Ritenuto in fatto:
1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Carmine
Messina ed altri, imputati del delitto di ricettazione di oggetti
d'arte, e del reato di cui all'art. 708 del Codice penale, per essere
stati colti in possesso di un basamento di candelabro, oggetto non
confacente al loro stato e del quale non sapevano giustificare la
provenienza, il giudice istruttore del Tribunale di Torino ha
sollevato, d'ufficio, con ordinanza del 14 marzo 1967, questione di
legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della
Costituzione, della norma contenuta nel citato art. 708 del Codice
penale, nella parte in cui punisce chi, trovandosi nelle condizioni
personali di cui al precedente art. 707, è colto in possesso di "altre
cose non confacenti al suo stato", e delle quali non giustifichi la
provenienza.
Affermata la rilevanza della questione, il giudice istruttore,
sulla sua non manifesta infondatezza, osserva che la norma denunziata,
dopo avere indicato i presupposti comuni alle ipotesi in essa
considerate, determina l'oggetto del possesso ingiustificato, in
relazione alle sue qualità, distinguendo l'ipotesi del possesso di
denaro o di oggetti di valore, per i quali si prescinde dallo stato del
possessore, dall'ipotesi del possesso di "altre cose" per le quali,
invece, si tiene conto di tale stato. E poiché, secondo la
giurisprudenza, per "stato" dovrebbe intendersi la condizione personale
e sociale della persona, l'art. 708 ridetto, nella suddetta ipotesi,
porrebbe in essere, secondo l'ordinanza, una diversità di trattamento,
in violazione del principio costituzionale di eguaglianza, che vieta
ogni differenziazione dei cittadini di fronte alla legge in ragione
delle loro condizioni personali e sociali.
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 132 del 27 maggio 1967.
Nel giudizio innanzi a questa Corte, è intervenuto il Presidente
del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, con atto depositato il 3 maggio 1967, nel quale si chiede che la
questione sia dichiarata infondata.
In via preliminare, l'Avvocatura dello Stato osserva che la
questione non sarebbe da limitare a quella sola parte della norma
enucleata nell'ordinanza di rimessione, concernente l'ipotesi del
possesso di "altre cose", bensì da estendere a quella del possesso
ingiustificato di denaro e di oggetti di valore, giacché anche a
questa ipotesi sarebbe da riferire il requisito che ciò che si
possiede non sia confacente allo stato del possessore. Ad avviso
dell'Avvocatura, una tale interpretazione della norma denunziata,
nonostante la sua imprecisa formulazione, risulterebbe dai precedenti
legislativi, dall'opinione di autorevole dottrina e dalla stessa ratio
legis, la quale, nel punire un reato di mero sospetto, tiene conto non
della pericolosità del fatto in sé, ma di quella relativa alla
sicurezza patrimoniale in quanto rilevata dal soggetto, sulla base di
determinati elementi subiettivi ed obiettivi.
Nel merito, l'Avvocatura deduce che la norma denunziata non pone su
due gradi diversi solo, in relazione al loro diverso stato, due
categorie di persone non altrimenti identificabili, ma riguarda
soggetti che trovano elementi di identificazione nel fatto di essere in
una delle condizioni indicate nell'art. 707 del Codice penale, ed
elementi di distinzione nel possesso di certi valori di ingiustificata
provenienza e non corrispondenti allo stato del soggetto che li
possiede. Per quanto riguarda, in particolare, tale "stato"
dell'agente, si ribadisce che nella specie trattasi di reato di mero
sospetto, la cui previsione intende provvedere alla sicurezza
patrimoniale, e si deduce che il sospetto sarebbe da ravvisarsi non
nella diversa condizione del soggetto, ma nella diversa rilevazione di
una situazione di fatto, e più precisamente nel rapporto fra tale
situazione e lo stato del soggetto, con la conseguenza che, a
diversità di stato della persona, quella stessa situazione assumerebbe
un significato del tutto diverso.
