Ritenuto in fatto:
1. - Con ordinanza emessa il 20 luglio 1979 la Corte d'appello di
Torino sollevava questione di costituzionalità dell'art. 314/17 del
codice civile (nella parte in cui stabilisce che "lo stato di
adottabilità cessa per adozione") dubitando fosse lesiva degli
interessi e dei diritti del minore (riconosciuti e garantiti dagli
artt.2, 3, primo e secondo comma, 30, secondo comma, 31, secondo comma,
della Costituzione) la preferenza che viene accordata alla adozione
ordinaria rispetto a quella speciale, seguendo l'ipotesi
interpretativa, peraltro imposta nello specifico procedimento da
sentenza della Suprema Corte, secondo cui lo stato di adottabilità
cessa anche a seguito di adozione ordinaria. In tal modo infatti
sarebbe possibile mediante un procedimento più rapido, in cui larga
parte assume il momento negoziale, mettere nel nulla un procedimento
complesso, avente natura più marcatamente pubblicistica, già
iniziato, volto a garantire, attraverso opportune soluzioni ed efficaci
controlli, il diritto alla famiglia del minore in istato di abbandono;
così interrompendo un rapporto di affidamento eventualmente in atto,
al di fuori di ogni valutazione dell'effettivo interesse del minore e
senza poter contrastare eventuali mercanteggiamenti dei genitori
naturali.
L'istituto dell'adozione speciale sarebbe diretta attuazione dei
principi costituzionali in materia di tutela dei diritti del minore
(artt. 2, 3, secondo comma, 30, secondo comma, 31, secondo comma),
secondo quel che la Corte costituzionale e la Cassazione hanno già in
varie circostanze affermato (Corte costituzionale, sentenza n. 234 del
1975; Corte di cassazione, sentenza 13 gennaio 1978, n. 156), e dunque
dovrebbe godere di un trattamento privilegiato rispetto all'adozione
ordinaria, che risponderebbe prevalentemente all'interesse
dell'adottante ed a motivazioni patrimoniali. L'ingiustificata
prevalenza che il sistema legislativo finisce con l'accordare alla
adozione ordinaria verrebbe a creare anche una sperequazione arbitraria
tra minore e minore e, dunque, violerebbe il principio di eguaglianza.
La Corte d'appello di Torino, con la medesima ordinanza, sollevava
altresì questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della
legge 5 giugno 1967, n. 431, recante "Modifiche al titolo VIII del
libro I del codice civile " Dell'adozione " ed inserimento del nuovo
capo III con il titolo " Dell'adozione speciale "", e dell'art. 311 del
codice civile, in quanto, stabilendo per l'adozione ordinaria la
competenza del tribunale per i minorenni del luogo di residenza
dell'adottante, anziché dell'adottando, come è previsto per
l'adozione speciale, aprirebbe la via ad una duplicità di
procedimenti, a cognizioni in conseguenza parziali ed incomplete,
oltreché alla facile elusione delle garanzie previste per l'adozione
speciale e violerebbe così il principio costituzionale secondo cui
nessuno può essere sottratto al giudice naturale precostituito per
legge (art. 25, primo comma, della Costituzione).
Tale normativa contrasterebbe inoltre con il principio di
eguaglianza, diversamente regolando situazioni analoghe di minori, in
conseguenza di un elemento (residenza dell'adottante) estraneo ai loro
interessi, oltreché con le norme già citate della Costituzione (artt.
2, 3, secondo comma, 30, secondo comma, 31, secondo comma) dato che si
tradurrebbe in ostacolo a beneficiare dell'istituto dell'adozione
speciale che di tali norme costituzionali, come si è accennato,
costituisce attuazione.
Con i medesimi valori costituzionali contrasterebbe anche il
combinato disposto degli artt. 296 e 311 del codice civile, che
condizionano al consenso del legale rappresentante del minore
l'adozione ordinaria quando il minore non ha raggiunto l'ottavo anno di
età e il minore versa in istato di abbandono ed anche quando il
consenso sia lo strumento adoperato dal genitore per abbandonare il
figlio affidandolo a terzi, così rendendo possibile l'elusione delle
garanzie previste per l'adozione speciale. Tale normativa violerebbe
anche l'art. 3, primo comma, della Costituzione, per le ingiustificate
sperequazioni che determinerebbe tra minori e minori, non correlate al
loro interesse.
Del pari in contrasto con gli artt. 2, 3, secondo comma, 30,
secondo comma, 31, secondo comma, della Costituzione si paleserebbe
l'art. 312, n. 3 del codice civile, in quanto la valutazione della
convenienza per il minore della adozione ordinaria che tale norma
impone non comporterebbe un confronto con la (eventualmente maggiore)
convenienza dell'adozione speciale, secondo quanto emerge anche dalla
sentenza della Cassazione cui il giudice a quo, quale giudice di
rinvio, è vincolato.
