Sentenza 69/2025 (ECLI:IT:COST:2025:69)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: AMOROSO - Redattrice: NAVARRETTA
Udienza Pubblica del 11/03/2025;    Decisione  del 11/03/2025
Deposito del 22/05/2025;   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 5 della legge 19/02/2004, n. 40.
Massime: 
Massime: 
Atti decisi: ord. 193/2024


Pronuncia

SENTENZA N. 69

ANNO 2025


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima civile, nel procedimento vertente tra E. B. e Centro procreazione assistita Demetra srl, con ordinanza del 4 settembre 2024, iscritta al n. 193 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2024.

Visti gli atti di costituzione di E. B., Centro procreazione assistita Demetra srl, S. R. e Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica dell’11 marzo 2025 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

udite le avvocate Filomena Gallo, Maria Elisa D’Amico, Benedetta Maria Cosetta Liberali e Paola Angela Stringa per E. B. e per le altre parti costituite, Ilaria Dello Ioio e Cinzia Ammirati per Centro procreazione assistita Demetra srl, nonché l’avvocata dello Stato Wally Ferrante per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio dell’11 marzo 2025.


Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 4 settembre 2024, iscritta al n. 193 del registro ordinanze 2024, il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima civile, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché agli artt. 3, 7, 9 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui prevede che possano accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi», e non anche donne singole.

2.– Il rimettente riferisce che E. B. aveva inviato al Centro procreazione assistita Demetra srl una richiesta di accesso alla procreazione medicalmente assistita, che il Centro le aveva negato, in ragione del divieto previsto dalla legge n. 40 del 2004 per le persone singole.

A fronte di tale diniego, la ricorrente ha proposto ricorso cautelare ante causam al Tribunale di Firenze, chiedendo in via principale di non applicare l’art. 5 della legge n. 40 del 2004, per contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, e, pertanto, di ordinare al Centro di accogliere la richiesta di accesso alla tecnica di fecondazione assistita di tipo eterologo e di avviare la procedura medica a carico del Servizio sanitario regionale.

In via subordinata, ha chiesto di sollevare questioni di legittimità costituzionale del medesimo articolo.

Nel procedimento sono intervenute ad adiuvandum S. R., che ha riferito di trovarsi nella medesima situazione di fatto della ricorrente, nonché l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS, che ha affermato di aver promosso numerose azioni giudiziarie in materia di procreazione medicalmente assistita, al fine di superare il divieto di accesso alle tecniche da parte delle persone singole.

Entrambi gli interventi sono stati dichiarati ammissibili nel giudizio a quo.

3.– Il rimettente, dopo aver chiarito che dal contenuto precettivo dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004 si evince un divieto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita per le persone singole, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale della richiamata norma, nella parte in cui prevede detta esclusione, per violazione degli artt. 2, 3, 13, 32 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nonché agli artt. 3, 7, 9 e 35 CDFUE.

3.1.– Il Tribunale di Firenze ha reputato le questioni rilevanti, in quanto l’art. 5 della legge n. 40 del 2004 troverebbe applicazione al caso di specie e, solo ove le questioni fossero dichiarate fondate, sarebbe possibile l’accoglimento del ricorso cautelare che ha introdotto il giudizio principale.

3.2.– Di seguito, il giudice a quo ha argomentato la non manifesta infondatezza delle censure sollevate.

3.2.1.– Anzitutto, l’art. 5 della legge n. 40 del 2004 determinerebbe, secondo il rimettente, un vulnus agli artt. 2 e 13 Cost., in quanto sacrificherebbe irragionevolmente il diritto incoercibile della persona di scegliere di costituire una famiglia anche con figli non genetici, comportando una violazione della libertà di autodeterminazione con riferimento alle scelte procreative.

3.2.2.– Inoltre, sempre ad avviso del Tribunale di Firenze, la norma censurata lederebbe l’art. 3 Cost., poiché determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra coppie e persone singole, benché nel nostro ordinamento sia ammessa e tutelata la famiglia monogenitoriale.

In aggiunta, il divieto comporterebbe una discriminazione fondata sulle risorse economiche delle aspiranti madri, in quanto l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sarebbe consentito solo alle donne che siano in grado di sostenere i costi necessari per avvalersi di tali procedure all’estero.

3.2.3.– Il giudice a quo ravvisa un contrasto anche con l’art. 32 Cost., là dove il divieto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita per la donna singola precluderebbe a quest’ultima «la prospettiva di divenire madre, considerando anche il fattore temporale legato alla sua fertilità (vedi sentenza della Corte Costituzionale n. 161/2023)», il che andrebbe a riverberarsi negativamente sulla salute della stessa.

3.2.4.– Infine, il citato art. 5 violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nonché agli artt. 3, 7, 9 e 35 CDFUE, posto che il divieto ivi previsto «confligge[rebbe] con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e con il diritto all’integrità fisica e psichica in quanto non rispett[erebbe] la libertà di autodeterminazione e di scelta in ordine alla propria sfera privata con particolare riguardo al diritto di ciascuno alla costituzione del proprio modello di famiglia».

4.– Con atto depositato il 12 novembre 2024, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare le questioni inammissibili e comunque non fondate.

4.1.– In via preliminare, la difesa statale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, in quanto la pronuncia richiesta sarebbe manipolativa e implicherebbe scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. Inoltre, il petitum sarebbe vòlto a ottenere una sentenza additiva al di fuori dei casi previsti dalla giurisprudenza costituzionale, che ammetterebbe quel tipo di pronuncia solo in presenza di una soluzione costituzionalmente obbligata.

4.2.– Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato ha sostenuto la non fondatezza delle censure, ritenendo che l’art. 5 della legge n. 40 del 2004 sia coerente con la ratio perseguita dal legislatore, ravvisabile nella «finalità, evocata espressamente all’articolo 1, di “favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”».

4.2.1.– In particolare, non sussisterebbe una violazione degli artt. 2 e 13 Cost., in quanto la mera aspirazione a diventare madre non potrebbe assurgere a diritto fondamentale della persona, né la Costituzione imporrebbe un modello familiare inscindibilmente correlato alla presenza di figli.

Ne deriverebbe che l’accesso alla genitorialità mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita non potrebbe che essere rimesso alla valutazione del legislatore.