2. - Con ordinanza del 30 settembre 1967 il pretore di Bologna ha
sollevato questione di legittimità costituzionale della stessa
disposizione contenuta nell'art. 708 del Codice penale, in riferimento
agli artt. 3, 27, secondo e terzo comma, e 25, secondo comma, della
Costituzione, nel procedimento penale a carico di Rodolfo Torre, colto
in possesso di un apparecchio radio, di cui non aveva saputo
giustificare la provenienza, installato nell'autovettura di sua
proprietà.
Osserva il pretore che il reato previsto dalla disposizione
denunziata, per il riferimento alle condizioni personali indicate nel
precedente art. 707, appartiene alla categoria dei reati propri, e,
come reato di mero sospetto, pone la presunzione della provenienza
illecita degli oggetti posseduti e mette a carico del possessore la
prova della legittima provenienza di tali oggetti, non essendo
sufficiente neppure la prova che non provengano da delitto.
Anche in questa ordinanza vengono richiamati i precedenti
legislativi della norma denunziata, per illustrarne la ratio, che
sarebbe ispirata ad un fine persecutorio nei confronti del sospettato,
e per sottolineare il maggiore rigore nella disciplina vigente rispetto
alla legislazione penale anteriore, sia per la sua estensione ad una
più ampia categoria di persone e ad oggetti diversi da quelli di
valore, sia per l'inasprimento della pena e per la irrogazione della
misura della libertà vigilata come conseguenza eventuale della
condanna (art. 713 del Codice penale).
Sulla violazione del principio di eguaglianza, si deduce che, in
contrasto con il precetto per il quale il legislatore deve trattare in
modo uguale situazioni soggettive uguali, la norma denunziata darebbe
luogo, a parità di condizioni soggettive, ad una ingiustificata
discriminazione tra chi si trovi nella condizione personale di
condannato per mendicità o per altre cause, e chi non versi in tale
condizione, e, altresì, si rifarebbe a criteri di disparità sociale
per il fatto di riferirsi a cose non confacenti alle condizioni di
censo, sociali e professionali del possessore.
Sotto altro profilo, il principio di eguaglianza sarebbe ancora
violato, e cioè per l'indiscriminato livellamento, cui la norma
darebbe luogo, col richiamo a categorie di persone molto differenziate
e non omogenee, enunciate nel già citato art. 707, tra le quali è da
notare che è compresa quella degli "ammoniti" (mentre l'istituto
dell'ammonizione ha cessato di avere applicazione a seguito della
sentenza n. 11 del 1956 di questa Corte).
Si deduce, poi, che la norma in esame configura una presunzione
legale di colpevolezza dell'imputato, ispirata a criteri informatori
del Codice del 1930 quali risultano dai lavori preparatori, in
contrasto col principio accolto nell'art. 27, secondo comma, della
Costituzione, sia che tale principio debba intendersi come "non
presunzione di colpevolezza", sia che debba intendersi come
"presunzione di innocenza", nel senso che esplicitamente risulta
dall'art. 6, par. 2, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo,
assunto come fonte di diritto interno. Al riguardo si fa richiamo alla
citata sentenza n. 11 del 1956 di questa Corte con la quale si sono
dichiarate illegittime le disposizioni del testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza riguardanti l'ammonito che dava ragione a sospetti;
e si deduce che, nell'odierna fattispecie, la presunzione legale di
colpevolezza risulterebbe dal rilievo con l'esistenza di un fatto
ignoto, qual è quello della reale provenienza dell'oggetto, non
consegue ad un accertamento probatorio che incombe all'accusa e che
deve essere valutato alla stregua del principio del favor rei, ma è
indotta dalla rilevanza di fatti noti, quali le condizioni personali
dell'imputato e l'attualità del possesso di cose non confacenti al suo
stato, nel presupposto che si sia verificato ciò che ordinariamente
avviene in casi simili. Da ciò deriverebbe che, per l'inversione
dell'onere della prova, il giudice, nell'assenza o inerzia
dell'imputato e quando non riesca aliunde a trarre elementi di
giustificazione, nella generalità dei casi in cui dovrebbe assolvere
per insussistenza del fatto, sarebbe, invece, tenuto a condannare,
sicché il reato risiederebbe nel destare sospetto, indi pendentemente
dalla sussistenza del fatto che si sospetta commesso.