Nel caso di specie la madre aveva riconosciuto come figlia naturale
una minore in precedenza abbandonata ed immediatamente dopo l'aveva
trasportata da Torino a Palermo per consegnarla, previa manifestazione
di consenso all'adozione ordinaria, a due coniugi palermitani
(Gioacchino Marino e Vincenza Scalia). Il Tribunale di Torino ordinava
l'immediata restituzione della minore all'IPIM (Istituto Provinciale
per l'Infanzia e la Maternità) con decreto in data 15 - 16 marzo 1976
e, subito dopo, dichiarava lo stato di adottabilità (decreto emesso il
24 marzo 1976 e confermato con sentenza 24 giugno - 31 luglio 1976 del
medesimo tribunale che respingeva l'opposizione proposta dalla madre).
Con provvedimento 12 giugno - 16 luglio 1976 il Tribunale per i
minorenni di Torino disponeva l'affidamento a due coniugi torinesi
(Risso Ferdinando e De Grandis Lucia); con decreto 22 - 26 luglio 1977
il medesimo tribunale disponeva l'affidamento preadottivo ai detti
coniugi e con decreto 29 settembre - 3 ottobre 1978 decideva farsi
luogo all'adozione speciale.
Era stata nel frattempo rigettata l'impugnazione avverso la
sentenza che dichiarava lo stato di adottabilità dalla Corte di
appello di Torino con sentenza 14 dicembre 1976 - 19 gennaio 1977,
previa dichiarazione di inammissibilità dell'intervento in appello dei
coniugi Marino - Scalia. Era stato poi rigettato il successivo ricorso
in Cassazione con sentenza della Suprema Corte 12 luglio 1977 - 26
gennaio 1978, n. 156, che, confermata l'inammissibilità
dell'intervento dei coniugi adottanti con rito ordinario, affermava,
tra l'altro, il principio secondo cui, nell'affidamento a terzi di
minori di otto anni da parte del genitore a scopo di adozione, possono
ravvisarsi gli estremi di un abbandono, che giustifica la dichiarazione
di adottabilità; precisava anzi che "non è il Tribunale di Torino ad
avere indebitamente interferito nel procedimento di adozione ordinaria
iniziato in frode alla legge sull'adozione speciale, ma sono stati i
giudici palermitani a muoversi inavvedutamente, escludendo una
situazione di abbandono che alla stregua dei principi giuridici che si
sono venuti enucleando, avrebbero dovuto riconoscere, ed avallando
invece, la manovra chiaramente intesa a soddisfare i Marino nella
aspirazione ad adottare una neonata aggirando il divieto della legge,
ed evitando il giudizio attitudinale".
Il Tribunale di Palermo aveva, d'altra parte, respinto la domanda
di adozione ordinaria con decreto 23 marzo 1976, confermato in data 21
aprile 1976 dalla Corte d'appello di Palermo. Senonché tale Corte
(sezione minorenni) successivamente (con decreto 2 - 25 marzo 1977)
revocava la precedente pronunzia ed, in riforma del decreto 23 marzo
1976 del Tribunale per i minorenni di Palermo, disponeva farsi luogo
all'adozione ordinaria della minore.
I coniugi adottanti, sulla base di tale provvedimento, chiedevano
che il Tribunale per i minorenni di Torino disponesse la consegna a
loro favore della minore medesima. Con decreto 8 aprile 1977 il
tribunale dettava disposizioni sull'esercizio della patria potestà nel
corso del procedimento vietando che la minore fosse consegnata ai
coniugi Marino - Scalia e che fosse consentito a costoro di
incontrarla. Il gravame proposto contro tale provvedimento era
rigettato dalla Corte d'appello di Torino con decreto in data 13 - 18
giugno 1977.
Due nuovi ricorsi presentati al Tribunale per i minorenni di Torino
e tendenti ad ottenere, fra l'altro, la cessazione dello stato di
adottabilità e l'annullamento del decreto con cui si era disposto
l'affidamento della minore erano rigettati con decreto 3 - 8 giugno
1977. Il reclamo ex art. 739 del codice di procedura civile, avverso
quest'ultimo provvedimento, veniva rigettato dalla Corte d'appello con
decreto 27 settembre - 6 ottobre 1977 e l'appello era dichiarato
improponibile con decreto 25 ottobre - 2 novembre 1977.
Tutti e tre i provvedimenti della Corte d'appello sfavorevoli agli
istanti erano investiti da ricorso in Cassazione. La Suprema Corte, con
sentenza 3 ottobre 1978 - 19 gennaio 1979, n. 399, dichiarava
inammissibile il ricorso contro il provvedimento relativo al decreto
del tribunale che regolava l'esercizio della patria potestà, stante il
carattere non decisorio e non irrevocabile di quest'ultimo, ed
accoglieva il ricorso contro il decreto 27 settembre - 6 ottobre 1977
della Corte d'appello, cassando il provvedimento impugnato ed
enunziando il principio di diritto secondo cui "la dichiarazione
definitiva di adozione ordinaria di un minore nel corso di un
procedimento di adozione speciale, cui lo stesso sia sottoposto,
determina la cessazione dello stato di adottabilità già dichiarato e
preclude l'ulteriore corso del procedimento". Dichiarava assorbito il
ricorso contro il provvedimento di improponibilità adottato dalla
Corte d'appello (di cui si è fatto cenno).
