Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 14 settembre 2020, iscritta al n. 192 del registro ordinanze 2020, la Corte di assise d’appello di Reggio Calabria ha sollevato questione di legittimità costituzionale «dell’articolo 4 ter l. 144/2000» (recte: art. 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82, recante «Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato», convertito, con modificazioni, nella legge 5 giugno 2000, n. 144), «nella parte in cui non prevede l’applicabilità dell’istituto nell’ipotesi di un soggetto che abbia tempestivamente avanzato richiesta di giudizio abbreviato in appello in un momento che non consentiva ancóra l’accesso al rito, ma era comunque antecedente l’espletamento dell’istruttoria dibattimentale».
Il rimettente sospetta che la denunciata omissione normativa violi l’art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento in danno di colui che «nonostante avesse tempestivamente avanzato richiesta di essere giudicato con rito abbreviato, ossia antecedentemente all’inizio dell’istruttoria dibattimentale, abbia poi visto dipendere la decisione da un’evoluzione legislativa che lo ha visto subire un trattamento sostanziale deteriore, in quanto ancorata ad una circostanza, ossia il rapido espletamento della riaperta istruttoria, con tutta evidenza sottratta ad ogni sua determinazione».
1.1.– Il giudice a quo espone di dover decidere sull’incidente di esecuzione promosso da P. P., il quale, riportate due distinte condanne all’ergastolo per delitti di omicidio unificati dal vincolo della continuazione, l’una già rideterminata alla pena di anni trenta di reclusione, ha chiesto rideterminarsi anche l’altra in pena temporanea, per aver egli richiesto, durante il relativo giudizio di appello, l’ammissione al rito abbreviato, con una prima istanza del 14 gennaio 2000, respinta appunto perché il giudizio pendeva in grado di appello, e con un’ulteriore istanza del 12 giugno 2000, respinta ai sensi della sopravvenuta norma oggetto di censura, essendosi nel frattempo conclusa la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, termine preclusivo fissato dalla norma stessa.
Sulla ragionevolezza di questo termine il rimettente assume che «anche nel caso di istruttoria ormai conclusa, ossia quando la finalità deflattiva del rito sembrerebbe oramai frustrata, comunque l’opzione del giudizio abbreviato assicuri […] al processo una serie di benefici di non poco momento, se si pone mente alla sanatoria per accettazione delle nullità non assolute, il superamento delle questioni di competenza e l’irrilevanza delle questioni di inutilizzabilità non patologica».
1.2.– Il giudice a quo esclude di poter operare un’interpretazione adeguatrice, e segnatamente di poter applicare i principi a tutela dell’imputato ammesso al rito abbreviato enunciati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, grande camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, ciò appunto perché P. P., pur avendolo chiesto, non è stato mai ammesso a quel rito.
La rilevanza della questione sarebbe assicurata dalla circostanza che, qualora anche la seconda pena dell’ergastolo fosse ridotta a quella di anni trenta di reclusione in virtù dell’applicabilità del rito abbreviato, P. P. dovrebbe scontare due condanne entrambe a pene temporanee, «in relazione alle quali tuttavia, in virtù della riconosciuta continuazione fra i reati, non opererebbe il criterio previsto dall’art. 73 comma 2 cod. pen. con una nuova irrogazione della pena dell’ergastolo, bensì un calcolo di pena che dovrebbe considerare una pena base di anni trenta di reclusione, da aumentarsi di una quota di sanzione temporanea, così conducendo pur sempre all’irrogazione di una pena contenuta entro il limite di anni trenta, in virtù del criterio moderatore statuito dall’art. 78 cod. pen.».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi la questione inammissibile o non fondata.
