Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza-ricorso depositata il 29 gennaio 2016 (d’ora in avanti: ricorso), il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione del dibattimento penale, ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, in relazione alla deliberazione del 16 settembre 2015 (Atti Senato, XVII legislatura, Doc. IV-ter, n. 4), con la quale l’Assemblea ha affermato che «il fatto, ai sensi dell’articolo 3 del decreto-legge n. 122 del 1993, convertito dalla legge n. 205 del 1993», per il quale pende giudizio penale davanti al Tribunale ricorrente, relativo alle dichiarazioni rese dal senatore Roberto Calderoli nei confronti dell’allora Ministro per l’integrazione, onorevole Cécile Kyenge Kashetu, concerne opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, come tali insindacabili ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.
Il ricorrente premette di essere investito del procedimento penale nei confronti del senatore Roberto Calderoli, imputato del reato di diffamazione per aver offeso l’onore e il decoro dell’onorevole Kyenge con frasi pronunciate nel corso di un comizio tenuto «alla presenza di una vasta platea di circa 1.500 spettatori», nell’ambito della «festa indetta dalla Lega Nord» a Treviglio il 13 luglio 2013, e poi ampiamente diffuse da organi di stampa a tiratura nazionale. Al senatore Calderoli si addebita, in particolare, di aver affermato che l’onorevole Kyenge «sarebbe un ottimo Ministro, […] ma dovrebbe esserlo in Congo non in Italia, perché se c’è […] bisogno di un Ministro per le pari opportunità per l’integrazione, c’è bisogno là, perché […] se vedono passare un bianco là gli sparano», attribuendo, altresì, alla stessa onorevole Kyenge «sembianze di orango», tali da lasciare «sconvolto» il dichiarante nel vederla comparire sul sito internet del Governo italiano. Con le aggravanti di aver commesso il fatto con un mezzo particolare di pubblicità, quale il comizio (art. 595, terzo comma, del codice penale), e per finalità di discriminazione razziale (art. 3 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, recante «Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa», convertito, con modificazioni, in legge 25 giugno 1993, n. 205).
Il Tribunale ordinario di Bergamo riferisce che, non ravvisata «l’evidenza del collegamento funzionale tra le dichiarazioni dell’imputato e la sua attività politica», aveva disposto «l’immediata trasmissione degli atti al Senato della Repubblica» ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato). Il Senato della Repubblica – prosegue ancora il ricorrente – a seguito di votazioni per parti separate, nella seduta del 16 settembre 2015, «esprimeva voto favorevole alla relazione della Giunta [delle elezioni e delle immunità parlamentari] sull’insindacabilità del fatto ai sensi dell’art. 3 del decreto-legge n. 122 del 1993, e voto contrario sull’insindacabilità del fatto» ai sensi dell’art. 595, terzo comma, cod. pen.
1.1.– Tanto premesso, il Tribunale ricorrente solleva conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato «sotto un duplice profilo».
Sotto un primo aspetto, il ricorrente afferma che compito delle Camere, ai sensi degli artt. 68, primo comma, Cost. e 4 della legge n. 140 del 2003, è esclusivamente quello di valutare la sussistenza o non del nesso tra opinioni espresse dal parlamentare ed esercizio delle relative funzioni, mentre sarebbe riservata alla giurisdizione la «qualificazione giuridica del fatto». Il Senato della Repubblica, ritenendo la sindacabilità della diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, terzo comma, cod. pen., e l’insindacabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 3 del d.l. n. 122 del 1993, avrebbe invece invaso un «settore riservato alla giurisdizione»: avrebbe infatti «apprezzato non un fatto, naturalisticamente unitario, ma la sua qualificazione giuridica», con la conseguenza che il Tribunale si troverebbe a giudicare «su un fatto diversamente qualificato rispetto a quello contestato dal Pubblico Ministero».