Nel corso del giudizio di rinvio, riassunto dai coniugi Marino -
Scalia (adottanti con rito ordinario), questi chiedevano la consegna
della bambina e l'annullamento degli atti compiuti nel procedimento per
adozione speciale. Si opponevano i coniugi adottanti con adozione
speciale (Risso - De Grandis), in tale sede intervenuti, i quali non
solo eccepivano l'illegittimità costituzionale della normativa in
vigore ma facevano presente di aver proposto azione di nullità innanzi
al Tribunale di Palermo del decreto di adozione ordinaria per motivi di
forma e di sostanza. Chiedevano quindi anche la sospensione del
procedimento in corso in attesa dell'esito dell'azione iniziata.
Il curatore speciale, nel frattempo nominato, interveniva a
sostegno della tesi dei coniugi affidatari.
La Corte d'appello di Torino, riservata ogni decisione
sull'ammissibilità degli interventi, sollevava la questione di
costituzionalità di cui si è fatto cenno ritenendola pregiudiziale
anche rispetto alla pronunzia sulla richiesta sospensione in attesa
dell'esito dell'azione di nullità del decreto di adozione ordinaria,
dato che la questione medesima "investe anche la materia di quel
giudizio".
L'ordinanza, regolarmente comunicata e notificata, veniva
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 325 del 28 novembre 1979.
2. - Si costituivano i coniugi Marino - Scalia i quali eccepivano
l'irrilevanza delle questioni relative agli artt. 311, 296, 312, n. 3
del codice civile, perché non applicabili nel processo a quo e già
applicati in altro procedimento giudiziario con pronunzia non più
impugnabile. Deducevano l'infondatezza nel merito delle questioni
relative all'art. 314/17 del codice civile, oltreché delle questioni
relative alle norme poc'anzi menzionate.
Avendo il legislatore considerato possibile l'adozione ordinaria
anche per i bambini minori di otto anni, non si può ritenere il
consenso del genitore ad essa equivalente ad un atto di abbandono.
L'adozione speciale, d'altra parte, si giustifica solo ove i genitori
abbiano completamente abbandonato i figli minori, non anche quando
provvedano ad essi sia pure affidandoli a persone che li adottino.
Tutto ciò non sacrificherebbe gli interessi ed i diritti dei minori
perché la pronunzia di adozione ordinaria può essere emessa solo
previa valutazione della convenienza per l'adottando (art. 312, n. 3,
cod. civ.) avendo riguardo anche, contrariamente a quel che ritiene la
Corte d'appello di Torino, ai vantaggi che, nel caso concreto, potrebbe
offrire l'adozione speciale; salvaguarderebbe, al tempo medesimo, i
diritti della famiglia naturale, fin troppo trascurati dall'istituto
dell'adozione speciale (al punto che potrebbe dubitarsi della
conformità di alcuni aspetti dell'istituto ai dettami dell'art. 29
della Costituzione). Nel conflitto, in ogni caso, tra due diritti
costituzionalmente garantiti il sacrificio dell'uno sarebbe legittimo
solo a condizione che sia necessario e cioè che non sia possibile un
contemperamento.
La competenza del giudice dell'adozione ordinaria è stabilita con
norma generale ed astratta e ciò varrebbe a garantire il rispetto di
quanto prescrive l'art. 25, primo comma, della Costituzione; la scelta
operata dal legislatore risulterebbe inoltre ragionevole, avendo
riguardo ai fini dell'istituto, attesoché nel procedimento si deve
accertare non lo stato di abbandono del minore, ma, tra l'altro, la
buona fama di colui che intende procedere all'adozione.
Interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, attraverso
l'Avvocatura dello Stato, svolgendo analoghe eccezioni di irrilevanza
ed analoghi rilievi di infondatezza. Sottolineava in particolare
l'intervenuta evoluzione legislativa dell'istituto dell'adozione
ordinaria che ne fa uno strumento di tutela del minore e non più solo
un mezzo per assicurare la discendenza a persone anziane e garantire un
diritto ereditario all'adottato; o sarebbero segni di ciò la
possibilità di far luogo all'adozione ordinaria anche mancando
l'assenso dei genitori dell'adottando, qualora il rifiuto sia
ingiustificato e contrario all'interesse dell'adottando (art. 297), ed
il dovere di valutare se l'adozione conviene all'adottando, prima di
procedere ad essa (art. 312, n. 3, cod. civ.).
Nell'udienza di discussione le parti costituite ribadivano le
rispettive tesi.
