Titolo
Conflitto di attribuzione tra poteri dello stato - Promotori di 'referendum' abrogativi e commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi - Legittimazione ad esser parti del conflitto - Conferma della prima sommaria delibazione (con ordinanza n. 137 del 2000).
Testo
Va confermata l'ammissibilita' del conflitto di attribuzione tra poteri sollevato dai promotori di 'referendum' abrogativi nei confronti della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, gia' ritenuta con ordinanza n. 137 del 2000. Sussistono invero - alla stregua di costante giurisprudenza - sia la legittimazione dei promotori della richiesta di 'referendum' abrogativo, competenti a dichiarare definitivamente, nell'ambito della procedura referendaria, la volonta' della frazione del corpo elettorale titolare del potere di iniziativa previsto dall'art. 75 della Costituzione, sia la legittimazione della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, competente a dichiarare definitivamente, nell'ambito della materia di sua spettanza, la volonta' delle due Camere. - V. anche, 'ex plurimis', sentenza n. 49/1998.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 75
Altri parametri e norme interposte
legge
11/03/1953
n. false
art. 37
Titolo
Conflitto di attribuzione tra poteri dello stato - Ricorso dei promotori di 'referendum' abrogativi (indetti per il 21 maggio 2000), nei confronti della commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi - Sussistenza del requisito oggettivo e dell'interesse dei ricorrenti ad una decisione di merito.
Testo
Nel conflitto di attribuzione tra poteri insorto tra i promotori dei 'referendum' indetti per il 21 maggio 2000 e la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, sussiste il requisito oggettivo; va conseguentemente respinta l'eccezione basata sul contrario assunto, sollevata dall'Avvocatura dello Stato, in quanto, secondo la prospettazione del ricorso, gli atti ed i comportamenti impugnati possono configurare una ipotesi di "cattivo uso" dei poteri spettanti alla Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza; "cattivo uso" che appare astrattamente suscettibile di influire, nell'ambito della campagna elettorale referendaria, sulla formazione della volonta' degli elettori, cosi' da ridondare in una lesione della sfera di attribuzione dei ricorrenti. Ne' si puo' ritenere che sia venuto meno, a seguito dello svolgimento delle procedure referendarie e del loro esito, l'interesse dei ricorrenti ad ottenere una decisione di merito sulla spettanza delle attribuzioni costituzionali in contestazione, in mancanza di argomentazioni che possano indurre un mutamento dell'orientamento favorevole fino ad ora seguito sul punto. - V. anche sentenze n. 161/1995 e n. 49/1998.
Titolo
'Referendum' abrogativi - Campagna referendaria 2000 - Informazione radiotelevisiva e "comunicazione istituzionale" sui quesiti referendari - Disciplina emessa, in attuazione della legge n. 28 del 2000, dalla commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi - Ricorso per conflitto tra poteri dello stato dei promotori e presentatori dei 'referendum' abrogativi indetti per il 21 maggio 2000 - Lamentato cattivo uso dei poteri spettanti alla commissione parlamentare - Insussistenza - Reiezione del ricorso.
Testo
Spetta alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi adottare la disciplina contenuta negli artt. 1, comma 2, 2, comma 1, lettere c) e d), 7, comma 2, della deliberazione approvata il 29 marzo 2000, recante "Comunicazione politica, messaggi autogestiti, informazione e tribune della concessionaria del servizio radiotelevisivo pubblico per la campagna referendaria 2000", e va, conseguentemente, respinto il ricorso proposto dai promotori dei 'referendum' indetti per il 21 maggio 2000 nei confronti della stessa Commissione parlamentare. Infatti - contrariamente all'assunto dei ricorrenti - la legge 22 febbraio 2000, n. 28, che e' a fondamento della deliberazione impugnata, ragionevolmente non ha affidato alla comunicazione "istituzionale" delle amministrazioni pubbliche il compito di chiarire "il significato e la portata dei quesiti referendari", dal momento che la tecnicita' dei quesiti stessi e l'individuazione precisa della c.d. normativa di risulta possono porre questioni interpretative cosi' complesse e controverse, che appare incongruo pretendere al riguardo da soggetti "istituzionali" una comunicazione imparziale ed esauriente su questi delicatissimi profili di merito, i quali invece possono essere piu' adeguatamente chiariti e approfonditi attraverso una informazione equilibrata che si sviluppi nel contraddittorio tra i diversi soggetti interessati, secondo modalita' rimesse appunto alla discrezionalita' del legislatore. Ed appare, di conseguenza, infondata la censura di "cattivo uso" dei poteri spettanti alla Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza, per non avere adeguatamente attuato, in relazione ai diversi profili della deliberazione impugnata, i principi della medesima legge. Vanno respinte - anche sulla base della documentazione prodotta dalla Commissione parlamentare - le censure in ordine all'informazione che la concessionaria pubblica del servizio radiotelevisivo doveva fornire, in particolare, sulla facolta' dell'astensione dal voto e sulle relative conseguenze, o in ordine alla mancata concessione di spazi radiotelevisivi ai sostenitori dell'astensione e di carenza di criteri per l'attivita' informativa predetta. - Sul diritto all'informazione e sul pluralismo delle fonti di informazione, sentenza n. 112/1993; e con riguardo al procedimento referendario, sentenza n. 49/1998.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 1
Costituzione
art. 3
co. 2
Costituzione
art. 48
Costituzione
art. 75
Riferimenti normativi
deliberazione della commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi
29/03/2000
n. 0
art. 1
co. 2
deliberazione della commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi
29/03/2000
n. 0
art. 2
co. 1
deliberazione della commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi
29/03/2000
n. 0
art. 7
co. 2
Titolo
Campagne elettorali e referendarie - Accesso ai mezzi di informazione e comunicazione politica - Disciplina legislativa - Questione di legittimità costituzionale - Richiesta alla corte di autorimessione - Manifesta infondatezza.
