N. 370
SENTENZA 17 OTTOBRE-2 NOVEMBRE 1996
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI,
avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA,
prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo
MEZZANOTTE;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 707 e 708 del
codice penale, promossi con ordinanze emesse l'11 maggio 1994 dal
tribunale per i minorenni dell'Aquila, il 19 aprile 1995 dal pretore
di Varese, il 4 luglio, il 20 settembre, il 1 giugno, il 9 ottobre,
il 20 settembre ed il 29 giugno 1995 dal pretore di Milano,
rispettivamente iscritte ai nn. 374, 445, 746, 898, 947 e 948 del
registro ordinanze 1995 ed ai nn. 19 e 20 del registro ordinanze
1996, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26,
35 e 47, prima serie speciale, dell'anno 1995, e nn. 1, 4 e 5, prima
serie speciale, dell'anno 1996;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 12 giugno 1996 il giudice
relatore Francesco Guizzi.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Stankovic Beta,
trovata in possesso d'un cacciavite della lunghezza di 38 centimetri,
il tribunale per i minorenni dell'Aquila ha sollevato, in relazione
agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell'art. 707 del codice penale.
Pur non ignorando che la denunciata disposizione è stata più
volte sottoposta al vaglio di questa Corte (la quale, con la sentenza
n. 14 del 1971, mentre espungeva le condizioni personali ritenute non
compatibili con l'art. 3 della Costituzione, dichiarava tuttavia
l'infondatezza delle altre questioni sollevate), il giudice a quo
ritiene di poterla riproporre sotto nuovi profili.
1.1. - Alle origini del diritto penale moderno vi sarebbe, per il
Collegio rimettente, la dialettica fra il principio di offensività
del reato e la concezione dell'illecito penale quale mera violazione
d'un dovere giuridico; fra la concezione oggettiva e quella
soggettiva del reato. In base alla prima, verrebbe punita l'offesa al
bene protetto a prescindere dall'intenzione dell'agente; per la
seconda, il reato consisterebbe essenzialmente nella violazione delle
norme morali, fino ad appiattirsi sul peccato. Il diritto penale
moderno dovrebbe ricercare invece, a parere del giudice a quo, una
sintesi fra i due estremi, privilegiando però il principio di
offensività, secondo cui il reato dovrebbe estrinsecarsi nell'offesa
o, quanto meno, nella messa in pericolo di un bene giuridico, non
essendo concepibile un reato senza l'offesa di un bene: onde la
necessaria materialità del fatto, vera e propria garanzia contro le
incriminazioni degli atteggiamenti umani che toccano la sfera interna
del soggetto.
Il principio di offensività troverebbe il suo fondamento nella
Costituzione, che ha costruito una nozione di reato come illecito
tipico, comprensiva fra l'altro del requisito dell'offesa del bene
tutelato. Sì che la categoria del bene giuridico si porrebbe quale
limite all'arbitrio del legislatore, restringendo la cerchia dei
fatti meritevoli di trattamento penale soltanto a quelli
effettivamente dannosi per la convivenza sociale.
La costituzionalizzazione del principio nullum crimen sine iniuria
verrebbe desunta dal principio generale della libertà personale,
sancito nell'art. 13 della Costituzione, e potrebbe essere limitata
dalla sanzione penale solo quando ricorra l'esigenza di tutelare un
altro interesse di rango costituzionale (l'integrità fisica, la
proprietà, ecc.). Ma la costituzionalizzazione - postulando entrambi
gli articoli una distinzione ontologica dei fatti - si ricaverebbe
altresì dall'art. 25, ove si fa uso del termine "fatto" in senso
materiale, e dall'art. 27, ove si distingue fra la pena e la misura
di sicurezza.