Sotto un secondo profilo, il giudice bergamasco assume che le dichiarazioni oggetto del procedimento penale non sarebbero coperte dalla guarentigia di cui all’art. 68, primo comma, Cost. – come, invece, ritenuto dal Senato della Repubblica – non avendo esse un contenuto sostanzialmente identico a quello delle opinioni espresse nei due atti di sindacato ispettivo richiamati nella relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari (atto n. 4-00166 del 14 maggio 2013 e atto n. 4-00324 del 6 giugno 2013): atti nei quali erano state mosse critiche alle dichiarazioni del Ministro Kyenge, secondo le quali la «clandestinità» costituirebbe un «non reato», rilevando come esse rischiassero di tradursi in una «istigazione a delinquere» nei confronti degli immigrati, «in nome della rivendicazione di un diritto inesistente».
Per un verso, infatti, l’assimilazione di una signora di colore a un orango giustificherebbe, comunque sia, «in astratto la contestazione della natura razzista dell’insulto», escludendone ogni possibile collegamento con l’attività parlamentare.
Per un altro, non sarebbe ravvisabile alcun collegamento tra simili espressioni e «il contenuto delle problematiche politiche in tema di immigrazione, fenomeno che tra l’altro non riguarda solamente soggetti di colore».
1.2.– Ad avviso del ricorrente, infine, sussisterebbero sia i presupposti soggettivi del conflitto – essendo il Tribunale «organo competente a decidere, nell’ambito delle funzioni giurisdizionali attribuite, sull’asserita illiceità delle condotte oggetto di contestazione in sede penale» – sia i presupposti oggettivi, discutendosi, da un lato, della sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost. e, dall’altro, della «lesione di attribuzioni giurisdizionali costituzionalmente garantite».
2.– Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con l’ordinanza n. 139 del 2016.
3.– Il Senato della Repubblica, con atto depositato l’11 agosto 2016, si è costituito in giudizio esclusivamente per eccepire l’improcedibilità del conflitto, «senza accettare il contraddittorio nel merito, al solo fine di contestare in radice l’instaurazione del relativo rapporto processuale a causa dell’inesistenza della notificazione degli atti introduttivi», eseguita a mezzo della polizia giudiziaria.
Questa Corte, con ordinanza n. 101 del 2017, ha reputato, «tenuto conto anche della natura del giudizio per conflitto di attribuzione e degli interessi che in esso vengono fatti valere», che la notificazione eseguita nei giudizi costituzionali a mezzo della polizia giudiziaria debba considerarsi «nulla e non già inesistente, in quanto attuata con modalità non totalmente avulse dal modello legale contemplato dall’ordinamento, con conseguente sanabilità del vizio». Tuttavia, in considerazione della peculiarità e della novità della questione, nonché del fatto che il Senato della Repubblica si era costituito al solo fine di eccepire l’asserita inesistenza della notificazione, ha disposto la rinnovazione della notificazione, da parte del ricorrente Tribunale di Bergamo, del ricorso e delle anzidette ordinanze di questa Corte.
4.– Con ordinanza letta in udienza e allegata alla ordinanza n. 101 del 2017, questa Corte ha dichiarato inammissibile, perché tardivo, l’intervento in giudizio del senatore Calderoli.
5.– Rinnovata il 25 maggio 2017 la notificazione dei predetti atti, depositati il successivo 12 giugno, si è novamente costituito in giudizio il Senato della Repubblica in data 27 giugno 2017, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, comunque sia, non fondato.
5.1.– Ad avviso del resistente, il ricorso sarebbe inammissibile in rapporto ad entrambi i denunciati profili di interferenza della delibera censurata con le attribuzioni del potere giurisdizionale.