Testo
In base alle motivazioni adottate con la presente sentenza nel merito del conflitto tra poteri di cui e' causa, risultano manifestamente infondati i dubbi di legittimita' costituzionale prospettati in via gradata dai ricorrenti in ordine agli artt. 5, comma 1, e 9 della legge n. 28 del 2000; e di conseguenza viene meno uno dei presupposti perche' la Corte possa accogliere l'istanza di autorimessione della relativa questione di costituzionalita'.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 1
Costituzione
art. 3
co. 2
Costituzione
art. 21
Costituzione
art. 48
Costituzione
art. 75
Riferimenti normativi
legge
22/02/2000
n. 28
art. 5
co. 1
legge
22/02/2000
n. 28
art. 9
co. 0
N. 502
SENTENZA 13-17 NOVEMBRE 2000
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Cesare MIRABELLI;
Giudici: Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Cesare RUPERTO,
Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo
MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
sorto a seguito della delibera della Commissione parlamentare per
l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi del
29 marzo 2000, recante "comunicazione politica, messaggi autogestiti,
informazione e tribune della concessionaria del servizio
radiotelevisivo pubblico per la campagna referendaria 2000", promosso
con ricorso dei signori Daniele Capezzone, Michele De Lucia e Mariano
Giustino, nella qualità di promotori e presentatori di referendum
abrogativi indetti per il 21 maggio 2000, notificato il 18 maggio
2000, depositato in Cancelleria il 2 giugno 2000 ed iscritto al n. 26
del registro conflitti 2000.
Visto l'atto di costituzione della Commissione parlamentare per
l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi;
Udito nell'udienza pubblica del 26 settembre 2000 il giudice
relatore Piero Alberto Capotosti;
Uditi l'avvocato Nicolò Zanon per i signori Daniele Capezzone,
Michele De Lucia e Mariano Giustino e l'Avvocato dello Stato Danilo
Del Gaizo per la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e
la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
Ritenuto in fatto
1. - Daniele Capezzone, Michele De Lucia e Mariano Giustino,
nella qualità di promotori e presentatori di referendum abrogativi
indetti con d.P.R. 29 marzo 2000 (Gazzetta Ufficiale del 4 aprile
2000, n. 79) per il 21 maggio 2000, hanno sollevato conflitto di
attribuzione nei confronti della Commissione parlamentare per
l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (in
seguito, Commissione parlamentare) e dell'Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni (in seguito, Autorità per le garanzie), in
relazione, rispettivamente, agli artt. 1, comma 2, 2, comma 1,
lettere c) e d), 7, comma 2, della deliberazione approvata il
29 marzo 2000, recante "comunicazione politica, messaggi autogestiti,
informazione e tribune della concessionaria del servizio
radiotelevisivo pubblico per la campagna referendaria 2000" ed
all'art. 8 della deliberazione n. 55/00/CSP, approvata il 29 marzo
2000, dell'Autorità per le garanzie, pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale del 1° aprile 2000, n. 77, in riferimento all'art. 75 della
Costituzione, chiedendo, in linea preliminare la sospensione di
entrambi gli atti.
2. - Relativamente alla deliberazione della Commissione
parlamentare, i ricorrenti sostengono che l'atto non avrebbe
correttamente attuato i principi stabiliti dalla legge 22 febbraio
2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di
informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la
comunicazione politica) e, perciò, avrebbe influito sulla formazione
della volontà dei cittadini chiamati ad esprimere il loro voto,
vulnerando le attribuzioni costituzionalmente garantite del comitato
promotore del referendum.
Essi premettono che la legge n. 28 del 2000 disciplina la c.d.
"comunicazione politica" nei periodi di campagna elettorale e
referendaria, disponendo (artt. 5, comma 1, e 9) che i mezzi di
comunicazione devono fornire un'informazione obbiettiva e neutrale
sul significato e sulle modalità del voto. In particolare, l'art. 9
di detta legge disciplinerebbe la "comunicazione istituzionale" che
identificherebbe il servizio informativo che le amministrazioni
pubbliche dovrebbero offrire ai cittadini, allo scopo di permettere
che i diritti garantiti dalla Costituzione e, in particolare, quello
di voto (art. 48 della Costituzione), siano esercitati con piena
consapevolezza, sicché le norme che la riguardano sarebbero
connotate da "profili di obbligatorietà costituzionale" in quanto
attuative degli artt. 1, 48, 3, comma secondo, e 75 della
Costituzione.