La difesa statale ha anche sottolineato come nel bilanciamento degli interessi abbia un rilievo non secondario quello del nascituro alla certezza della propria discendenza bigenitoriale, con quanto ne consegue sotto il profilo dell’assunzione delle responsabilità genitoriali. Il legislatore avrebbe definito un paradigma familiare non eccedente il margine di discrezionalità in questa materia (a tal proposito, viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 221 del 2019). Una «famiglia ad instar naturae» rappresenterebbe, «in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato». Di conseguenza, la scelta legislativa «non [potrebbe] essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale», ma al contrario tradurrebbe sul piano normativo la volontà collettiva, realizzando un bilanciamento tra diritti fondamentali in conflitto, che l’Avvocatura generale reputa non irragionevole.

4.2.2.– Parimenti, non sarebbe leso l’art. 3 Cost., non essendo assimilabili – secondo la difesa statale – la situazione della coppia cui sia stata diagnosticata una sterilità o infertilità assoluta e irreversibile, derivante, dunque, «da fattori patologici», e quella della persona singola, la cui impossibilità a procreare avrebbe «carattere fisiologico». «Soltanto la prima delle due situazioni ricad[rebbe] nell’ambito applicativo della legge, che ha come dichiarato scopo quello di “favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”».

4.2.3.– L’Avvocatura generale dello Stato esclude, di seguito, anche un contrasto con l’art. 32 Cost., poiché la tutela della salute non potrebbe essere estesa fino a tradursi nel necessario appagamento di qualsiasi aspirazione soggettiva.

4.2.4.– Infine, la difesa statale contesta che si determini un vulnus all’art. 117, primo comma, Cost., posto che la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe riconosciuto agli Stati un ampio margine di apprezzamento in materia. In particolare, nella sentenza della grande camera 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria, avrebbe ritenuto il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca non incompatibile con l’art. 8 CEDU, sul presupposto che tale disciplina avrebbe preso in considerazione «l’interesse del nascituro, la cui tutela comporta anche la necessità di acquisire la certezza della propria discendenza bi-genitoriale, con ogni connessa proiezione anche sul crinale della completezza delle relazioni affettive e familiari e della assunzione delle responsabilità connesse».

5.– Nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituita E. B., parte del giudizio a quo, con atto depositato l’11 novembre 2024, che ha condiviso e sviluppato le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione.

5.1.– La ricorrente ha evidenziato come il censurato art. 5, negando alla donna singola di creare un proprio nucleo familiare, si porrebbe in contrasto con la più recente giurisprudenza di questa Corte, che avrebbe ridisegnato l’impianto normativo della legge n. 40 del 2004. Inoltre, risulterebbe avulsa dalla realtà sociale di migliaia di famiglie italiane di tipo monoparentale, la cui attitudine a crescere e a educare figli sarebbe stata affermata dalla sentenza n. 230 del 2020. Tale pronuncia avrebbe riconosciuto che i principi costituzionali non impedirebbero scelte diverse da quelle operate dal legislatore, «non potendosi escludere la “capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali”».

Sempre questa Corte, con la sentenza n. 161 del 2023, avrebbe, inoltre, consentito alla donna, ormai rimasta sola, di accedere all’impianto dell’embrione, precedentemente formato, benché il bambino sia destinato a nascere in un contesto familiare conflittuale.

Dalle richiamate premesse conseguirebbe la violazione dell’art. 3 Cost., in quanto in alcuni casi sarebbe permesso alla donna singola di creare un nucleo familiare monoparentale, se «precedentemente legata da una relazione e da un vincolo (di convivenza o di matrimonio) […], mentre alla donna che non abbia questo precedente legame questa medesima facoltà v[errebbe] negata in radice».

5.2.– La ricorrente ha, inoltre, sostenuto che l’art. 5 della legge n. 40 del 2004 si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza, in quanto costringerebbe la donna singola ad andare all’estero, in quei Paesi nei quali sia loro consentito di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Ciò determinerebbe sia una grave discriminazione, correlata a fattori economici, sia una violazione del diritto alla salute, poiché costringerebbe la donna a sottoporsi all’estero a «un percorso medico-sanitario che [sarebbe] erogabile da parte del servizio sanitario nazionale», magari recandosi «in paesi dove non sono garantiti adeguati e sufficienti standard di sicurezza».

5.3.– Quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, la difesa di E. B. afferma che il divieto oggetto di censura determinerebbe il mancato rispetto della vita privata della donna, nonché una sua discriminazione, posto che non solo «la famiglia monogenitoriale è ormai un’entità riconosciuta come giuridicamente rilevante e quindi meritevole di tutela, ma [oltretutto] l’accesso alla fecondazione eterologa da parte di donna singola è ormai riconosciuto in diversi ordinamenti nazionali conseguendone la sua rilevanza anche a livello europeo».

6.– Con atto depositato l’11 novembre 2024, si è costituita in giudizio S. R., interveniente nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Firenze.

In particolare, ha evidenziato come il divieto violi l’art. 32 Cost., con particolare riferimento alla salute psicofisica della donna e alla sua possibilità di realizzare un progetto genitoriale. Su questo punto, ha richiamato la citata sentenza n. 161 del 2023, che avrebbe dato particolare risalto al fattore temporale legato alla fertilità femminile, sottolineando come il decorso del tempo possa pregiudicare in modo irreversibile la possibilità di diventare madre.

7.– Con atto depositato l’11 novembre 2024, si è altresì costituita in giudizio l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS.

Anch’essa ha condiviso e sviluppato gli argomenti del giudice rimettente circa l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004, evidenziando, in particolare, come numerosi interventi di questa Corte negli ultimi venti anni avrebbero progressivamente rimosso i divieti più controversi della legge.

Ha, quindi, dedotto che il divieto di accesso alle tecniche di PMA per le persone singole determini una irragionevole discriminazione fondata sullo stato civile, in contrasto con l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale che ha progressivamente riconosciuto e tutelato anche i nuclei familiari monogenitoriali. A parere dell’Associazione, non emergerebbe alcun maggiore interesse in capo al nascituro a vedersi garantito il diritto alla bigenitorialità, più di quello di poter nascere, anche in un contesto familiare disgregato o in assenza tout court della figura paterna.

L’Associazione si è, di seguito, soffermata sulla ritenuta contraddizione fra quanto emerso dalla recente sentenza n. 161 del 2023, nonché dall’aggiornamento delle «Linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita», di cui al decreto del Ministro della salute 20 marzo 2024, e quanto disposto dalla norma censurata. In particolare, mentre si consentirebbe alla donna separata o vedova di proseguire il percorso di PMA, con l’impianto dell’embrione crioconservato, irragionevolmente si negherebbe alla donna singola la possibilità di accedere ab initio alle medesime tecniche, benché l’investimento fisico ed emotivo risulterebbe analogo.