1.2. - La fattispecie incriminatrice denunciata consisterebbe in un
comportamento non lesivo (e non pericoloso) per gli interessi
meritevoli di tutela penale, in tal modo enucleando, però, una
figura tipica del diritto penale sintomatico o preventivo, che è
limite estremo al diritto penale. E ciò non tanto perché sarebbe
violato il principio di materialità (non essendo tale figura priva
di una condotta esteriore e non colpendo, perciò, un mero stato
personale o una semplice intenzione), quanto perché la condotta
verrebbe punita in sé, come indizio della commissione d'un illecito
qualora esso risulti in connessione con determinate condizioni
personali dell'agente. In mancanza di prova per fatti criminosi
ipotetici, non ancora compiuti, l'imputato verrebbe punito per
l'eventuale intenzione di commetterli (anche se, nella specie, avesse
voluto ad esempio servirsi del cacciavite sequestrato per riparare un
ciclomotore). Di qui, l'opportunità - sottolineata dal giudice a quo
- d'un riesame del reato di pericolo presunto, alla luce del
principio di offensività, giacché questo tipo di reato si
giustificherebbe soltanto in una visione formalistica volta a
sanzionare la violazione del dovere di obbedienza delle norme
statali.
1.3. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per
l'infondatezza della questione.
Il reato di cui all'art. 707 del codice penale avrebbe, ad avviso
dell'Avvocatura, una funzione finalistica di prevenzione, essendo
teso a evitare la commissione di delitti contro il patrimonio. Un
reato di pericolo, senza dubbio, che parte della dottrina
ricomprende, però, nella categoria dei reati di pericolo
relativamente presunto, nei quali il legislatore presumerebbe iuris
et de iure la messa in pericolo del bene giuridico protetto,
ammettendo nel contempo l'imputato a provare, in concreto,
l'inesistenza del pericolo.
2. - Nel corso del procedimento penale a carico di Ferraresi Bruno,
già condannato per il reato di emissione di assegno senza provvista
e colto in possesso di valuta angolana (477.500 kwansaz, pari a un
controvalore di circa 27.000 lire, all'epoca del fatto, e di circa
1200 lire, al momento del giudizio), imputato pertanto della
contravvenzione di cui all'art. 708 del codice penale, il pretore di
Varese ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma,
e 25, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale del predetto articolo.
Il giudice a quo premette che questo tipo di incriminazione -
classificabile nell'ambito dei cosiddetti reati di sospetto - era
presente nella legislazione degli Stati preunitari, con la finalità
di rafforzare l'attività di polizia, e sarebbe stato di recente
rivitalizzato per un breve periodo dalla previsione dell'art.
12-quinquies del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge
7 agosto 1992, n. 356, e dichiarato costituzionalmente illegittimo da
questa Corte con la sentenza n. 48 del 1994.
2.1. - Osserva il rimettente che tale figura non può essere
censurata sotto il profilo della mancanza d'una qualsivoglia condotta
- nonostante l'opinione della prevalente dottrina e malgrado alcuni
precedenti giurisprudenziali - riflettendo il reato una condotta
addirittura complessa, perché comprensiva sia dell'atto di
acquisizione delle cose sia del loro consapevole possesso. Dubbi di
costituzionalità si dovrebbero invece appuntare, con maggior
fondamento, sull'oggetto del possesso. Se, infatti, il "denaro" e gli
"oggetti di valore" sembrano rinviare a dati oggettivi,
naturalistici, tali da soddisfare il principio di tassatività della
fattispecie penale, le "cose" - parimenti ivi contemplate -
paleserebbero un difetto assoluto di tassatività di questa parte
della norma. Sotto siffatto aspetto la disposizione denunciata
contrasterebbe con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione (e
con l'art. 3 per i motivi già esaminati nella sentenza n. 110 del
1968 che dichiarò la parziale illegittimità costituzionale
dell'art. 708 del codice penale). Il riferimento generico alle "cose"
comporterebbe invero la necessità, per il giudice, d'una valutazione
relazionale con lo "stato" del soggetto, amplificando la portata
incriminatrice della norma, fino a incentrarla in modo esclusivo e
irragionevole sullo stato sociale (attuale) del soggetto in
precedenza condannato.
La questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, essendosi il
pubblico ministero riferito al possesso della valuta angolana, non
confacente a suo avviso allo stato di indigenza dell'imputato
derivante dalla disoccupazione; e ciò come se si trattasse di "cose"
e non d'una "somma di denaro".
2.2. - L'art. 708 del codice penale contrasterebbe altresì con
l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, per violazione del
principio sostanziale (e processuale) secondo cui nemo tenetur se
detegere. Seguendo l'orientamento giurisprudenziale in ordine alla
giustificazione richiesta dalla disposizione denunciata -
l'attendibile e circostanziata spiegazione del possesso di valori -
si obbligherebbe di fatto l'accusato a fornire all'autorità
giudiziaria la notizia della commissione di un altro reato, pur di
essere scagionato da quell'accusa. Ogni qual volta la provenienza di
cose, oggetti di valore e danaro sia illecita, la persona sottoposta
a controllo potrà infatti evitare di rispondere della
contravvenzione di cui all'articolo 708, dichiarando l'avvenuta
commissione (da parte propria o di altri) di un diverso reato; quanto
al momento temporale, la portata del principio costituzionale del
diritto di difesa non potrebbe essere confinato alla fase processuale
del giudizio.
La disposizione censurata violerebbe infine l'art. 3 della
Costituzione, perché creerebbe un irragionevole obbligo di denuncia
- sanzionato in via indiretta - in capo al soggetto colto in possesso
di valori.
2.3. - L'articolo in esame dovrebbe, in subordine, essere
dichiarato costituzionalmente illegittimo, ancora in riferimento
all'art. 3, per l'eccessività - così conclude l'ordinanza - della
pena edittale minima prevista.
Pur a conoscenza dell'indirizzo della giurisprudenza costituzionale
in senso preclusivo circa la possibilità d'intervenire sulla
qualità e misura della pena, il giudice a quo richiama la sentenza
n. 49 del 1989 (di parziale fondatezza) che concerne altro reato di
sospetto, e la contrappone al precedente specifico costituito
dall'ordinanza n. 270 del 1984. L'irragionevolezza del trattamento
minimo stabilito nella disposizione denunciata si manifesterebbe con
riguardo al diverso regime edittale riservato ad alcuni delitti
contro il patrimonio, rispetto ai quali la contravvenzione al
presente vaglio di legittimità costituzionale costituirebbe un minus
(il furto e altre figure criminose, la cui punibilità sarebbe, in
concreto, opportunamente modulabile sia attraverso il giudizio di
valenza delle circostanze, sia attraverso gli spazi attribuiti alla
discrezionale qualificazione del fatto, com'è nel caso della
ricettazione di particolare tenuità).
2.4. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per
la non fondatezza di entrambe le questioni sollevate dal pretore di
Varese, la prima delle quali appare identica a quella decisa con la
sentenza n. 464 del 1992.
3. - Nel corso del procedimento penale a carico di Leone Marco
Luciano, imputato del reato di cui all'art. 707 del codice penale,
nonché nel corso di altri cinque procedimenti penali relativi alla
stessa ipotesi criminosa, il pretore di Milano ha sollevato con
altrettante ordinanze, riferite tutte agli artt. 3, primo comma, e
27, terzo comma, della Costituzione, identica questione di
legittimità costituzionale del citato articolo, nella parte in cui
prevede il minimo edittale di sei mesi di reclusione (recte: di
arresto), anziché di cinque giorni, stabilito dall'art. 25 dello
stesso codice.
Osserva il pretore che la pena minima prevista dalla disposizione
di cui dubita determinerebbe conseguenze risolvibili soltanto in
seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale. Con una
previsione generale, valida qualora specificamente non derogata,
l'art. 25 del codice penale stabilisce infatti che la pena
dell'arresto ha una soglia minima di cinque giorni; e l'art. 708, che
ha in comune con la incriminazione de qua il presupposto soggettivo,
statuisce che il minimo non superi la pena di tre mesi di arresto.