Quanto al primo, relativo al preteso intervento del Senato della Repubblica sulla qualificazione giuridica del fatto contestato al senatore Calderoli, il resistente assume che il Tribunale ordinario di Bergamo si troverebbe «in una posizione non diversa da quella in cui si trova qualsivoglia autorità giurisdizionale» nei cui confronti una delle Camere faccia valere la prerogativa dell’insindacabilità. Ove, infatti, ritenga che le dichiarazioni per cui si procede integrino la mera diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, terzo comma, cod. pen., il Tribunale ricorrente non rinverrebbe alcun ostacolo all’esercizio della propria funzione giurisdizionale nella delibera parlamentare, con conseguente difetto di interesse a promuovere il conflitto. Di contro, ove ritenga che «la fattispecie debba essere apprezzata ai sensi della previsione di cui all’art. 3 del d.l. n. 122 del 1993», la delibera varrebbe come affermazione che l’opinione è stata espressa nell’esercizio della funzione parlamentare e, dunque, coperta dalla garanzia dell’insindacabilità: nel qual caso il conflitto si presenterebbe «nella forma consueta ed ordinaria della verifica della sussistenza del nesso fra dichiarazione e funzioni parlamentari».
Con riferimento, poi, al secondo profilo di interferenza – relativo alla presunta assenza del suddetto nesso – il Senato della Repubblica rammenta come, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, sia «onere del ricorrente riportare in modo esaustivo il contenuto delle dichiarazioni in assunto lesive» (è richiamata la sentenza n. 334 del 2011), al fine di consentire alla Corte costituzionale di valutare se l’opinione espressa extra moenia «sia complessivamente riconducibile a quella già consegnata nell’atto parlamentare». Tale onere non sarebbe stato assolto dal ricorrente, essendosi il medesimo limitato a una «pedissequa trascrizione del capo di imputazione […] consistente, in particolare, di una mera estrapolazione di poche parole dal contesto di una dichiarazione del parlamentare che, nel caso di specie, ha dato luogo ad un articolato intervento nel corso di un comizio». Risulterebbe, di conseguenza, pregiudicata la possibilità di verificare se le dichiarazioni per cui si procede in sede penale siano riconducibili all’esercizio delle funzioni parlamentari.
5.2.– Nel merito, la difesa del Senato della Repubblica afferma che «vale il riferimento agli atti tipici della funzione compiuti dal Senatore Calderoli ed indicati nella relazione della Giunta per le autorizzazioni, approvata dal Senato con la delibera di insindacabilità».
6.– Con memoria depositata il 18 dicembre 2017, il resistente ha insistito per l’accoglimento della seconda delle riferite eccezioni di inammissibilità.
Secondo la difesa del Senato della Repubblica, la rappresentanza della Nazione che ogni parlamentare esercita ai sensi dell’art. 67 Cost. sarebbe caratterizzata da «ambivalenza». Per un verso, significherebbe «esercizio della sovranità nazionale nella sua unità ed indivisibilità», cui si collega ogni atto parlamentare tipico compiuto dal parlamentare, perché preordinato all’espressione dell’Assemblea. Per altro verso, implicherebbe una «relazione diretta e veritiera con i titolari della sovranità che il parlamentare non possiede ma solo esercita». Il parlamentare, in questa prospettiva, sarebbe legato da un «rapporto reale» con i titolari della sovranità e sarebbe responsabile per il proprio mandato elettorale, per quanto non vincolante, nei confronti di coloro che lo scelgono «come membro della Camera rappresentativa».
Questo «duplice valore del mandato parlamentare» troverebbe conferma, a parere del resistente, nella giurisprudenza costituzionale, la quale sarebbe particolarmente attenta a tutelare, «sotto il profilo dell’insindacabilità, il versante rivolto all’esercizio indipendente, da parte dell’eletto, dei suoi poteri formali di governo». A tali fini, la giurisprudenza della Corte costituzionale avrebbe evitato che atti contemplati dal diritto parlamentare possano essere forieri di responsabilità giuridica per il parlamentare che li adotti, ma avrebbe lasciato scoperti quegli atti «con cui il parlamentare mantiene vivo nella sua concretezza il rapporto con gli elettori, al fine di porli in condizione di conoscere e valutare il suo operato e quindi di attivare quella forma di responsabilità che è tramite essenziale dell’inveramento della sovranità popolare».