Considerato in diritto:
1. - La Corte d'appello di Torino - sezione speciale per i
minorenni - pronunziando come giudice di rinvio a seguito della
sentenza della Corte di cassazione 3 ottobre 1978-19 gennaio 1979, n.
399, ha sollevato questione di legittimità costituzionale:
- dell'art. 314/17 del codice civile (nella parte in cui dispone che
"lo stato di adottabilità cessa per adozione") in riferimento agli
artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30, secondo comma, e 31, secondo
comma, della Costituzione;
- degli artt. 3 della legge 5 giugno 1967, n. 431, e 311 del codice
civile (nel loro combinato disposto sul punto della competenza in
ordine all'adozione ordinaria) in riferimento agli artt. 2, 3, primo e
secondo comma, 25, primo comma, 30, secondo comma e 31, secondo comma,
della Costituzione;
- degli artt. 296 e 311 del codice civile (nel loro combinato
disposto sul punto del consenso all'adozione ordinaria del legale
rappresentante dell'adottando minore) in riferimento agli artt. 2, 3,
primo e secondo comma, 30, secondo comma, e 31, secondo comma, della
Costituzione;
- dell'art. 312, n. 3 del codice civile (sul punto della verifica
se l'adozione ordinaria convenga all'adottando) in riferimento agli
artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30, secondo comma, e 31, secondo
comma, della Costituzione.
2. - Peraltro le questioni sollevate in ordine agli artt. 296,
311,312, n. 3, del codice civile e all'art. 3 della legge 5 giugno
1967, n. 431, non possono considerarsi rilevanti ai fini del presente
giudizio, in quanto attengono alla competenza e ai poteri del tribunale
per i minorenni del luogo di residenza dell'adottante ed al consenso
dei genitori del minore adottando nell'adozione ordinaria; infatti a
tali norme si è già data applicazione in altre sedi, mentre la Corte
d'appello di Torino trova una precisa delimitazione al tema del suo
decidere nel principio di diritto enunziato dalla Cassazione, che
attiene alla cessazione dello stato di adottabilità nel procedimento
di adozione speciale, a seguito di "dichiarazione definitiva" della
adozione ordinaria.
3. - Certamente applicabile nel giudizio a quo è invece l'art.
314/17, nella parte sopra indicata. Tale norma dev'essere valutata, ai
fini del sindacato di costituzionalità, secondo l'interpretazione
adottata dalla Corte di cassazione in sede di enunciazione del
principio di diritto e, al riguardo, non si può ritenere che il regime
delle preclusioni, proprio del giudizio di rinvio, impedisca la
proposizione delle questioni di legittimità costituzionale in ordine a
quella norma dalla quale è stato tratto il principio di diritto cui
deve uniformarsi il giudice di rinvio (cfr. da ultimo la sentenza n.
138 del 1977 di questa Corte). Né la priorità attribuita dalla Corte
di Torino alle questioni di legittimità costituzionale rispetto
all'altra pregiudiziale (parimenti rilevabile d'ufficio, e relativa
alla sospensione o meno del procedimento instaurato in sede di rinvio
in attesa della definizione della causa per la dichiarazione di
nullità dell'adozione ordinaria di Gioia Stefania, promossa dai
coniugi Risso - De Grandis presso altro giudice) può essere rimessa in
dubbio dalla affermata irrilevanza delle questioni di legittimità
costituzionale circa le norme in tema di adozione ordinaria; in effetti
la sospensione non può avere carattere pregiudiziale rispetto alla
quaestio di cui all'art. 314/17, primo comma, del codice civile,
risultando evidente che l'accoglimento di questa impedirebbe alla
pronunziata adozione ordinaria di produrre gli effetti relativi sul
procedimento di adozione speciale e precluderebbe così il
condizionamento del giudizio a quo all'esito della causa promossa con
la quaerela nullitatis.
La questione di legittimità costituzionale sollevata in
riferimento all'art. 314/17, primo comma, del codice civile è dunque
da ritenersi rilevante; ed essa risulta fondata.
4. - Com'è noto, con il nome generale di "adozione" si designano
già nelle fonti romane e medioevali istituti assai diversi. Nell'epoca
moderna (ma non mancano in quelle precedenti esperienze significative)
vi si raccolgono discipline che rispondono tendenzialmente a finalità
ben distinte in linea di principio, anche se non di rado congiunte
nella realtà della vita e nelle previsioni normative: la finalità del
provvedere un figlio e un erede a chi non abbia figli e si presume non
possa averne; e l'altra di allevare un cittadino allo Stato (come si
diceva dopo la rivoluzione francese) compiendosi un atto di beneficenza
verso il minore, eventualmente designato poi all'adozione.