Infine, l’Associazione ha sottolineato come l’art. 12, comma 2, della legge n. 40 del 2004, nel prevedere l’apparato sanzionatorio correlato alla violazione dei divieti posti dalla legge, non faccia espresso riferimento alla donna singola. Di conseguenza, secondo l’interveniente, una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale del censurato art. 5 non richiederebbe una modifica di tale disciplina.

8.– Con atto depositato il 12 novembre 2024, si è costituito in giudizio il Centro procreazione assistita Demetra srl, controparte nel giudizio a quo, che ha insistito per l’ammissibilità e la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.

9.– Il 18 febbraio 2025 E. B. ha presentato una memoria integrativa di replica alle eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato.

In particolare, rispetto all’osservazione secondo cui l’impianto normativo sarebbe costruito intorno a un modello antropologico ad instar naturae, ha osservato come, dopo la sentenza n. 162 del 2014, la famiglia non sia più necessariamente caratterizzata da un legame biologico e genetico; inoltre, quegli stessi requisiti soggettivi posti per l’accesso alla PMA non dovrebbero permanere lungo tutta la durata del percorso, potendo venir meno dopo la data di avvio (è citata, a riguardo, la sentenza n. 161 del 2023).

Quanto alla censura posta in riferimento agli artt. 2 e 13 Cost., replica ai rilievi dell’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo che nel nostro ordinamento sarebbe, viceversa, riconosciuto un diritto alla genitorialità.

Da ultimo, con riguardo alla censura concernente l’art. 117, primo comma, Cost., la ricorrente sottolinea come, nella sentenza S.H. e altri contro Austria, la Corte EDU abbia «ben perimetrato l’impatto della sua decisione, valorizzando il cd. time factor, ossia riconducendo la sua valutazione di ragionevolezza al momento storico in cui la legge austriaca era entrata in vigore».

10.– Anche il Centro procreazione assistita Demetra ha depositato il 18 febbraio 2025 una memoria integrativa, soffermandosi in particolare sulla censura imperniata sull’art. 8 CEDU.

Nel rammentare l’importanza assegnata dalla Corte EDU all’autodeterminazione orientata alla procreazione (richiama, in proposito, grande camera, sentenza 16 dicembre 2010, A, B e C contro Irlanda), ritiene che risulti violato il principio di proporzionalità, in quanto il divieto frapposto alla donna singola non perseguirebbe uno scopo di tutela della salute, anzi violerebbe il diritto all’integrità fisica e alla salute della donna, e non sarebbe apposto a tutela dell’ordine pubblico né del diritto altrui, posto che l’ordinamento italiano riconosce e tutela la famiglia monogenitoriale.

11.– Il Centro studi “Rosario Livatino”, con atto depositato l’11 novembre 2024, e la “Rete Lenford - Avvocatura per i diritti LGBTI+ Associazione di promozione sociale” e il Centro studi “Scienza & Vita”, con atti depositati il 12 novembre 2024, hanno presentato un’opinione ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Le opiniones curiae sono state ammesse con decreto presidenziale del 5 febbraio 2025.

12.– Il Centro studi “Rosario Livatino” ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.

L’ente ha, anzitutto, evidenziato come nel nostro ordinamento non sia configurabile un diritto incoercibile della persona a procreare con metodi diversi da quello naturale. A sostegno di tale tesi, ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte che avrebbe costantemente confermato la «tenuta costituzionale» della ratio sottesa alla legge n. 40 del 2004: le tecniche di PMA non dovrebbero intendersi come modalità di realizzazione del desiderio di genitorialità alternativa ed equivalente al concepimento naturale, ma come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente causa patologica e non altrimenti rimovibile.

Ha poi sottolineato come una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato, sicché la scelta legislativa non potrebbe essere considerata di per sé arbitraria o irrazionale.

Il Centro studi “Rosario Livatino” ha, inoltre, evidenziato la differenza tra la situazione dell’adozione e quella della procreazione da parte di persone singole: mentre nel caso dell’adozione il minore è già nato e si tratta di porre rimedio a una situazione di difficoltà, nel caso delle tecniche procreative un bambino deve ancora nascere, rendendo comprensibile la preoccupazione del legislatore di garantirgli le migliori condizioni di partenza possibili.

In merito alla censura relativa alla discriminazione economica, l’ente ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione.

Quanto alla violazione dell’art. 32 Cost., esso ha sostenuto che la tutela costituzionale della salute non potrebbe essere estesa sino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che un individuo reputi essenziale.

Infine, con riferimento ai profili sovranazionali il Centro studi “Rosario Livatino” ha evidenziato l’improprio richiamo ai diritti garantiti dalla CDFUE, in quanto in base all’art. 51 della stessa Carta e alla giurisprudenza della Corte di giustizia, i diritti fondamentali ivi contemplati trovano applicazione solo nelle materie di competenza dell’Unione, tra le quali non rientra la disciplina della PMA. Ha inoltre sottolineato come la Corte EDU abbia riconosciuto un ampio margine di apprezzamento agli Stati nel disciplinare l’accesso alle tecniche procreative, sicché una legge nazionale che abbia assegnato alle tecniche procreative una finalità terapeutica non può essere considerata fonte di un’ingiustificata disparità di trattamento.

13.– Il Centro studi “Scienza & Vita” ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate. Innanzitutto, stante la delicatezza degli interessi in gioco, ha sottolineato come l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze che toccano temi eticamente sensibili appartenga nel nostro ordinamento «primariamente alla valutazione del legislatore» (richiama le sentenze n. 221 del 2019, n. 162 del 2014 e n. 347 del 1998).

L’ente ha quindi rilevato come il legislatore del 2004, nel ricercare tale punto di equilibrio, abbia dato protezione a tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito (art. 1): l’artificialità della tecnica non potrebbe snaturare le relazioni umane e violare la dignità del nascere. Proprio tale dignità, riconosciuta anche all’embrione (sentenze n. 161 del 2023 e n. 229 del 2015), non consentirebbe di attribuire alla mera volontà progettuale dell’adulto carattere assoluto: non ogni desiderio di genitorialità potrebbe divenire un diritto solo perché tecnicamente possibile.

Il Centro studi “Scienza & Vita” ha poi evidenziato come la fattispecie dell’impianto dell’embrione in una situazione in cui è venuto meno l’originario progetto di coppia non sia equiparabile alla vicenda in esame.

14.– La Rete Lenford - Avvocatura per i diritti LGBTI+ APS ha chiesto che le questioni siano dichiarate fondate.