Anche tali atti non tipici dovrebbero, allora, essere coperti da insindacabilità: in detti casi, la verifica sulla sussistenza del nesso funzionale dovrebbe incentrarsi sul merito delle opinioni espresse, valutando se queste possano «sensatamente» collegarsi all’esercizio delle funzioni parlamentari.
Così ricostruita la prerogativa di cui all’art. 68, primo comma, Cost., risulterebbe evidente, a parere della difesa del resistente, l’inammissibilità del ricorso: il Tribunale ordinario di Bergamo, infatti, al fine di consentire alla Corte costituzionale di valutare l’attinenza del discorso del senatore Calderoli all’esercizio delle funzioni parlamentari, avrebbe dovuto indicare specificamente l’oggetto dell’intervento pubblico nel corso del quale sono state pronunciate le frasi per cui si procede penalmente. Invece, il ricorrente ha soltanto riprodotto il capo d’imputazione, così precludendo la verifica della riconducibilità alle funzioni parlamentari «della complessiva posizione assunta nel caso dall’interessato in un contesto di diretta interlocuzione con l’elettorato».
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione del dibattimento penale, ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, in ordine alla deliberazione del 16 settembre 2015 (Atti Senato, XVII legislatura, Doc. IV-ter, n. 4), con la quale l’Assemblea ha affermato che «il fatto, ai sensi dell’articolo 3 del decreto-legge n. 122 del 1993, convertito dalla legge n. 205 del 1993», per il quale pende giudizio penale davanti al Tribunale ricorrente, relativo alle dichiarazioni rese dal senatore Roberto Calderoli nei confronti dell’allora Ministro per l’integrazione, onorevole Cécile Kyenge Kashetu, concerne opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, come tali insindacabili ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.
Il Tribunale ricorrente premette che il senatore Calderoli è imputato del reato di diffamazione aggravata, per aver offeso l’onore e il decoro dell’onorevole Kyenge mediante un mezzo di pubblicità, quale il comizio (art. 595, terzo comma, del codice penale), e per finalità di discriminazione razziale (art. 3 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, recante «Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa», convertito, con modificazioni, in legge 25 giugno 1993, n. 205), assimilandola, in particolare, a un orango.
Con la delibera all’origine del conflitto, il Senato della Repubblica ha ritenuto le espressioni del senatore Calderoli insindacabili, ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost., in rapporto all’aggravante della finalità di discriminazione razziale, mentre ha escluso l’insindacabilità del fatto quale reato di diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità.
Ad avviso del ricorrente, la delibera censurata lederebbe le proprie attribuzioni costituzionali sotto un duplice profilo.
In primo luogo, il Senato della Repubblica, ritenendo «la sindacabilità del reato-base e l’insindacabilità della circostanza aggravante», avrebbe invaso un «settore riservato alla giurisdizione», qual è quello della qualificazione giuridica del fatto.
Il Tribunale ordinario di Bergamo contesta, altresì, che le dichiarazioni in questione possano essere funzionalmente collegate ai due atti di sindacato ispettivo del senatore Calderoli richiamati dalla delibera del Senato. Peraltro, il contenuto stesso della dichiarazione, da un lato, giustificherebbe la contestazione della natura razzista dell’insulto e, dall’altro, escluderebbe il suo collegamento con qualsiasi attività parlamentare.
2.– Preliminarmente, deve rilevarsi come, a seguito della ordinanza n. 101 del 2017, con la quale questa Corte aveva disposto la rinnovazione della notifica del ricorso, il Tribunale ordinario di Bergamo abbia ad essa ritualmente provveduto nelle forme previste dal codice di procedura civile, applicabili nel processo costituzionale in forza del richiamo contenuto nell’art. 39, comma 2, del codice del processo amministrativo, approvato dall’art. 1 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo): codice al quale deve intendersi attualmente riferito il rinvio al regolamento per la procedura innanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale di cui all’art. 22 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) (sentenza n. 144 del 2015).
