Titolo
SENT. 59/58 A. GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE - OGGETTO DEL GIUDIZIO PRINCIPALE: CONTRAVVENZIONE PREVISTA DALL'ART. 650 COD. PEN. - QUESTIONE DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELLE NORME IN BASE ALLE QUALI E' STATO EMESSO IL PROVVEDIMENTO DELL'AUTORITA' - FATTISPECIE - PROPONIBILITA'.
Testo
La fattispecie dell'art. 650 Cod. pen. richiede il collegamento con un provvedimento "legalmente dato"; locuzione che si riferisce alla legalita' non soltanto formale, ma anche sostanziale del provvedimento, nel senso che esso deve essere dato dall'autorita' competente e nelle forme previste, e deve altresi' trovare, in una o piu' norme dell'ordinamento giuridico il suo titolo di intrinseca legittimita'. Contestata la legittimita' costituzionale di dette norme, si contesta la legalita' del provvedimento e quindi il fondamento dell'imputazione nel giudizio principale. (Specie in cui era stata eccepita l'improponibilita' della questione di legittimita' costituzionale degli artt. 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1159, 1 e 2 del R.D. 28 febbraio 1930, n. 289, sollevata nel giudizio penale a carico di un ministro del culto pentecostale, imputato della contravvenzione di cui all'art. 650 Cod. pen., per non aver osservato il divieto, fattogli dall'autorita' di p.s., di esercitare il culto e tenere aperto l'oratorio prima di ottenere l'approvazione e l'autorizzazione governative, previste dai suddetti articoli della legge del 1929 e del decreto del 1930).
Altri parametri e norme interposte
legge
11/03/1953
n. false
art. 23
Riferimenti normativi
codice penale
n. 0
art. 650
co. 0
legge
24/06/1929
n. 1159
art. 3
co. 0
regio decreto
28/02/1930
n. 289
art. 1
co. 0
regio decreto
28/02/1930
n. 289
art. 2
co. 0
Titolo
SENT. 59/58 B. LIBERTA' DI CULTO - CULTI ACATTOLICI - LIBERTA' DI ESERCIZIO DEL CULTO: COMPRENDE L'APERTURA DI TEMPLI E ORATORI E LA NOMINA DI MINISTRI DEL CULTO - LIBERTA' DI AUTORGANIZZAZIONE DELLE CONFESSIONI RELIGIOSE ACATTOLICHE - LIMITI.
Testo
Per i culti acattolici si deve distinguere la liberta' di esercizio del culto, come pura manifestazione di fede religiosa, dalla organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato. La prima e' riconosciuta nel modo piu' ampio dall'art, 19 della Costituzione, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni di culto, ivi indubbiamente incluse l'apertura di tempi ed oratori e la nomina dei relativi ministri. Quanto alla liberta' delle confessioni religiose diverse dalla cattolica di organizzarsi secondo i propri statuti, l'art. 8 della Costituzione pone il limite che tali statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico dello Stato, e che i rapporti di dette confessioni con lo Stato siano da regolarsi con leggi sulla base d'intese con le relative rappresentanze.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 8
Costituzione
art. 19
Titolo
SENT. 59/58 C. CONFESSIONI RELIGIOSE ACATTOLICHE - FACOLTA' DI STABILIRE RAPPORTI CON LO STATO - REGOLAMENTO DI TALI RAPPORTI - EFFETTI.
Testo
La istituzione di rapporti tra le confessioni religiose acattoliche e lo Stato, ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione, essendo diretta ad assicurare effetti civili agli atti dei ministri del culto, oltre che agevolazioni di vario genere, riveste carattere di facolta', non di obbligo.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 8
co. 3
Titolo
SENT. 59/58 D. CONFESSIONI RELIGIOSE ACATTOLICHE - LIBERTA' DI ORGANIZZARSI SECONDO PROPRI STATUTI - LIMITE DEI PRINCIPI DELL'ORDINAMENTO GIURIDICO DELLO STATO.
Testo
L'art. 8, secondo comma, della Costituzione ha sancito la liberta' delle confessioni religiose diverse dalla cattolica di organizzarsi secondo i propri statuti, ponendo il limite, evidente anche senza esplicita dichiarazione, che tali statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico dello Stato.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 8
co. 2
Titolo
SENT. 59/58 E. CONFESSIONI RELIGIOSE ACATTOLICHE - ATTI DEI MINISTRI DI CULTO E APERTURA DI TEMPLI E ORATORI - EFFETTI CIVILI - CONTROLLO DELLO STATO - MANCATA EMANAZIONE DELLE LEGGI PREVISTE DALL'ART. 8 DELLA COSTITUZIONE - VALIDITA' DELLE NORME VIGENTI - LIMITI - ART. 3 LEGGE 24 GIUGNO 1929, N. 1159 - ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE - ART. 1 R.D. 28 FEBBRAIO 1930, N. 289 - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PARZIALE - ART. 2 DELLO STESSO DECRETO - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.