Il codice civile francese del 1804 ha per la prima volta inquadrato
e regolato unitariamente l'istituto (artt. 343 - 360 del libro I) in
conformità alle esigenze economiche e sociali dell'epoca moderna, e
gli ha attribuito in via primaria scopi successori (richiedendo il
consenso da parte dell'adottato, fornito di capacità di agire, e
lasciando inalterati i rapporti con la famiglia originaria, anche in
ordine alla patria potestà). Tuttavia la disciplina del codice non ha
ignorato gli scopi di carattere assistenziale ed educativo; così, se
l'art. 346 disponeva non potersi far luogo all'adozione prima della
maggiore età dell'adottando, l'art. 361 prevedeva l'istituto della
"tutela officiosa", che serviva normalmente da prologo all'adozione
stessa. Secondo l'art. 364 la tutela poteva aversi solo a profitto di
minori inferiori ai quindici anni; e dopo cinque anni, il tutore
ufficioso, in previsione di morire prima della maggiore età del
pupillo, poteva conferirgli l'adozione con atto di ultima volontà
(art. 366).
Singolarmente isolata (anche nel panorama dei codici prcunitari,
nessuno dei quali richiedeva un minimo di età nell'adottando) è
dunque la disciplina in proposito sia del codice albertino sia di
quello unitario del 1865, perché, ricalcando nel resto la normativa
del codice Napoleone, trascurava del tutto l'esigenza di allevare fin
dalla prima infanzia il figlio adottivo in seno alla nuova famiglia,
esigenza corrispondente, oltreché a finalità filantropico -
assistenziali, anche all'intento di supplire e meglio imitare la
natura.
Non può stupire, perciò, che specie in occasioni di varie
calamità collettive (a cominciare dal terremoto calabro - siculo), si
proponessero modifiche rilevanti, dal punto di vista ora accennato,
alla disciplina sull'età degli adottandi, fissata in anni diciotto;
modifiche che introdusse il decreto legge 31 luglio 1919, n. 1357,
consentendo l'adozione degli orfani di guerra e dei trovatelli nati in
quel periodo che non avessero raggiunto il limite di età (e quindi
senza il loro consenso). Fu buon profeta chi ritenne che queste norme
eccezionali (conversione in legge 6 dicembre 1925, n. 2137)
contenessero il germe di provvide innovazioni da accogliere poi nel
diritto civile comune.
Infatti il codice del 1942 estese a tutti i minori la possibilità
di essere adottati (art. 296), riflettendosi peraltro tale innovazione
non soltanto in una modifica quantitativa delle possibilità di
applicazione dell'istituto, ma in un suo mutamento qualitativo in
ordine alle finalità e alla struttura. Ciò che nelle disposizioni
eccezionali del 1919 era un rimedio reso necessario dalla condizione
degli orfani di entrambi i genitori e dei trovatelli (e cioè il
conferimento all'adottante dei poteri e dei doveri attribuiti al tutore
dalla legge 18 luglio 1917, n. 1143) diventava con l'art. 301, primo
comma, del nuovo codice una radicale alterazione della precedente
disciplina rispetto ai genitori naturali consenzienti all'adozione: la
patria potestà sull'adottato minorenne spettava così all'adottante,
dandosi seguito ad una proposta contenuta nella relazione del 1931
della Commissione reale per la riforma del codice civile, secondo cui
"l'adozione opera di fatto il distacco dell'adottato dalla famiglia di
origine e la sua assunzione in quella che l'adottante tende ... a
costituirsi con esso ed i suoi discendenti".
Ora, con tale riforma, non solo ci si è allontanati dallo schema
del codice napoleonico ma si sono affiancate normative assai diverse,
attinenti l'una all'adozione dei maggiori, l'altra alla adozione dei
minori di età. D'altra parte l'accoglimento nel nuovo codice
dell'istituto dell'affiliazione, nettamente distinto dall'adozione
(anche se sostenuto nei lavori preparatori con la formula della
"piccola adozione"), indicava chiaramente la volontà del legislatore
di soddisfare, insieme con l'affidamento dei minori previsto dall'art.
404 del codice civile, esigenze ritenute in parte comuni con quelle cui
rispondeva l'adozione estesa ai minori, giudicata peraltro troppo
impegnativa e, comunque, possibile soltanto in difetto di prole.
Le successive innovazioni in tema di adozione ordinaria hanno
accentuato la possibilità di utilizzare l'istituto a fini
assistenziali ed educativi: così l'abbassamento dell'età degli
adottanti (art. 291, cod. civ.), la previsione di una pluralità di
adottati (art. 294, cod. civ.), la normativa sulla competenza (artt.
311 e 313, cod. civ.). A queste significative modifiche, diposte con la
legge 5 giugno 1967, n. 431, ha fatto seguito, nell'ambito della
riforma del diritto di famiglia attuata con la legge 19 maggio 1975, n.
151, la nuova disciplina dell'assenso all'adozione da parte dei
genitori dell'adottando, assenso del quale può prescindersi in talune
circostanze, quando essi non esercitino la potestà che ad essi compete
(art. 297, cod. civ.).