L’interveniente assume che la norma censurata non abbia natura sostanziale, bensì processuale, e che essa non sia applicabile in fase esecutiva, ma solo nel giudizio di cognizione; in ogni caso, poiché le istanze di ammissione al rito abbreviato formulate da P. P. erano entrambe inammissibili per tardività rispetto ai termini processuali vigenti ratione temporis, sarebbe infondata la questione inerente alla comparazione della sua posizione con quella dell’imputato che abbia goduto della riduzione di pena per aver chiesto di accedere al rito speciale nell’osservanza dei termini di legge.
3.– Si è costituito in giudizio P. P., che ha chiesto accogliersi la questione, pur ritenendo che il giudice a quo avrebbe potuto rideterminare la pena mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata, la quale avesse dato rilevanza all’istanza di ammissione al rito abbreviato formulata sin dall’inizio del giudizio di appello.
Ad avviso della parte, oltre a determinare un’ingiustificata disparità di trattamento lesiva dell’art. 3 Cost., l’omessa previsione nei casi di specie di un meccanismo di rimessione in termini per l’accesso al rito abbreviato violerebbe anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, attesa l’iniquità di una disciplina processuale che «nel caso di rimozione di un ostacolo normativo all’accesso ad un rito speciale, non ne consenta la fruizione all’imputato che avesse tempestivamente formulato in precedenza la relativa richiesta, vedendola respinta proprio a causa dell’ostacolo normativo rimosso».
Considerato in diritto
1.– La Corte di assise d’appello di Reggio Calabria (reg. ord. n. 192 del 2020) ha sollevato questione di legittimità costituzionale «dell’articolo 4 ter l. 144/2000» (recte: art. 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82, recante «Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato», convertito, con modificazioni, nella legge 5 giugno 2000, n. 144), «nella parte in cui non prevede l’applicabilità dell’istituto nell’ipotesi di un soggetto che abbia tempestivamente avanzato richiesta di giudizio abbreviato in appello in un momento che non consentiva ancóra l’accesso al rito, ma era comunque antecedente l’espletamento dell’istruttoria dibattimentale», per violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Il giudice a quo espone di dover decidere sull’incidente di esecuzione promosso da P. P., il quale, riportate due distinte condanne all’ergastolo per delitti di omicidio unificati dal vincolo della continuazione, l’una già rideterminata alla pena di anni trenta di reclusione, ha chiesto rideterminarsi anche l’altra in pena temporanea, per aver egli richiesto, durante il relativo giudizio di appello, l’ammissione al rito abbreviato, con una prima istanza del 14 gennaio 2000, respinta appunto per la pendenza del giudizio in grado di appello, e con un’ulteriore istanza del 12 giugno 2000, respinta ai sensi della sopravvenuta norma oggetto di censura, essendosi nel frattempo conclusa la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, termine preclusivo fissato dalla norma stessa.
Ad avviso del rimettente, l’esito di questa concatenazione di eventi, per cui P. P. non ha potuto accedere al rito abbreviato a motivo della casuale evenienza del rapido esaurimento dell’istruzione dibattimentale riaperta in appello, metterebbe in luce l’irragionevolezza della norma censurata, per la disparità di trattamento che essa può accidentalmente determinare tra un imputato e l’altro.
2.– Intervenuto in giudizio tramite l’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto dichiararsi la questione inammissibile o non fondata.
La norma censurata non avrebbe natura sostanziale, ma processuale, e non sarebbe applicabile in fase esecutiva, ma solo nel giudizio di cognizione; in ogni caso, poiché le istanze di ammissione al rito abbreviato formulate da P. P. erano entrambe inammissibili per tardività rispetto ai termini processuali vigenti ratione temporis, sarebbe infondata la questione inerente alla comparazione della sua posizione con quella dell’imputato che abbia goduto della riduzione di pena per aver chiesto di accedere al rito speciale nell’osservanza dei termini di legge.