Testo
E' legittimo e rispondente allo spirito della Costituzione che allorquando agli atti dei ministri di culto acattolici e all'apertura di templi e oratori debbansi riconoscere effetti giuridici, tali atti ricadono sotto la ricognizione ed il controllo dello Stato, merce' i provvedimenti di approvazione e di autorizzazione. Finche' non siano state emanate le leggi previste dall'art. 8 della Costituzione, sono da ritenersi valide, e punto in contrasto con la Costituzione stessa, le norme vigenti, se ed in quanto regolatrici degli effetti civili e non lesive della liberta' di esercizio di culto. L'art. 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1159, mentre da una parte lascia impregiudicata la libera esplicazione del culto (in quanto non esclude la figura del ministro del culto non approvato, ma esclude soltanto gli effetti giuridici degli atti da lui compiuti), viene a trovarsi in logica correlazione con l'art. 8 della costituzione, nella parte in cui si riferisce alla disciplina giuridica dei rapporti fra lo Stato e le confessioni acattoliche. L'art. 1 del R.D. 28 febbraio 1930, n. 289, prescrivendo l'autorizzazione governativa per l'apertura di templi ed oratori in modo generale, involge tra gli altri anche il caso relativo all'apertura del tempio in quanto mezzo per una autonoma professione della fede religiosa, al di fuori dei rapporti con lo Stato. In relazione a questo punto l'articolo va dichiarato costituzionalmente illegittimo. L'art. 2 dello stesso decreto deve dichiararsi costituzionalmente illegittimo, perche' sottopone l'esercizio della facolta' di tenere cerimonie religiose e compiere altri atti di culto negli edifici aperti al culto alla condizione che la riunione sia presieduta o autorizzata da un ministro di culto la cui nomina sia stata approvata dal Ministro competente, condizione che non riguarda gli effetti civili ed e' in contrasto con la liberta' ampiamente garantita dall'art. 19 della Costituzione.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 8
Costituzione
art. 19
Riferimenti normativi
legge
24/06/1929
n. 1159
art. 3
co. 0
regio decreto
28/02/1930
n. 289
art. 1
co. 0
regio decreto
28/02/1930
n. 289
art. 2
co. 0
N. 59
SENTENZA 18 NOVEMBRE 1958
Deposito in cancelleria: 24 novembre 1958.
Pubblicazione in "Gazzetta Ufficiale" n. 288 del 29 novembre 1958.
Pres. AZZARITI - Rel. PETROCELLI
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Dott. GAETANO AZZARITI, Presidente - Avv.
GIUSEPPE CAPPI - Prof. TOMASO PERASSI - Prof. GASPARE AMBROSINI -
Prof. ERNESTO BATTAGLINI - Dott. MARIO COSATTI - Prof. FRANCESCO
PANTALEO GABRIELI - Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO - Prof. ANTONINO
PAPALDO - Prof. MARIO BRACCI - Prof. NICOLA JAEGER - Prof. GIOVANNI
CASSANDRO - Prof. BIAGIO PETROCELLI - Dott. ANTONIO MANCA - Prof.
ALDO SANDULLI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3 della
legge 24 giugno 1929, n. 1159, e 1 e 2 del R. D. 28 febbraio 1930, n.
289, promosso con ordinanza 30 luglio 1957 del Tribunale di Crotone,
emessa nel procedimento penale a carico di Rauti Francesco, pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 223 del 7 settembre 1957
ed iscritta al n. 80 del Registro ordinanze 1957.
Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio
dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica dell'8 ottobre 1958 la relazione del
Giudice Biagio Petrocelli;
uditi il sostituto avvocato generale dello Stato Giuseppe Gugliemi
e gli avvocati Arturo Carlo Jemolo, Leopoldo Piccardi e Giacomo
Rosapepe.
Ritenuto in fatto:
Davanti al Tribunale di Crotone pendeva procedimento penale a
carico di Rauti Francesco, imputato "della contravvenzione di cui
all'art. 650 Cod. pen., per avere continuato ad esercitare l'attività
del culto pentecostale ed a tenere aperto al pubblico l'oratorio di
detto culto, nonostante il divieto fattogli dall'autorità di p. s. di
Crotone di esercitare tale attività e tenere aperto il detto oratorio
senza avere prima ottenuto l'approvazione e l'autorizzazione
governative previste, per l'esercizio di culti acattolici, dalla legge
24 giugno 1929, n. 1159, e dal R. D. 28 febbraio 1930, n. 289".