In quanto la norma denunziata parta da una presunzione a carico di
taluni condannati si avrebbe, inoltre, la violazione del precetto
contenuto nel terzo comma dell'art. 27 della Costituzione, sulla
funzione rieducativa della pena, che, come risulta dalla sentenza n. 12
del 1966 di questa Corte, deve essere tenuta costantemente di mira dal
legislatore. Al riguardo si osserva che, ove non si voglia ridurre
l'affermazione costituzionale ad un vago richiamo romantico,
occorrerebbe anzitutto incominciare a considerare il condannato come
socialmente recuperato al termine dell'esecuzione della pena, se non
altro al limitato effetto di non creargli e, anzi, di rimuovere
condizioni di iniquo sfavore, come quella di cui alla disposizione
impugnata, tenuto conto delle ordinarie e già pesanti conseguenze che
sogliono seguire ad una condanna.
Sulla violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione,
si sostiene, infine, che la norma de qua non offre una determinazione
sufficientemente precisa del fatto punibile, come richiede, invece,
l'indicato precetto costituzionale, che, visto anche in relazione agli
artt. 1 e 2 del Cod. penale, dovrebbe garantire una formulazione
tassativa della fattispecie legale, al fine, tra l'altro, di evitare
che gli organi di polizia possano discrezionalmente procedere
all'adozione di misure cautelari, come il sequestro dell'oggetto, in
ipotesi altrimenti non consentite. Ciò premesso, si deduce che
l'espressione "o di altre cose non confacenti al suo stato" contenuta
nella forma denunziata, sarebbe inidonea a porre il cittadino
imputabile nella condizione di conoscere l'oggetto del divieto ed il
confine tra le cose di cui gli è consentito il possesso e quelle per
cui gli è negato. Né, ad avviso del pretore, potrebbe trarsi
argomento in contrario della sentenza n. 27 del 1961 nella quale questa
Corte esaminando l'art. 121 del T.U. delle leggi di p. s., ha ritenuto
che espressioni estensive o esemplificative contenute in norme penali,
ai fini della determinazione del fatto punibile, non comportano
un'interpretazione analogica, vietata in materia penale, ma soltanto un
ordinario procedimento di interpretazione. Si osserva, infatti,
nell'ordinanza, che la disposizione denunziata non contiene indicazioni
esemplificative del genere suindicato, ma ricorre all'impiego di
termini come "cosa" e "stato" di pregnante valore connotativo, nonché
ad una clausola generale, riconducibile, alle forme dell'anticipata
analogia, da considerare illegittima per difetto di tassatività e per
il divieto del ricorso all'analogia che, in regime di costituzione
rigida, varrebbe non solo per l'interprete, bensì anche per il
legislatore ordinario.
La rilevanza della questione viene prospettata sotto i seguenti
principali profili.
Precisato che l'imputato risulta essere stato diffidato dal
questore di Modena a non fare ritorno in quella città per un periodo
di tre anni, si argomenta che, qualora al termine "ammonito", dell'art.
707 del Codice penale, richiamato dall'art. 708, dovesse ritenersi
equivalente il termine "diffidato" per la sopravvenuta legge 27
dicembre 1956, n. 1423, l'eventuale dichiarazione di illegittimità
costituzionale della norma denunziata - anche solo della espressione
"essendo ammonito" - (in conseguenza della citata sentenza n. 11 del
1956 di questa Corte), comportebbe la sua disapplicazione al caso
concreto.