3.– Costituitosi in giudizio, P. P. ha chiesto dichiararsi costituzionalmente illegittima la disposizione censurata, che, a suo avviso, oltre a determinare un’ingiustificata disparità di trattamento lesiva dell’art. 3 Cost., violerebbe anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
4.– In via preliminare, deve rilevarsi che il riferimento al parametro convenzionale operato dalla parte non è idoneo ad ampliare il thema decidendum, come circoscritto dal rimettente riguardo al solo parametro interno di cui all’art. 3 Cost.
Per giurisprudenza costante di questa Corte, infatti, l’oggetto del giudizio incidentale di legittimità costituzionale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nell’ordinanza di rimessione, non potendo essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di illegittimità costituzionale dedotti dalle parti, sia eccepiti e non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 109, n. 49 e n. 35 del 2021, n. 186 e n. 165 del 2020, n. 78 e n. 7 del 2019, n. 194 e n. 161 del 2018).
5.– La questione sollevata dalla Corte di assise d’appello di Reggio Calabria è inammissibile, in quanto si pone oltre i limiti nei quali il giudice dell’esecuzione penale è legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale rispetto a norme applicate dal giudice della cognizione.
6.– Un excursus normativo è indispensabile per l’esatta comprensione dei termini della questione.
6.1.– Prima di ogni altra cosa, è opportuno chiarire che la fattispecie in scrutinio non è interessata ratione temporis dall’applicazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 12 aprile 2019, n. 33 (Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo), il quale ha nuovamente precluso l’accesso al rito abbreviato per gli imputati di delitti puniti con l’ergastolo, tramite l’inserimento del comma 1-bis dell’art. 438 del codice di procedura penale («[n]on è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo»).
Invero, come stabilisce l’art. 5, comma 1, della stessa legge n. 33 del 2019, la nuova disposizione si applica soltanto «ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge».
6.2.– Secondo la disciplina originaria del codice, nella condanna pronunciata in abbreviato «[a]lla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta» (art. 442, comma 2, cod. proc. pen.), disposizione che evidenziava la sicura ammissibilità del rito speciale anche per i reati puniti con la pena perpetua.
Con la sentenza n. 176 del 1991, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima tale disposizione per eccesso di delega, con l’effetto di rendere inapplicabile il giudizio abbreviato nei processi relativi ai delitti puniti con l’ergastolo.
6.3.– L’art. 30, comma 1, lettera b), della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense) – nota come “legge Carotti” – ha ripristinato la formulazione originaria dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., sicché il rito abbreviato è tornato ad essere accessibile anche per gli imputati di reati puniti con la pena dell’ergastolo.
Entrata in vigore il 2 gennaio 2000, la “legge Carotti” ha sollevato un problema intertemporale per coloro i quali, essendo imputati di un reato punito con l’ergastolo, non avevano potuto richiedere il giudizio abbreviato in primo grado, ciò non essendo allora consentito per la sanzione applicabile ai reati contestati, ed erano quindi decaduti dalla reintrodotta facoltà.
6.4.– Per far fronte a tale problema di diritto transitorio, in sede di conversione del d.l. n. 82 del 2000, la legge n. 144 del 2000, entrata in vigore l’8 giugno 2000, ha introdotto l’art. 4-ter, norma oggi censurata, che ha previsto un’ampia rimessione in termini.
Il comma 2 del menzionato art. 4-ter ha stabilito infatti che «[n]ei processi penali per reati puniti con la pena dell’ergastolo, in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e nei quali prima della data di entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479, era scaduto il termine per la proposizione della richiesta di giudizio abbreviato, l’imputato, nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, può chiedere che il processo, ai fini di cui all’articolo 442, comma 2, del codice di procedura penale, sia immediatamente definito, anche sulla base degli atti contenuti nel fascicolo di cui all’articolo 416, comma 2, del medesimo codice».