La "comunicazione istituzionale", proseguono i ricorrenti,
avrebbe "un ruolo costituzionale ancora più chiaro nel caso delle
campagne referendarie" nonostante la Corte abbia affermato che
elezioni e referendum possono essere disciplinati con modalità
identiche (sentenza n. 161 del 1995). Nelle campagne referendarie, la
formazione della libera e consapevole volontà del cittadino chiamato
alle urne e lo scopo di ottenere che l'eventuale astensione sia
frutto di una scelta ponderata richiederebbero infatti che sia
offerta un'adeguata informazione sui contenuti dei quesiti e sul
significato del "sì" e del "no", anche in considerazione del
carattere abrogativo del referendum e della complessità delle
materie oggetto dei quesiti. In tal senso, secondo gli istanti,
sarebbero emblematiche le modalità con le quali in Svizzera e negli
Stati Uniti d'America è disciplinata l'informazione in occasione del
referendum nonché, in Italia, l'attribuzione all'Ufficio centrale
per il referendum del potere di stabilire la denominazione del
referendum. L'art. 9 della legge n. 28 del 2000 costituirebbe,
quindi, una norma costituzionalmente necessaria, in quanto diretta ad
assicurare che le amministrazioni pubbliche svolgano con neutralità
ed obiettività un'informazione adeguata, essendo riservato alla
Commissione parlamentare il potere di stabilire criteri e regole per
l'applicazione della legge alla campagna referendaria.
2.1. - Secondo i ricorrenti, le direttive impugnate non avrebbero
correttamente attuato la legge n. 28 del 2000, in quanto l'art. 4 si
limita a stabilire che, dal giorno della pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale dei decreti di indizione dei referendum "la Rai cura
l'illustrazione dei quesiti referendari, ed informa sulle modalità
di votazione, sulla data e sugli orari della consultazione".
Analoghe carenze connoterebbero: l'art. 1, comma 2, il quale si
limita a stabilire che gli spazi vanno ripartiti in misura eguale tra
soggetti favorevoli e contrari ai quesiti e detti spazi, "negli
intendimenti della Commissione" dovrebbero esaurire ogni possibilità
di comunicazione in tema di referendum; l'art. 2, comma 1, lettera
c), il quale contiene un generico riferimento ad un'informazione da
assicurare mediante notiziari ed approfondimenti e non reca criteri
direttivi in ordine alla responsabilità della testata giornalistica;
l'art. 2, comma 1 lettera d), che vieta la possibilità di fare
riferimento ai referendum al di fuori della tipologia di trasmissioni
da esso prevista; l'art. 7, comma 2, che reca una mera parafrasi
dell'art. 9, della legge n. 28 del 2000. Ad avviso dei ricorrenti, le
censure sarebbero confortate dalla constatazione che nel calendario
delle tribune referendarie approvate dalla Rai non sono previste
trasmissioni di approfondimento ed i dibattiti sono confinati in
orari che non garantirebbero un'adeguata audience.
Inoltre, secondo i ricorrenti, sussisterebbe altresì il tono
costituzionale del conflitto, in quanto l'atto impugnato - non
sindacabile dal giudice amministrativo - è diretto a realizzare il
principio del pluralismo e costituirebbe espressione di
un'attribuzione di livello costituzionale, nella specie non
correttamente esercitata.
2.2. - I ricorrenti, in linea gradata, sostengono che, qualora la
Corte ritenga che la delibera abbia correttamente applicato la legge
n. 28 del 2000, "la lesione dei principi di cui agli artt. 1, 3,
comma secondo, 48 e 75, della Costituzione dovrebbe essere
direttamente imputata alla legge stessa, nelle disposizioni
specificamente dedicate alla comunicazione di carattere
istituzionale" da ritenersi viziate "in quanto non contengono una
disciplina sufficiente ad assicurare l'esistenza, costituzionalmente
necessaria, di una reale ed efficace comunicazione istituzionale".
Essi chiedono, quindi, che la Corte, previa sospensione del giudizio
per conflitto di attribuzione, sollevi di fronte a sé questione di
legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, e 9 della legge
n. 28 del 2000, "nella parte in cui non prevedono le misure
legislative minime atte ad assicurare la presenza e l'efficacia"
della comunicazione istituzionale, in riferimento agli artt. 1, 3,
comma secondo, 21, 48 e 75 della Costituzione.
3. - Questa Corte, con ordinanza del 12 maggio 2000, n. 137, ha
dichiarato inammissibile il conflitto sollevato nei confronti
dell'Autorità per le garanzie ed ha invece dichiarato ammissibile il
conflitto sollevato nei confronti della Commissione parlamentare,
ritenendo insussistenti i presupposti per l'accoglimento della
domanda cautelare.