L’associazione si è soffermata sulle profonde trasformazioni che hanno riguardato la nozione di famiglia, in ragione dell’evoluzione sociale, culturale ed economica che ha condotto alla società contemporanea. In simile contesto, la legge n. 40 del 2004 risulterebbe incoerente e anacronistica, in quanto insisterebbe su un modello di famiglia che non rispecchierebbe più l’attuale realtà sociale. L’ente ha, inoltre, sottolineato come numerosi studi psicologici e scientifici confermino che i bambini cresciuti in famiglie monoparentali non presentino differenze in termini di benessere e sviluppo rispetto a quelli cresciuti in famiglie nucleari tradizionali.

Di seguito, viene evidenziato come diversi Paesi europei stiano rivedendo le proprie leggi in tema di PMA e siano sempre più numerosi gli Stati che consentono l’accesso alla donna singola (in particolare, sono richiamate le normative di Belgio, Cipro, Francia, Georgia, Grecia, Lettonia, Macedonia, Malta, Spagna, Ungheria, Ucraina, e, fuori dall’UE, Islanda, Norvegia e Regno Unito).

L’associazione si è, infine, soffermata sulla significativa evoluzione giurisprudenziale, che ha esteso la possibilità di procedere all’impianto degli embrioni anche in caso di separazione della coppia o di decesso del partner, come confermato anche dal d.m. 20 marzo 2024.

Questo riconoscimento renderebbe plasticamente ingiustificata l’esclusione ab origine della donna singola dall’accesso alla PMA.

15.– Alla pubblica udienza dell’11 marzo 2025, l’Avvocatura generale dello Stato e la difesa delle parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.


Considerato in diritto

1.– Con ordinanza iscritta al n. 193 del registro ordinanze 2024, il Tribunale di Firenze, sezione prima civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nonché agli artt. 3, 7, 9 e 35 CDFUE, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non prevede che anche la donna singola possa accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

1.1.– La norma censurata dispone che, «[f]ermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».

2.– Il giudice rimettente, dopo aver motivato la rilevanza delle censure sollevate, espone i motivi a sostegno della loro non manifesta infondatezza.

2.1.– L’art. 5 della legge n. 40 del 2004 violerebbe, anzitutto, gli artt. 2 e 13 Cost., poiché andrebbe a ledere «il diritto incoercibile della persona di scegliere di costituire una famiglia anche con figli non genetici» e, dunque, «[la] libertà di autodeterminazione con riferimento alle scelte procreative».

2.2.– Inoltre, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., determinando una ingiustificata disparità di trattamento fra coppie e donne singole. All’interno, poi, di quest’ultima categoria, l’art. 5 della legge n. 40 del 2004 discriminerebbe le donne le cui risorse economiche non siano adeguate a sostenere i costi per potersi recare nei Paesi stranieri che prevedono l’accesso delle donne singole alla procreazione medicalmente assistita.

2.3.– Di seguito, il Tribunale di Firenze ravvisa un ulteriore vulnus in riferimento all’art. 32 Cost., sostenendo che il divieto di fare ricorso alle richiamate tecniche esporrebbe la donna singola al rischio di infertilità, ove si consideri l’incidenza del fattore temporale sulla fertilità biologica.

2.4.– Infine, il rimettente reputa leso l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia agli artt. 8 e 14 CEDU, sia agli artt. 3, 7, 9 e 35 CDFUE, atteso che i citati parametri sovranazionali interposti riconoscerebbero il diritto di ogni persona all’autodeterminazione in ordine alla propria sfera privata e familiare, nonché la pretesa a non essere discriminati rispetto a quel diritto.

3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, che ha sollevato due eccezioni di inammissibilità.

In primo luogo, ha rilevato che le censure prospettate richiederebbero un intervento di questa Corte in una materia riservata alla «discrezionalità del legislatore».

In secondo luogo, ha obiettato che l’accoglimento delle questioni presupporrebbe una sentenza manipolativo-additiva, al di fuori dei casi previsti dalla giurisprudenza costituzionale. Non sarebbe, infatti, ravvisabile una soluzione costituzionalmente obbligata.

Le eccezioni non sono fondate.

3.1.– Anzitutto, la riconducibilità di una materia a un ambito riservato alla discrezionalità del legislatore è profilo che attiene al merito della controversia e non al rito (sentenze n. 260, n. 248 e n. 137 del 2020, n. 223 del 2019 e n. 41 del 2018).

3.2.– Quanto, poi, al ritenuto carattere additivo-manipolativo dell’intervento prospettato, occorre ribadire che, secondo questa Corte, per poter giungere a simile pronuncia è sufficiente rinvenire nel «sistema nel suo complesso […] “precisi punti di riferimento” e soluzioni “già esistenti” (sentenza n. 236 del 2016) […] immuni da vizi di illegittimità, ancorché non “costituzionalmente obbligat[i]”» (sentenza n. 222 del 2018).

L’ammissibilità delle questioni non è, dunque, subordinata all’esistenza «di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto [alla] presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore» (sentenza n. 73 del 2023; negli stessi termini, sentenze n. 46 del 2024 e n. 34 del 2021).

Nell’odierno giudizio, il rimettente ha identificato, quale punto di riferimento del prospettato intervento additivo, il medesimo regime giuridico attualmente previsto per le coppie di diverso sesso, coniugate o conviventi.

L’eccezione di inammissibilità non è, pertanto, fondata.

4.– Sempre in rito, occorre, invece, rilevare d’ufficio l’inammissibilità per difetto di motivazione della questione posta in riferimento all’art. 13 Cost.

Il giudice a quo evoca tale parametro, insieme con l’art. 2 Cost., lamentando il sacrificio del «diritto incoercibile della persona di scegliere di costituire una famiglia anche con figli non genetici» e, dunque, la lesione della «libertà di autodeterminazione con riferimento alle scelte procreative».

Orbene, se non vi è dubbio che la giurisprudenza costituzionale abbia offerto un’interpretazione di ampio respiro del concetto di libertà personale, d’altro canto, essa ha contemplato precise condizioni non solo sufficienti, ma anche necessarie, affinché questa Corte possa procedere a uno scrutinio nel merito di una questione sollevata in riferimento all’art. 13 Cost. (così, da ultimo, sentenza n. 203 del 2024).

Per evocare la lesione di detto parametro il giudice a quo è tenuto, dunque, ad assolvere all’onere di fornire una pur sintetica illustrazione delle ragioni idonee a far ravvisare nella compressione di una facoltà non corporea della persona una violazione della garanzia dell’habeas corpus.

Nel caso in esame, il rimettente si è limitato ad asserire in termini apodittici la violazione dell’art. 13 Cost., il che rende la censura palesemente inammissibile.