Il comma 3 del medesimo art. 4-ter ha tuttavia precisato che «[l]a richiesta di cui al comma 2 è ammessa se è presentata: a) nel giudizio di primo grado prima della conclusione dell’istruzione dibattimentale; b) nel giudizio di appello, qualora sia stata disposta la rinnovazione dell’istruzione ai sensi dell’articolo 603 del codice di procedura penale, prima della conclusione della istruzione stessa; c) nel giudizio di rinvio, se ricorrono le condizioni di cui alle lettere a) e b)».
6.4.1.– La rimessione in termini è stata concessa dall’art. 4-ter, comma 1, del d.l. n. 82 del 2000, come convertito, anche agli imputati di reati puniti con pena diversa dall’ergastolo, che fossero decaduti dalla facoltà di chiedere l’abbreviato, ma a loro si è posto un limite temporale più stringente, cioè che non fosse «ancora iniziata l’istruzione dibattimentale alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
La diversità di trattamento è stata censurata in via incidentale di fronte a questa Corte per violazione dell’art. 3 Cost., quale espressione di un «irragionevole privilegio» per gli imputati di reati puniti con l’ergastolo, ai quali soltanto è stata concessa la possibilità di chiedere il rito abbreviato nonostante l’istruzione dibattimentale fosse già in corso, purché non ancora conclusa.
6.4.2.– La censura è stata dichiarata manifestamente infondata dall’ordinanza n. 99 del 2001 (poi confermata dall’ordinanza n. 222 del 2002), in base alla considerazione che la diversità di trattamento riflette la peculiare situazione nella quale versavano gli imputati di reati puniti con l’ergastolo anteriormente alla legge n. 479 del 1999, allorquando era loro radicalmente precluso l’accesso al rito alternativo.
Nei loro confronti – afferma l’ordinanza n. 99 del 2001 – «si è prevista una “rimessione in termini” particolarmente ampia (consentendo la proposizione dell’istanza, nel giudizio di primo grado, prima della conclusione dell’istruzione dibattimentale ed, entro tale limite, anche nel giudizio di appello, qualora sia stata disposta la rinnovazione dell’istruzione); nei confronti di tutti gli altri imputati – che avrebbero potuto formulare la richiesta anche anteriormente, sia pure con un diverso regime normativo – si è invece stabilita una semplice estensione dell’ordinario termine di proposizione, fino ad uno stadio compatibile con la funzione alternativa al dibattimento che il rito abbreviato è istituzionalmente chiamato a svolgere (donde il limite segnato dall’inizio dell’istruttoria dibattimentale)».
7.– Tenuto presente il quadro normativo e giurisprudenziale ora richiamato, e sulla scorta di quanto espone l’ordinanza di rimessione, può dunque intendersi la singolare vicenda processuale all’origine della questione in scrutinio.
Prima dell’entrata in vigore della “legge Carotti”, P. P., imputato di un reato punito con l’ergastolo, non poteva chiedere il rito abbreviato, per effetto della sentenza n. 176 del 1991, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittima la previsione codicistica della relativa facoltà.
Entrata in vigore quella legge il 2 gennaio 2000, egli non poteva chiedere il rito abbreviato, poiché il giudizio si trovava ormai in grado di appello, e la sua richiesta del 14 gennaio 2000 è stata infatti, per questo motivo, respinta.
Entrato in vigore l’8 giugno 2000 l’art. 4-ter del d.l. n. 82 del 2000, come convertito, P. P., pur avendo immediatamente reiterato l’istanza di abbreviato, già in data 12 giugno 2000, si è visto precluso l’accesso al rito speciale, in quanto, nell’arco temporale tra il gennaio e il giugno 2000, non soltanto era stata disposta, ma si era finanche conclusa la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603 cod. proc. pen., col passaggio alla discussione finale.
8.– Nell’illustrare la sequenza degli eventi e la conseguente preclusione dell’accesso al rito abbreviato, a suo avviso rivelatrice di una disparità di trattamento lesiva dell’art. 3 Cost., la Corte di assise d’appello di Reggio Calabria, nella propria ordinanza di rimessione, «non disconosce che analoga questione di costituzionalità era stata già esaminata e rigettata in sede di merito».