3.– Ancora in via preliminare, deve essere confermata l’ammissibilità del conflitto, delibata con l’ordinanza n. 139 del 2016, sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi.
4.– Costituendosi in giudizio, il Senato della Repubblica ha formulato distinte eccezioni di inammissibilità in rapporto alle due doglianze nelle quali si articola il ricorso: eccezioni che debbono essere, tuttavia, dichiarate non fondate.
4.1.– Con riferimento alla prima censura del ricorrente, relativa alla denunciata invasione della funzione giurisdizionale attinente alla qualificazione giuridica del fatto, il resistente assume che il Tribunale ordinario di Bergamo si troverebbe, in realtà, in una posizione non diversa da quella in cui si trova qualsiasi autorità giurisdizionale nei cui confronti la Camera di appartenenza del parlamentare faccia valere la prerogativa dell’insindacabilità. Ove ritenga che il fatto oggetto di giudizio integri la sola ipotesi della diffamazione aggravata dall’utilizzazione di un mezzo di pubblicità (art. 595, terzo comma, cod. pen.), il giudice ricorrente non vedrebbe, infatti, limitata in alcun modo la propria funzione giurisdizionale dalla delibera censurata e non avrebbe, pertanto, alcun interesse a promuovere il conflitto. Per converso, ove ritenga che il fatto debba essere giudicato anche in relazione alla previsione dell’art. 3 del d.l. n. 122 del 1993, la delibera varrebbe come affermazione che le dichiarazioni sono state rese nell’esercizio della funzione parlamentare, sicché il conflitto si presenterebbe «nella forma consueta ed ordinaria della verifica della sussistenza del nesso fra dichiarazione e funzioni parlamentari».
In senso contrario, va peraltro rilevato che, nel caso in esame, la delibera censurata presenta la peculiarità di riferire l’affermazione dell’insindacabilità, non già alle dichiarazioni rese dal parlamentare in quanto tali, ma alle dichiarazioni in quanto sussunte in un determinato paradigma punitivo, quale quello dell’aggravante della finalità di discriminazione razziale. Proprio in questa operazione il Tribunale ravvisa una esorbitanza, ad opera del Senato della Repubblica, dalla funzione di salvaguardia della guarentigia prevista dall’art. 68, primo comma, Cost. e l’esercizio di un compito – quello di qualificazione giuridica del fatto – che dovrebbe rimanere riservato agli organi titolari della funzione giurisdizionale.
Appurare se l’invasione denunciata sussista effettivamente o non attiene al merito, e non già all’ammissibilità del conflitto.
4.2.– Con riguardo alla seconda doglianza del Tribunale bergamasco, intesa a contestare l’identità di contenuto tra le dichiarazioni per cui si procede e le opinioni espresse in atti tipici della funzione parlamentare, il conflitto sarebbe inammissibile, secondo il resistente, perché il Tribunale non avrebbe adempiuto all’onere di riprodurre in modo esauriente le dichiarazioni contestate in sede penale al senatore Calderoli: il che impedirebbe a questa Corte di valutare se le opinioni extra moenia siano o non sostanzialmente riproduttive di quelle già espresse negli atti parlamentari tipici, richiamati dalla contestata delibera del Senato.
Nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, la difesa del Senato della Repubblica ha insistito per l’accoglimento di questa seconda eccezione con ulteriori argomenti. In particolare, ha rilevato come i parlamentari, in ragione della rappresentanza della Nazione che esercitano ai sensi dell’art. 67 Cost., dovrebbero necessariamente avere una «relazione diretta» con gli elettori, che si concretizzerebbe in atti non contemplati dal diritto parlamentare: atti i quali, però, dovrebbero parimente essere coperti da insindacabilità ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost. In tali circostanze, bisognerebbe valutare se, in ragione del contenuto, l’opinione espressa possa «sensatamente» collegarsi alla funzione rappresentativa del parlamentare. Di qui, nel caso di specie, l’esigenza – a pena d’inammissibilità – di indicare specificamente l’oggetto dell’intervento pubblico del senatore Calderoli durante il quale sono state pronunciate le dichiarazioni per cui è in corso il procedimento penale: solo in tal modo, infatti, si consentirebbe a questa Corte di verificare la riconducibilità alle funzioni parlamentari «della complessiva posizione assunta nel caso dall’interessato in un contesto di diretta interlocuzione con l’elettorato».