Si prospetta, poi, in via alternativa, l'ipotesi che non ricorra
l'equivalenza dei termini sopra indicati, perlocché il giudice
dovrebbe assolvere, ai sensi dell'art. 152 del Codice di procedura
penale, con la formula "il fatto non costituisce reato": e, anche in
tal caso, si assume che la questione sollevata sarebbe rilevante per la
priorità logica e giudirica della pregiudiziale di legittimità
costituzionale e per le dannose conseguenze che potrebbero derivare
all'imputato in caso di assoluzione con la formula ora richiamata.
L'ordinanza, regolarmente comunicata e notificata, è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 321 del 23 dicembre 1967.
Nel giudizio dinanzi a questa Corte non vi è stata costituzione di
parti.
Alla pubblica udienza del 20 giugno 1968 l'Avvocatura dello Stato
ha insistito nelle sue tesi e conclusioni.
Considerato in diritto:
1. - Le due cause hanno il medesimo oggetto, poiché investono
entrambe l'art. 708 del Codice penale. sul possesso ingiustificato di
valori, anche se una di esse si limita a denunziare la violazione
dell'art. 3 della Costituzione, mentre l'altra si estende a quella
degli artt. 25, secondo comma, e 27, secondo e terzo comma.
Sono state, perciò, trattate congiuntamente e vengono riunite per
essere decise con unica sentenza.
2. - Le censure muovono da un'interpretazione della norma
denunziata, che la Corte ritiene di condividere solo in parte.
È, anzitutto, da escludere che lo "stato" del possessore debba
essere tenuto presente nella sola ipotesi di possesso di cose diverse
dal denaro o da oggetti di valore.
Una tale opinione, che condurrebbe all'inaccettabile conseguenza di
considerare ingiustificato anche il possesso di una, sia pure minima,
somma di danaro, è contrastata dal rilievo che il vigente art. 708 del
Codice penale, per quanto concerne la determinazione dell'oggetto del
possesso (cfr. Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo del
Codice penale, vol. II, pag. 509), ha inteso semplicemente rendere più
dettagliate quelle stesse ipotesi di possesso di danaro e di oggetti,
che, anche nella corrispondente norma del Codice abrogato del 1889
(art. 492), erano indicate con riferimento alla condizione personale
del possessore.
3. - In senso del tutto equivalente al concetto, testé riferito,
di "condizione" deve essere, poi, intesa la nozione di "stato" del
possessore, la quale, per il fatto stesso di riguardare soltanto chi
sia stato condannato o sottoposto a misure penali o di polizia, non
può, come tale, essere ricondotta ad una significazione che sia in
contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
Infatti, il Codice penale, per altri fini particolari e senza alcun
intento discriminatorio, impone, ad esempio, al giudice di stabilire la
misura della pena, tenendo conto della capacità a delinquere, che deve
essere desunta, tra l'altro, dalla condotta del reo e dalle sue
condizioni di vita individuale, familiare e sociale (art. 133, secondo
comma). Analogamente, la norma denunziata si richiama al concetto di
"stato" per esprimere il rapporto che intercorre tra una situazione
oggettiva, quale è il possesso delle cose nelle particolari condizioni
indicate nell'art. 707 del Codice penale, e la vita che il possessore
abitualmente conduce, non al fine di operare una differenziazione tra
soggetti in diversi condizioni economiche e sociali, ma di rendere
possibile una valutazione adeguata della giustificazione che, per la
stessa disposizione, deve essere data dal soggetto incriminato sulla
provenienza del danaro o delle cose possedute.
4. - È da escludere che la norma denunziata, nel richiedere che si
giustifichi la provenienza del possesso, ne imponga anche la prova:
quello che si richiede è, invece, l'elemento della coscienza e della
volontarietà dell'azione (che nei reati contravvenzionali può
esprimersi nella semplice colpa; art. 42, ultimo comma, Cod. pen.), da
provarsi in concreto nelle singole fattispecie; solo che l'elemento
suddetto va desunto dal giudice, secondo i comuni principi della
libertà delle prove e del libero convincimento.