Non soltanto, dunque, il giudice della cognizione ha applicato la norma oggi censurata con un provvedimento impugnabile (e, in concreto, impugnato) nella successiva fase del processo di cognizione, ma egli ha anche delibato, con esito negativo, la medesima questione di legittimità costituzionale ora riproposta dal giudice dell’esecuzione.
In tal modo si è determinata un’inammissibile sovrapposizione di valutazioni, le quali, già fisiologicamente compiute dal giudice della cognizione, sono state ripercorse dal giudice dell’esecuzione, in difetto di un qualunque fatto esterno o sopravvenuto costituzionalmente rilevante, idoneo a giustificare una simile reiterazione.
9.– Com’è noto, gli obblighi conformativi dell’ordinamento interno scaturiti dalla pronuncia della Corte europea dei diritti dell'uomo, grande camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, hanno portato questa Corte a statuire, nella sentenza n. 210 del 2013, che il giudice dell’esecuzione penale può sollevare in riferimento al parametro convenzionale la questione di legittimità costituzionale di una norma interna già applicata dal giudice della cognizione, qualora questa si frapponga all’adempimento di simili obblighi conformativi, quando «si debba applicare una decisione della Corte europea in materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo, ma possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva».
La sentenza n. 210 del 2013 ha tuttavia escluso che il giudice dell’esecuzione sia legittimato a sollevare un’analoga questione sulla base del parametro interno di cui all’art. 3 Cost.
10.– La disposizione oggetto dell’attuale scrutinio è già stata sottoposta all’esame di questa Corte, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non ha riaperto i termini per la richiesta di giudizio abbreviato in favore dell’imputato il cui processo pendesse innanzi alla Corte di cassazione.
Con l’ordinanza n. 235 del 2013, tali questioni sono state dichiarate manifestamente inammissibili, quanto al parametro interno di cui all’art. 3 Cost., perché esso non è pertinente alla necessità di conformare l’ordinamento nazionale ad una sentenza della Corte europea; e quanto al parametro convenzionale, perché la fattispecie oggetto del giudizio a quo era estranea alla ratio della sentenza Scoppola contro Italia, atteso che l’imputato non era stato ammesso al giudizio abbreviato in applicazione di una norma di natura processuale, attinente invero ai termini di proposizione della relativa istanza, e peraltro giustificata dalla funzione istituzionale del rito alternativo, «che assicura all’imputato una riduzione di pena, nel caso di condanna, quale “contropartita” per la sua rinuncia alla garanzia della formazione della prova in contraddittorio, in quanto idonea a determinare un significativo risparmio di energie processuali».
Il giudice dell’esecuzione penale – così ancora l’ordinanza n. 235 del 2013 – non ha alcun titolo «per porre in discussione, in sede di incidente di esecuzione, la legittimità costituzionale di una norma che, quale quella sottoposta a scrutinio, attiene al processo di cognizione e, più specificamente, al giudizio di cassazione», nell’ambito del quale soltanto la questione medesima sarebbe stata rilevante.
11.– L’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice dell’esecuzione penale in riferimento all’art. 3 Cost. è stata dichiarata anche dalla sentenza n. 57 del 2016, nella quale si rammenta che, ove non ricorra l’eccezione di matrice convenzionale, torna a valere la considerazione di sistema per cui il procedimento esecutivo «è finalizzato all’esecuzione di un provvedimento e non certo alla verifica della legittimità costituzionale delle norme in base alle quali il titolo si è formato e rispetto alle quali l’imputato ha già avuto la facoltà di eccepire l’illegittimità nel processo di cognizione».