All'udienza del 30 luglio 1957, la difesa del Rauti chiese che gli
atti fossero rimessi alla Corte costituzionale sostenendo che gli artt.
2 e 3 della legge 24 giugno 1929 e 1 e 2 del R. D. 28 febbraio 1930, n.
289, fossero in contrasto con gli artt. 8, 19 e 20 della Costituzione.
Il Tribunale, con ordinanza in pari data, limitandosi a rilevare "che
la questione non appare manifestamente infondata", ordinò la
sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti a questa Corte.
L'ordinanza fu regolarmente notificata e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica del 7 settembre 1957, n. 223.
Il 26 agosto 1957 si costituiva, con atto di intervento e deduzioni
dell'Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei
Ministri; il 9 settembre si costituiva anche il Rauti a mezzo dell'avv.
Rosapepe, a cui si aggiungevano, come da dichiarazione del Rauti
depositata il 9 aprile 1958, gli avvocati Temolo e Piccardi.
Nelle sue deduzioni, l'Avvocatura eccepisce preliminarmente la
insussistenza, nella specie, della questione di legittimità
costituzionale, considerato che al Rauti era stata contestata la
violazione dell'art. 650 del Cod. pen. (inosservanza di provvedimenti
dell'autorità per ragioni di giustizia, di sicurezza pubblica, ecc.),
che non ha nessuna interferenza con la legge 24 giugno 1929, n. 1159,
in quanto questa legge non contiene sanzioni penali né fa riferimento
alla menzionata norma dell'art. 650 Cod. pen., la quale non può
trovare applicazione nei casi previsti dagli artt. 2 e 3 della legge 24
giugno 1929, n. 1159, e dagli artt. 1 e 2 del R. D. 28 febbraio 1930,
n. 289; e infine perché fra i provvedimenti cui si riferisce l'art.
650 non sono da comprendersi quelli di carattere legislativo o
regolamentare.
Nel merito si sostiene la infondatezza della questione, non
potendosi ravvisare nelle leggi vigenti in materia di culti acattolici
un contrasto con i precetti costituzionali concernenti la libertà dei
culti medesimi, in quanto tali leggi sono soltanto intese a dare una
disciplina alle confessioni religiose diverse da quella cattolica, tale
che non solo non ne lede la libertà, ma pone persino i presupposti di
prerogative e di facilitazioni dirette a garantirne l'esercizio.
Secondo l'Avvocatura, se è vero da una parte che la Costituzione
garantisce anche alle confessioni religiose acattoliche il libero
esercizio del culto e la possibilità di aprire templi ed oratori, non
è men vero che tale facoltà non può essere lasciata completamente
priva di disciplina, e deve al contrario essere regolata per legge,
sulla base di intese fra lo Stato e le rappresentanze delle predette
confessioni, in base all'ultimo comma dell'art. 8 della Costituzione.
Il quale art. 8, sempre secondo l'Avvocatura, col rinviare a tale
disciplina legislativa, assumerebbe un carattere non precettivo, e
lascerebbe pienamente valide frattanto le impugnate disposizioni, senza
di che si verificherebbe una grave carenza legislativa. Le
disposizioni della legge del 1929 e del R. D. del 1930 non sarebbero
per nulla in contrasto col principio della libertà religiosa, né
l'approvazione governativa della nomina di un ministro di culto
acattolico o il riconoscimento dell'esercizio della sua attività
avrebbe interferenza alcuna in ordine alla libertà di professare la
propria fede religiosa; ché anzi l'approvazione della nomina dei
ministri del culto e l'autorizzazione all'apertura dei templi e oratori
apre la via al riconoscimento di facoltà e diritti a favore delle
confessioni acattoliche, quali l'esercizio delle funzioni delegate di
ufficiale dello stato civile per la celebrazione di matrimoni, la
facoltà di ricevere testamenti, la facoltà di richiedere la esenzione
dal servizio militare, e via dicendo.
Nella memoria depositata in cancelleria il 19 settembre 1958, oltre
a ribadire le precedenti deduzioni, l'Avvocatura fa ricorso al concetto
dell'ordine pubblico, le cui esigenze, a suo avviso, importerebbero
limitazioni alla libertà religiosa. A questo proposito la questione
particolare del diritto di professare liberamente la propria fede
religiosa viene inserita nel quadro generale della libertà di
associazione garantita dall'art. 18 della Costituzione; ma è in pari
tempo richiamata la sentenza di questa Corte n. 45 del 1957, che si
riporta al principio della libertà di riunione sancita dall'art. 17.
