Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 13 novembre 2024 (reg. ord. n. 231 del 2024), il Consiglio di Stato, sezione quinta, ha sollevato, in riferimento agli artt. 104, quarto comma, e 108, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, e 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, nella parte in cui, nel prevedere un tetto massimo alle retribuzioni dei dipendenti statali, includono in detta soglia anche gli emolumenti corrispondenti alle indennità di mandato elettorale spettanti ai componenti togati eletti negli organi di governo autonomo della magistratura ordinaria e in quelli delle magistrature speciali.
2.– L’art. 23-ter, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, stabilisce che il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva emolumenti o retribuzioni a carico delle finanze pubbliche, nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con le pubbliche amministrazioni, non possa essere superiore al trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione.
L’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, dispone, invece, che il limite massimo retributivo così imposto sia pari a 240.000,00 euro annui, al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente.
3.– Il giudice rimettente afferma di doversi pronunciare sul ricorso in appello presentato da un presidente di sezione del Consiglio di Stato, che ha chiesto la riforma della sentenza 18 giugno 2020, n. 6669, emessa in primo grado dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda. Quest’ultima ha rigettato il ricorso con cui lo stesso magistrato chiedeva di accertare il proprio diritto a percepire il trattamento economico, per l’incarico di componente effettivo del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (da ora in avanti, anche: CPGA), ricoperto dal 2013 al 2015, senza le decurtazioni stipendiali effettuate a suo danno in base alle norme censurate, dovute al superamento del “tetto retributivo”. Per effetto del cumulo tra la retribuzione e l’indennità percepita a titolo di componente del CPGA, infatti, il ricorrente del giudizio principale è stato assoggettato al recupero delle somme corrisposte in eccedenza rispetto al limite massimo retributivo, per gli anni 2014 e 2015, ed ha impugnato gli atti con cui se ne è disposta la restituzione.
4.– Secondo il giudice rimettente le disposizioni censurate, nella parte in cui includono all’interno del “tetto retributivo” anche gli emolumenti corrispondenti alle indennità di mandato elettorale spettanti ai componenti togati eletti negli organi di governo autonomo delle magistrature, lederebbero gli artt. 104, quarto comma, e 108, secondo comma, Cost. In particolare, il giudice a quo le reputa in contrasto con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura, con riferimento alla incidenza che potrebbero avere sulla composizione degli organi di governo autonomo, posti a presidio e a tutela dei richiamati valori costituzionali.
Le norme censurate, invero, nel prevedere un tetto onnicomprensivo alle retribuzioni del pubblico dipendente, produrrebbero l’effetto di azzerare la indennità del mandato elettorale per tutti coloro che, come l’appellante, abbiano raggiunto un trattamento retributivo onnicomprensivo prossimo alla soglia, determinando così l’impossibilità di percepire ulteriori emolumenti, anche se dovuti per lo svolgimento di funzioni rappresentative in organi di governo autonomo, di cui influenzerebbero indirettamente la composizione, violandone la rappresentatività.
L’effetto determinato dalle norme censurate sarebbe infatti quello di «scoraggiare, se non, in ipotesi estrema, di impedire […] la partecipazione alla competizione elettorale […] di quella specifica categoria di magistrati che, come la parte appellante, avendo raggiunto, nella progressione del rapporto di lavoro il vertice stipendiale, fruiscono già di un trattamento economico prossimo al tetto» e dunque non potrebbero percepire l’ulteriore indennità prevista per lo svolgimento del mandato elettorale.
Il rimettente ritiene, inoltre, che le disposizioni censurate, assoggettando al limite retributivo l’indennità di funzione, ledano l’indipendenza della magistratura.
4.1.– Quanto alla rilevanza, il Consiglio di Stato sottolinea il carattere pregiudiziale della questione di legittimità rispetto a quella oggetto del giudizio principale, dal momento che il diritto azionato dall’appellante, volto ad ottenere la restituzione dell’indennità di componente del CPGA che gli è stata prelevata, sarebbe impedito proprio per effetto delle censurate disposizioni.
5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate.
Ad avviso della difesa erariale, il presupposto da cui muove l’ordinanza di rimessione sarebbe erroneo poiché le norme censurate, puntuali nell’individuare i destinatari e gli emolumenti da considerare ai fini del computo del massimale retributivo, non determinano distinzioni in base alla tipologia dell’incarico ricoperto, ma rispondono alla generale esigenza di razionalizzare e contenere la spesa pubblica. Non si tratta, infatti, di previsioni «limite» o «eccezion[ali]» rispetto ai regimi più favorevoli riconnessi a funzioni particolari, quanto piuttosto di regole generali che governano il trattamento economico di tutte le categorie di dipendenti pubblici, indipendentemente dal fatto che questi ricoprano ulteriori cariche che contemplino indennità, gettoni o emolumenti. Si riferiscono, cioè, a «retribuzioni o emolumenti comunque denominati» nonché ai «rapporti di lavoro dipendente o autonomo», così da ricomprendere qualsiasi tipo di attività prestata nei confronti di una pubblica amministrazione, ivi compreso lo svolgimento di incarichi onorari. Tali norme avrebbero, poi, un peculiare significato, se riferite alle alte cariche dello Stato, la cui attività va considerata ben oltre l’esclusivo profilo di mera proporzionalità del trattamento retributivo. Ancor più, se si considera che il massimale in esse previsto è comunque adeguato poiché parametrato alle funzioni di una carica di rilievo e prestigio indiscussi, quale è il primo presidente della Corte di cassazione.
L’Avvocatura ritiene «coerente sul piano sistematico che il “tetto retributivo” colpisca le categorie professionali che godono dei trattamenti economici più elevati», avendo l’impianto normativo censurato proprio lo scopo di porre un limite ai redditi più alti «salvaguardando comunque l’adeguatezza professionale e retributiva della soglia contemplata» (vengono richiamate le sentenze di questa Corte n. 128 e n. 27 del 2022, quest’ultima relativa al tetto stipendiale applicato alla categoria dei dipendenti pubblici che svolgono il servizio di giudici tributari, e la sentenza n. 124 del 2017).
5.1.– La difesa statale contesta altresì le argomentazioni del rimettente secondo cui il tetto retributivo inciderebbe indirettamente sulla rappresentatività degli organi di autogoverno della magistratura. Sarebbe erroneo definire questo effetto come «indiretto», dal momento che le deduzioni del rimettente sul punto sarebbero del tutto ipotetiche. Ipotetico e non dimostrabile sarebbe l’assunto secondo cui i magistrati di maggiore anzianità, e dunque con retribuzioni più elevate potenzialmente incise dal tetto retributivo, sarebbero dissuasi dal candidarsi per ragioni meramente economiche.
6.– Si è costituita in giudizio la parte ricorrente nel giudizio principale, chiedendo che le questioni siano dichiarate, in via principale, inammissibili o, in subordine, fondate.
In via principale, la difesa della parte afferma che il rimettente si è sottratto al dovere di interpretare la legge in senso costituzionalmente conforme, omettendo di considerare due motivi di appello contro la sentenza del TAR Lazio, che ne ha respinto il ricorso in primo grado, il cui accoglimento avrebbe invece privato di rilevanza le odierne questioni.
In particolare, la parte privata reputa che la sottoposizione al limite massimo retributivo dell’indennità di membro del CPGA vada esclusa, poiché l’art. 1, comma 471, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», avrebbe stabilito che tale limite concerne soltanto gli emolumenti che trovino la propria causa genetica in un rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, escludendone quelli originati da servizi prestati a titolo onorario.
Inoltre, la legge prescriverebbe di considerare tali emolumenti al lordo dei soli contributi previdenziali posti a carico del lavoratore, e non anche di quelli corrisposti dal datore di lavoro (cosiddetto “lordissimo”). Il rimettente avrebbe dunque dovuto adottare una interpretazione costituzionalmente conforme in tale direzione, per effetto della quale il montante rilevante ai fini del “tetto retributivo” sarebbe stato inferiore.
6.1.– In subordine, il ricorrente nel processo principale chiede che le questioni siano dichiarate fondate per contrasto con i già menzionati artt. 104, quarto comma, e 108, secondo comma, Cost.
Le norme censurate determinerebbero, infatti, una situazione di disparità tra i magistrati parte del CPGA, dal momento che l’indennità di funzione onnicomprensiva prevista per il suddetto incarico non verrebbe corrisposta a tutti i componenti nella stessa misura, in violazione della rappresentatività dell’organo di governo autonomo.
7.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria illustrativa, in cui ha contestato la ricostruzione della parte in ordine al prospettato difetto di rilevanza e alla possibile interpretazione conforme a Costituzione e ha ribadito la non fondatezza delle sollevate questioni.
8.– Anche la parte privata ha depositato una memoria, riproponendo le ragioni a sostegno dell’inammissibilità delle questioni o, nel merito, per la fondatezza delle stesse.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza iscritta al n. 231 del registro ordinanze 2024, il Consiglio di Stato, sezione quinta, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 23-ter, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, e 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, in riferimento agli artt. 104, quarto comma, e 108, secondo comma, Cost.
Il censurato art. 23-ter, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, stabilisce che il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva emolumenti o retribuzioni a carico delle finanze pubbliche nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con le pubbliche amministrazioni non possa essere superiore al trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione.
L’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, esso pure censurato, dispone, invece, che il limite massimo retributivo così imposto sia pari a 240.000,00 euro annui al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente.
Il rimettente conosce in grado di appello del ricorso proposto da un presidente di sezione del Consiglio di Stato che, dal 2013 al 2015, ha altresì ricoperto l’incarico di membro togato del CPGA, l’organo di governo autonomo della magistratura amministrativa.
Per effetto del cumulo tra la retribuzione e l’indennità percepita a tale ultimo titolo, il ricorrente nel processo principale è stato assoggettato al recupero delle somme corrisposte in eccedenza rispetto al limite massimo retributivo negli anni 2014 e 2015 e ha impugnato gli atti con cui se ne è disposta la restituzione.
Il giudice a quo dubita, anzitutto, che l’assoggettamento dell’indennità di membro dell’organo di governo autonomo di una magistratura al limite massimo retributivo sia compatibile con gli artt. 104, quarto comma, e 108, secondo comma, Cost., perché ne risulterebbe compromesso il carattere rappresentativo dell’organo stesso. I magistrati che ricoprono le funzioni direttive, infatti, meglio retribuiti dei più giovani colleghi, non avrebbero interesse a candidarsi alla carica, consci che non potrebbero conseguire l’indennità per essa prevista. A ciò seguirebbe anche uno «svilimento della relativa funzione», le cui prerogative sono poste a tutela non solo del «singolo eletto», ma soprattutto della «stessa istituzione di cui egli fa parte».
In secondo luogo, il rimettente ritiene che tale regime normativo violi il principio di indipendenza della magistratura amministrativa, di cui all’art. 108, secondo comma, Cost. e, più in generale, della magistratura, di cui agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.
Vero è che nella parte dispositiva tali ultime norme costituzionali non sono espressamente evocate, ma dalla parte motivazionale appare chiaro che i dubbi del rimettente investono la compatibilità delle disposizioni censurate con il principio di indipendenza della magistratura nel suo complesso. Ciò si evince, in particolare, dai punti 4, 4.1, 4.2, 4.4 e 5 dell’ordinanza di rimessione, nei quali si fa riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., inquadrando la questione relativa all’indipendenza degli organi di autogoverno e alle indennità come profilo particolare del più ampio principio di indipendenza della magistratura.
