, oltre la multa; il reato di spaccio di lieve entità, «che un tempo costituiva una fattispecie attenuata rispetto al reato-base di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e psicotrope, si delinea oggi quale illecito autonomo (sentenze n. 88 del 2023 e n. 223 del 2022) che, “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità”» (sentenza n. 43 del 2024) ed è punito con la pena della reclusione da sei mesi (diciotto in caso di “non occasionalità della condotta”) a cinque anni, oltre la multa.
L’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti incrimina, quindi, un fatto di ridotta (o addirittura «minima», secondo la sentenza n. 40 del 2019) offensività dei beni giuridici tutelati, allo scopo di mitigare il sistema repressivo dei reati in materia di stupefacenti (così, sentenze n. 43 del 2024, n. 88 del 2023 e n. 223 del 2022).
Pur nella diversità sul piano della tipizzazione delle condotte – di induzione dei destinatari delle esortazioni al consumo di stupefacenti, da un lato, e di produzione, traffico e detenzione a fini di spaccio, ancorché di lieve entità, dall’altro – è comunque riscontrabile una similitudine di disvalore tra le due fattispecie poste a raffronto, attestata appunto dall’identità dei beni giuridici e dall’anticipazione della loro tutela penale; similitudine che rende priva di giustificazione la diversa disciplina per esse prevista con riferimento alla messa alla prova, soprattutto in considerazione della natura e delle finalità di detto istituto.
La messa alla prova, infatti, è prevista per reati di moderata gravità, «rispetto ai quali l’ordinamento, per finalità di deflazione giudiziaria, sospende il processo in vista dell’eventuale estinzione del reato, sempre che l’imputato ne faccia richiesta», oggi anche su proposta del pubblico ministero (sentenza n. 139 del 2020), perseguendo così «scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (sentenza n. 91 del 2018).
È, pertanto, irragionevole, e comunque foriero di disparità di trattamento, che, per la fattispecie meno grave tra le due poste a confronto (il piccolo spaccio), l’accesso alla messa alla prova sia precluso, mentre per quella più grave (l’istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti) sia, in astratto, ammissibile.
La maggiore severità del trattamento sanzionatorio denota, infatti, una condotta criminosa più grave; con la conseguenza che mentre la messa alla prova è riferita in generale, per scelta legislativa, ai reati di minore gravità, in materia di stupefacenti essa risulta preclusa proprio in ordine alla fattispecie che, per costante giurisprudenza costituzionale, presenta «tratti di ridotta offensività, che segnano la sua marcata distanza dalle altre fattispecie di reato “inerenti agli stupefacenti”» (sentenza n. 43 del 2024).
L’esclusione del reato di piccolo spaccio dal perimetro applicativo della messa alla prova – che è derivata dall’innalzamento del massimo edittale da quattro a cinque anni di reclusione realizzato dal “decreto Caivano” – ha così determinato un’anomalia, ribaltando la scala di gravità tra le due figure criminose in comparazione, entrambe attinenti alla materia degli stupefacenti e preposte alla tutela dei medesimi beni giuridici, di cui incriminano la mera esposizione a pericolo. L’ipotesi meno grave è soggetta a un trattamento più rigoroso, sul versante considerato, ossia l’ammissibilità alla messa alla prova, con conseguente violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
5.5.2.– Il sovvertimento della scala di disvalore segnata dalle comminatorie edittali, considerato che si tratta di ipotesi di reato omogenee in rapporto ai beni protetti e alle relative modalità di aggressione, è privo di giustificazione alla luce della finalità dell’istituto della messa alla prova e della funzione della fattispecie attenuata dello spaccio di lieve entità. Anzi, proprio la ratio su cui si fonda il comma 5 dell’art. 73 – ossia mitigare il sistema repressivo dei reati in materia di stupefacenti, in presenza di condotte che realizzano un’offesa attenuata all’interesse protetto e sono «espressione di criminalità minore», propria di «fasce marginali» della società (sentenza n. 223 del 2022) – è particolarmente rispondente alle finalità risocializzanti, da un lato, e deflattive, dall’altro, della messa alla prova.
Innanzitutto, questa Corte osserva che, a differenza di «altri istituti (quali le misure alternative alla detenzione, nonché la sospensione condizionale della pena), parimenti ispirati ad evitare la condanna ad una pena che possa essere percepita come non proporzionata e quindi tale da non favorire la risocializzazione del condannato» (sentenza n. 146 del 2023), la messa alla prova «disegna un percorso rieducativo e riparativo, alternativo al processo [oltre che] alla pena […], che conduce, in caso di esito positivo, all’estinzione del reato» (sentenza n. 146 del 2022).