Tuttavia la maggiore riforma sopravvenuta in questo campo è
sicuramente rappresentata dalla legge 5 giugno 1967, n. 431, che ha
inserito nel titolo VIII del libro I del codice civile un nuovo
capitolo terzo intitolato "Dell'adozione speciale". Questo complesso
normativo, chiaramente indirizzato alla tutela dell'interesse del
minore infraottenne in stato di abbandono, interesse considerato in
posizione di preminenza rispetto a tutti gli altri, compresi quelli dei
genitori naturali, si caratterizza per alcuni tratti decisamente
innovatori: a) ampi poteri degli organi giurisdizionali cui spetta
accertare lo stato di abbandono del minore, adottando i migliori mezzi
per porvi rimedio; b) applicazione più conseguente del criterio della
imitazione della natura, intendendosi offrire al minore una famiglia
sostitutiva che, per completezza di ruoli - materno e paterno - e per
l'età degli adottanti, meglio supplisca la famiglia di origine; c)
miglior garanzia di riuscita dell'inserimento del minore nella nuova
famiglia, giacché il provvedimento di adozione speciale deve essere
preceduto da un periodo di affidamento preadottivo, di natura
esplicitamente sperimentale; d) scelta degli adottanti più idonei in
base ad un giudizio attitudinale tra le coppie disponibili all'adozione
speciale; e) tra gli altri effetti della adozione speciale, acquisto
dello stato di figlio legittimo degli adottanti e cessazione dei
rapporti dell'adottato verso la famiglia di origine (salvi i divieti
matrimoniali e le norme penali fondate sul rapporto di parentela).
5. - Si suol dire che la riforma del 1967 ha spostato il centro di
gravità dell'adozione dall'interesse dell'adottante a quello
dell'adottato. Ed è innegabile che a livello di legislazione ordinaria
la legge n. 431 ha alterato a favore del minore l'equilibrio che poteva
ormai riconoscersi, nell'adozione ordinaria per i minori, tra
l'interesse di chi si continua attraverso un figlio - erede e
l'interesse del minore ad essere allevato ed educato in condizioni più
vantaggiose. Ma lo spostamento del centro di gravità dell'istituto era
imposto ancor prima sul piano superiore della normativa costituzionale,
per il combinato disposto degli artt. 2 e 30, primo e secondo comma,
della Costituzione. Queste norme, riconoscendo come fine preminente lo
svolgimento della personalità in tutte le sedi proprie, assumono a
valore primario la promozione della personalità del soggetto umano in
formazione e la sua educazione nel luogo a ciò più idoneo: da
ravvisare in primissima istanza nella famiglia di origine, e, soltanto
in caso di incapacità di questa, in una famiglia sostitutiva. L'art.
30, secondo comma, della Costituzione, prevede infatti il dovere del
legislatore e dell'autorità pubblica in generale di predisporre quegli
interventi che pongano rimedio nel modo più efficace al mancato
svolgimento dei loro compiti da parte dei genitori di sangue: e cioè
alle funzioni connesse al dovere - diritto di mantenere, istruire ed
educare i figli. Ma la finalità di una educazione sostitutiva al
meglio comporta la soddisfazione del bisogno di famiglia avvertito con
forza dal minore, che richiede per la sua crescita normale affetti
individualizzati e continui, ambienti non precari, situazioni non
conflittuali.
Del resto, anche sulla base di ben noti documenti di organismi
internazionali (né è casuale che la legge n. 431 del 1967 sia stata
preceduta di pochi mesi dalla firma a Strasburgo della Convenzione
europea in materia di adozione dei minori), deve procurarsi al minore,
mediante l'adozione, "un foyer stable et harmonieux" (art. 8, n. 2
Convenzione europea - ratificata e resa esecutiva in base a legge 22
maggio 1974, n. 357).
Se dai dati normativi presenti nel nostro ordinamento a livello
costituzionale e legislativo risultano il dovere - diritto dei genitori
d'origine ed il dovere dello Stato di predisporre le condizioni in cui
possa meglio realizzarsi il diritto del minore all'educazione e
all'educazione in famiglia. non si possono trascurare talune
conseguenze: così il carattere "funzionale" del diritto dei genitori
del sangue, che sta e vien meno in relazione alla capacità di
assolvere i compiti previsti nel primo comma dell'art. 30 della
Costituzione; il carattere di "effettività" che deve rivestire
l'assolvimento dei compiti stessi, non delegabili ad altri e dunque da
svolgersi con impegno personale e diretto; infine il carattere di
"adeguatezza" (cfr. sentenza n. 145 del 1969, in fine) che deve
presiedere alla individuazione della famiglia sostitutiva - quando
trovi applicazione l'art. 30, secondo comma, della Costituzione - il
che comporta la ricerca della soluzione ottimale "in concreto" per
l'interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto
dal punto di vista morale, la miglior "cura della persona".