5.– Parimenti inammissibili, sempre per carenza di motivazione, sono, infine, le questioni sollevate in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, 7, 9 e 35 CDFUE.

A dispetto della condizione cui è subordinata la possibilità di dedurre la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione a norme dettate dalla CDFUE – ovverosia, l’afferenza della controversia all’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea (art. 51 CDFUE) – il giudice a quo omette qualsivoglia motivazione in proposito e non spiega le ragioni per cui sarebbero violati i richiamati artt. 3, 7, 9 e 35 CDFUE (ex plurimis, sentenze n. 183 e n. 5 del 2023, n. 34 e n. 28 del 2022).

Anche tali questioni sono, dunque, inammissibili.

6.– Venendo ora al merito, occorre preliminarmente ricostruire i tratti caratterizzanti la disciplina della procreazione medicalmente assistita, evidenziando la ratio ispiratrice dei diversi interventi con i quali questa Corte ha inciso su tale normativa.

6.1.– La legge n. 40 del 2004 è stata plasmata intorno alla finalità di porre rimedio ai «problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (art. 1, comma 1). Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita viene consentito solo se sia constatata «l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione» e sempre che la sterilità o infertilità derivino da una «causa accertata e certificata da atto medico» o – qualora siano «inspiegate» – vengano «documentate da atto medico» (art. 4, comma 1).

La richiamata finalità si riflette sui requisiti soggettivi previsti dal censurato art. 5 della legge n. 40 del 2004 per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita: coppie di sesso diverso, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, rispetto alle quali sia stato effettuato l’accertamento di sterilità o infertilità patologiche, ai sensi dell’art. 4, comma 1, della medesima legge, cui l’art. 5 fa rinvio.

Inoltre, sempre quest’ultima disposizione prevede che le coppie siano maggiorenni, nonché coniugate o conviventi.

6.2.– Negli oltre due decenni trascorsi dalla sua entrata in vigore, la legge n. 40 del 2004 è stata sottoposta, numerose volte, al vaglio di legittimità costituzionale: talora rispetto a norme che, nel perseguire la ratio della disciplina, sono apparse lesive dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità, nonché di diritti fondamentali, talaltra rispetto a norme che, proprio nel riflettere la sua finalità, sono state ritenute irragionevolmente restrittive delle potenzialità insite nelle tecniche di PMA e lesive di diritti fondamentali.

6.2.1.– Nella prima prospettiva si inquadra la sentenza n. 151 del 2009, che, a tutela della salute della donna, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 14 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui prevedeva, al comma 2, l’unico e contemporaneo impianto di un numero di embrioni non superiore a tre, nonché nella parte in cui non prevedeva, al comma 3, che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, dovesse essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna.

Nel medesimo solco si colloca anche la sentenza n. 162 del 2014, che ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004, «nella parte in cui stabilisce per la coppia di cui all’art. 5, comma 1, della medesima legge, il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili». Simile divieto è apparso un impedimento non soltanto irragionevole rispetto allo scopo di fare fronte proprio alle «patologie più gravi», ma anche non proporzionato rispetto all’obiettivo di garantire una tutela al futuro nato. L’interesse di quest’ultimo ad avere il patrimonio genetico di entrambi i genitori è stato ritenuto, infatti, privo di rilievo costituzionale, mentre quello a conoscere le proprie origini genetiche è stato affidato alla tutela offerta dalla disciplina prevista in materia di adozione.

6.2.2.– Agli interventi della giurisprudenza costituzionale che hanno rimosso divieti irragionevoli e sproporzionati nel perseguire lo scopo della legge si affianca una prima decisione che ha accolto censure volte a sindacare la ragionevolezza delle stesse norme che riflettono la finalità con cui la legge delimita e conforma la regolamentazione delle tecniche di PMA.

In particolare, sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi, per violazione degli artt. 3 e 32 Cost., gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non consentivano l’accesso alla PMA anche alle coppie fertili se «portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche» (sentenza n. 96 del 2015, seguita dalla sentenza n. 229 del 2015, che è intervenuta sull’apparato sanzionatorio correlato al divieto di effettuare diagnosi preimpianto).

L’estensione delle finalità della legge – dalla sola cura della sterilità o infertilità patologiche alla prevenzione del rischio di trasmissione di gravi malattie genetiche – è stata motivata, sulla scia di una pronuncia della Corte EDU (sentenza 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia), con l’esigenza di evitare, a tutela della salute della madre, il possibile ricorso, «innegabilmente più traumatic[o, alla] interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali».

6.2.3.– Di contro, questa Corte ha rigettato questioni di legittimità costituzionale, concernenti l’altra disposizione che riflette le finalità perseguite dalla legge n. 40 del 2004, ovverosia l’art. 5.

In particolare, la sentenza n. 221 del 2019 ha dichiarato non fondate – in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nonché a ulteriori parametri internazionali – le questioni di legittimità costituzionale del citato art. 5, nella parte in cui non consente l’accesso alla PMA a coppie dello stesso sesso e, nello specifico, a coppie di donne. Sono state, al contempo, rigettate le censure poste sull’art. 12, commi 2, 9 e 10 della medesima legge, concernenti le previsioni sanzionatorie per il mancato rispetto dei criteri di accesso.

Questa Corte, dunque, ha escluso di poter intervenire estendendo la funzione delle tecniche di PMA da mero rimedio per le sterilità e infertilità patologiche a via di accesso alla procreazione per i casi di infertilità “fisiologica”.

A fronte di un intervento che avrebbe significativamente mutato la stessa ratio di una disciplina coinvolgente «“temi eticamente sensibili” (sentenza n. 162 del 2014)», questa Corte ha ritenuto di competenza «“primaria […] del legislatore” (sentenza n. 347 del 1998)» individuare «un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana» (sentenza n. 221 del 2019).

Di conseguenza, ha reputato di poter verificare solo che la scelta legislativa non violi in maniera manifesta il principio di ragionevolezza, il che è stato negato con riferimento all’art. 5 della legge n. 40 del 2004, vòlto ad assicurare al bambino che deve ancora nascere «quelle che, secondo la […] valutazione [normativa] e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza”» (sempre sentenza n. 221 del 2019).

In pari tempo, la pronuncia ha escluso di poter limitare un proprio eventuale intervento all’ipotesi in cui entrambe (o almeno una fra) le donne della coppia, oltre a incontrare l’impedimento a procreare correlato alla mancanza del presupposto della diversità di sesso, risultino affette da cause di sterilità o infertilità patologiche.

Si è, infatti, rilevato che, mentre la «presenza di patologie riproduttive è un dato significativo nell’ambito della coppia eterosessuale, in quanto fa venir meno la [sua] normale fertilità», viceversa, rappresenta «una variabile irrilevante […] nell’ambito della coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso».