Pure questa seconda eccezione d’inammissibilità, come si è già rilevato, non è però fondata.
Movendo dagli argomenti utilizzati, nella memoria illustrativa, a sostegno di detta eccezione, va posto in luce come essi, più che contestare l’ammissibilità del conflitto, finiscano per affermare l’esigenza che la garanzia dell’insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost. copra in maniera particolarmente estesa l’attività esterna del parlamentare.
Al riguardo, non può qui che ribadirsi il costante orientamento di questa Corte, secondo il quale le opinioni espresse extra moenia sono coperte da insindacabilità solo ove assumano una finalità divulgativa dell’attività parlamentare: il che richiede che il loro contenuto risulti sostanzialmente corrispondente alle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni «al di là delle formule letterali usate (sentenza n. 333 del 2011), non essendo sufficiente né un semplice collegamento tematico o una corrispondenza contenutistica parziale (sentenza n. 334 del 2011), né un mero “contesto politico” entro cui le dichiarazioni extra moenia possano collocarsi (sentenza n. 205 del 2012), né, infine, il riferimento alla generica attività parlamentare o l’inerenza a temi di rilievo generale, seppur dibattuti in Parlamento» (sentenza n. 144 del 2015; nello stesso senso, altresì, ex plurimis, sentenze n. 265, n. 221 e n. 55 del 2014). Una diversa interpretazione della prerogativa dell’insindacabilità, infatti, «dilaterebbe il perimetro costituzionalmente tracciato, generando un’immunità non più soltanto funzionale ma, di fatto, sostanzialmente “personale”, a vantaggio di chi sia stato eletto membro del Parlamento» (sentenze n. 264 e n. 115 del 2014, n. 313 del 2013; nel medesimo senso già le sentenze n. 508 del 2002, n. 56, n. 11 e n. 10 del 2000).
Va d’altra parte rammentato come, nell’affrontare il tema della insindacabilità delle opinioni espresse da membri del Parlamento a salvaguardia di prerogative inerenti lo specifico munus proprio della carica, la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia operato una netta distinzione tra le dichiarazioni rilasciate intra moenia, vale a dire nello specifico esercizio di quelle funzioni, e quelle rese fuori dalla sede tipica, e perciò stesso in assenza di un legame evidente con l’attività parlamentare, affermando in più occasioni la necessità di una interpretazione stretta del requisito della ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, cui restano subordinate le limitazioni al diritto di accesso a un tribunale, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. E ciò, in particolare, proprio nei casi in cui dette limitazioni derivino – come nella specie – da una deliberazione di insindacabilità da parte della Camera cui appartiene il parlamentare, la quale impedisce al giudice di esercitare la propria funzione nel caso devolutogli dal soggetto che esercita il proprio diritto (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 6 aprile 2010, C.G.I.L. e Cofferati contro Italia; sentenza 24 febbraio 2009, C.G.I.L. e Cofferati contro Italia; sentenza 20 aprile 2006, Patrono, Cascini e Stefanelli contro Italia; sentenza 6 dicembre 2005, Ielo contro Italia; sentenza 3 giugno 2004, De Jorio contro Italia; sentenza 30 gennaio 2003, Cordova contro Italia).
Così ribadita la corretta lettura della prerogativa dell’insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost., deve rilevarsi che il ricorrente non è venuto meno all’onere di riprodurre in modo esauriente le dichiarazioni contestate in sede penale al senatore Calderoli. Questa Corte, infatti, ha già avuto modo di affermare in più occasioni che il riferimento al capo di imputazione formulato in sede penale vale ad assolvere detto onere, allorché l’analiticità dell’imputazione ascritta al parlamentare e riportata in ricorso consenta alla Corte stessa di identificare con sufficiente grado di precisione il contenuto delle dichiarazioni asseritamente diffamatorie rese extra moenia al fine di raffrontarlo con quello di eventuali atti tipici della funzione parlamentare (sentenze n. 55 del 2014, n. 205 del 2012, n. 334 del 2011, n. 330 del 2008). Tale ipotesi è riscontrabile nel caso di specie, stante la dettagliata formulazione del capo di imputazione riprodotto nell’atto introduttivo del presente conflitto, che indica in modo puntuale e testuale le dichiarazioni in assunto lesive.
5.– Nel merito, il ricorso è fondato sotto entrambi i profili per cui esso è promosso.
5.1.– Riguardo al primo, vale osservare che quando le Camere sono chiamate a deliberare sull’insindacabilità ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost. di opinioni espresse da loro componenti, esse debbono compiere una valutazione sulla riconducibilità di dette opinioni alle funzioni parlamentari. A tale fine, non assume alcuna rilevanza la qualificazione giuridica del fatto storico operata dall’autorità giudiziaria in base alla legge, poiché le Camere non sono chiamate a pronunciarsi sugli effetti che la singola autorità giudiziaria fa derivare dall’opinione espressa dal parlamentare, ma solo sulla correlazione tra quest’ultima e l’esercizio delle funzioni parlamentari.
L’eventuale effetto inibitorio derivante dalla deliberazione assembleare presuppone, sì, che quest’ultima si riferisca specificamente alle opinioni che formano oggetto del giudizio di responsabilità (sentenze n. 302 del 2007 e n. 265 del 1997), ma non è limitato al contenzioso da cui ha avuto origine la decisione della Camera: l’insindacabilità è, infatti, una «“qualità” che caratterizza, in sé e ovunque, la opinione espressa dal parlamentare, la quale, proprio per il fondamento costituzionale che la assiste, è necessariamente destinata ad operare, oggettivamente e soggettivamente, erga omnes» (sentenza n. 194 del 2011). In altri termini, dalla riscontrata sussistenza del nesso funzionale ad opera della deliberazione assembleare consegue, quale «deroga eccezionale […] alla normale esplicazione della funzione giurisdizionale» (sentenza n. 265 del 1997), l’insindacabilità di quell’opinione, quale che sia la sede in cui il parlamentare sia (o eventualmente sarà) chiamato a risponderne.
È di esclusiva spettanza del giudice, invece, valutare se le dichiarazioni ascritte al parlamentare diano luogo a una qualche forma di responsabilità giuridica, ovvero «concretino la manifestazione del diritto di critica politica, di cui egli, al pari di qualsiasi altro soggetto, fruisce ai sensi dell’art. 21 della Costituzione» (sentenza n. 347 del 2004). Altrimenti detto, è soltanto l’autorità giudiziaria, nell’ambito di una attribuzione costituzionale esclusiva, che può qualificare giuridicamente l’opinione espressa, ricollegando al fatto storico gli effetti giuridici previsti dalla legge. Ed è sempre al potere giudiziario, secondo i rimedi consueti riconosciuti dagli ordinamenti processuali, che spetta il controllo sulla correttezza di tale definizione giuridica.
Con la delibera contestata dal ricorrente Tribunale ordinario di Bergamo, il Senato della Repubblica è, per converso, in tutta evidenza, intervenuto sulla qualificazione giuridica delle frasi pronunciate dal senatore Calderoli.