Infine, il furto semplice viene punito con un minimo di quindici
giorni di pena detentiva che finisce per essere applicabile,
attraverso il giudizio di equivalenza fra le circostanze di reato,
anche quando sia stato ipotizzato un furto aggravato ai sensi
dell'art. 625 dello stesso codice. Ne conseguirebbe un trattamento
sicuramente deteriore per coloro che pongono in essere quei semplici
atti preparatori, in sé non punibili, ma sottoposti a sanzione
dall'art. 707 in considerazione dei soli precedenti penali
dell'imputato, e si tratterebbe, certo, di una sanzione detentiva
assai più severa di quella che è normalmente irrogabile nel caso
dell'esecuzione di un furto semplice (quand'anche sia commesso
mediante l'uso di piccole pinze, o strumenti analoghi, o con
l'asportazione della piastra magnetica applicata agli oggetti esposti
sui banchi dei grandi magazzini).
Il possesso anche di un unico attrezzo (cacciavite, forbici, chiave
inglese), che in sé non sarebbe significativo di alcuna particolare
pericolosità del soggetto, oltre a essere sottoposto a una sanzione
sproporzionata vanificherebbe la finalità rieducativa della pena.
Di contro a quanto questa Corte ha affermato con la sentenza n. 341
del 1994, riferendo l'art. 27, terzo comma, della Costituzione pure
alla fase cognitiva del processo e sostenendo che "il principio di
proporzionalità nel campo del diritto penale equivale a negare
legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee
a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono,
attraverso la pena, danni all'individuo ed alla società
sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da
quest'ultima con la tutela dei beni o valori offesi dalle predette
incriminazioni".
3.1. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per
l'inammissibilità - in considerazione della discrezionalità del
legislatore con riguardo alla politica di prevenzione dei reati - o,
in subordine, per l'infondatezza della questione.
Nella specie, comunque, la condotta sanzionata dall'art. 707 del
codice penale avrebbe una potenzialità plurioffensiva rispetto a
quella dell'art. 708; né la predetta ipotesi potrebbe essere
comparata con quella del furto semplice, in quanto il legislatore
avrebbe valutato la maggiore pericolosità della detenzione di un
grimaldello da parte d'un pregiudicato rispetto al danno criminale
derivante dal furto semplice. E ciò anche a voler tralasciare la
diversità fra i due tipi di pena (reclusione e arresto) fra loro non
comparabili.
Considerato in diritto
1. - Il tribunale dei minorenni dell'Aquila, il pretore di Varese
e il pretore di Milano ripropongono alcune questioni di legittimità
costituzionale concernenti i cosiddetti "reati di sospetto", come la
dottrina cataloga le previsioni di cui agli artt. 707 e 708 del
codice penale. In particolare questa Corte è chiamata a valutare:
1) se l'art. 707 del codice penale contrasti con il principio
nullum crimen sine iniuria, a dire del giudice a quo
costituzionalizzato dagli artt. 25, 27 e 3 (quest'ultimo in relazione
all'art. 13) della Costituzione, perché attraverso di esso, secondo
una visione formalistica del reato, costituirebbe illecito penale
anche la violazione del dovere di obbedienza alle norme statali, pure
in mancanza di un pericolo concreto (come per tutte le figure di
reato di pericolo presunto);
2) se l'art. 708 del codice penale sia costituzionalmente
illegittimo, in quanto:
a) violerebbe il principio di tassatività delle norme penali
contenuto nell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, poiché il
riferimento alla nozione generica di "cose" di valore costringe il
giudice a motivare sul carattere di esse;
b) contrasterebbe con l'art. 3 per la traslazione della portata
incriminatrice della norma, incentrata in via esclusiva (e, perciò,
irragionevolmente) sullo stato sociale, attuale, del soggetto in
precedenza condannato;
c) lederebbe il principio per cui nemo tenetur se detegere,
enucleabile dall'art. 24, secondo comma, giacché impone
indirettamente a chi abbia commesso un altro reato di assumerne la
responsabilità o di indicare il responsabile al fine di sottrarsi
all'accusa mossagli, in tal modo costruendo un irragionevole obbligo
alla confessione, o alla denuncia dell'autore del fatto, per il
soggetto colto in possesso "non giustificato" di un valore
(irragionevolezza ex art. 3 della Costituzione);
3) se l'art. 708 del codice penale, nel prevedere una pena
edittale minima di tre mesi di arresto, sia costituzionalmente
illegittimo, perché in tal modo verrebbe paradossalmente riservato
al reo di alcuni gravi delitti contro il patrimonio un trattamento in
concreto più favorevole rispetto a questa contravvenzione, grazie
alla possibilità d'un giudizio di valenza delle circostanze (ad
esempio nel furto aggravato) o in ipotesi di reati affini, ma meno
gravi come la ricettazione di particolare tenuità, per effetto della
qualificazione del fatto nella sentenza;
4) se l'art. 707 del codice penale, nella parte in cui stabilisce
il minimo edittale di sei mesi di arresto, anziché quello di cinque
giorni previsto dall'art. 25 del codice penale, violi i principi di
ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena con riguardo,
come tertium comparationis, alla previsione generale del citato art.