7.– Giungono ora dinanzi a questa Corte censure non dissimili rispetto a quelle sopra richiamate, prospettate con riferimento alla donna singola, anziché alla coppia di donne.

Nell’odierno giudizio sono, infatti, sollevate questioni di legittimità costituzionale sempre dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non comprende anche la donna singola fra coloro che possono avere accesso alle tecniche di PMA.

Occorre, a questo punto, precisare che la motivazione dell’ordinanza di rimessione non prospetta alcuna limitazione dell’intervento di questa Corte ai soli casi indicati dall’art. 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, come modificato dalla sentenza n. 96 del 2015, ovverosia alle ipotesi in cui la donna sia affetta da sterilità o infertilità patologiche o a quelle in cui rischi di trasmettere gravi malattie genetiche.

Il giudice a quo chiede un intervento additivo che consenta semplicemente l’accesso alla PMA alla donna singola, il che induce questa Corte a ritenere che l’obiettivo sia quello di prescindere dall’accertamento dei presupposti richiesti dall’art. 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, cui l’art. 5 della medesima legge fa espresso rinvio.

Questa Corte constata, dunque, che il petitum formulato dal giudice a quo non è riferibile ai soli casi di sterilità o infertilità patologica ovvero a quelli di trasmissibilità di malattie genetiche da parte di donne singole ed esclude, comunque, di poter delimitare un proprio eventuale intervento a donne che versino in dette situazioni.

Come già evidenziato dalla sentenza n. 221 del 2019, «l’infertilità “fisiologica”» è, infatti, assorbente rispetto a ulteriori impedimenti.

8.– Chiarito il perimetro del thema decidendum, vanno esaminate, primariamente e congiuntamente, le censure poste in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU.

Le questioni non sono fondate.

9.– Questa Corte, in linea con quanto già in precedenza affermato (sentenza n. 221 del 2019), ritiene che la discrezionalità del legislatore rinvenga un ambito di intervento elettivo nella perimetrazione teleologica della regolamentazione concernente l’accesso alla procreazione medicalmente assistita.

La materia coinvolge il delicato rapporto tra la funzione regolatoria propria del diritto e le potenzialità insite in una tecnica che, nel riguardare la procreazione, presenta rilevanti implicazioni bioetiche e incisivi riverberi sociali, riguardanti i rapporti interpersonali e familiari.

A questa Corte, dunque, compete unicamente accertare che non sia superato, in relazione all’interesse che si assume leso, l’argine della manifesta irragionevolezza e sproporzione, tenuto conto anche dell’evoluzione dell’ordinamento.

9.1.– A tal fine, è opportuno ricostruire, anzitutto, le ragioni sottese alle scelte operate nel 2004 dal legislatore.

Questi, nell’approntare una «prima legislazione organica» (sentenza n. 45 del 2005 ripresa dalla sentenza n. 221 del 2019), volta a sottrarre la procreazione medicalmente assistita a quello che è stato definito il limbo del non diritto, ha operato un bilanciamento di interessi, ispirato al principio di precauzione.

A fronte di tecniche idonee a condurre alla fecondazione dell’embrione prescindendo dal fatto naturale della procreazione, il legislatore ha cercato di non creare una distanza eccessiva rispetto al modello della generazione naturale della vita. In pari tempo, ha inteso proteggere a priori l’interesse dei futuri nati, nella consapevolezza della diversità fra le tecniche di PMA e la dimensione intima, puramente privata, della procreazione naturale, che tollera solo discipline a posteriori a tutela del bambino oramai nato.

Per questo, il legislatore, da un lato, ha fatto riferimento a coppie rispondenti ai presupposti della procreazione naturale – coppie di diverso sesso, in età potenzialmente fertile, viventi – che in tanto possono accedere alle tecniche, in quanto siano affette da sterilità o infertilità patologiche o possano trasmettere malattie genetiche.

Da un altro lato, nell’incertezza sui riflessi che un simile cambiamento può avere sui futuri nati, il legislatore ha identificato, nel loro interesse, una soluzione di partenza ritenuta idonea a fornire la migliore tutela in astratto del minore. Questa viene associata alla presenza di futuri genitori identificati nella coppia formata da individui maggiorenni – che, dunque, si presuppongono maturi – e unita da un legame affettivo, attraverso il matrimonio, secondo il paradigma familiare di cui all’art. 29 Cost., o attraverso la convivenza, secondo il modello riconducibile agli artt. 2 e 30 Cost.

Si tratta di una soluzione che rinviene le condizioni di accesso nello stesso testo costituzionale, il quale, a sua volta, riflette la stratificazione di modelli sociali storicamente affermatisi.

9.2.– Nondimeno, essa non configura una scelta costituzionalmente obbligata, posto che la Costituzione non abbraccia solo modelli di famiglie composte da una coppia di genitori di diverso sesso uniti da vincoli affettivi.

Questa Corte ha già in passato riconosciuto che la nozione stessa di famiglia «non si [può] ritenere “cristallizzat[a]” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché [è] dotat[a] della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, [va] […] interpretat[a] tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi» (sentenza n. 138 del 2010, che ha rigettato la possibilità di ascrivere le unioni tra persone dello stesso sesso all’art. 29 Cost., ma le ha annoverate tra le formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost.).

Al contempo, questa stessa Corte non ha escluso la «“capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali” (sentenza n. 221 del 2019)» (sentenza n. 230 del 2020).

Infine, con la sentenza n. 68 del 2025, questa Corte, in presenza di un bambino nato in Italia a seguito di una procedura di PMA effettuata all’estero da due donne nel rispetto della disciplina straniera – sulla cui base, se il bambino fosse nato all’estero, il vincolo genitoriale sarebbe stato riconosciuto in Italia anche nei confronti della madre intenzionale – ha ritenuto, nell’interesse del minore, che la madre intenzionale possa riconoscere il figlio.

10.– Ferma restando, dunque, l’assenza di impedimenti costituzionali acché il legislatore estenda l’accesso alla procreazione medicalmente assistita anche a nuclei familiari diversi da quelli indicati nell’art. 5 della legge n. 40 del 2004, occorre a questo punto verificare se l’omessa considerazione della donna singola superi il vaglio della non manifesta irragionevolezza e sproporzione.

10.1.– L’interesse che si assume violato, in riferimento all’art. 2 Cost. e all’art. 8 CEDU, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., è quello all’autodeterminazione procreativa, ascrivibile in pari tempo alla tutela della vita privata.