Dalla giurisprudenza costituzionale, peraltro, «emerge un favor per la messa alla prova», in costanza della quale «il processo è sospeso e la valutazione del giudice è fatta in limine, ossia prima dell’accertamento giudiziale sull’incolpazione» (sentenza n. 146 del 2023), con la conseguenza che il programma di trattamento alternativo alla pena, cui si sottopone volontariamente l’imputato (sentenza n. 91 del 2018), inizia immediatamente senza la necessità di attendere la conclusione del processo e la pronuncia della sentenza.
Per questa ragione, la messa alla prova coniuga la funzione premiale – derivante dalla circostanza che il suo «positivo svolgimento determina [per l’imputato] le favorevoli conseguenze della declaratoria di estinzione del reato» (sentenza n. 163 del 2022) – con una forte vocazione risocializzante: la risocializzazione del soggetto, infatti, si svolge in «una fase anticipata» (sentenza n. 91 del 2018) rispetto alla stessa celebrazione del processo e all’eventuale condanna a una pena condizionalmente sospesa, a una pena sostitutiva di una pena detentiva breve o, comunque, a una pena la cui esecuzione sia sostituita da una misura alternativa. Ciò indubbiamente comporta maggiori possibilità di esito positivo della prova con conseguente recupero dell’imputato, che viene “affidato”, senza ritardo, all’ente o al soggetto presso il quale svolgerà le sue prestazioni (art. 141-ter norme att. cod. proc. pen.).
In secondo luogo, la messa alla prova non implica una mera prognosi circa l’astensione dal commettere reati, bensì la valutazione in ordine all’idoneità del programma di trattamento, che – pur «funzional[e] alla risocializzazione del soggetto» – al contempo assume «una innegabile connotazione sanzionatoria rispetto al fatto di reato» (sentenza n. 68 del 2019). Il carattere sanzionatorio della messa alla prova è evidenziato, tra l’altro, proprio dalla prestazione del lavoro di pubblica utilità, che ne è una componente imprescindibile (sentenze n. 23 del 2025, n. 163 del 2022, n. 75 del 2020 e n. 68 del 2019). Le prescrizioni oggetto del programma trattamentale, inoltre, incidono «in maniera significativa sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto», tanto da doversi mantenere «entro un rapporto di proporzionalità rispetto alla gravità del fatto commesso» (sentenza n. 68 del 2019).
In virtù delle finalità specialpreventiva e risocializzante che deve perseguire, il trattamento è però «ampiamente modulabile, tenendo conto della personalità dell’imputato e dei reati oggetto dell’imputazione» (sentenza n. 91 del 2018). Esso è, infatti, «determinato legislativamente solo attraverso l’indicazione dei tipi di condotta che ne possono formare oggetto, rimettendone la specificazione […] all’ufficio di esecuzione penale esterna e al giudice, con il consenso dell’imputato» (sentenza n. 91 del 2018).
Ritiene pertanto questa Corte che – stante la particolare natura del reato di spaccio di lieve entità che, come evidenziato, si traduce in un fatto pur sempre attinente alla produzione, al traffico e alla detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, ma di limitata offensività e, soprattutto, indice di una ridotta pericolosità (sentenza n. 43 del 2024) – la messa alla prova ben si presta al conseguimento dello scopo – costituzionalmente imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost. – della risocializzazione del soggetto.
Da ultimo, non può non evidenziarsi come l’esclusione del piccolo spaccio dal perimetro applicativo della messa alla prova frustrerebbe anche le «finalità generali di deflazione giudiziaria per reati di contenuta gravità», che, secondo la giurisprudenza costituzionale, l’istituto persegue (ex multis, sentenza n. 139 del 2020). Si è al cospetto, infatti, di un reato di minore gravità e di facile accertamento, soprattutto in riferimento alla fattispecie base non circostanziata – che viene in rilievo «quale discrimine per l’accesso al beneficio» della messa alla prova (sentenza n. 146 del 2023) – la cui condotta è caratterizzata, alla luce delle modifiche apportate dal “decreto Caivano”, oltre che dalla minima offensività, anche dall’occasionalità. È dunque un reato che ben si presta a una definizione alternativa del procedimento, con evidenti effetti deflattivi (sentenze n. 146 del 2022, n. 14 del 2020, n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015).
In conclusione, l’ammissibilità alla messa alla prova per il più grave reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti e non per quello di piccolo spaccio si traduce in una violazione dell’art. 3 Cost.
6.– Per le ragioni sopra esposte, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti qualificato di lieve entità.
L’accoglimento della questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. comporta l’assorbimento della censura relativa all’art. 27, terzo comma, Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 168-bis, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato previsto dall’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza);
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 550, comma 2, del codice di procedura penale, e dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Padova, sezione penale, in composizione monocratica, e dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale, in composizione monocratica, con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 novembre 2023, n. 159, sollevata, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 giugno 2025.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Francesco Saverio MARINI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria l’1 luglio 2025
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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