Secondo l’ipotesi accusatoria la cui fondatezza il giudice ricorrente è chiamato a verificare, dette frasi integrano il reato di diffamazione, aggravato tanto perché l’offesa è stata recata mediante comizio, quale particolare mezzo di pubblicità (art. 595, terzo comma, cod. pen.), quanto perché sorretta da finalità di discriminazione razziale (art. 3 del d.l. n. 122 del 1993): non si tratta, pertanto, di due fatti storici autonomamente valutabili, ma di un medesimo fatto, naturalisticamente unitario, sussunto sotto plurime norme di legge.
Il Senato della Repubblica – non limitandosi a valutare se le opinioni siano state espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari, ma affermando che «il fatto […] per il quale è in corso il procedimento a carico del senatore Calderoli» è sindacabile in rapporto al reato di diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità ed è, invece, insindacabile in rapporto all’aggravante della finalità di discriminazione razziale – si è espresso, dunque, sulla qualificazione giuridica del fatto storico, invadendo così un campo costituzionalmente riservato al potere giudiziario. Il tutto, fra l’altro, nel quadro di una non consentita scissione del concetto di insindacabilità delle opinioni espresse da un membro del Parlamento, tra contenuto della opinione in sé e finalità che caratterizzerebbe quella esternazione.
5.2.– Le opinioni espresse dal senatore Calderoli non hanno, inoltre, alcun nesso funzionale con l’esercizio dell’attività parlamentare.
5.2.1.– Va innanzitutto osservato che, per il loro tenore testuale, le frasi per cui è in corso il procedimento penale non risultano ex se riconducibili a opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari. La prerogativa parlamentare di cui all’art. 68, primo comma, Cost., infatti, non può essere estesa «sino a ricomprendere gli insulti – di cui è comunque discutibile la qualificazione come opinioni – solo perché collegati con le “battaglie” condotte da esponenti parlamentari» (sentenza n. 137 del 2001; analogamente sentenza n. 257 del 2002).
5.2.2.– Le frasi per le quali è in corso il procedimento penale a carico del senatore Calderoli, inoltre, non hanno alcun contenuto sostanzialmente corrispondente a quello dei due atti di sindacato ispettivo cui si fa riferimento nella relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, così venendo a mancare una delle condizioni richieste dalla già richiamata giurisprudenza di questa Corte affinché l’attività esterna del membro del Parlamento possa essere legittimamente ricompresa nelle funzioni parlamentari.
La prima delle interrogazioni parlamentari richiamate nella relazione della Giunta (n. 4-00166 del 14 maggio 2013) – movendo dalla vicenda concernente l’aggressione omicida, a colpi di piccone, perpetrata da un cittadino extracomunitario a Milano nel maggio 2013 – criticava alcune dichiarazioni dell’allora Ministro per l’integrazione Kyenge, che aveva definito «la clandestinità un “non reato”», e chiedeva al medesimo Ministro quali interventi di contrasto all’immigrazione irregolare intendesse adottare. La seconda interrogazione (n. 4-00324 del 6 giugno 2013) – movendo, invece, da uno sbarco avvenuto nel giugno 2013 in provincia di Reggio Calabria di 121 migranti di nazionalità afghana e siriana, gran parte dei quali donne e bambini – metteva in correlazione talune dichiarazioni del Ministro Kyenge, relative all’abrogazione del reato di clandestinità e all’introduzione del cosiddetto ius soli, con l’aumento di simili sbarchi sulle coste italiane, per poi chiedere al Governo quali interventi di contrasto all’immigrazione irregolare intendesse adottare, con particolare riguardo ai minori e alle donne in stato di gravidanza.
È palese, dunque, come il contenuto di entrambi tali atti parlamentari tipici non abbia alcuna sostanziale corrispondenza di significato con le espressioni, per cui è pendente procedimento penale.
6.– La delibera del Senato della Repubblica del 16 settembre 2015, in conclusione, deve considerarsi, per entrambi i profili per cui è sollevato conflitto, lesiva delle attribuzioni costituzionalmente garantite del ricorrente Tribunale ordinario di Bergamo e, conseguentemente, deve, per questa parte, essere annullata.