6. - La posizione preferenziale riconosciuta alla situazione
soggettiva del minore in sede di art. 30, primo e secondo comma, della
Costituzione non ha mancato di riflettersi, come si è visto, sulla
disciplina legislativa delle varie forme di adozione. Per quella
speciale è superflua ogni ulteriore considerazione in merito, essendo
unanime, in giurisprudenza ed in dottrina, il riconoscimento che la
legge n. 431 del 1967 rappresenta un esempio di legge chiaramente
ispirata a precetti costituzionali (cfr. da ultima sentenza n. 234 del
1975).
Ma, come si è detto, anche la normativa sulla adozione ordinaria
dei minori è stata modificata nel periodo 1967 - 1975, nel senso di
consentire condizioni più favorevoli all'assistenza ed all'educazione
dei soggetti adottati nonché al loro inserimento nella famiglia
adottiva; e le norme costituzionali predette spiegano un'influenza non
secondaria nella formazione del giudizio di convenienza per l'adottando
che tribunale dei minorenni e Corte d'appello (sezione corrispondente)
debbono premettere alla emissione del decreto di adozione (art. 312, n.
3, cod. civ.). Si può dire che la normativa costituzionale ha
esercitato una forte spinta tendente ad unificare le due forme di
adozione per i minori sul piano delle finalità ad esse comuni,
orientando giudici ed amministratori (senza dire degli organi del
potere legislativo) a far prevalere, nella maggiore misura possibile,
la tutela degli interessi fondamentali del minore.
Questa tendenza unificante, promossa dalla Costituzione e dalla
Convenzione europea del 1967, ha reso entro certi limiti compatibili i
vari istituti previsti a favore dei minori dal codice del 1942 e dalla
legge n. 431 del 1967 ed in particolare le due forme di adozione:
ciò spiega perché già con la sentenza n. 158 del 1971 questa Corte
abbia ritenuto "ben possibile ... che, sia pure rivolti a finalità
concorrenti o comuni, coesistano istituti distinti, quali l'affidamento
e l'affiliazione, e le due forme di adozione, e le norme circa
l'assistenza pubblica all'infanzia abbandonata, ecc., e che la
complessiva disciplina sia variamente articolata".
Peraltro la tendenza all'unificazione, pur agendo vigorosamente sul
piano delle finalità degli istituti e degli sviluppi interpretativi in
sede giurisprudenziale e dottrinale, non era in grado di superare certi
limiti rappresentati dalla profonda diversità di struttura e
soprattutto di procedimento caratterizzante le due forme di adozione.
La coesistenza può quindi essere pacifica quando ad un unico giudice,
territorialmente e funzionalmente competente, fanno capo il
procedimento di adozione ordinaria e quello di adozione speciale, per
modo che la concordanza pratica dei criteri si realizza attraverso la
scelta del giudice, orientato a far precedere, nell'interesse del
minore, l'una o l'altra serie procedimentale. Ma la coesistenza rischia
di divenire fonte di conflitti, quando diversi siano il giudice
chiamato a pronunziare sull'adozione ordinaria (sede dell'adottante) ed
il giudice competente a pronunziare sull'adozione speciale e, prima
ancora, sullo stato di adottabilità (sede dell'adottando).
È evidente che solo l'auspicata ed auspicabile revisione da parte
del legislatore può rimuovere del tutto simili antinomie dal corpo
dell'ordinamento, attuando quell'opera coordinatrice e di necessaria
convergenza delle discipline richiesta dalla Costituzione, dalla
Convenzione europea e dalla unità del sistema. Tuttavia in questo
giudizio non si domanda alla Corte costituzionale di porre rimedio ad
un mancato coordinamento legislativo, ma piuttosto di verificare se,
alla luce degli artt. 2, 3 e 30, primo e secondo comma, della
Costituzione, l'art. 314/ 17, primo comma, del codice civile (secondo
l'interpretazione contenuta nel principio di diritto enucleato dalla
Corte di cassazione) contrasti in modo positivo e diretto con i
parametri costituzionali ora evocati.
Si potrebbe forse nutrire qualche dubbio circa la consistenza del
"supporto normativo" che sostiene il risultato ermeneutico acquisito a
questo proposito nella pronuncia che ha dato luogo al giudizio di
rinvio; essendo quanto meno opinabile l'affermazione che lo stato di
abbandono, da accertare nei confronti dei genitori di origine e dei
parenti tenuti all'assistenza del minore, possa automaticamente venir
meno, dopo la dichiarazione dello stato di adottabilità, per il
sopravvenire del decreto di adozione ordinaria. Ma in relazione ai
giudizi di rinvio non può certo disconoscersi la qualità di "diritto
vivente" al principio di diritto affermato dalla Cassazione secondo il
quale, come si è già riferito nella parte in fatto, la "dichiarazione
definitiva" di adozione ordinaria di un minore nel corso del
procedimento di adozione speciale, cui lo stesso sia sottoposto,
determina la cessazione dello stato di adottabilità già dichiarato.