2.– Si è costituita nel presente giudizio incidentale la parte privata ricorrente nel giudizio principale, eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni.
A suo dire, infatti, il rimettente si sarebbe sottratto al dovere di interpretare la legge in senso costituzionalmente conforme, omettendo di valutare due motivi dell’appello, il cui accoglimento avrebbe privato di rilevanza le odierne questioni.
In particolare, la parte reputa che la sottoposizione al limite massimo retributivo dell’indennità di membro del CPGA vada esclusa, poiché l’art. 1, comma 471, della legge n. 147 del 2013 avrebbe stabilito che tale limite concerne soltanto gli emolumenti che trovino la propria causa genetica in un rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, escludendone quelli originati da servizi prestati a titolo onorifico.
Inoltre, prescrivendo la legge di considerare tali emolumenti al lordo dei soli contributi previdenziali posti a carico del lavoratore, e non anche di quelli corrisposti dal datore di lavoro (cosiddetto “lordissimo”), il rimettente avrebbe dovuto raggiungere la conclusione sopra indicata adottando una interpretazione costituzionalmente conforme in tale direzione, per effetto della quale il montante rilevante ai fini del “tetto retributivo” sarebbe stato inferiore.
2.1.– L’eccezione non è fondata.
Va escluso che rispetto alla disciplina indubbiata sussista uno spazio ermeneutico sufficiente per addivenire a una sua interpretazione che offra un esito costituzionalmente conforme, nel senso prospettato dalla parte privata.
Anzitutto, l’unica interpretazione «del tutto ragionevole» (sentenza n. 27 del 2022) e realmente plausibile è quella fornita dal giudice a quo, secondo cui è da ricondurre al campo applicativo delle norme censurate ogni prestazione economica, erogata a carico della finanza pubblica a favore di chi abbia costituito un rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione, ivi comprese quelle conseguite a titolo onorifico. Secondo la scelta operata chiaramente dal legislatore, in sostanza, «[n]on è […] necessario che tutte le prestazioni ricevute siano riconducibili ad un rapporto di lavoro dipendente o autonomo, sicché – una volta instauratosi un siffatto rapporto di lavoro – concorre ad incidere sulla soglia indicata qualunque ulteriore retribuzione o emolumento percepiti, che siano a carico dello Stato, benché essi non siano inquadrabili in altro rapporto di lavoro dipendente o autonomo» (ancora sentenza n. 27 del 2022). Non si rinvengono sufficienti elementi normativi, pertanto, che – come sostiene la parte privata – consentano di concludere che l’art. 1, comma 471, della legge n. 147 del 2013 debba avere il significato di escludere dalla soggezione al “tetto retributivo” le indennità connesse alla funzione di componente del CPGA.
Né, d’altro canto, il ricorrente nel processo principale offre adeguati elementi per ritenere che, una volta esclusa la quota di “lordissimo” dagli emolumenti, il limite massimo retributivo (imposto alla parte dall’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, per i primi quattro mesi del 2014 e dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, per il periodo successivo) non avrebbe più avuto alcuna applicazione per la parte residua.
Per i restanti profili, non avendo la parte privata neppure individuato «i motivi “aventi priorità logica”», tra quelli di appello, che il rimettente avrebbe dovuto necessariamente esaminare prima di affrontare il dubbio di legittimità costituzionale (sentenza 88 del 2025), resta fermo che l’ordine di valutazione di tali motivi è affidato alla discrezionalità del giudice e non incide sui profili di ammissibilità delle sollevate questioni (sentenza n. 202 del 2021).
3.– Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, e 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertiti, in riferimento all’art. 104, quarto comma, Cost., non sono fondate.
Il rimettente ritiene che l’effetto del limite massimo retributivo sarebbe quello di scoraggiare la categoria dei titolari degli uffici direttivi dal candidarsi agli organi di governo autonomo delle magistrature, perché non sarebbe loro garantita, in virtù dell’elevato livello stipendiale, la percezione dell’indennità di funzione prevista dalla legge. Per tale via sarebbe compromesso il carattere rappresentativo dell’organo.
Al riguardo, è da osservarsi in primo luogo che non emerge dall’impianto costituzionale alcuna esigenza, né in termini di riserva né in termini di favor, alla stregua della quale i titolari degli uffici direttivi, di primo o di secondo grado, debbano trovare necessaria rappresentanza tra i membri elettivi del CPGA.
Peraltro, il rimettente erra nel ricostruire i profili di rappresentanza delle “categorie”, entro le quali si scompongono al loro interno le magistrature, che assumono rilevanza in questo caso. Per quanto concerne la magistratura amministrativa, infatti, la legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali), nel definire i criteri di composizione del CPGA in relazione ai membri togati elettivi, attribuisce rilievo esclusivamente alla distinzione tra magistrati amministrativi di primo e di secondo grado, riservando una quota di seggi agli uni e agli altri. La funzione ricoperta sia presso i Tribunali amministrativi regionali sia presso il Consiglio di Stato dal candidato è perciò priva a tal fine di rilevanza giuridica e a maggior ragione ciò vale con riguardo all’anzianità di servizio, dalla quale (e non dalla funzione) dipende la retribuzione tabellare.
4.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, in riferimento all’art. 108, secondo comma, Cost. e al principio di indipendenza della magistratura, di cui agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., è fondata.
4.1.– Va anzitutto premesso che la retribuzione dei magistrati è composta dal trattamento retributivo, fissato su base tabellare in ragione dell’anzianità di servizio, e dalle diverse indennità di funzione, incluse quelle percepite dai magistrati che sono eletti o che partecipano di diritto ai cosiddetti organi di governo autonomo.
Questa Corte, del resto, ha già rilevato che le indennità di funzione hanno carattere retributivo e, al pari del meccanismo di adeguamento automatico e, più in generale, della retribuzione dei magistrati, rappresentano guarentigie a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, che ammettono deroghe solo in via temporanea ed eccezionale (sentenza n. 1 del 1978; nello stesso senso, sentenze n. 223 del 2012, n. 42 del 1993 e n. 238 del 1990). La disciplina della retribuzione dei magistrati, dunque, ha la finalità di «evitare il mero arbitrio di un potere sull’altro» e il «precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati […] va salvaguardato anche sotto il profilo economico […] evitando tra l’altro che [i magistrati] siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti degli altri poteri»: principi che «sono confortati dai lavori preparatori della Costituente» (sentenza n. 223 del 2012).
Il principio di indipendenza della magistratura, del resto, non solo è un connotato strutturale della funzione giurisdizionale, ma è uno degli architravi dello Stato di diritto. Tale modello di Stato, nelle sue manifestazioni più evolute, presuppone, infatti, la distinzione tra la funzione del disporre, attribuita agli organi del circuito democratico-rappresentativo, e quella del provvedere in via amministrativa e del giudicare, attribuita agli organi scelti sulla base del criterio tecnico-attitudinale. La scomposizione del potere pubblico in tali funzioni trova, poi, il suo fattore di ricomposizione nel principio di legalità, che consente di tenere in equilibrio il principio democratico e quello garantistico.
In questa prospettiva occorre evitare da parte dei diversi poteri dello Stato reciproci condizionamenti impropri, nonché tentativi di esorbitare dal rispettivo ambito funzionale.
I principi dello Stato di diritto, ai quali sono riconducibili gli istituti a garanzia dell’indipendenza della magistratura, sono, infatti, a fondamento dell’assetto costituzionale della Repubblica e trovano costante e ordinario riscontro nell’ordinamento.
Non si tratta, dunque, di privilegi corporativi o personali, ma di fondamentali esigenze di garanzia e di equilibrio: equilibrio che spetta anche a questa Corte salvaguardare, preservando una pluralità di istituti che – pur con diversa struttura, configurazione e incisività – hanno espresso o implicito fondamento nella Costituzione a tutela delle magistrature come degli altri poteri dello Stato. Il riferimento è non solo alle guarentigie a tutela dei singoli magistrati, ma anche, ad esempio, alle attribuzioni riservate dalla Costituzione in via diretta al Consiglio superiore della magistratura e in via indiretta agli analoghi organi operanti per le giurisdizioni speciali, all’astratta legittimazione di ogni magistrato a sollevare conflitti interorganici e, quanto agli organi del circuito democratico-rappresentativo, alle previsioni sulle immunità e sulle indennità dei parlamentari, alle riserve di competenza a favore dei regolamenti parlamentari o alle ipotesi di autodichia delle Camere e degli altri organi costituzionali.
Non potrebbe tuttavia giungersi a una piena comprensione della ratio che sorregge la cura costituzionale verso il principio di indipendenza della magistratura se lo si interpretasse alla stregua di una meccanica applicazione del modello della separazione dei poteri non alimentata da altro scopo che costituire un “dominio riservato” nell’esercizio di determinate funzioni pubbliche. Ben diversamente, nell’impianto disegnato dalla Costituzione il significato della strutturazione di una magistratura indipendente può essere colto solo ponendola primariamente in connessione con la necessità di una piena ed effettiva garanzia dei diritti e degli interessi che le norme dell’ordinamento (a partire da quelle costituzionali) proteggono, sul piano sia individuale che collettivo. Il senso garantistico della riserva di giurisdizione, ad esempio, deperirebbe enormemente se essa non fosse assistita dalla garanzia dell’indipendenza, idonea ad assicurare un esercizio della funzione realmente contraddistinto da terzietà. Acquisisce carattere emblematico, in questo ordine di idee, la soggezione del giudice soltanto alla legge, disposta dall’art. 101, secondo comma, Cost. Se, infatti, anche da tale prescrizione deve trarsi una conferma del principio di indipendenza, allo stesso tempo essa ne fissa il confine («soltanto alla legge»), sostanzialmente individuando nella legge il limite e la ragion d’essere dell’indipendenza stessa.
Riguardato in questa prospettiva, il principio di indipendenza della magistratura, al pari di altre guarentigie costituzionali (il diritto di difesa, ex art. 24, secondo comma, Cost.; il diritto a non essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, ex art. 25, primo comma, Cost.; le garanzie dell’art. 111 Cost.; il divieto, nell’art. 102, secondo comma, Cost., di istituire giudici straordinari o speciali, eccetera), contribuisce in modo essenziale a determinare il patrimonio di tutele che spettano ai consociati nel loro rapportarsi con l’esercizio delle funzioni giurisdizionali. In termini più generali, può osservarsi che è il principio personalista, desumibile dall’art. 2 Cost., a illuminare funzionalmente il principio di indipendenza della magistratura.
Anche la disciplina relativa alla retribuzione dei magistrati non può allora essere sottratta a una valutazione che tenga conto delle proiezioni ordinamentali del principio costituzionale di indipendenza ricostruito nei termini anzidetti, dal momento che il profilo economico difficilmente potrebbe essere considerato avulso, sullo stesso piano normativo, da una congrua ed effettiva garanzia della posizione di indipendenza tout court.
4.2.– Non è un caso che le guarentigie economiche abbiano avuto e abbiano tuttora una larga diffusione nel diritto comparato. Esse hanno trovato una specifica emersione sin dalla nascita del costituzionalismo, essendo già prevista nel 1787 dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America, all’articolo III, sezione 1, la clausola che i giudici debbono godere di «a compensation, which shall not be diminished during their continuance in office».
La Corte Suprema degli Stati Uniti si è più volte espressa sulla richiamata “compensation clause”, includendo l’aspetto retributivo tra le garanzie a tutela della autonomia e dell’indipendenza della magistratura (così United States v. Will, 449 U.S. 200 [1980], O’Malley v. Woodrough, 307 U.S. 277 [1939], Miles v. Graham, 268 U.S. 501 [1925], Evans v. Gore, 253 U.S. 245 [1920]). Corti costituzionali o supreme di altri Paesi hanno espresso principi analoghi, sempre a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, nonché in ossequio al principio di separazione dei poteri (così, a titolo esemplificativo, il Tribunale costituzionale federale tedesco ha dato risalto al nesso tra l’esigenza di un’adeguata retribuzione e la tutela costituzionalmente garantita dell’indipendenza del giudice, ex multis, pronuncia 5 maggio 2015, BVerfGE 139, 64; ancora, la Corte dei conti greca, con la sentenza n. 4327 del 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedevano tagli retroattivi agli stipendi e alle pensioni dei giudici; più di recente, la Corte costituzionale della Repubblica ceca ha ritenuto costituzionalmente illegittime le norme che, pure a seguito dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, hanno prorogato il blocco degli stipendi ai magistrati, senza giustificazioni in termini di necessità e proporzionalità, così Pl. ÚS, 5/2024, Pl. ÚS, 15/2022; sulla riduzione alla retribuzione dei magistrati, ex multis, Pl. ÚS, 28/13, Pl. ÚS, 12/10, Pl. ÚS 13/08, Pl. ÚS 34/04).
E gli stessi principi si rinvengono in dichiarazioni o risoluzioni internazionali (così, sempre a titolo di esempio, i Basic Principles on the Independence of the Judiciary delle Nazioni Unite del 1985 enunciano all’art. 7 il principio in base al quale «[i]t is the duty of each Member State to provide adequate resources to enable the judiciary to properly perform its functions»; così come la Resolution on the Right to a Fair Trial and legal Assistance in Africa, adottata dall’African Commission on Human and People’s Rights, nel 1999, connette l’indipendenza della magistratura anche alle retribuzioni dei giudici).
4.3.– Analoga esigenza di tutela della retribuzione delle magistrature è avvertita a livello eurounitario. In modo molto netto sul punto si è espressa la Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, con la recente sentenza 25 febbraio 2025, in cause riunite C-146/23 e C-374/23, Sad Rejonowy w Bialymstoku, nella quale non solo si è specificato che nella retribuzione dei giudici devono essere «presi in considerazione, oltre allo stipendio ordinario di base, i diversi premi e indennità che essi percepiscono, in particolare a titolo dell’anzianità o delle funzioni loro affidate», ma soprattutto si è escluso che il legislatore possa diminuire in modo stabile quel complessivo trattamento retributivo. In particolare, per la Corte di Lussemburgo sono possibili deroghe in peius del trattamento retributivo dei magistrati, ma affinché siano compatibili con il diritto dell’Unione esse devono soddisfare un certo numero di requisiti. Per ciò che qui interessa, la deroga deve essere «necessaria e strettamente proporzionata al conseguimento [dell’obiettivo di interesse generale], il che presuppone che essa rimanga eccezionale e temporanea».
Nella stessa prospettiva, la Corte di giustizia ha altresì riconosciuto alle autorità amministrative indipendenti una indipendenza funzionale volta a impedire qualsivoglia forma di influenza diretta o indiretta che possa rischiare di incidere sullo svolgimento delle loro attività (così, ex multis, Corte di giustizia dell’Unione europea, quarta sezione, sentenze 2 settembre 2021, causa C-718/18, Commissione europea e 26 luglio 2017, causa C-560/15, Europa way srl e Persidera spa; seconda sezione, sentenza 28 luglio 2016, causa C-240/15, Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni; grande sezione, sentenza 8 aprile 2014, causa C-288/12, Commissione europea).
4.4.– Il “tetto retributivo”, come ridefinito dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, ha determinato una riduzione del trattamento economico di alcuni magistrati e, con il trascorrere del tempo e a distanza di oltre un decennio, ha perso definitivamente il requisito della temporaneità richiesto, ai fini della sua legittimità costituzionale ed eurounitaria, dalla giurisprudenza di questa Corte e della Corte di giustizia.
Come si è visto, l’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, aveva ancorato il limite massimo retributivo a un importo parametrato alla retribuzione del primo presidente della Corte di cassazione. Si era così salvaguardato il «nesso tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro», «anche con riguardo alle prestazioni più elevate» (sentenza n. 27 del 2022). Tale previsione, pur rendendo certo il parametro di riferimento del cosiddetto “tetto retributivo”, non ne quantificava dunque in maniera rigida la soglia.
In seguito, il censurato art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, ha stabilito che, a decorrere dal 1° maggio 2014, «il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della Corte di cassazione […] è fissato in euro 240.000,00 annui».
In sostanza, il legislatore ha dapprima individuato il massimale retributivo agganciandolo alle dinamiche stipendiali dell’alta carica, ma senza incidere su di esse, e ha successivamente ridotto gli emolumenti percepibili dal titolare di tale carica, fissando un limite inferiore a quello precedente.
È infatti certo che gli emolumenti complessivi spettanti al primo presidente della Cassazione fossero già nel 2014 sensibilmente superiori all’importo di 240.000,00 euro al lordo, visto che l’art. 3 del d.P.C.m. 23 marzo 2012 (Limite massimo retributivo per emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con le pubbliche amministrazioni statali) li aveva stimati in euro 293.658,95 al lordo e che tale cifra è stata aggiornata dalla circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri -Dipartimento della funzione pubblica 18 marzo 2014, n. 3, recante «Nuove disposizioni in materia di limiti alle retribuzioni e ai trattamenti pensionistici – Articolo 1, commi 471 ss. della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Legge di stabilità per il 2014)», la quale ha specificato che, per l’anno 2014, il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione era pari a euro 311.658,53.
In definitiva, la disposizione censurata ha decurtato il livello retributivo del primo presidente, come di altri magistrati, con la conseguenza, quanto a tutto il personale di magistratura, che è venuta meno la garanzia (fatta salva, invece, dall’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito) in ordine alla preservazione del trattamento economico assicurato dalla legge sia nella sua base sia quanto agli adeguamenti automatici costituzionalmente necessari per proteggerne il potere di acquisto (sentenze n. 223 del 2012 e n. 238 del 1990).
Peraltro, solo con l’art. 1, comma 68, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024) si è introdotto un meccanismo di adeguamento dell’importo del cosiddetto “tetto retributivo” all’inflazione, ma senza recupero della svalutazione pregressa.
Ciò ha comportato che la forbice tra la retribuzione effettiva di 240.000,00 euro ora attribuita al primo presidente della Cassazione e quella virtuale, che gli sarebbe spettata in assenza della norma censurata e per effetto degli adeguamenti previsti dalla legge (in particolare, art. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, recante «Provvidenze per il personale di magistratura»), si è ulteriormente allargata.
4.5.– Questa Corte, nell’escludere l’illegittimità costituzionale dell’estensione al personale di magistratura di misure generali di riduzione della spesa pubblica, ha tuttavia specificato che «[a]llorquando la gravità della situazione economica e la previsione del suo superamento non prima dell’arco di tempo considerato impongano un intervento sugli adeguamenti stipendiali, anche in un contesto di generale raffreddamento delle dinamiche retributive del pubblico impiego, tale intervento non potrebbe sospendere le garanzie stipendiali oltre il periodo reso necessario dalle esigenze di riequilibrio di bilancio» (sentenza n. 223 del 2012).
Tale regola, che impone una necessaria temporaneità di questo genere di misure ove estese alla magistratura, è condivisa, come chiarito, dal diritto dell’Unione e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.
Nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale che sono state in passato sollevate, quanto al massimale retributivo, con riferimento al principio di indipendenza della magistratura, questa Corte si è pronunciata in un momento in cui non erano ancora maturate ragioni sufficienti, a tre anni dall’entrata in vigore della norma, per ritenere che l’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, avesse illegittimamente compresso in modo permanente, e non solo in via temporanea, il livello retributivo della magistratura, incidendo su quello del primo presidente della Cassazione (sentenza n. 124 del 2017).
Tale conclusione non può essere ora confermata, a distanza di oltre dieci anni dall’adozione della disposizione censurata e nell’ambito di un contesto normativo e fattuale del tutto differente.
4.6.– Il “tetto retributivo”, infatti, è stato introdotto nel 2011 in una situazione di instabilità finanziaria di eccezionale gravità, indotta da una allarmante crisi del debito sovrano italiano. Pertanto, tale misura, seppur derogatoria rispetto a molteplici precetti costituzionali, aveva una giustificazione solo se a carattere congiunturale e temporaneo, rispetto ad una situazione del tutto particolare.
4.7.– Un ulteriore e sopravvenuto profilo di criticità del limite massimo retributivo è rappresentato dall’introduzione di alcune norme che, per specifici soggetti, hanno derogato al carattere generale del “tetto retributivo”. Si tratta, in particolare, dell’art. 34, comma 1, lettera d), del decreto-legge 21 giugno 2022, n. 73 (Misure urgenti in materia di semplificazioni fiscali e di rilascio del nulla osta al lavoro, Tesoreria dello Stato e ulteriori disposizioni finanziarie e sociali), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2022, n. 122, che ha previsto a favore dei commissari di Sogin spa un compenso «anche in deroga al limite massimo retributivo»; nonché degli artt. 13-bis e 14 del decreto-legge 10 agosto 2023, n. 104 (Disposizioni urgenti a tutela degli utenti, in materia di attività economiche e finanziarie e investimenti strategici), convertito, con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2023, n. 136, che hanno sottratto al “tetto retributivo” i dipendenti delle società pubbliche di rilievo strategico.
Introducendo disposizioni derogatorie, anziché procedere a una revisione complessiva del limite massimo retributivo, il legislatore non solo ha infranto la natura generalissima, ritenuta da questa Corte di «importanza dirimente» (sentenza n. 124 del 2017), del “tetto retributivo”, ma ne ha confermato irreversibilmente il carattere duraturo, e per nulla transitorio, anche nei confronti dei magistrati.
In conclusione, il “tetto” di cui all’esaminato art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, in origine costituzionalmente tollerabile in ragione della temporaneità della misura disposta nei confronti del personale di magistratura, si è progressivamente posto in contrasto con la Costituzione una volta «palesata appieno la natura strutturale» della previsione (sentenza n. 178 del 2015), incorrendo in tal modo in una illegittimità costituzionale sopravvenuta, per violazione degli artt. 108, secondo comma, 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.
4.8.– Su un piano più generale, occorre, infine, interrogarsi sulla quantificazione dei risparmi di spesa ottenuti in applicazione della misura.
Il legislatore, infatti, ha ritenuto di poter conseguire apprezzabili risparmi, prevedendo che il dipendente pubblico non possa trattenere emolumenti a carico della finanza pubblica, pur legittimamente percepiti, oltre il massimale individuato dalla legge e ha disposto che quanto corrisposto in eccesso confluisca presso il Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (art. 23-ter, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito).
Tale previsione, in linea di principio, non è costituzionalmente censurabile, perché «[n]el settore pubblico non è precluso al legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi interessi coinvolti, non sia manifestamente irragionevole» (sentenza n. 124 del 2017).
Questa Corte ha in effetti già posto in luce (sentenze n. 128 e n. 27 del 2022 e n. 124 del 2017) talune criticità che la disciplina censurata può generare in riferimento a plurimi precetti costituzionali: quali quelli desumibili dall’art. 3 Cost. sulla parità di trattamento; dall’art. 36, primo comma, Cost. sul diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un'esistenza libera e dignitosa; dall’art. 38, secondo comma, Cost. sul diritto a un’adeguata tutela previdenziale; dall’art. 97 Cost. sul buon andamento della pubblica amministrazione (ancora sentenza n. 124 del 2017).
Norme poste a garanzia di interessi di rilievo che il legislatore è tenuto a considerare, mentre individua il non irragionevole punto di equilibrio tra essi e la finalità di contenimento della spesa pubblica.
La disposizione censurata aveva ugualmente superato indenne il controllo di legittimità costituzionale perché si era ritenuto che, alla luce della impellente necessità di contenere la spesa per il personale («un importante aggregato della spesa di parte corrente», sentenza n. 153 del 2015), essa realizzasse un bilanciamento non palesemente incongruo.
Tuttavia, fin dalla indicata sentenza n. 124 del 2017, questa Corte, nel respingere una censura di illegittimità costituzionale concernente l’omesso computo nella relazione tecnica dei risparmi attesi in forza del “tetto retributivo”, ha avvertito che «le molteplici variabili in gioco precludono una valutazione preventiva ponderata e credibile», rendendone «[l’]impatto quantificabile solo “a consuntivo”».
È evidente che, specie nella prospettiva della verifica dell’adeguatezza e proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini, il controllo di legittimità costituzionale concernente l’esito del bilanciamento prescelto dal legislatore non può prescindere, in una prospettiva di ampio respiro temporale, dal considerare nel lungo periodo l’effettiva capacità della norma di assolvere, in modo che non sia del tutto marginale, al suo “fine prioritario” di contenere la spesa.
Questa Corte, a più di dieci anni di distanza dall’introduzione della norma censurata, osserva ora che i dati estraibili dall’andamento del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato non confortano le iniziali attese e aspirazioni del legislatore.
In particolare, è degno di attenzione che – come risulta dal Rendiconto generale dello Stato per il 2015 - Conto delle entrate, relativamente al capitolo di entrata del bilancio dello Stato 3512 – nel 2015, vale a dire nella prima annualità di efficacia del limite massimo retributivo, il risparmio di spesa non abbia affatto rispettato le attese, considerato che, a fronte di circa 86 milioni di euro inizialmente previsti, l’importo effettivamente versato nel Fondo è stato soltanto di circa 4,5 milioni di euro. Nemmeno negli anni successivi l’ammontare del risparmio versato si è avvicinato alle cifre previste nel 2015, raggiungendo al massimo 18,9 milioni di euro. Tale linea di tendenza potrebbe anche avvalorare l’ipotesi che i dipendenti pubblici con le retribuzioni più elevate abbiano preferito rinunciare all’assolvimento di incarichi aggiuntivi piuttosto che subire gli effetti del massimale retributivo, con la conseguenza di disperdere l’apporto di elevate professionalità, ma senza realizzare apprezzabili risparmi.
In termini percentuali, poi, dal 2011 fino al 2024, l’incremento del Fondo in ragione dell’applicazione del “tetto” rispetto all’incremento complessivo annuo dello stesso Fondo non è molto significativo, attestandosi su valori marginali.
A consuntivo, dunque, va rilevato che i risparmi non si possono più considerare adeguati e proporzionati, in una logica di ragionevole bilanciamento, in relazione ai principi costituzionali che ne vengono sacrificati e considerato che la riduzione del tetto e il mancato adeguamento al tasso di inflazione hanno comportato dopo il 2014 un sacrificio ancora più elevato di tali principi.
5.– Spetta ora a questa Corte individuare il rimedio al vulnus appena accertato (da ultimo, sentenze n. 78 e n. 7 del 2025 e sentenza n. 208 del 2024).
In questa prospettiva va rilevato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, nella parte in cui ricomprende nel “tetto retributivo” le indennità di carica per i componenti togati degli organi di governo autonomo, risulterebbe eccedente rispetto alla necessità di sanare il vizio riscontrato, perché il legislatore ha discrezionalità nel determinare quali emolumenti vadano inclusi nella base di calcolo e quali no.
L’indennità di funzione dei membri degli organi di governo autonomo delle magistrature gode senza dubbio della medesima protezione costituzionale delle retribuzioni dei magistrati, perché l’azione di tali organi preserva l’indipendenza esterna di costoro. Ma rientra nella discrezionalità del legislatore optare per un “tetto” onnicomprensivo, includendo in esso ogni forma di retribuzione, emolumento o indennità, purché, come chiarito, siano preservati il trattamento retributivo dei magistrati e le indennità collegate alle loro funzioni.
La soluzione prospettata dal giudice a quo, per altro verso, non riuscirebbe a sanare integralmente il vulnus costituzionale, residuando, nel “tetto” fisso determinato dal d.l. n. 66 del 2014, come convertito, una riduzione costituzionalmente illegittima dello stipendio tanto del primo presidente della Corte di cassazione quanto di altri magistrati. Inoltre, è da ritenersi rientrante nella discrezionalità del legislatore stabilire come tale soglia massima debba operare, potendosi legittimamente prevedere tanto un “tetto retributivo” cumulabile con le indennità quanto uno onnicomprensivo, come si è in effetti legislativamente scelto.
Il solo modo per rimediare al vulnus, considerata la decisione del legislatore di introdurre una soglia massima relativa all’intera pubblica amministrazione senza differenziare per categorie, è, dunque, quello di incidere sulla quantificazione del tetto. Quest’ultimo non può legittimamente comportare, infatti, una duratura diminuzione della retribuzione di alcun magistrato e, a questo fine, deve necessariamente essere commisurato alla retribuzione complessiva del primo presidente della Corte di cassazione, cioè del magistrato in ruolo di livello più elevato, che rappresenta il parametro per l’individuazione del “tetto retributivo” da parte di un d.P.C.m., previo parere delle competenti commissioni parlamentari.
La fissazione di un limite inferiore comporterebbe invero, con la decurtazione del trattamento economico in via definitiva di alcuni magistrati, una violazione degli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108, secondo comma, Cost.
Per quanto concerne invece il perimetro soggettivo dell’illegittimità costituzionale della norma in esame, avendo il legislatore adottato una scelta normativa a carattere generale e senza operare alcuna distinzione tra le diverse categorie di lavoratori che ricevono una retribuzione o un compenso dalla pubblica amministrazione, l’annullamento della disciplina scrutinata non può che riguardare tutte le categorie assoggettate al “tetto”. Resta, infatti, nella discrezionalità del legislatore delimitare il perimetro soggettivo del tetto retributivo, articolandolo per categorie o, come in concreto ha fatto, optando per un tetto generale, applicabile all’intera pubblica amministrazione. Tale scelta, di per sé costituzionalmente legittima, non rende percorribile per questa Corte una dichiarazione di illegittimità della norma in relazione soltanto alla categoria dei magistrati, né essa è imposta dal petitum prospettato dal giudice rimettente, che, per giurisprudenza ormai costante (sentenze n. 12 del 2024, n. 221 del 2023 e, da ultimo, n. 83 del 2025), non vincola in tutti i suoi profili questa Corte, tenuta a ripristinare comunque la legalità costituzionale violata. Osta, peraltro, a tale soluzione la circostanza che la disciplina che deriverebbe da un intervento correttivo di questo tipo non andrebbe ancora esente da aspetti antinomici con norme e principi costituzionali. Al riguardo ci si può limitare a osservare che essa non impedirebbe, ad esempio, che i soggetti non appartenenti alla magistratura che svolgono le loro funzioni come componenti dei cosiddetti organi di governo autonomo restino assoggettati al “tetto retributivo”, con la possibile conseguenza che per le stesse funzioni – e a differenza dei componenti magistrati – costoro sarebbero tenuti a non percepire alcun compenso o avere un compenso ridotto, in violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 36 Cost. Senza considerare i rilievi già formulati da questa Corte sulla problematicità del bilanciamento tra un tetto siffatto e i principi del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
Ciò non osta a un successivo intervento del legislatore, che si confronti con le attuali criticità, emerse con il passare del tempo, del limite massimo retributivo, al fine di adottare, nella sua discrezionalità, anche «soluzioni diverse» conseguenti «ad una valutazione ponderata degli effetti di lungo periodo» della disposizione censurata, «in un quadro di politiche economiche e sociali in perenne evoluzione» (sentenza n. 27 del 2022), se del caso individuando percorsi alternativi per conseguire risparmi di spesa nel comparto del pubblico impiego, ad esempio differenziando il tetto per categorie o incrementando il Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato attraverso limiti ai compensi ai pubblici dipendenti provenienti da incarichi privati.
5.1.– In conclusione, l’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, se in origine aveva introdotto una misura costituzionalmente tollerabile in ragione della sua temporaneità, è divenuto progressivamente incostituzionale una volta «palesata appieno la natura strutturale [della previsione]» (sentenza n. 178 del 2015), incorrendo in una illegittimità costituzionale sopravvenuta e ponendosi ora in contrasto con il principio di indipendenza della magistratura, di cui agli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108, secondo comma, Cost.
Stante la gradualità con la quale si è manifestata la natura strutturale e non temporanea della norma censurata, soltanto ora può considerarsi realmente verificata la sua sopravvenuta illegittimità costituzionale (sentenza n. 50 del 1989).
5.2.– L’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo, solo a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della presente decisione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, e senza effetti retroattivi, nella parte in cui indica il limite massimo retributivo nell’importo di euro 240.000,00 al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente, anziché nel trattamento economico onnicomprensivo spettante al primo presidente della Corte di cassazione, che rappresenta il parametro per l’individuazione del tetto retributivo da parte di un d.P.C.m., previo parere delle competenti commissioni parlamentari.
Al fine di garantire l’operatività del limite massimo retributivo senza soluzione di continuità, mediante la scelta normativa più adeguata rinvenibile nell’ordinamento, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica non si potrà che far riferimento, allo stato, all’ultimo decreto approvato in attuazione dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, ovverosia al d.P.C.m. 23 marzo 2012, come integrato dalla richiamata circolare del Dipartimento della funzione pubblica n. 3 del 2014, la quale, come detto, ha specificato che, per l’anno 2014, il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione era pari a euro 311.658,53.
6.– La circostanza che l’illegittimità costituzionale così dichiarata si sia manifestata a partire dalla data indicata non mina la rilevanza della questione, che deve essere valutata con riferimento al momento in cui è stata proposta (sentenza n. 10 del 2015).
7.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, in riferimento all’art. 108, secondo comma, Cost. e, più in generale, al principio di indipendenza della magistratura, di cui agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., non è fondata.
7.1.– La norma preserva, infatti, i livelli retributivi dei magistrati mediante il rinvio a quello del primo presidente della Corte di cassazione, cioè del più elevato magistrato in ruolo. In questa prospettiva, e secondo quanto sin qui rilevato, la norma non ha determinato alcuna violazione del principio di indipendenza della magistratura.