L'Avvocatura, dopo aver ricordato che l'art. 18 della Costituzione
riconosce ai cittadini il diritto di associarsi liberamente, senza
autorizzazione, purché trattisi "di fini che non siano vietati ai
singoli dalla legge penale", soggiunge che essendo la tutela
dell'ordine pubblico prevista dalla legge penale, sia con ipotesi
delittuose (art. 414 Cod. pen.), sia con ipotesi contravvenzionali
(art. 650 Cod. pen.), sarebbe di tutta evidenza che la libertà possa
subire appunto, per motivi di ordine pubblico, delle limitazioni
pienamente compatibili con la norma del citato art. 18.
Le conclusioni dell'Avvocatura, contenute nel foglio di deduzioni
del 26 agosto 1957, sono le seguenti: "Piaccia alla Corte Ecc.ma
dichiarare, in via principale, non esser luogo a giudizio di
legittimità costituzionale sulla questione sollevata dal Tribunale di
Crotone con la ordinanza del 30 luglio 1957, e, quindi, dichiarare
inammissibile la questione medesima; in via subordinata, dichiarare
infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata con la
citata ordinanza in data 30 luglio 1957 del predetto Tribunale di
Crotone, degli artt. 2 e 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1159, nonché
degli artt. 1 e 2 del R. D. 28 febbraio 1930, n. 289, in relazione
agli artt. 8, 19 e 20 della Costituzione".
Con memoria depositata in cancelleria il 13 settembre 1958 la
difesa del Rauti, in ordine alla eccezione preliminare dell'Avvocatura
generale dello Stato, osserva che allorché il giudice penale deve
pronunciarsi sulla contravvenzione prevista dall'art. 650 Cod. pen.
deve anzitutto considerare se il provvedimento dell'autorità sia stato
legalmente dato per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o
d'igiene. E un ordine sarà legalmente dato se non ferisca il diritto
del cittadino. Se il cittadino intende avvalersi di un suo diritto, e
l'autorità gli oppone che quel diritto non esiste, in quanto la sua
attività in quella direzione è vincolata per legge ad autorizzazioni
o limitazioni; ed il cittadino replica che quella legge è stata
superata dalla Costituzione, che gli ha riconosciuto il diritto alla
libera esplicazione di tale attività; palesemente la questione non si
fonda più sull'art. 650 Cod. pen., ma sul contrasto tra la legge che
secondo la pubblica autorità limitava il diritto del cittadino e la
norma della Costituzione.
Nel merito la difesa sostiene che la questione debba anzitutto e
soprattutto impostarsi sull'art. 17, comma secondo, della Costituzione.
A questo proposito la difesa si riporta alla sentenza del 18 marzo
1957, n. 45, di questa Corte, nella parte in cui essa stabilisce che
quando l'esercizio del culto ha luogo in forma associata, gli artt. 8,
comma primo, e 19 della Costituzione, che sanciscono la piena libertà
dell'esercizio del culto e delle confessioni religiose, devono
ritenersi in un rapporto di evidente coordinazione con l'art. 17, nel
senso che le riunioni a carattere religioso non si sottraggono alla
disciplina generale di tutte le riunioni. Di qui il contrasto fra
l'art. 17 e l'art. 25 della legge di pubblica sicurezza, per la parte
in cui questo implicava l'obbligo del preavviso anche per le riunioni
non pubbliche. Dopo ciò, secondo la difesa, l'amministrazione non si
sarebbe data per vinta; e non potendo colpire attraverso la via del
preavviso, una volta informata che la riunione stia per tenersi, la
vieta invocando ragioni di ordine pubblico. Il che è inammissibile,
perché, a voler seguire il criterio sostenuto dall'Avvocatura, cioè
che una libertà garantita dalla Costituzione possa essere sospesa
invocando ragioni di ordine pubblico, nulla vieterebbe che non solo la
libertà di riunione in luogo aperto al pubblico possa essere menomata,
ma anche la libertà di riunione in luogo privato. Al contrario, posta
dalla Costituzione la norma generale che garantisce il diritto di
riunione in luogo aperto al pubblico senza limitazione di scopi, resta
travolta la norma per cui le riunioni a scopo di culto non possono
tenersi se non in templi che siano stati aperti a seguito di
autorizzazione; e nulla può indurre a ritenere che, di fronte alla
libertà costituzionale di tenere le riunioni, il tempio sia da
considerarsi diverso da qualsiasi luogo aperto al pubblico. Lo stesso
deve dirsi per quanto riguarda il ministro di culto approvato, giacché
se le norme generali non subordinano le riunioni alla esistenza di un
capo o responsabile approvato, non può porsi regola diversa per le
riunioni aventi carattere e finalità religiose.
La difesa del Rauti si riporta oltre che all'art. 17, anche
all'art. 8 della Costituzione, osservando che la libertà per le
confessioni acattoliche di avere templi ed oratori, o di esercitare il
culto in qualsiasi locale che sia possibile procurarsi, fa sicuramente
parte della libertà dell'esercizio del culto. Se al culto cattolico
non occorrono autorizzazioni per aprire chiese o cappelle o per tenere
in esse funzioni religiose, e se l'autorità prefettizia o di pubblica
sicurezza od altra qualsiasi non ha il potere di ordinare la chiusura
di chiese o cappelle o di inibire che vi siano tenute funzioni
religiose, l'art. 8 importa che ordini di tal genere non possano
neppure venire impartiti per la chiusura di templi od oratori
acattolici, o per impedire che si tengano in essi le relative funzioni.
Per ciò che riguarda la mancanza delle intese fra le confessioni
acattoliche e lo Stato ai sensi dell'art. 8 della Costituzione, a parte
ogni considerazione sui motivi per i quali tali intese non sarebbero
finora intervenute, la difesa osserva che esse non hanno punto
carattere limitativo, e tanto meno hanno ad oggetto la materia della
libertà. Le intese si riferiscono alla facoltà data alle confessioni
di organizzarsi secondo propri statuti, facoltà, non obbligo, in
quanto potrebbe anche la confessione affermare di voler essere una
libera organizzazione di credenti, rinunciando a qualsiasi creazione di
rapporti giuridici. Le intese predette potrebbero avere per oggetto
agevolazioni per il riconoscimento della personalità giuridica o di
scuole e di titoli scolastici, la concessione di sussidi, di
concessioni ferroviarie e via dicendo; ma si deve sempre nettamente
escludere che sul terreno della libertà religiosa possa aversi una
differenza fra una confessione che abbia stipulato "intese" ed una che
non ne abbia stipulate.
Circa infine la figura del ministro di culto riconosciuto, la
difesa del Rauti, mentre insiste nel sostenere che un tale ministro di
culto non occorra affatto per ciò che riguarda il libero esercizio di
quelle facoltà che rientrano nella più vasta categoria del diritto di
riunione in luogo aperto al pubblico, indifferenziata, quale che sia lo
scopo della riunione, ammette che ad altri effetti, e precisamente
quelli di cui agli artt. 7 e 12 della legge del 1929 e 7 e 8 del
decreto del 1930, l'istituto dell'approvazione può sussistere. Nega,
sempre fondandosi sull'art. 8, che possa sussistere differenza fra
templi autorizzati e templi non autorizzati.
Si conclude chiedendo alla Corte che dichiari la illegittimità
costituzionale parziale dell'art. 3 della legge 24 giugno 1929, n.
1159, e degli artt. 1 e 2 del R. D. 28 febbraio 1930, n. 289, in quanto
in contrasto con gli artt. 17, 8 e 19 della Costituzione, nel senso che
nessuna autorizzazione può venire richiesta per l'apertura di templi
od oratori e per tenere in essi cerimonie di culto, né può
richiedersi la presenza o l'autorizzazione di un ministro di culto
approvato, sia per l'apertura di templi od oratori, sia per la
celebrazione di cerimonie di culto: né possono intimarsi ordini di
chiusure di templi od oratori né divieti di tenervi cerimonie di
culto.
Considerato in diritto:
La Corte ritiene non fondata la eccezione preliminare proposta
dall'Avvocatura generale dello Stato. Con questa eccezione, formulata
soltanto nelle prime deduzioni, si tenta in sostanza di escludere che
fra l'art. 650 Cod. pen. e le impugnate norme della legge 24 giugno
1929, n. 1159, e del R. D. 28 febbraio 1930, decreto che ha forza di
legge in base all'art. 14 della legge stessa, possa esservi alcuna
possibilità di collegamento o, come si esprime l'Avvocatura, alcuna
"interferenza". Senza soffermarsi a confutare su tale oggetto
argomentazioni che rivelano prima facie la loro infondatezza, come
quella che nega la interferenza in base al fatto che la legge e il
decreto impugnati non prevedono sanzioni penali, si deve rilevare
innanzi tutto che il collegamento che si vorrebbe escludere è posto in
modo esplicito dallo stesso capo di imputazione. Al Rauti infatti si
muove lo specifico addebito di aver disobbedito all'ordine di non
compiere atti del culto pentecostale senza prima avere ottenuto
l'approvazione ed autorizzazione governative "previste dalla legge 24
giugno 1929, n. 1159, e dal R. D. 28 febbraio 1930, n. 289". Ma il
collegamento risulta chiaro in ogni modo da un elemento fondamentale
della fattispecie dell'art. 650, cioè che il provvedimento sia
legalmente dato: locuzione che si riferisce, per concorde opinione,
alla legalità non soltanto formale, ma anche sostanziale del
provvedimento, nel senso che esso non soltanto deve essere dato
dall'autorità competente e nelle forme previste, ma deve altresì
trovare, in una o più norme dell'ordinamento giuridico, il suo titolo
di intrinseca legittimità. Nel caso in esame queste norme sono
appunto l'art. 3 della legge del 1929 e gli artt. 1 e 2 del R. D. del
1930. Contestata la legittimità costituzionale di queste norme,
relative all'approvazione e autorizzazione del cui difetto si fa carico
al Rauti, si viene in pari tempo a contestare la legalità del
provvedimento, e quindi il fondamento della imputazione. Ciò importa
che non è l'art. 650 Cod. pen. a entrare in discussione, bensì la
norma di legge cui fa capo il provvedimento trasgredito, e alla quale
sì deve necessariamente risalire. È da ritenere pertanto che il
Tribunale esattamente abbia nella sua ordinanza impostata la questione
di legittimità costituzionale sul contrasto fra le citate norme della
legge del 1929 e del R. D. del 1930 e gli artt. 8, 19 e 20 della
Costituzione. Si può infine, e solo ad abundantiam, osservare che, se
la tesi dell'Avvocatura dovesse ritenersi esatta, si verrebbe a questo
risultato: che mentre da un lato all'autorità di polizia sarebbe
possibile elevare la contravvenzione prevista dall'art. 650 per
trasgressione a un ordine fondato appunto su quelle norme, sarebbe
dall'altro inibito, a chi abbia interesse a sostenere la illegittimità
dell'ordine, di denunziare il contrasto fra le norme da cui si vuole
che esso tragga fondamento e quelle della Costituzione.
Nel merito la Corte ritiene che il fondamento della decisione sia
tutto nello stabilire con chiarezza la distinzione, da cui si disnodano
poi tutte le conseguenze, fra la libertà di esercizio dei culti
acattolici come pura manifestazione di fede religiosa, e la
organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato.
Questa distinzione, mentre risulta evidente dal punto di vista logico,
trova nettamente fissato il suo positivo fondamento giuridico negli
artt. 8 e 19 della Costituzione. La diversità di contenuto e
significato di tali norme, corrispondente alla predetta distinzione,
riceve la sua conferma, oltre tutto, anche dalla diversa collocazione
di esse: una inserita nei "Principi fondamentali", l'altra nel titolo
dei rapporti civili e, più specificamente, nella parte relativa ai
diritti di libertà. Con l'art. 19 il legislatore costituente
riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa,
in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di
esercitare in privato o in pubblico il culto, col solo e ben
comprensibile, limite che il culto non si estrinsechi in riti contrari
al buon costume. La formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i
suoi termini, essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le
manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e
condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l'apertura di templi
ed oratori e la nomina dei relativi ministri.
Ma se nell'art. 19 è una così netta e ampia dichiarazione della
libertà di esercizio del culto in quanto tale, il legislatore
costituente non ha mancato di considerare le confessioni religiose
anche dal punto di vista, che è del tutto diverso, della loro
organizzazione secondo propri statuti e della disciplina dei loro
rapporti giuridici con lo Stato: il che ha fatto nell'art. 8. Per le
confessioni religiose diverse dalla cattolica questo articolo ha
sancito la libertà di organizzarsi secondo propri statuti, ponendo il
limite, evidente anche senza esplicita dichiarazione, che tali statuti
non contrastino con l'ordinamento giuridico dello Stato; ed ha poi
stabilito nel terzo comma che i rapporti di dette confessioni con lo
Stato sono da regolarsi con leggi, sulla base di intese con le relative
rappresentanze. Ma la istituzione di tali rapporti, essendo diretta ad
assicurare effetti civili agli atti dei ministri del culto, oltre che
agevolazioni di vario genere, riveste, per ciò stesso, carattere di
facoltà e non di obbligo. A tal proposito non si può escludere che
si abbia il caso di una confessione religiosa che tali rapporti con lo
Stato non intenda promuovere, rinunziando a tutto ciò che a suo favore
ne conseguirebbe, e limitandosi al libero esercizio del culto quale è
garantito dalla Costituzione; mentre è da considerare, più
concretamente, il caso di rapporti che si intenda ma che, per una
ragione qualsiasi, non si riesca a regolare; il che, del pari, non può
escludere che, al di fuori e prima di quella concreta disciplina di
rapporti, l'esercizio della fede religiosa possa aver luogo
liberamente, secondo i dettami della Costituzione.
Se poi la facoltà di regolare i rapporti con lo Stato viene
effettivamente esercitata, è evidente che, dalle norme che ne
risultano, così come la confessione religiosa riceve dei vantaggi, del
pari deve subire i limiti che, nell'interesse dello Stato, ad essi
logicamente si riconnettono, limiti che a loro volta devono esser tali
da non violare i diritti già assicurati dalla Costituzione. È
pienamente legittimo pertanto, e rispondente allo spirito della
Costituzione, che allorquando agli atti dei ministri di culti
acattolici e all'apertura dei templi od oratori debbansi riconoscere
effetti giuridici, come, ad esempio, rispettivamente, la efficacia del
matrimonio e la facoltà di far collette all'interno e all'ingresso
degli edifici destinati al culto, la nomina dei ministri di culto e la
istituzione di templi od oratori, a questi effetti e solo a questi
effetti, ricadano sotto la ricognizione e il controllo dello Stato,
mercé i provvedimenti di approvazione e di autorizzazione. Il che
significa anche che, in mancanza delle leggi da emanare ai sensi
dell'art. 8 della Costituzione, siano frattanto da ritenersi valide, e
punto in contrasto con la Costituzione stessa, le norme vigenti, come
quelle impugnate, se e in quanto regolatrici degli effetti civili e non
lesive della libertà di esercizio del culto.
Posto ciò, cadono tutte le argomentazioni che, in vario senso,
l'Avvocatura dello Stato ha prospettato a questa Corte.
Cade innanzi tutto, per le ragioni predette, il criterio generale
al quale in massima l'Avvocatura ha ispirato la sua difesa, cioè di
mantenere insieme unite, per trarne effetti comuni, le due distinte
situazioni ed esigenze, che attengono l'una al libero esercizio del
culto e l'altra alla disciplina giuridica dei rapporti tra le
confessioni religiose e lo Stato.
Vien meno poi l'argomento della asserita carenza legislativa, che
seguirebbe alla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle
impugnate norme. Infatti da un lato il libero esercizio del culto
trova, come già si è detto, riconoscimento e limite nella
Costituzione, in particolare nell'art. 19, con precetti contenenti una
ben chiara e concreta disciplina, dall'altro i rapporti delle
confessioni acattoliche con lo Stato, in difetto di altre norme da
emanarsi a seguito di intese, continuano ad essere regolati dalle norme
vigenti, nella parte che ne rimane in vita, in quanto non importa
lesione della libertà di culto costituzionalmente garantita. E ciò
senza considerare che il potere di questa Corte di dichiarare la
illegittimità costituzionale delle leggi non può trovare ostacolo
nella carenza legislativa che, in ordine a dati rapporti, possa
derivarne; mentre spetta alla saggezza del legislatore, sensibile
all'impulso che naturalmente proviene dalle sentenze di questa Corte,
di eliminarla nel modo più sollecito ed opportuno.
Infondate si rivelano anche le considerazioni relative all'ordine
pubblico, presentate dall'Avvocatura dello Stato, successivamente alle
deduzioni, nella memoria del 14 aprile 1958, e sulle quali, del resto,
non si è insistito nella discussione orale. Senza indugiare nella
confutazione dei diversi e non univoci argomenti svolti nella memoria,
sarà sufficiente ricordare la sentenza n. 45 del 1957 di questa Corte
(richiamata - ma per altro verso - anche dall'Avvocatura), nel punto in
cui rileva doversi ritenere insussistente nel nostro ordinamento
giuridico la regola che ad ogni libertà costituzionale possa
corrispondere un potere di controllo preventivo da parte dell'autorità
di pubblica sicurezza, in ordine ai futuri comportamenti del cittadino.
Il che, come è evidente, non può escludere che sui comportamenti
effettivamente verificatisi cadano, nelle fattispecie previste, le
sanzioni della legge; e su quelli in atto si eserciti, anche ai fini
dell'ordine pubblico, il potere della polizia, entro i limiti
giuridicamente consentiti.