I ricorrenti hanno notificato l'ordinanza alla Commissione
parlamentare il 18 maggio 2000, depositandola presso la cancelleria
della Corte il 2 giugno 2000.
4. - Nel giudizio si è costituita la Commissione parlamentare,
rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che il conflitto sia dichiarato inammissibile e, comunque,
che sia rigettato.
La difesa erariale, preliminarmente, contesta che l'atto
impugnato incida sulle attribuzioni costituzionalmente garantite
spettanti ai promotori del referendum ex art. 75 della Costituzione,
perché tra esse non rientrerebbe la cd. "comunicazione
istituzionale" (art. 9, comma 2, della legge n. 28 del 2000), la
quale riguarda l'attività di informazione obiettiva e neutrale che,
evidentemente, non può essere svolta dai predetti. A suo avviso,
siffatta conclusione è confortata dalle decisioni della Corte
concernenti gli atti di disciplina dell'attività di propaganda
svolta da soggetti portatori di una visione politica di parte. In
particolare, dalla sentenza n. 161 del 1995 e dalla sentenza n. 49
del 1998, la quale ha affermato che la Commissione parlamentare deve
formulare indirizzi rispettosi del principio del pluralismo della
propaganda ed ha contrapposto la partecipazione dei comitati
promotori e dei soggetti organizzati al ciclo delle trasmissione
televisive.
Secondo la resistente, questa interpretazione sarebbe suffragata
dalla circostanza che l'art. 52 della legge 25 maggio 1970, n. 352
attribuisce ai promotori del referendum la facoltà di partecipare
direttamente alla competizione elettorale ed alla relativa
propaganda, che evidentemente è incompatibile con lo scopo di
offrire un'informazione obiettiva ed imparziale.
4.1. - Nel merito, la Commissione parlamentare premette che
l'art. 9, comma 2, della legge n. 28 del 2000 non disciplina la
"comunicazione istituzionale" e contesta che le norme di detta legge
siano "costituzionalmente necessarie", poiché tale tipo di
comunicazione non è prevista dall'art. 75 della Costituzione, ed è
stata disciplinata esclusivamente da quando è venuta meno
l'aspettativa della tendenziale neutralità ed imparzialità dei
media televisivi privati, in quanto parti direttamente interessate
dalle consultazioni referendarie.
Ad avviso della difesa erariale, è inesatto che l'informazione
debba essere svolta con le modalità indicate dai ricorrenti, sulla
scorta di considerazioni "del tutto opinabili o arbitrarie" basate su
indimostrate petizioni di principio o su premesse erronee, facendo
peraltro riferimento alla disciplina stabilita in Paesi nei quali
l'istituto referendario ha caratteri profondamente diversi da quello
italiano.
In particolare, la censura riferita all'art. 4 - neppure indicato
nell'intestazione del ricorso e nelle conclusioni - sarebbe frutto di
una mera illazione, dato che esso non è meramente riproduttivo
dell'art. 9, comma 2, della legge n. 28 del 2000 e, tra l'altro,
stabilisce che la Rai "cura l'illustrazione dei quesiti referendari"
ossia deve assicurare proprio quelle informazioni ritenute
indispensabili dai ricorrenti. Peraltro, il comma 2 dell'art. 4
disciplina le modalità di attuazione dell'informazione, disponendo
che i relativi programmi devono essere trasmessi alla Commissione
parlamentare ed assicurando il costante contatto tra il Presidente di
quest'ultima e l'Ufficio di presidenza della Rai, sicché è chiara
la congruità delle direttive rispetto allo scopo di garantire
l'adeguatezza dell'informazione. Dalla documentazione prodotta
risulta infatti sia che l'informazione della Rai ha avuto ad oggetto
anche l'illustrazione dei quesiti e degli effetti del voto e della
scelta di astenersi, sia che la Commissione parlamentare ha vigilato
sulla idoneità degli spot ad informare i cittadini.
4.2. - Relativamente alle censure concernenti l'art. 7, comma 2,
la resistente osserva che esso riguarda i "programmi di informazione
nei mezzi radiotelevisivi" (art. 5 della legge n. 28 del 2000) e che
la libertà di informazione (art. 21 della Costituzione) non
permetterebbe di predeterminare rigidamente il contenuto dei
programmi, avendo comunque la Commissione parlamentare verificato
costantemente l'attività della Rai. Inoltre, secondo la difesa
erariale, dette argomentazioni dimostrerebbero la correttezza
dell'art. 2, comma 1, lettera c), anche perché "la Commissione
parlamentare non poteva non ricondurre i notiziari ed i relativi
approfondimenti alla responsabilità di specifiche testate
giornalistiche registrate".