25, a quella particolare dell'art. 708 del codice penale (in base al
presupposto soggettivo comune) e alla previsione degli artt. 624
(furto semplice, nel cui ambito la giurisprudenza include l'ipotesi
di furto nei grandi magazzini con l'asportazione della piastra
magnetica) e 625 (furto aggravato, nell'ipotesi in cui il giudicante
ravvisi le attenuanti generiche).
1.1. - Sono dunque al vaglio di legittimità costituzionale quattro
distinte questioni sulle menzionate figure dei reati di sospetto:
due attengono alla struttura dei reati, e due al trattamento
sanzionatorio minimo che si assume irrazionale rispetto alla tavola
degli altri valori penalistici. Conviene quindi che i relativi
giudizi siano riuniti; e pare opportuno, per comodità espositiva,
che si muova dall'esame della questione concernente la struttura del
reato di possesso ingiustificato di valori (art. 708 del codice
penale).
2. - La questione è fondata.
La contravvenzione del possesso ingiustificato di valori venne
introdotta nella moderna legislazione penalistica dal codice
napoleonico del 1810 per colpire (o almeno arginare) la piaga della
mendicità, com'è desumibile dall'art. 378, che si cita
nell'edizione ufficiale per il Regno d'Italia in vigore dal 1 gennaio
1811: "Ogni mendicante o vagabondo a cui saranno trovati indosso uno
o più oggetti di un valore che ecceda le lire cento, e che non ne
giustificherà la provenienza, sarà punito", ai sensi dell'art. 276,
"con detenzione da sei mesi a due anni".
La norma non costituiva invero una novità assoluta, dal momento
che in altre forme si era già fatto impiego, nelle legislazioni
preunitarie, di analoghi schemi punitivi per coloro che fossero colti
nel possesso di valori anche "rurali", segnatamente i prodotti della
terra, secondo una disposizione rinvenibile nella codificazione dello
Stato pontificio. Ispirandosi al modello francese - con la
significativa dissonanza del codice per gli Stati di Parma, Piacenza
e Guastalla del 1820 - quasi tutte le codificazioni successive
adottarono la statuizione incriminatrice. L'acquisì il codice
albertino del 1839, allargando però il novero dei soggetti attivi in
un ambito più composito, quello delle "persone sospette", tanto da
ricomprendere, agli artt. 460 e 462, gli oziosi, i vagabondi, i
mendicanti validi, i sorvegliati speciali, gli stranieri clandestini,
i diffamati per crimini o per delitti, e singolarmente per
grassazioni, estorsioni, furti e truffe.
Essa è stata quindi recepita nell'art. 708 del codice vigente, e
prima negli artt. 449 del codice penale del Regno sardo del 1859 (poi
esteso al Regno d'Italia) e 492 del codice Zanardelli, intitolato
"Del possesso ingiustificato di oggetti e valori", ma caratterizzato
da sanzioni meno severe, quale l'arresto di soli due mesi.