5. - Nell'esame delle censure avanzate nei confronti della
disposizione denunziata, intesa nei sensi sopra riferiti, devesi,
anzitutto, escludere la violazione del principio di eguaglianza in
relazione alla nozione di "stato" del possessore, attesa la particolare
accezione nella quale, alla stregua di quanto si è detto, deve essere
accolta tale espressione.
Fondata appare, all'opposto, la censura di violazione del suddetto
principio, prospettata a motivo dell'ingiustificato livellamento, al
quale darebbe luogo la denunziata norma dell'art. 708 del Codice penale
col richiamo alle eterogenee categorie di persone menzionate nel
precedente art. 707.
Invero, il reato previsto dalla disposizione impugnata,
concretandosi nel possesso ingiustificato di valori, è nel Codice
annoverato tra le contravvenzioni di polizia dirette alla prevenzione
di delitti contro il patrimonio (libro III, titolo I, cap. II, par. 5);
sicché la norma trova il suo fondamento logico limitatamente a quelle
situazioni soggettive nelle quali l'incolpato abbia dei precedenti
penali specifici, relativi a condanne per delitti determinati da motivi
di lucro o per contravvenzioni, annoverate nello stesso paragrafo cui
appartiene l'art. 708 (che attengono anch'esse alla tutela, sia pure
indiretta, del patrimonio).
Non pare, invece, che la norma stessa presenti carattere di
ragionevolezza nel suo riferimento alle altre categorie di soggetti.
Per quanto riguarda i condannati per mendicità, è da tener conto
della diversa ratio delle relative norme repressive (artt. 670 Cod.
pen. e 156 T.U. delle leggi di p. s.) dirette prevalentemente ad
evitare molestie e coercizioni (cfr. sentenza n. 2 del 26 gennaio 1957
di questa Corte), e alla sua estraneità alla protezione cui è
preordinata la contravvenzione in esame.
Per la stessa estraneità è privo di ragionevolezza configurare il
reato nei confronti di soggetti sottoposti a misure di sicurezza
personale o a cauzione di buona condotta - allorché non conseguano a
condanne per delitti o a contravvenzioni previste nelle due prime
ipotesi dell'art. 707 del Codice penale.
Lo stesso è a dirsi per la categoria dei soggetti sottoposti alla
misura di prevenzione della sorveglianza speciale, irrogata a quei
diffidati che non abbiano cambiato condotta, quando siano pericolosi
per la sicurezza o la moralità pubbliche (misure che, in forza della
legge 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 13, importa ora i medesimi
effetti che prima erano dell'ammonizione), data la varietà dei motivi
per i quali può essere adottata la suindicata misura di prevenzione.
6. - Infondate debbono ritenersi le ulteriori censure avanzate, con
l'ordinanza del pretore di Bologna, al più volte citato art. 708 del
Codice penale, sotto il profilo della violazione della riserva di legge
in materia penale, della non presunzione di colpevolezza e della
funzione rieducativa della pena (artt. 25, secondo comma, e 27, secondo
e terzo comma, della Costituzione).
Quanto alla prima censura, è da osservare che la norma denunziata,
intesa nei sensi già riferiti, offre un'indicazione precisa del fatto
punibile e pone il soggetto nella condizione di conoscere il divieto
che forma oggetto della disposizione incriminatrice, tenuto conto,
altresì, della possibilità che gli è offerta di dare una
soddisfacente spiegazione del possesso di un valore che non sia
confacente alle sue abituali condizioni di vita.
Quanto, poi, al "principio di non colpevolezza" dell'art. 27 della
Costituzione, esso non investe il modo di provare i "fatti di reato",
sicché rimane estraneo alla materia del presente giudizio.
La violazione, infine, del precetto costituzionale sulla funzione
rieducativa della pena, a parte la sua portata e i suoi limiti (cfr.
sentenza n. 12 del 1966 di questa Corte), non può essere invocata per
escludere la legittimità delle norme (e per di più
contravvenzionali), il cui oggetto specifico della tutela è la
prevenzione di taluni delitti contro il patrimonio.