Le censure riferite all'art. 1, comma 2, sarebbero infondate sia
in quanto esso riguarda la comunicazione politica, sia in quanto la
documentazione prodotta dimostra che lo spazio concesso ai soggetti
favorevoli ed a quelli contrari all'abrogazione non ha esaurito
l'informazione in materia referendaria. L'art. 2, comma 1, lettera
d), non contrasterebbe con l'auspicio contenuto nella lettera o)
della premessa, poiché l'art. 4, comma 2, a sua volta, ha
espressamente stabilito l'obbligo di realizzare programmi di
informazione con caratteristiche di spot autonomo. Il calendario
delle tribune referendarie approvato dalla Rai non conforterebbe le
censure, tenuto conto che esso riguarda la comunicazione politica e
che l'inadeguatezza dell'informazione realizzata nelle fasce orarie
da esso previste costituisce una affermazione apodittica ed
indimostrata. Siffatte argomentazioni, conclude infine la Commissione
parlamentare, dimostrerebbero altresì che la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 5, commi 1 e 9, della legge
n. 28 del 2000, sollevata in via subordinata, è inammissibile e
comunque infondata.
5. - I ricorrenti, nella memoria depositata in prossimità
dell'udienza pubblica, insistono per l'accoglimento delle conclusioni
rassegnate nell'atto introduttivo, sostenendo preliminarmente che lo
svolgimento dei referendum non escluderebbe l'interesse a ricorrere.
A loro avviso, sarebbe inoltre infondata l'eccezione di
inammissibilità del conflitto sotto il profilo oggettivo, dato che,
secondo la giurisprudenza costituzionale, il comitato promotore
sarebbe legittimato ad agire a tutela della corretta formazione della
volontà dei cittadini, che costituirebbe un "interesse obiettivo
dell'ordinamento tutelato implicitamente dall'art. 75 Cost.".
I ricorrenti sostengono, quindi, che la "comunicazione
istituzionale" costituirebbe proiezione degli artt. 3 e 97 della
Costituzione e sarebbe preordinata a prevenire il rischio di una
distorsione della relativa consultazione ed a realizzare la parità
delle chances tra i partecipanti alla competizione elettorale.
Peraltro, l'espletamento di un'attività di informazione neutrale,
obiettiva ed imparziale sarebbe costituzionalmente obbligatoria
(artt. 1, 3, comma secondo, 21, 48 e 75 della Costituzione) e non
potrebbe essere lasciata al comitato promotore, il quale non è
organo dello Stato-persona e non può sostituirsi a questo
nell'espletamento del compito di assicurare il corretto esercizio
della sovranità popolare nella forma del referendum abrogativo.
A loro avviso, siffatti principi costituirebbero il nucleo
costituzionale irrinunciabile di un obbligo positivo di fare a carico
delle amministrazioni pubbliche, in particolare del servizio
radiotelevisivo, che "lascia ampio spazio alla discrezionalità
legislativa in materia" potendo tradursi in modalità informative
anche molto diverse tra loro, la cui scelta è rimessa appunto al
legislatore, e che però non può essere leso da "decisioni
legislative insufficienti" o da un'insufficiente attuazione della
legge, mentre l'identificazione in dettaglio del contenuto e delle
modalità dell'informazione non può essere attribuita ad occasionali
contatti tra la Presidenza della Commissione parlamentare e la Rai.
6. - La Commissione parlamentare, nella memoria depositata in
prossimità dell'udienza pubblica, insiste nel contestare
l'ammissibilità del conflitto sotto il profilo oggettivo, sostenendo
che i ricorrenti si dolgono di comportamenti che non incidono sulle
attribuzioni costituzionalmente garantite del comitato promotore.
Nel merito, ad avviso dell'Avvocatura, il ricorso sarebbe basato
su premesse, "per molti versi, contraddittorie con le censure".
Infatti, i ricorrenti, nonostante abbiano precisato che le censure
riguardano le modalità di esercizio dei poteri della Commissione
parlamentare in materia di "comunicazione istituzionale", formulano
doglianze concernenti il contenuto e le fasce orarie delle tribune
referendarie della Rai, ossia relative a trasmissioni riconducibili
alla "comunicazione politica". Secondo la Commissione parlamentare,
il contenuto e l'orario di svolgimento delle tribune referendarie,
poiché hanno lo scopo di permettere di illustrare le ragioni a
favore o contro il quesito, non potrebbero affatto essere confuse con
l'informazione obiettiva e neutrale sul significato oggettivo del
voto.
L'eccezione di legittimità costituzionale sollevata in linea
gradata, conclude infine la difesa erariale, è inammissibile, in
quanto, secondo la giurisprudenza costituzionale, la pronunzia di
sentenze cosiddette additive di principio è essenzialmente limitata
ai casi nei quali l'incostituzionalità di una norma deriva dalla
violazione del principio di eguaglianza ed è altresì identificabile
nell'ordinamento una disposizione dalla quale è ricavabile la
disciplina idonea a riempire il vuoto normativo determinato dalla
sentenza, ovvero che permette di offrire al legislatore opportune
indicazioni per rimediarvi. La generica formulazione della questione,
in quanto caratterizzata dalla mancata indicazione di detti
parametri, sarebbe quindi inammissibile e comunque infondata.
7. - All'udienza pubblica le parti hanno insistito per
l'accoglimento delle conclusioni rassegnate nelle difese scritte.