In senso analogo, già la sentenza n. 100 del 2015 aveva dichiarato la manifesta inammissibilità della questione ex art. 3 Cost. sollevata dal giudice dell’esecuzione penale, appunto perché, tolta l’eccezione di fonte convenzionale, «non è consentito sollevare nel procedimento di esecuzione un incidente di legittimità costituzionale concernente una norma applicata nel giudizio di cognizione (la questione avrebbe dovuto essere, infatti, proposta nell’ambito di quest’ultimo)».
12.– In un concorrente ordine di valutazioni, l’Avvocatura generale insiste sulla natura processuale della norma censurata, qualificazione che non appare tuttavia determinante in senso assoluto, non potendosi invero disconoscere i potenziali effetti sostanziali connessi alla riduzione di pena spettante per la celebrazione del rito alternativo.
Nella sentenza n. 32 del 2020, questa Corte ha osservato, con particolare riferimento al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., che lo statuto costituzionale di garanzia non può non valere anche rispetto alle norme collocate nel codice di procedura penale, allorché incidano direttamente sulla qualità e quantità della pena in concreto applicabile al condannato.
In senso analogo, con specifico riguardo al giudizio abbreviato, la sentenza n. 260 del 2020, a proposito dell’art. 5 della legge n. 33 del 2019 – il quale, in deroga al principio tempus regit actum, ha circoscritto il nuovo divieto di rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo «ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge» –, ha affermato che anche una disciplina limitativa dell’accesso al rito alternativo, pur incidendo direttamente su regole processuali, può avere un’immediata ricaduta sulla pena applicabile in caso di condanna, dovendo allora soggiacere ai principi di garanzia vigenti in materia di diritto penale sostanziale.
12.1.– Più ancora che la natura processuale della norma censurata, quindi, ai fini del giudizio di inammissibilità dell’odierna questione è determinante la considerazione che la norma stessa abbia trovato puntuale applicazione nel giudizio di cognizione, con provvedimento ordinariamente impugnabile, ed effettivamente impugnato, e che nel medesimo giudizio di cognizione sia stata già sollevata, e negativamente delibata, la stessa questione di legittimità costituzionale che il giudice dell’esecuzione ripropone adesso, senza che alcun fatto esterno, né sopravvenienza rilevante, possano giustificare la reiterazione.
13.– Come questa Corte ha avuto modo di ribadire nella sentenza n. 68 del 2021 –la quale, in accoglimento delle questioni sollevate nel corso di un incidente di esecuzione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) – il principio di legalità costituzionale della pena (e delle sanzioni amministrative “convenzionalmente penali”) prevale sulle esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, a presidio delle quali è posto l’istituto del giudicato.
Se, quindi, in linea generale è precluso al giudice dell’esecuzione penale sollevare questioni di legittimità costituzionale delle norme applicate dal giudice della cognizione, tuttavia ciò è possibile per effetto di una sopravvenienza costituzionalmente rilevante – qual è in modo paradigmatico una sentenza che attivi l’obbligo conformativo di cui all’art. 46 CEDU – che abbia determinato un’alterazione della sequenza tra cognizione ed esecuzione, in difetto della quale l’intervento “a ritroso” del giudice dell’esecuzione non avrebbe giustificazione alcuna.
Nel caso che ha dato luogo alla sentenza n. 68 del 2021, in particolare, la legittimazione del giudice dell’esecuzione è stata determinata dalla sopravvenienza della sentenza n. 88 del 2019, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del meccanismo di applicazione automatica della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, nei casi di condanna o di patteggiamento della pena per i reati di omicidio stradale e di lesioni personali stradali gravi o gravissime.
14.– In conclusione, la questione deve essere dichiarata inammissibile perché il giudice dell’esecuzione non era legittimato a sollevarla in una fattispecie che egli stesso afferma essere diversa da quelle di cui alla richiamata decisione della Corte EDU e alla sentenza di questa Corte n. 210 del 2013, e rispetto alla quale egli neppure prospetta sopravvenienze costituzionalmente rilevanti idonee ad incidere sulla legalità della pena in corso di esecuzione.