Tale interesse non è espressione di una libertà che abbia la stessa latitudine di ciò che la tecnica potenzialmente consente, né fonda una pretesa costitutiva di un diritto alla genitorialità (sentenze di questa Corte n. 33 del 2025, n. 33 del 2021, n. 230 del 2020 e n. 221 del 2019; nonché Corte EDU, decisione 5 dicembre 2019, Petithory Lanzmann contro Francia, paragrafo 18; sentenze 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, paragrafo 141, e 22 gennaio 2008, E.B. contro Francia, paragrafo 41; 28 giugno 2007, Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo, paragrafo 121; 26 febbraio 2002, Fretté contro Francia, paragrafo 29).

Per converso, esso trova riconoscimento sia nell’art. 2 Cost. (sentenze n. 33 del 2025, n. 161 del 2023, n. 221 del 2019 e n. 162 del 2014) sia nell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, quale interesse a realizzare la propria personalità in una dimensione relazionale che, in quanto tale, deve essere permeabile alla tutela degli altri interessi implicati nella medesima relazione (Corte EDU, sentenze 27 maggio 2021, Jessica Marchi contro Italia, paragrafo 60; 17 aprile 2018, Lazoriva contro Ucraina, paragrafo 66; 16 gennaio 2018, Nedescu contro Romania, paragrafo 66; 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, paragrafi 159, 161-165; 16 dicembre 2010, A, B e C contro Irlanda, paragrafo 212; grande camera, 10 aprile 2007, Evans contro Regno Unito, paragrafo 71).

L’autodeterminazione orientata alla genitorialità in tanto può far valere la propria vis espansiva, in quanto o tende a contrastare soluzioni «che, avendo riguardo al complesso degli interessi implicati, risultino irragionevoli e non proporzionate rispetto all’obiettivo perseguito (sentenza n. 221 del 2019)» (sentenza n. 33 del 2025) o contribuisce a sostenere un giudizio di irragionevolezza delle stesse norme che riflettono le finalità cui si ispira il legislatore, nella considerazione di tutti gli interessi coinvolti.

10.2.– Ebbene, la scelta del legislatore di non avallare un progetto genitoriale che conduce al concepimento di un figlio in un contesto che, almeno a priori, implica l’esclusione della figura del padre è tuttora riconducibile al principio di precauzione nell’interesse dei futuri nati. Pertanto, rispetto all’esigenza di tutelare questi ultimi, la conseguente compressione dell’autodeterminazione procreativa della donna singola non può, nell’attuale complessivo quadro normativo, ritenersi manifestamente irragionevole e sproporzionata.

In senso contrario non vale evocare la soluzione di recente adottata da questa Corte, a fronte della richiesta di una donna di procedere all’impianto di un embrione crioconservato, quando medio tempore sia venuto meno il legame affettivo con il padre, il quale chieda di poter revocare il proprio consenso (sentenza n. 161 del 2023).

L’assetto di interessi che si delinea nell’accesso alle tecniche di PMA non è, infatti, sovrapponibile a quello che emerge nello svolgimento della pratica giunta oramai all’avvenuta fecondazione dell’embrione.

Anzitutto, in quest’ultimo caso, la norma che consente di addivenire all’impianto, reputando irrevocabile il consenso paterno, non sacrifica l’interesse in fieri del minore ad avere le tutele giuridiche che discendono dalla paternità. Inoltre, essa non risponde alla pura autodeterminazione della donna, poiché il consenso di quest’ultima all’impianto porta a compimento una procedura in ragione della quale ella stessa si è esposta a un rischio per la propria salute e in virtù della quale, essendo stato già formato l’embrione – che «ha in sé il principio della vita» e, come tale, è attratto nell’ampio abbraccio dell’art. 2 Cost. (sentenze n. 161 del 2023, n. 84 del 2016 e n. 229 del 2015) – il medesimo può giungere alla nascita.

In definitiva, questa Corte non ritiene che il solo interesse orientato alla genitorialità della donna possa evidenziare la manifesta irragionevolezza e sproporzione di una scelta legislativa che, nel solco del principio di precauzione, si fa carico soprattutto dell’interesse dei futuri nati.

Questo vale tanto più in un contesto giuridico come quello presente, che non sacrifica radicalmente l’interesse orientato verso la genitorialità delle persone singole.

Proprio questa Corte ha di recente rimosso, con riferimento all’adozione internazionale, il divieto che impediva alle persone singole di sottoporsi al giudizio di idoneità a adottare (sentenza n. 33 del 2025).

Simile possibilità, offerta dall’istituto dell’adozione, non contraddice la non manifesta irragionevolezza e sproporzione delle cautele adottate dal legislatore nel caso della procreazione medicalmente assistita.

Nell’ipotesi dell’adozione, infatti, l’autodeterminazione delle persone singole converge verso lo stesso interesse del minore riflesso nella finalità perseguita con l’istituto adottivo. A fronte di bambini e di ragazzi in stato di abbandono per i quali l’alternativa all’adozione è quella di restare in contesti non paragonabili a un ambiente familiare stabile e armonioso, il puro divieto frapposto alle persone singole è un mezzo non proporzionato a perseguire il loro miglior interesse, anche a fronte di quello alla bigenitorialità, che al più potrebbe giustificare, a favore delle coppie, un criterio di tipo preferenziale.

Inoltre, nel caso dell’istituto adottivo l’interesse del minore è direttamente assicurato dall’accertamento giudiziale in concreto operato sull’idoneità dell’aspirante adottante a garantire un ambiente stabile e armonioso ed è il criterio ermeneutico che orienta tutte le fasi del procedimento.

10.3.– Alle medesime conclusioni cui si perviene con riferimento alla lesione dell’autodeterminazione di cui all’art. 2 Cost., si giunge avendo riguardo anche al diritto alla vita privata di cui all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU.

La discrezionalità che questa Corte riconosce al legislatore nel regolare i criteri di accesso alla procreazione medicalmente assistita trova corrispondenza nell’ampio margine di apprezzamento che la Corte di Strasburgo lascia agli Stati aderenti sia nella decisione concernente l’an della regolamentazione sia nell’individuazione del punto di equilibrio fra i vari interessi implicati (Corte EDU, sentenze 8 dicembre 2022, Pejřilová contro Repubblica Ceca, paragrafo 43; 5 maggio 2022, Lia contro Malta, paragrafo 60; 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria, paragrafo 97; 10 aprile 2007, Evans contro Regno Unito, paragrafi 81 e 82).