Considerato in diritto
1. - Il conflitto di attribuzione tra poteri proposto, con il
ricorso in epigrafe, dai promotori e presentatori dei referendum
abrogativi del 21 maggio 2000 nei confronti della Commissione
parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi
radiotelevisivi, ha ad oggetto gli artt. 1, comma 2, 2, comma 1,
lettere c) e d), 7, comma 2, della deliberazione del 29 marzo 2000
recante "comunicazione politica, messaggi autogestiti, informazione e
tribune della concessionaria del servizio radiotelevisivo pubblico
per la campagna referendaria 2000" in riferimento all'art. 75 della
Costituzione.
Secondo i ricorrenti, la deliberazione predetta, dato che nelle
parti impugnate "non contiene la effettiva attuazione dei principi
previsti nella legge" n. 28 del 2000, "determina restrizioni allo
svolgimento della campagna referendaria tali da incidere sulla
formazione della volontà di coloro che esprimono il loro voto nel
referendum" e conseguentemente nella sfera di attribuzioni garantita,
ai sensi dell'art. 75 della Costituzione, al Comitato promotore. A
loro avviso, infatti, sarebbe configurabile il "cattivo uso" dei
poteri spettanti alla Commissione parlamentare per la disciplina
della c.d. "comunicazione istituzionale", prevista in particolare
dall'art. 9 della legge n. 28 e connotata da profili di
obbligatorietà costituzionale, in riferimento agli artt. 1, 3, comma
secondo, 48 e 75 della Costituzione, in quanto finalizzata ad
assicurare, nelle campagne referendarie, l'esistenza di
un'informazione neutrale ed obiettiva e con modalità tali da
garantire la formazione della libera e consapevole volontà
dell'elettore.
In via gradata i ricorrenti chiedono che la Corte costituzionale,
qualora ritenga che le direttive impugnate abbiano correttamente
applicato la legge n. 28 del 2000, sollevi innanzi a sé medesima
questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, e 9
della citata legge n. 28, in riferimento agli artt. 1, 3 comma
secondo, 21, 48 e 75 della Costituzione "in quanto non contengono una
disciplina sufficiente ad assicurare l'esistenza, costituzionalmente
necessaria, di una reale ed efficace comunicazione istituzionale".
2. - Preliminarmente va confermata la ammissibilità, ai sensi
dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, del conflitto di
attribuzione in esame, già ritenuta, in via di sommaria delibazione,
nell'ordinanza n. 137 del 2000.
Sussistono invero, alla stregua della costante giurisprudenza
della Corte, i requisiti soggettivi del conflitto d'attribuzione tra
poteri, giacché è pacifica sia la legittimazione dei promotori
della richiesta di referendum abrogativo, competenti a dichiarare
definitivamente, nell'ambito della procedura referendaria, la
volontà della frazione del corpo elettorale titolare del potere di
iniziativa previsto dall'art. 75 della Costituzione, sia la
legittimazione della Commissione parlamentare per l'indirizzo
generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, competente a
dichiarare definitivamente, nell'ambito della materia di sua
spettanza, la volontà delle due Camere (ex plurimis sentenza n. 49
del 1998).
Sussiste anche il requisito oggettivo del conflitto di
attribuzione tra poteri, poiché non è accoglibile l'eccezione
dell'Avvocatura dello Stato, secondo cui gli atti ed i comportamenti
dei quali i ricorrenti si dolgono "non incidono sulle attribuzioni di
rilievo costituzionale spettanti ai promotori nello svolgimento della
campagna referendaria, in tale ambito non rientrando la c.d.
"comunicazione istituzionale"". Va invece osservato che, secondo la
prospettazione del ricorso, gli atti ed i comportamenti impugnati
possono configurare una ipotesi di "cattivo uso" dei poteri spettanti
alla Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza;
"cattivo uso" che appare astrattamente suscettibile di influire,
nell'ambito della campagna elettorale referendaria, sulla formazione
della volontà degli elettori, così da ridondare in una lesione
della sfera di attribuzione dei ricorrenti (sentenza n.161 del 1995).
Non si può infine ritenere che sia venuto meno, a seguito dello
svolgimento delle procedure referendarie e del loro esito,
l'interesse dei ricorrenti ad ottenere una decisione di merito sulla
spettanza delle attribuzioni costituzionali in contestazione,
giacché non sono state prospettate argomentazioni che possano
indurre un mutamento dell'orientamento favorevole fino ad ora seguito
sul punto dalla Corte (cfr. sentenze n. 49 del 1998).
3. - Nel merito, il ricorso è infondato.