Orbene, l'ammettere che il decreto di adozione ordinaria possa ex
se determinare la caducazione dello stato di adottabilità contrasta,
secondo questa Corte, con la particolare tutela riconosciuta al minore
dall'art. 30, commi primo e secondo, della Costituzione.
In effetti non si vede come l'esito di un procedimento che offre
minori garanzie (tra l'altro il decreto di adozione ordinaria non deve
essere motivato) possa ragionevolmente caducare gli effetti di un atto
motivato, che conclude una serie procedimentale in cui i genitori di
origine ed i parenti, tenuti all'assistenza del minore, hanno tutti i
mezzi per provare la idoneità e disponibilità loro ad assolvere i
compiti assistenziali ed educativi previsti in Costituzione. A
differenza del decreto di adozione ordinaria, il decreto sullo stato di
adottabilità, in sé e nello stato che produce, è poi suscettibile di
impugnazione e di revoca, sicché la validità e la sussistenza dei
suoi presupposti possono essere rigorosamente vagliati.
Inoltre non si intende come, senza violare l'art. 30, secondo
comma, della Costituzione, sia possibile far prevalere sul procedimento
certamente più "comprensivo" previsto per l'adozione speciale quello
in cui un solo soggetto o una sola coppia si propone come adottante: da
una parte i requisiti di cui ai nn. 2) e 3) dell'art. 312 del codice
civile possono in concreto non equipararsi alle condizioni
dell'adottabilità speciale, dall'altra la dichiarazione dello stato di
adottabilità è all'origine di subprocedimenti (affidamento
preadottivo e dichiarazione di adozione speciale) nei quali si cerca,
con criterio comparativo e non assoluto (e cioè non in relazione ad un
solo soggetto o ad una sola coppia), la soluzione migliore
nell'interesse del minore ad una assistenza ed educazione familiare.
La prevalenza accordata dall'art. 314/17, primo comma, del codice
civile (secondo l'interpretazione della Cassazione) al provvedimento di
adozione ordinaria non è dunque conforme ai principi costituzionali
che impongono - anche sul piano della garanzia della difesa dei diritti
in sede di giudizio - una adeguata tutela dell'infanzia quando sia
necessario avvalersi di una famiglia sostitutiva di quella originaria;
non assicura un trattamento ragionevolmente eguale di tutti i minori in
stato di abbandono; ed infine, favorendo indirettamente la conclusione
di vicende iniziate in chiara elusione delle norme sull'adozione
speciale, può incentivare quel "mercato dei bambini" cui si oppongono
non soltanto lo spirito e la lettera della nostra disciplina
costituzionale e legislativa ma il comune sentire dei cittadini.
Coesistenza di istituti adottivi in ordine ad uno stesso soggetto
di età infraottenne non può quindi significare indifferenza
dell'ordinamento riguardo ai procedimenti più o meno idonei che ad
essi si ricollegano, come ha ben visto la giurisprudenza della stessa
Cassazione, specialmente nella pronunzia del 1978 ricordata nella parte
in fatto: sicché non sarebbe in armonia con i principi costituzionali,
ex art. 30, primo e secondo comma, della Costituzione, un'applicazione
ad effetto automatico del criterio di priorità temporale che
sacrifichi il preminente interesse del minore alla ricerca della
soluzione più adeguata per lo sviluppo della sua personalità. Del
resto, anche a voler insistere su considerazioni di ordine temporale,
non sembra che debba parlarsi di possibilità di scelta tra la messa in
opera dei due istituti soltanto ex ante, giacché, quando il
procedimento di adozione speciale ha dato luogo alla dichiarazione
dello stato di adottabilità, è piuttosto ex post che devono valutarsi
gli effetti del decreto di adozione ordinaria.
Quanto si è detto non comporta, com'è evidente, una opzione in
assoluto tra adozione speciale e adozione ordinaria, perché, in
concreto, può essere proprio questa forma dell'istituto adottivo ad
offrire la soluzione più adeguata alle condizioni particolari di un
minore infraottenne (dovendo tra l'altro il giudice valutare sempre la
consistenza dei legami affettivi che si siano creati col tempo tra il
minore e la famiglia comunque affidataria). Ma ciò non significa che
in sede di ricerca della soluzione più idonea per lo sviluppo
educativo del minore si possa da parte del giudice rimettere in gioco
la scelta a suo tempo compiuta dal legislatore, che fa discendere dalla
pronunzia di adozione speciale la cessazione dei rapporti dell'adottato
verso la famiglia di origine; in particolare il mantenimento di tali
rapporti non può essere invocato per giustificare l'automatica
caducazione dello stato di adottabilità, previsto dall'art. 314/17,
primo comma, del codice civile.
Le considerazioni di carattere più generale formulate in
precedenza valgono peraltro, nella fattispecie normativa sottoposta a
questa Corte, in riferimento ad un thema decidendum qualificato in
senso riduttivo sia dal principio di diritto enunziato dalla Cassazione
sia dal profilo di rilevanza quale emerge dal giudizio a quo.