Le legislazioni penali europee - compresa la Francia che si è di
recente uniformata con il nuovo codice adottato mediante quattro
leggi del 22 luglio 1992 - hanno eliminato il reato del "possesso
ingiustificato di valori", mentre hanno conservato, in varia guisa,
la disciplina del possesso di grimaldelli, chiavi false e oggetti
simili. E in una prospettiva adeguatrice ai principi della
Costituzione, questa Corte dichiarò significativamente, con la
sentenza n. 110 del 1968, l'illegittimità costituzionale dell'art.
708 del codice penale, limitatamente però "alla parte in cui fa
richiamo alle condizioni personali di condannato per mendicità, di
ammonito, di sottoposto a misure di sicurezza personale o a cauzione
di buona condotta" (decisione poi ripetuta, con la sentenza n. 16 del
1971, anche per la figura del reato di cui all'art. 707), così
depurando la norma incriminatrice da tutte quelle categorie di
soggetti nei cui confronti il "sospetto" si sarebbe potuto dire
ingiustificato.
2.1. - Il ragionamento svolto nelle due decisioni menzionate va ora
sviluppato e portato a compimento.
È oggi visibile nella società un nuovo dato, ch'era in passato
più difficile da cogliere: l'esistenza di preoccupanti fenomeni di
arricchimento personale ottenuto mediante vie illecite e occulte. Di
fronte a queste tendenze degenerative della vita economica e civile,
la previsione incriminatrice contenuta nell'art. 708 del codice
penale è una ipotesi assolutamente marginale e ormai irragionevole
nella sua esclusiva riferibilità a coloro che sono pregiudicati "per
delitti determinati da motivi di lucro e per contravvenzioni
concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio". La
crescita della ricchezza mobiliare, la sua circolazione in ambito
internazionale e l'uso dello schermo societario per il suo controllo
rendono infatti questo strumento ottocentesco di difesa sociale del
tutto inadeguato a contrastare le nuove dimensioni della
criminalità, non più rapportabile, necessariamente, a uno "stato" o
a una "condizione personale". Irragionevole è, dunque, la
discriminazione nei confronti d'una categoria di soggetti composta da
pregiudicati per reati di varia natura o entità contro il patrimonio
(a volte assai risalenti nel tempo) che siano colti in possesso di
"denaro o di oggetti di valore o di altre cose non confacenti al
(loro) stato". Riferimento, questo, che si palesa indeterminato per
la genericità del disposto normativo e non più adeguato a
perseguire i fenomeni degli arricchimenti illeciti quali risultano
dall'osservazione della realtà criminale di questi ultimi decenni.
Ed è evidente che i danni all'economia e alla convivenza civile
provengono da persone che - svolgendo professionalmente attività
legate alla circolazione della ricchezza mobiliare o a questa
prossime - hanno modo di eludere, anche per lunghi periodi di tempo,
i controlli legali.
Di tali mutamenti si è peraltro reso conto pure il legislatore,
che ha introdotto nell'ordinamento giuridico (con il d.-l. 8 giugno
1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356) una nuova
figura di reato con cui si puniva la disponibilità di beni di valore
sproporzionato al reddito o alla propria attività economica. Ma
modellando la previsione sulla falsariga dell'art. 708 del codice
penale ha finito per travalicarlo, poiché ha esteso la categoria
dei "sospetti" ai semplici indagati di alcuni e più gravi reati,
violando il principio della presunzione di non colpevolezza affermato
nell'art. 27, secondo comma, della Costituzione. Sì che questa Corte
ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, sostenendo che "il
fatto penalmente rilevante deve essere tale a prescindere dalla
circostanza che il suo autore sia o meno indagato o imputato",
perché siffatte "condizioni, instabili come ogni status processuale,
non legittimano alcun apprezzamento in termini di disvalore"
(sentenza n. 48 del 1994). In ciò ravvisando una significativa
differenza strutturale rispetto alla sua matrice contravvenzionale,
individuata appunto nell'art. 708.