I ricorrenti censurano, con riferimento alle parti impugnate
della deliberazione del 29 marzo 2000, il "cattivo uso" dei poteri
spettanti alla Commissione parlamentare per l'indirizzo e la
vigilanza, in quanto essa non avrebbe adeguatamente attuato la legge
n. 28 del 2000, che, secondo la loro interpretazione,
disciplinerebbe, accanto alla c.d. "comunicazione politica", cioè la
diffusione di "programmi contenenti opinioni e valutazioni politiche"
(art. 2, comma 2), anche la c.d. "comunicazione istituzionale", cioè
l'informazione "imparziale, neutra ed obiettiva circa il significato
e la portata dei quesiti referendari". In particolare, i ricorrenti
sostengono che la formazione della libera e consapevole volontà del
cittadino impone alle amministrazioni pubbliche l'obbligo,
costituzionalmente rilevante, di fornire, nell'ambito della campagna
referendaria, una informazione "neutrale, obiettiva ed imparziale"
sui contenuti dei quesiti e sul significato del "si" e del "no", in
considerazione del tecnicismo delle materie, della complessità dei
quesiti ed anche al fine di consentire che l'eventuale astensione dal
voto sia frutto di una scelta consapevole e ragionata. Gli stessi
ricorrenti ammettono però che tale obbligo informativo "lascia ampio
spazio alla discrezionalità legislativa in materia", potendo
esplicarsi secondo modalità anche molto diverse tra loro.
In questa prospettiva, premesso che la Corte costituzionale ha da
tempo affermato che "il diritto all'informazione" va determinato e
qualificato in riferimento ai principi fondanti della forma di Stato
delineata dalla Costituzione, i quali esigono che "la nostra
democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado
di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla
formazione della volontà generale" (sentenza n. 112 del 1993), va
sottolineata, in relazione alla necessaria democraticità del
processo politico referendario, l'esigenza che "sia offerta dal
servizio pubblico radiotelevisivo la possibilità che i soggetti
interessati (...) partecipino alla informazione ed alla formazione
dell'opinione pubblica" in modi e forme idonei e congrui rispetto
alla finalità da perseguire (sentenza n. 49 del 1998). Al riguardo
deve essere tenuto altresì presente "l'imperativo costituzionale"
secondo cui il diritto all'informazione, garantito dall'art. 21 della
Costituzione, è qualificato e caratterizzato, innanzi tutto, dal
pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie, cosicché
il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue
valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti
culturali e politici contrastanti (cfr. sentenza n. 112 del 1993).
In questa ottica, proprio per evitare che da un'informazione
unilaterale possano derivare effetti distorsivi sulla pubblica
opinione, tali da ledere il fondamentale principio di garantire il
"voto libero" nelle competizioni elettorali, non appare affatto
irragionevole la scelta che l'informazione sul merito, cioè sul
significato e la portata dei quesiti referendari - e non su dati
meramente estrinseci: denominazione del referendum e modalità di
voto - si svolga attraverso la partecipazione dialettica di tutti i
soggetti interessati, anziché essere affidata ad un'unica fonte, per
quanto impersonale, obiettiva e neutrale possa essere. Ed infatti,
sebbene i ricorrenti sottolineino l'importanza concettuale del
mutamento dell'espressione "propaganda istituzionale", propria della
previgente legislazione, con l'espressione "comunicazione
istituzionale", usata dalla legge n. 28, rimane tuttavia alto il
rischio che, nella prassi operativa, la distinzione tra queste due
tipologie informative possa finire con il perdersi. Ed in questo
senso è significativo che il comma 2 dell'art. 9 della citata legge
n. 28 del 2000 assegni alle emittenti radiotelevisive pubbliche e
private il compito di informare direttamente i cittadini soltanto
sulle modalità di voto e sugli orari dei seggi elettorali, proprio
per evitare, stabilendo tale contenuto minimo di comunicazione, forme
improprie di svolgimento di attività propagandistica, tanto più
grave in considerazione dell'incidenza sul momento elettorale.
D'altronde, proprio la rilevata complessità dei quesiti
elettorali induce a ritenere che ragionevolmente non sia stato
affidato - come invece vorrebbero i ricorrenti - alla comunicazione
"istituzionale" delle amministrazioni pubbliche il compito di
chiarire "il significato e la portata dei quesiti referendari". La
tecnicità dei quesiti stessi e l'individuazione precisa della c.d.
normativa di risulta possono infatti porre questioni interpretative
così complesse e controverse, che appare incongruo pretendere al
riguardo da soggetti "istituzionali" una comunicazione imparziale ed
esauriente su questi delicatissimi profili di merito, i quali invece
possono essere più adeguatamente chiariti e approfonditi attraverso
una informazione equilibrata che si sviluppi nel contraddittorio tra
i diversi soggetti interessati, secondo modalità rimesse appunto
alla discrezionalità del legislatore. Il valore del pluralismo
dell'informazione, sotto il profilo passivo oltre che attivo, deve
infatti trovare la massima espansione proprio nell'ambito delle
competizioni elettorali, dominate dal principio della parità di
opportunità tra i concorrenti.
D'altra parte, la stessa disposizione invocata dai ricorrenti a
sostegno della assoluta necessità della c.d. comunicazione
"istituzionale" sul significato e la portata dei quesiti referendari,
e cioè l'art. 9 della citata legge n. 28 del 2000, va interpretata,
nel comma 1, nel senso che il divieto alle amministrazioni pubbliche
di "svolgere attività di comunicazione" durante la campagna
elettorale è proprio finalizzato ad evitare il rischio che le stesse
possano fornire, attraverso modalità e contenuti informativi non
neutrali sulla portata dei quesiti, una rappresentazione suggestiva,
a fini elettorali, dell'amministrazione e dei suoi organi titolari.
4. - La scelta legislativa di limitare la diretta informazione
radiotelevisiva alla denominazione dei quesiti e alle modalità di
voto e di riservare invece precipuamente al confronto dialettico tra
i soggetti interessati il chiarimento e l'approfondimento del
significato e della portata dei quesiti referendari non è dunque,
per le considerazioni proposte, irragionevole. Appare così
destituita di fondamento l'interpretazione dei ricorrenti in ordine
alla qualificazione della legge n. 28 del 2000 come attuativa di un
principio in base al quale sarebbe costituzionalmente necessaria,
durante le campagne referendarie, la c.d. informazione
"istituzionale", vertente proprio sul merito, cioè sul significato e
la portata dei quesiti. Ed appare, di conseguenza, infondata anche la
censura di "cattivo uso" dei poteri spettanti alla Commissione
parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza, per non avere
adeguatamente attuato, in relazione ai diversi profili della
deliberazione impugnata, i principi della medesima legge.
In effetti, la deliberazione in oggetto è conforme alla ratio
della citata legge n. 28, modulando la disciplina concreta della
comunicazione radiotelevisiva nella campagna referendaria 2000,
secondo criteri rispettosi del valore del pluralismo
nell'informazione. In questo senso, va respinta la censura che gli
artt. 4, comma 1, e 7, comma 2, della stessa delibera siano meramente
ripetitivi dell'art. 9 della legge n. 28 e comunque insufficienti in
ordine all'informazione che la concessionaria pubblica del servizio
radiotelevisivo doveva fornire, in particolare, sulla facoltà
dell'astensione dal voto e sulle relative conseguenze. Va in
proposito ricordato, innanzi tutto, che i predetti articoli prevedono
espressamente, integrando così il disposto dell'art. 9, che la Rai
illustri imparzialmente, con diverse tipologie di trasmissione, il
contenuto dei quesiti referendari, oltre ad informare sulle modalità
di votazione, sulla data e sugli orari della consultazione. Risulta
poi dalla documentazione presentata dalla difesa della Commissione
parlamentare non solo che l'identificazione in dettaglio di contenuti
e modalità dell'informazione avveniva sotto la vigilanza della
Commissione stessa, ma anche che vi era una costante sottolineatura
delle condizioni necessarie per la validità delle consultazioni
referendarie.
Così pure va respinta la censura, relativa all'art. 1, comma 2,
di mancata concessione di spazi radiotelevisivi ai sostenitori
dell'astensione, poiché risulta dalla documentazione prodotta che la
disposizione in questione, la quale riguarda espressamente, come
riconoscono gli stessi ricorrenti, la comunicazione "politica", è
stata attuata in modo tale che lo spazio concesso ai soggetti
favorevoli ed a quelli contrari all'abrogazione non esaurisse affatto
tutta l'informazione sui singoli quesiti referendari.
Sono infondate altresì le censure, relative all'art. 2, comma 1,
lett. c) e d), sia di carenza di criteri in ordine alla
responsabilità delle testate giornalistiche, sia di insufficiente
programmazione di trasmissioni di approfondimento e di dibattito, in
quanto tutte queste doglianze sono riferibili all'ambito dei
"programmi di informazione" nei mezzi radiotelevisivi, disciplinati
dall'art. 5, comma 1, della legge n. 28, che non prevede una rigida
predeterminazione di criteri e contenuti informativi, risultando
comunque dalla documentazione presentata in giudizio che la
Commissione parlamentare aveva stabilito i necessari criteri
procedurali e costantemente verificato che l'attività informativa
della concessionaria pubblica si svolgesse secondo canoni di
comportamento e modalità operative corrispondenti.
5. - È da rilevare infine che, in base alle motivazioni adottate
nella presente decisione, risultano manifestamente infondati i dubbi
di legittimità costituzionale prospettati in via gradata dai
ricorrenti in ordine agli artt. 5, comma 1, e 9 della citata legge
n. 28 del 2000, cosicché viene meno uno dei presupposti perché la
Corte possa accogliere la proposta istanza di autoremissione della
relativa questione di costituzionalità.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara che spetta alla Commissione parlamentare per l'indirizzo
generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi adottare la
disciplina contenuta negli artt. 1, comma 2, 2, comma 1, lettere c) e
d) 7, comma 2, della deliberazione approvata il 29 marzo 2000,
recante "comunicazione politica, messaggi autogestiti, informazione e
tribune della concessionaria del servizio radiotelevisivo pubblico
per la campagna referendaria 2000".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 13 novembre 2000.
Il Presidente: Mirabelli
Il redattore: Capotosti
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 17 novembre 2000.
Il direttore della cancelleria: Di Paola