Circa, infine, la osservazione dell'Avvocatura dello Stato secondo
la quale, in mancanza delle intese limitative - che poi non sarebbero
soltanto limitative e non potrebbero esserlo, comunque, nei confronti
delle libertà garantite dalla Costituzione - i culti acattolici
verrebbero ad avere addirittura un trattamento preferenziale di fronte
allo stesso culto cattolico, è da avvertire che siffatto argomento è
estraneo alla questione da decidere, la quale resta sempre imperniata
sui due punti, ben distinti, della libertà dell'esercizio del culto e
della organizzazione dei rapporti fra le confessioni religiose e lo
Stato. D'altra parte, a questo proposito, non è superfluo ricordare
che la religione cattolica, per quanto riguarda la libertà
dell'esercizio del culto, è nettamente garantita dagli artt. 8 e 19
della Costituzione, mentre per ciò che riflette i rapporti della
Chiesa cattolica con lo Stato è ben noto come essi abbiano avuto il
loro regolamento giuridico a mezzo del Concordato.
Venendo ora a considerare, in applicazione di quanto innanzi si è
detto, le norme impugnate nel loro specifico contenuto, è da
escludere, in primo luogo, che possa dirsi in contrasto con le invocate
norme della Costituzione l'art. 3 della legge 24 giugno 1929. I due
commi in cui questo articolo si divide vanno considerati come un tutto
unico, l'uno in funzione dell'altro, sì che l'obbligo di notificare le
nomine dei ministri dei culti acattolici al Ministro competente per
l'approvazione è da ritenersi sancito se e in quanto da tali nomine la
confessione religiosa miri a far dipendere determinati effetti
nell'ambito dell'ordinamento giuridico statale; e la disposizione del
secondo comma, in base alla quale nessun effetto civile può essere
riconosciuto agli atti dei ministri di culto non approvati, vale a
determinare in tal senso il contenuto e lo spirito del primo comma.
Sicché l'art. 3 della legge mentre da una parte lascia impregiudicata
la libera esplicazione del culto (in quanto non esclude la figura del
ministro del culto non approvato, ma esclude soltanto gli effetti
civili degli atti da lui compiuti), viene a trovarsi in logica
correlazione con l'art. 8, nella parte in cui si riferisce alla
disciplina giuridica dei rapporti fra lo Stato e le confessioni
acattoliche.
Per ciò che riguarda l'art. 1 del R. D. 28 febbraio 1930 è da
considerare che, statuendo esso l'obbligo della autorizzazione per
l'apertura di templi ed oratori in modo generale, involge non soltanto
i casi in cui questa autorizzazione sia resa necessaria per il
conseguimento di certi vantaggi, quali, ad esempio, quello di cui
all'art. 4 dello stesso decreto, ma anche quello relativo all'apertura
del tempio in quanto mezzo per una autonoma professione della fede
religiosa, al di fuori dei rapporti con lo Stato. È solo pertanto in
relazione a questo secondo punto che l'articolo va dichiarato
costituzionalmente illegittimo.
L'art. 2 del decreto deve dichiararsi costituzionalmente
illegittimo nella sua totalità, posto che esso sottopone l'esercizio
della facoltà di tenere cerimonie religiose e compiere altri atti di
culto negli edifici aperti al culto alla condizione che la riunione sia
presieduta o autorizzata da un ministro di culto la cui nomina sia
stata approvata dal Ministro competente, condizione che non riguarda
gli effetti civili ed è in contrasto con la libertà ampiamente
garantita dall'art. 19 della Costituzione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
respinta la eccezione pregiudiziale proposta dall'Avvocatura
generale dello Stato;
in riferimento alle norme contenute negli artt. 8 e 19 della
Costituzione, dichiara:
a) non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1159;
b) la illegittimità costituzionale dell'art. 1 del R. D. 28
febbraio 1930, n. 289, in quanto richiede la autorizzazione
governativa per l'apertura di templi od oratori, oltre che per gli
effetti civili, anche per l'esercizio del culto;
c) la illegittimità costituzionale dell'art. 2 dello stesso
decreto 28 febbraio 1930, n. 289.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 novembre 1958.
GAETANO AZZARITI - GIUSEPPE CAPPI -
TOMASO PERASSI - GASPARE AMBROSINI -
ERNESTO BATTAGLINI - MARIO COSATTI -
FRANCESCO PANTALEO GABRIELI -
GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO - ANTONINO
PAPALDO - MARIO BRACCI - NICOLA
JAEGER - GIOVANNI CASSANDRO - BIAGIO
PETROCELLI - ANTONIO MANCA - ALDO
SANDULLI.