Questo non comporta, anche per la Corte EDU, un esonero da qualsivoglia giudizio sull’operato degli Stati, ma prelude a un vaglio che – al pari di quello esercitato da questa Corte – presuppone la previa valutazione degli argomenti che hanno ispirato le scelte effettuate dal legislatore, onde poter verificare se sia stato raggiunto un corretto punto di equilibrio tra gli interessi perseguiti dallo Stato e quelli direttamente interessati da tali scelte legislative («to examine carefully the arguments taken into consideration during the legislative process and leading to the choices that have been made by the legislature and to determine whether a fair balance has been struck between the competing interests of the State and those directly affected by those legislative choices», così Corte EDU, sentenza 5 maggio 2022, Lia contro Malta, paragrafo 61).

Non si tratta di indagare se il singolo Stato avrebbe potuto adottare una soluzione differente, ma se, nel compiere la scelta sottoposta a scrutinio, abbia ecceduto rispetto al margine di apprezzamento a esso riconosciuto («the central question in terms of Article 8 of the Convention is not whether a different solution might have been adopted by the legislature that would arguably have struck a fairer balance, but whether, in striking the balance at the point at which it did, the Czech legislature exceeded the margin of appreciation afforded to it under that Article», così Corte EDU, sentenza 8 dicembre 2022, Pejřilová contro Repubblica Ceca, paragrafo 55).

L’ampiezza di simile margine comporta, dunque, che una violazione dell’art. 8 CEDU sia riscontrabile solo a fronte di legislazioni che condizionino in modo manifestamente irragionevole l’esercizio del diritto al rispetto della vita privata, realizzando un contemperamento del tutto squilibrato tra gli interessi privati e le finalità perseguite dallo Stato. Una violazione in tal senso è stata ravvisata a fronte del diniego di ricorrere alla PMA opposto a una coppia, in quanto uno dei componenti era detenuto (grande camera, sentenza 4 dicembre 2007, Dickson contro Regno Unito) o nel caso del divieto di accesso alla PMA opposto a una coppia, in quanto la donna aveva quarantatré anni, mentre la disciplina sull’età potenzialmente fertile riteneva “auspicabile” il rispetto del limite dei quarantadue (sentenza 5 maggio 2022, Lia contro Malta).

È stato, invece, escluso un contrasto con l’art. 8 CEDU rispetto al divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca (sentenza 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria), così come con riguardo al divieto di fecondazione post mortem disposto in Francia e nella Repubblica Ceca (sentenze 14 settembre 2023, Baret e Caballero contro Francia, e 8 dicembre 2022, Pejřilová contro Repubblica Ceca).

Alla luce dei richiamati orientamenti, la scelta operata dal legislatore italiano nel non consentire l’accesso alla PMA alla donna singola risulta, dunque, rientrare nel margine di apprezzamento dello Stato e, di riflesso, non lede l’art. 8 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.

11.– Evidenziata la non fondatezza delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, è parimenti non fondata la censura concernente l’art. 32 Cost.

Il giudice fa discendere la lesione della salute della donna dal trascorrere del tempo e dal conseguente rischio di superare l’età fisiologicamente fertile.

Sennonché, l’infertilità per ragioni di età non può reputarsi di natura patologica e, pertanto, non può attrarre la tutela propria del diritto alla salute.

Parimenti, non vale richiamare il coinvolgimento della salute psichica, che certamente è ascrivibile alla tutela di cui all’art. 32 Cost. (ex plurimis, sentenze n. 161 del 2023 e n. 162 del 2014), ma che non può essere dilatata sino ad abbracciare il senso di delusione per la mancata realizzazione di un altro tipo di interesse, qual è l’autodeterminazione orientata alla genitorialità (sentenza n. 221 del 2019).

12.– Venendo ora alle questioni poste in riferimento all’art. 3 Cost., il giudice a quo evoca una disparità di trattamento in relazione a due distinti profili.

12.1.– Anzitutto, il rimettente lamenta una disciplina irragionevolmente differenziata nella comparazione fra la categoria delle donne singole e quella delle coppie di diverso sesso.

La richiamata censura può essere esaminata congiuntamente a quella che viene sollevata nei confronti dell’art. 14 CEDU, in correlazione con l’art. 8 CEDU e per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., che – in base alla giurisprudenza della Corte EDU – vieta di trattare in maniera diversa, senza giustificazione oggettiva e ragionevole, persone che si trovino in situazioni comparabili, evidenziando un intento discriminatorio.

Ebbene, alla luce della ratio dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004 e dell’intera disciplina che regola le tecniche di PMA, la categoria delle donne singole e quella delle coppie eterosessuali non risultano omogenee e, pertanto, non richiedono il medesimo trattamento.

Come si è già sopra evidenziato, la legge n. 40 del 2004 indirizza le tecniche di PMA verso l’obiettivo di offrire un rimedio alla sterilità o infertilità che abbiano una causa patologica, non rimovibile tramite «altri» metodi terapeutici (sentenze n. 221 del 2019, n. 96 del 2015 e n. 162 del 2014). L’infertilità fisiologica della donna singola non è omologabile a detta situazione, sicché la disomogeneità dei due gruppi di ipotesi non determina una irragionevole disparità di trattamento.

In tal senso, si è specificamente espressa anche la Corte EDU in riferimento all’art. 14 CEDU.

Proprio con riguardo alla disciplina della procreazione medicalmente assistita, infatti, ha ritenuto che, se una legge nazionale riserva tali tecniche a coppie eterosessuali sterili o non fertili, attribuendo loro una finalità terapeutica, non può simile scelta essere considerata fonte di una discriminazione di chi naturaliter non può procreare, in quanto le situazioni poste a confronto non risultano paragonabili alla luce della ratio della disciplina (Corte EDU, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).

12.2.– Da ultimo, il giudice a quo denuncia una disparità di trattamento correlata alle condizioni economiche delle donne, poiché l’attuale disciplina dei requisiti soggettivi di accesso favorirebbe le donne singole più abbienti, che possono far ricorso alle tecniche di PMA all’estero, mentre a quelle meno abbienti simile itinerario risulterebbe precluso.

Anche questa censura non è fondata.

La lamentata diversità di trattamento non è imputabile alla disciplina statale censurata, ma è semmai la naturale conseguenza della presenza di legislazioni straniere che dettano differenti regole.

Questa Corte ha già in passato evidenziato che, in assenza di altri vulnera costituzionali, «il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione». Diversamente, «la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia» (sentenza n. 221 del 2019).

13.– In conclusione, nell’attuale complessivo contesto normativo, non sono fondate, in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non consente alla donna singola l’accesso alla procreazione medicalmente assistita.


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 13 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3, 7, 9 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 marzo 2025.

F.to:

Giovanni AMOROSO, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2025

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA


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