2.2. - Con le decisioni menzionate, la Corte doveva spiegare come
mai il possesso di valori mobiliari o la mera detenzione di chiavi
fossero da ritenere condotte lecite - se poste in essere da alcune
persone - mentre integrassero condotte punibili, per se stesse
considerate, ove realizzate da altre. Si trattava di un dubbio di
legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 25 della
Costituzione, che penetrava fin dentro alla conformazione tipica
della figura di reato; dubbio che la Corte sciolse affermando che
l'indicazione precisa del fatto punibile risiedeva proprio nella
"possibilità di dare una soddisfacente spiegazione del possesso di
un valore non confacente alle abituali condizioni di vita" del
sospettato. Ma in tal modo non si eliminò dalla fattispecie quella
condizione sociale abituale che non è certo più concepibile in un
orizzonte storico diverso da quello originario. Essa era
indispensabile per separare i fatti di possesso punibili da quelli
leciti, che si sottraggono a ogni forma di controllo. E ciò in
quanto si voleva infliggere comunque una pena per quei fatti sfuggiti
all'accertamento dell'azione delittuosa del responsabile del reato
contro il patrimonio, utilizzando un surrogato contravvenzionale,
tipizzato attraverso la riferibilità del fatto, di per sé neutro, a
un pregiudicato per alcune classi di precedenti penali.
Tale deficit di tassatività conferma l'irragionevolezza della
limitazione delle condizioni soggettive punibili a una sola categoria
di persone. La disposizione va, pertanto, dichiarata illegittima,
perché viola gli artt. 3 e 25 della Costituzione, restando assorbito
l'ulteriore profilo denunciato.
3. - La previsione dell'art. 707 del codice penale conosce una
storia solo parzialmente analoga.
Parimenti trasmessa alle moderne codificazioni dall'archetipo
costituito dall'art. 277 del codice napoleonico nell'ambito delle
medesime categorie di "devianti" (ma con la più severa sanzione
della detenzione da due a cinque anni), recepito nell'attuale
disposizione attraverso gli artt. 461 del codice albertino del 1839
(con una pena massima di tre anni), 448 del codice penale del Regno
sardo del 1859 e 492, secondo comma, del codice Zanardelli (ove la
pena detentiva massima non superava i sei mesi di arresto), non
risulta affatto abbandonato dalla legislazione europea vigente,
compresa quella britannica (Thaft Act del 26 luglio 1968).
3.1. - La questione non è fondata.
La determinazione del fatto-reato circa questa ipotesi criminosa è
data infatti dalla tipologia stessa degli oggetti detenuti (le
"chiavi alterate o contraffatte", le "chiavi genuine", gli "strumenti
atti ad aprire o a sforzare serrature") in ordine ai quali è
pleonastica la mancata giustificazione della loro attuale
destinazione. Ciò, ovviamente, se ben s'intende sia il riferimento
agli strumenti atti allo scasso (in relazione alle caratteristiche
medie delle serrature o delle difese adottate), sia il presupposto
soggettivo con riguardo ad altra commissione di fatti specifici.
4. - Delle residue questioni, quella concernente il trattamento
edittale minimo dell'art. 708 del codice penale è superata per la
sopravvenuta illegittimità costituzionale della disposizione.
L'altra, quella relativa all'art. 707, va dichiarata infondata,
rientrando nella discrezionalità del legislatore la determinazione
delle quantità e qualità della sanzione, purché si osservi il
limite della ragionevolezza. Che non è violato nel caso di specie,
considerando la diversità delle situazioni comparate e,
particolarmente, il riferimento a ipotesi di reato distanti dalla
contravvenzione esaminata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale
dell'art. 708 del codice penale;
Dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell'art. 707 del codice penale, sollevate, in relazione agli artt.
3, 25 e 27 della Costituzione, dal tribunale per i minorenni
dell'Aquila, e agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione, dal pretore di Milano con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 ottobre 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Guizzi
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 2 novembre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola