Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 14 settembre 2015, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma, 42, secondo e terzo comma, 76 e 117, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», e dell’art. 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 378, recante «Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)» – disposizione, questa seconda, trasfusa nella prima – nella parte in cui, nel prevedere limiti agli interventi di nuova edificazione fuori del perimetro dei centri abitati nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici:
a) fanno salva l’applicabilità delle leggi regionali unicamente ove queste prevedano limiti «più restrittivi»;
b) stabiliscono che, «comunque», nel caso di interventi a destinazione produttiva, si applica – in aggiunta al limite relativo alla superficie coperta (un decimo dell’area di proprietà) – anche il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadrato.
1.1.– Il giudice a quo riferisce che la ricorrente nel giudizio principale – proprietaria di un fondo nel Comune di Sant’Anastasia – aveva chiesto il permesso di costruire un edificio, da adibire ad attività artigianali. La richiesta era stata rigettata dal Comune, con la motivazione che la volumetria prevista in progetto eccedeva largamente quella realizzabile su detto fondo in base alla norma denunciata.
Il fondo in questione risultava, infatti, inserito dal vigente piano regolatore generale del Comune in «zona F1, Zone di uso pubblico». Essendo decorsi cinque anni dall’approvazione del piano, le relative prescrizioni avevano perso efficacia, con la conseguenza che la predetta zona F1 era attualmente classificabile come “zona bianca”. Essa risultava, quindi, soggetta alle previsioni dell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si stabilisce che, «Salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel rispetto delle norme previste dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici sono consentiti: […] b) fuori dal perimetro dei centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell’area di proprietà».
1.2.– Adito dall’interessata con l’impugnazione del provvedimento di rigetto, il Tribunale rimettente reputa infondate le prime due censure della ricorrente, formulate in via gradata.
Il giudice a quo esclude, anzitutto, che la norma denunciata debba ritenersi inapplicabile nel caso di specie a fronte della clausola di cedevolezza che in essa compare, intesa a far salvi i limiti più restrittivi stabiliti dalle norme regionali.
L’art. 4, comma 2, della legge della Regione Campania 20 marzo 1982, n. 17 (Norme transitorie per le attività urbanistico-edilizie nei Comuni della Regione), come sostituito dall’art. 9, comma 2, della legge regionale 11 agosto 2005, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria regionale 2005), prevede, per l’edificazione di complessi produttivi in “zone bianche” esterne ai centri abitati, un limite di superficie coperta più restrittivo di quello stabilito dalla norma statale (un sedicesimo dell’area di proprietà, anziché un decimo). Detto limite non è, tuttavia, abbinato ad un limite di volumetria: sicché, con riguardo a quest’ultimo, rimarrebbe in ogni caso operante la norma censurata.
La condizione di maggiore restrittività, cui è subordinata la cedevolezza della normativa statale in favore di quella regionale, andrebbe, infatti, verificata ponendo a raffronto separatamente le prescrizioni relative alla superficie coperta e quelle relative alla densità fondiaria. Diversamente opinando – ritenendo, cioè, sufficiente che la norma regionale preveda una regola più rigorosa per uno solo dei due limiti, omettendo del tutto l’altro – si finirebbe per applicare una norma nel complesso maggiormente concessiva, in palese contrasto con la lettera e con la ratio dell’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001. Sarebbe evidente, infatti, il carattere in astratto più favorevole di una norma che, pur riducendo le possibilità di sviluppo della superficie coperta, lasci libero quello della cubatura.
1.3.– Il Tribunale campano reputa, in secondo luogo, corretto il presupposto ermeneutico su cui poggia il provvedimento impugnato, in base al quale la norma in esame sottoporrebbe l’edilizia a fini produttivi ad un doppio limite cumulativo – di volume e di superficie – e non già al solo limite superficiario.
Risulterebbe infatti dirimente, in tale direzione, il criterio dell’interpretazione letterale. Il punto e virgola posto tra la prima e la seconda frase della disposizione e, soprattutto, l’avverbio «comunque» dimostrerebbero, in maniera chiara, che il limite di superficie coperta – relativo agli interventi a destinazione produttiva – è stabilito in aggiunta al parametro di densità fondiaria, e non già in alternativa ad esso. In questo senso si sarebbe, del resto, ripetutamente espressa la giurisprudenza del Consiglio di Stato, così da conferire a detta soluzione interpretativa i tratti del «diritto vivente».
1.4.– Recependo l’eccezione formulata con il terzo motivo di ricorso, il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della norma, sia nella parte in cui fa salvi i limiti stabiliti dalle leggi regionali solo se «più restrittivi», sia nella parte in cui sottopone gli interventi a destinazione produttiva al limite di densità fondiaria, in aggiunta a quello di copertura.
Le questioni sarebbero rilevanti, giacché solo in caso di loro accoglimento il giudizio principale avrebbe un esito positivo per la ricorrente.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ventila anzitutto la violazione dell’art. 76 Cost., sotto il profilo dell’eccesso di delega.
Il d.P.R. n. 380 del 2001 è stato, infatti, emanato in attuazione dell’art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998), che ha affidato al Governo la redazione di testi unici delle norme legislative e regolamentari in una serie di materie – tra cui l’edilizia – con la finalità di coordinare le disposizioni vigenti, apportando eventuali modifiche solo se strettamente necessarie a garantire la coerenza logica e sistematica della normativa.
Prevedendo in via cumulativa per gli interventi edilizi a destinazione produttiva limiti di cubatura e di superficie coperta, il legislatore delegato avrebbe introdotto una disposizione innovativa rispetto a quella dell’art. 4, ultimo comma, della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli), che regolava in precedenza i limiti per il rilascio delle concessioni edilizie nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici. La norma abrogata prevedeva, infatti, in due lettere separate, il limite di cubatura con riguardo all’edilizia residenziale (lettera a) e il limite di copertura per l’edificazione a fini produttivi (lettera c): sicché non potevano sussistere dubbi sul carattere alternativo dei due parametri. L’innovazione operata dal legislatore delegato non sarebbe, d’altra parte, in alcun modo giustificabile con esigenze di coerenza logica e sistematica.
Lo stesso art. 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977 stabiliva, inoltre, che i limiti da esso individuati si applicassero solo «in mancanza di norme regionali e fino all’entrata in vigore di queste». Anche il tenore della clausola di cedevolezza sarebbe stato, quindi, modificato dall’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale fa salva, non qualsiasi diversa normativa regionale, ma solo i limiti più restrittivi da questa previsti.
Tale più rigida clausola si porrebbe in contrasto anche con l’art. 117, terzo comma, Cost., comprimendo la potestà legislativa delle Regioni in ordine al «governo del territorio», materia di competenza concorrente nella quale la legislazione dello Stato deve limitarsi alla determinazione dei principi fondamentali. La limitazione della clausola di cedevolezza alle sole norme regionali più restrittive farebbe sì che la regola del doppio limite, posta dal legislatore statale – costituente norma di dettaglio – resti applicabile anche quando la Regione abbia provveduto a dettare norme proprie più favorevoli, come è avvenuto nell’ipotesi in esame.
La disposizione impugnata violerebbe, ancora, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.). L’applicazione congiunta dei limiti di cubatura e di superficie penalizzerebbe, infatti, oltre misura l’attività di produzione e di scambio di beni e servizi, richiedendo la disponibilità di un’area molto estesa per la costruzione di edifici utili ai fini dello svolgimento di una qualsiasi attività economica. Ad esempio, su un fondo di 1.000 metri quadrati potrebbe essere realizzato un edificio, quanto alla superficie, di 10 metri di larghezza e 10 metri di profondità, ma, quanto al volume, di soli 30 centimetri di altezza.
Rendendo più difficili le nuove iniziative imprenditoriali, la norma in questione menomerebbe irrazionalmente anche la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41, primo comma, Cost.
Non meno consistente sarebbe, infine, il sospetto di violazione dell’art. 42, secondo e terzo comma, Cost., a fronte della significativa limitazione posta dalla norma denunciata allo ius aedificandi connesso al diritto di proprietà.
Al riguardo, il rimettente rileva che la qualificazione come “zona bianca” dell’area di cui si discute nel giudizio a quo deriva non dalla totale assenza di qualsiasi strumento urbanistico, ma dall’avvenuta decadenza delle prescrizioni del piano regolatore generale concernenti detta area, per mancata attuazione entro cinque anni dalla sua approvazione.
Il Tribunale campano ricorda, altresì, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 55 del 1968, ebbe a dichiarare illegittimi gli artt. 7, numeri 2), 3) e 4), e 40 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), nella parte in cui consentivano all’autorità urbanistica di imporre vincoli di inedificabilità a tempo indeterminato, senza che ai proprietari interessati fosse dovuto alcun indennizzo. A fronte di ciò, il legislatore stabilì, con l’art. 2, comma 1, della legge 19 novembre 1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), un limite di efficacia quinquennale per i vincoli di piano regolatore generale preordinati all’espropriazione o che comportassero l’inedificabilità dei fondi interessati. Né la situazione è mutata a seguito della legge n. 10 del 1977, la quale – come riconosciuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 5 del 1980 – continuava a riconoscere al proprietario lo ius aedificandi. Di conseguenza, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che, anche dopo detta legge, rimanesse in vigore il citato art. 2, comma 1, della legge n. 1187 del 1968, precisando che l’inutile decorso del termine quinquennale da esso previsto comportava, non la reviviscenza della previgente disciplina urbanistica concernente l’area, ma l’applicazione degli standard relativi alle “zone bianche” contemplati dall’art. 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977.
Di qui, dunque, il sospetto che il doppio limite all’edificabilità, introdotto dal legislatore statale con la norma censurata, riduca eccessivamente le possibilità di esplicazione dello ius aedificandi in contrasto con le conclusioni cui la giurisprudenza costituzionale è pervenuta, «volte a preservare uno dei contenuti fondamentali del diritto dominicale, in quanto tali non surrettiziamente espropriabili».
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
Ad avviso della difesa dell’interveniente, la denunciata violazione dell’art. 76 Cost. non sarebbe ravvisabile. Ove si lasciasse operare solo il limite di superficie e non anche quello di volumetria si perverrebbe, infatti, alla paradossale situazione di una edilizia sostanzialmente priva di limiti, nella quale il libero sviluppo verticale degli edifici consentirebbe una anarchica compromissione del territorio. Il necessario cumulo dei due limiti assolverebbe anche alla funzione di evitare che legislatori regionali prodighi di facoltà edificatorie finiscano per frustrare la ratio della disciplina, pregiudicando in modo irreversibile interessi di rango costituzionale. In quest’ottica, la norma statale censurata risponderebbe, quindi, perfettamente al fine – assegnato dalla legge delega – di assicurare la coerenza logica del sistema.
Quanto, poi, alla ipotizzata violazione della competenza legislativa regionale concorrente, l’Avvocatura dello Stato assume che la competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di conservazione ambientale e paesaggistica sarebbe in grado di giustificare, già di per sé sola, una norma statale che imponga un parametro massimo di edificabilità in carenza di pianificazione urbanistica, ammettendo l’intervento di norme regionali solo in funzione di una maggior tutela, ossia esclusivamente se diretto ad imporre vincoli più severi.
Peraltro, anche a voler restare nella logica del governo del territorio, spetterebbero in ogni caso allo Stato le determinazioni rispondenti ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale, con la conseguenza che, anche in tale prospettiva, l’intervento regionale sarebbe possibile solo in quanto implichi un innalzamento dei livelli di tutela, e non già una deroga in senso peggiorativo.
La censura di violazione del principio di ragionevolezza sarebbe inammissibile, per la genericità delle motivazioni che la sorreggono. In ogni caso, le considerazioni dianzi richiamate indurrebbero a ritenere del tutto ragionevole la norma denunciata. I profili di irragionevolezza ravvisati dal rimettente sarebbero, in effetti, «del tutto soggettivi» e non terrebbero conto del fatto che ogni pianificazione fissa limiti di grandezza che formano il contenuto di regole sull’uso del territorio e che possono addirittura portare alla negazione della capacità edificatoria dei suoli.
Egualmente insussistente sarebbe, infine, l’ipotizzata violazione delle garanzie costituzionali che assistono l’iniziativa economica privata e il diritto di proprietà. Tali diritti subiscono, infatti, le limitazioni nascenti dalla legge, e in particolare dal potere di pianificazione del territorio, mentre risulterebbe estranea alla materia in esame l’evocata necessaria temporaneità dei vincoli di inedificabilità.
3.– Si è costituita, altresì, la parte ricorrente nel giudizio a quo, la quale ha svolto considerazioni adesive alle tesi del giudice rimettente, chiedendo l’accoglimento delle questioni.
La parte privata osserva, in particolare, come la norma censurata, ove interpretata nei sensi prospettati dal Comune di Sant’Anastasia, determini un irragionevole svuotamento del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica, contrastante con gli artt. 3, 41 e 42 Cost.
L’applicabilità degli standard legali di edificabilità alle zone con vincoli decaduti risponderebbe all’esigenza di offrire un rimedio all’eccessiva compressione dello ius aedificandi che deriva dall’indeterminatezza temporale dei vincoli. In questo quadro, la diversa articolazione dei limiti, secondo che si discuta di interventi a scopo residenziale o produttivo, sarebbe conforme a criteri di ragionevolezza. L’edificazione a scopo produttivo necessiterebbe, infatti, di una cubatura più ampia rispetto all’edilizia a scopo residenziale, a fronte dell’esigenza di allocazione degli impianti e dei macchinari destinati all’esercizio dell’attività. La previsione – in aggiunta al limite superficiario – di un limite di volumetria pari ad appena 0,03 metri cubi per metro quadro rappresenterebbe, di conseguenza, un vincolo eccessivo tanto per l’attività produttiva quanto per le aspettative edificatorie del proprietario.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 378, recante «Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)», trasfuso nell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», nella parte in cui, nel prevedere limiti agli interventi di nuova edificazione fuori del perimetro dei centri abitati nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici:
a) fa salva l’applicabilità delle leggi regionali unicamente ove queste prevedano limiti «più restrittivi»;
b) stabilisce che, «comunque», nel caso di interventi a destinazione produttiva, si applica – in aggiunta al limite relativo alla superficie coperta (un decimo dell’area di proprietà) – anche il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadrato.
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l’art. 76 della Costituzione, per eccesso di delega, in quanto apporterebbe innovazioni sostanziali alla previgente disciplina recata dall’art. 4, ultimo comma, della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli): innovazioni non legittimate dai principi e criteri direttivi enunciati dall’art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998), che aveva affidato al Governo l’emanazione di testi unici finalizzati al semplice coordinamento delle disposizioni vigenti, consentendo modifiche di queste ultime solo se necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa.
La norma impugnata comprimerebbe, altresì, indebitamente la potestà legislativa regionale nella materia di competenza concorrente «governo del territorio» (art. 117, terzo comma, Cost.), introducendo una disciplina di dettaglio destinata a rimanere applicabile anche quando le Regioni abbiano emanato norme proprie più favorevoli.
Sarebbe violato, ancora, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto l’applicazione congiunta dei limiti di densità fondiaria e di superficie farebbe sì che, per realizzare edifici idonei allo svolgimento di attività produttive, sia necessario disporre di aree molto estese.
Rendendo più difficili le nuove iniziative imprenditoriali, la norma in esame menomerebbe irrazionalmente anche la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41, primo comma, Cost.
La disposizione denunciata si porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 42, secondo e terzo comma, Cost., limitando in modo eccessivo le possibilità di esplicazione dello ius aedificandi, costituente «uno dei contenuti fondamentali del diritto dominicale, in quanto tali non surrettiziamente espropriabili».
2.– Le questioni sottoposte all’esame di questa Corte attengono ai limiti di edificabilità nelle cosiddette “zone bianche” – non coperte, cioè, dalla pianificazione urbanistica – previsti dall’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001. Tali limiti – riferiti dalla norma impugnata ai «comuni sprovvisti di strumenti urbanistici» – trovano pacificamente applicazione non solo nell’ipotesi (divenuta ormai marginale) in cui il comune risulti del tutto privo di piano regolatore generale, ma anche quando la carenza di una specifica disciplina di piano riguardi singole porzioni del territorio comunale. La fattispecie più rilevante – e che ricorre anche nel giudizio a quo, secondo quanto riferito dal rimettente – è quella della scadenza del termine quinquennale di efficacia dei vincoli preordinati all’espropriazione o a carattere sostanzialmente ablativo: termine attualmente previsto dall’art. 9 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (Testo A)».
La finalità del regime in esame è di evitare che l’assenza di pianificazione legittimi uno sviluppo edilizio incontrollato, atto a compromettere irreversibilmente l’assetto urbanistico e a “consumare” integralmente il territorio. In quest’ottica, lo ius aedificandi del privato – pur non essendo radicalmente escluso – viene sottoposto a standard legali rigorosi, in modo da non pregiudicare la razionalità, e la stessa possibilità, delle future scelte degli organi della pianificazione. Si tratta, in sostanza, di una soluzione di compromesso: tra l’alternativa della totale inedificabilità dei suoli sprovvisti di disciplina di piano e quella di un’edificabilità libera, il legislatore ha adottato la soluzione intermedia di una edificabilità (significativamente) ridotta per non svuotare del tutto lo ius aedificandi e non pregiudicare i valori – di rilievo costituzionale – coinvolti dalla regolamentazione urbanistica.
In tale prospettiva, l’art. 9, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che nel perimetro del centro abitato sono ammessi solo interventi di manutenzione, restauro e risanamento conservativo del patrimonio edilizio esistente (lettera a). Fuori del centro abitato – ed è questa la previsione che interessa – sono invece possibili (anche) interventi di nuova edificazione «nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell’area di proprietà» (lettera b).
Vengono fatti salvi i diversi limiti stabiliti dalle leggi regionali: ma solo se «più restrittivi» di quelli dianzi indicati.
3.– Il rimettente muove dal presupposto che la disposizione in esame, tramite la previsione della lettera b) dianzi ricordata, sottoponga l’edificazione di complessi produttivi in “zone bianche” extraurbane a una doppia limitazione: non solo di superficie coperta, ma anche volumetrica.
Tale lettura del dettato normativo è, in effetti, qualificabile come “diritto vivente”, risultando ormai unanimemente accolta dalla giurisprudenza amministrativa. Secondo quanto ripetutamente affermato dal Consiglio di Stato, risulta dirimente, nella direzione dell’applicazione cumulativa dei due limiti, il canone dell’interpretazione letterale. La presenza di un punto e virgola (anziché di un punto) tra il primo ed il secondo periodo della disposizione e, soprattutto, l’uso dell’avverbio «comunque» rivelerebbero, infatti, in modo univoco che il limite superficiario – riferito agli interventi a destinazione produttiva – è stabilito in aggiunta, e non in alternativa, al parametro volumetrico enunciato nella frase che precede il segno di interpunzione (tra le altre, Consiglio di Stato, sezione quarta, 5 febbraio 2009, n. 681; Consiglio di Stato, sezione quarta, 5 febbraio 2009, n. 679; Consiglio di Stato, sezione quarta, 19 giugno 2006, n. 3658).
La conclusione appare avvalorata anche dal confronto – che sarà operato più avanti – tra la disposizione censurata e il suo immediato precedente legislativo (l’art. 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977): confronto che evidenzia chiaramente l’intento legislativo di rendere applicabile agli interventi in discorso, mediante una diversa articolazione del precetto, anche il limite di densità fondiaria.
4.– A fianco della premessa interpretativa ora ricordata – che fonda il quesito rivolto a questa Corte – il giudice a quo ne pone un’altra, che condiziona la sua rilevanza. Il rimettente assume, cioè, che la norma statale censurata sarebbe applicabile anche nella Regione Campania (e, dunque, alla vicenda oggetto del giudizio a quo) – almeno per la parte in cui prevede il limite volumetrico – pur in presenza di una disciplina regionale della materia.
L’art. 9, comma 2, della legge della Regione Campania 11 agosto 2005, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria regionale 2005), sostituendo l’art. 4, comma 2, della legge regionale 20 marzo 1982, n. 17 (Norme transitorie per le attività urbanistico-edilizie nei Comuni della Regione), ha infatti previsto, per l’edificazione di complessi produttivi in “zone bianche” esterne ai centri abitati, un limite di superficie coperta più rigoroso di quello stabilito dalla norma statale (un sedicesimo dell’area di proprietà, anziché un decimo). Tale limite non si coniuga, però, ad un concorrente limite di cubatura: sicché, con riguardo a quest’ultimo – secondo il giudice a quo – rimarrebbe operante la norma statale, non potendo venire in rilievo la clausola di cedevolezza di fronte a previsioni regionali più restrittive.
Al riguardo, va rilevato che, in base alla previsione dell’art. 2, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, «Le disposizioni, anche di dettaglio, del […] testo unico, attuative dei principi di riordino in esso contenuti operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi medesimi».
L’idea sottesa, nella sostanza, alla tesi del rimettente è che – articolandosi la norma statale censurata in due distinte componenti precettive (una relativa al limite minimo volumetrico e l’altra al limite minimo superficiario) – il legislatore campano si sia adeguato, con la legge reg. n. 15 del 2005, solo alla seconda (stabilendo un limite di superficie più restrittivo di quello statale). Di conseguenza, solo in rapporto a tale limite la norma regionale si surrogherebbe a quella statale: con riguardo alla previsione inerente al limite volumetrico – alla quale il legislatore regionale non si è adeguato – resterebbe invece ferma l’operatività della norma statale.
In questa ottica, la tesi in esame – condivisa, peraltro, anche dal Consiglio di Stato (sezione quarta, sentenza 5 febbraio 2009, n. 679) – può ritenersi non implausibile: il che è sufficiente ai fini del superamento della verifica della rilevanza delle questioni.
Va aggiunto, per completezza, che non viene in ogni caso in rilievo, ai fini considerati, la circostanza che l’art. 1, comma 175, lettere b) e g), della legge della Regione Campania 7 agosto 2014, n. 16, recante «Interventi di rilancio e sviluppo dell’economia regionale nonché di carattere ordinamentale e organizzativo (collegato alla legge di stabilità regionale 2014)», abbia disposto l’abrogazione dell’intera legge reg. n. 17 del 1982 e della norma novellatrice di cui al menzionato art. 9, comma 2, della legge reg. n. 15 del 2005. Ciò per l’assorbente ragione che tale abrogazione viene fatta espressamente decorrere «Dall’entrata in vigore del Piano Paesaggistico Regionale»: condizione che, allo stato, non si è ancora verificata.
5.– Nel merito, le questioni non sono fondate.
6.– Quanto alla prima delle censure formulate dal rimettente – l’eccesso di delega (art. 76 Cost.) – va rilevato che il testo unico in cui si colloca la norma impugnata è stato emanato sulla base dell’art. 7 della legge n. 50 del 1999, come modificato dall’art. 1 della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi –Legge di semplificazione 1999), il quale aveva demandato al Governo la redazione di testi unici finalizzati al riordino delle norme legislative e regolamentari in un complesso di materie, tra cui quella dell’edilizia.
Nell’ambito dei principi e criteri direttivi della delega, il comma 2, lettera d), del citato art. 7 aveva affidato, in particolare, al Governo il compito di procedere al «coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo».
Come risulta anche dalla sua rubrica, l’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001 riprende, in particolare, il disposto del previgente art. 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977.
Osserva, tuttavia, il rimettente che la norma abrogata, alla luce di una piana lettura del suo dettato, sottoponeva l’edificazione a fini produttivi in “zone bianche” extraurbane al solo limite di superficie e stabiliva, altresì, che i parametri da essa indicati trovassero applicazione solo «in mancanza di norme regionali e fino all’entrata in vigore di queste»: dunque, di qualsiasi norma regionale, indipendentemente dal suo carattere più severo o più permissivo.
La disposizione sottoposta a scrutinio – prevedendo l’applicazione cumulativa anche del limite di cubatura e circoscrivendo la clausola di cedevolezza alle sole norme regionali più restrittive – avrebbe, dunque, apportato innovazioni sostanziali alla normativa preesistente. Tali innovazioni eccederebbero i limiti della delega: da un lato, infatti, esse non sarebbero giustificabili con esigenze di coerenza logica e sistematica; dall’altro, la legge delega non recherebbe principi e criteri direttivi atti ad orientare l’operato del Governo nell’effettuazione di interventi di modifica o integrazione normativa.
6.1.– Va ricordato, in proposito, che, per costante giurisprudenza di questa Corte, la verifica della conformità della norma delegata alla norma delegante postula un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, l’uno relativo alla norma che determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega; l’altro relativo alla norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi. Il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega e i relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano, che costituiscono non solo base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l’interpretazione della loro portata. La delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, la quale può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente (ex plurimis, sentenze n. 250 del 2016, n. 47 del 2014, n. 272 e n. 75 del 2012, n. 98 del 2008, n. 341 e n. 340 del 2007).
Con particolare riguardo alle deleghe per il riordino o il riassetto di settori normativi, questa Corte ha inquadrato in limiti rigorosi l’esercizio, da parte del legislatore delegato, di poteri innovativi della normazione vigente, da intendersi in ogni caso come strettamente orientati e funzionali alle finalità esplicitate dalla legge di delega (tra le altre, sentenze n. 250 del 2016, n. 162 e n. 80 del 2012, n. 293 del 2010).
In tale cornice, la Corte si è peraltro specificamente occupata, in più occasioni, della delega prevista dall’art. 7 della legge n. 50 del 1999 – che qui interessa – con riguardo ad altri testi unici emanati sulla sua base.
Pronunciando, in particolare, su una serie di questioni attinenti al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», la Corte ha rilevato – in accordo con il parere espresso dal Consiglio di Stato nel corso del procedimento di approvazione del testo unico – che, se l’obiettivo indicato dal criterio di delega previsto dalla lettera d) del comma 2 del citato art. 7 «è quello della coerenza logica e sistematica della normativa, il coordinamento non può essere solo formale […]. Inoltre, se l’obiettivo è quello di ricondurre a sistema una disciplina stratificata negli anni, con la conseguenza che i principî sono quelli già posti dal legislatore, non è necessario che […] sia espressamente enunciato nella delega il principio già presente nell’ordinamento, essendo sufficiente il criterio del riordino di una materia delimitata». Entro questi limiti, il testo unico poteva pertanto «innovare per raggiungere la coerenza logica e sistematica» (sentenze n. 52 e n. 53 del 2005; in senso analogo, sentenza n. 174 del 2005). In sostanza, dunque, il Governo era chiamato ad individuare i principi regolativi della normativa già esistente, orientando in base ad essi le operazioni di coordinamento nei sensi ora indicati (per una successiva applicazione del principio, sentenza n. 230 del 2010).
6.2.– Ciò posto, per quanto attiene al primo dei dedotti profili di innovatività dell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001 – il cumulo dei limiti – si deve rilevare che il previgente art. 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977 recava una disposizione non priva di ambiguità, prevedendo, in separate lettere: che l’«edificazione a scopo residenziale» fuori del perimetro dei centri abitati dovesse rispettare l’indice volumetrico di metri cubi 0,03 per metro quadrato di area edificabile (lettera a); che «nell’ambito dei centri abitati» fossero consentite solo opere di restauro, risanamento, manutenzione e consolidamento (lettera b); che le superfici coperte di «edifici e complessi produttivi» non potessero superare un decimo dell’area di proprietà (lettera c).
Il Consiglio di Stato aveva ritenuto che la previsione della lettera c), da ultimo ricordata, e che qui rileva, non fosse riferibile alle aree interne ai centri abitati, in ordine alle quali la lettera b) poneva il divieto di nuove edificazioni (Consiglio di Stato, sezione quinta, 14 novembre 1996, n. 1368). Fuori dei centri abitati, per converso, l’edificazione a fini produttivi sarebbe rimasta soggetta al solo limite superficiario, e non anche a quello volumetrico, riferito dalla lettera a) alla sola edilizia residenziale (Consiglio di Stato, sezione quinta, 11 luglio 2002, n. 3884; Consiglio di Stato, sezione quinta, 8 gennaio 1998, n. 55; Consiglio di Stato, sezione quinta, 2 luglio 1993, n. 770): ciò in linea con l’esegesi qualificata come del tutto piana dal giudice a quo.
Anche riconoscendo, peraltro, che sul punto si fosse formato un “diritto vivente” e che il legislatore delegato dovesse di esso tener conto, resta, tuttavia, il fatto che la sottoposizione degli interventi produttivi al solo limite della superficie coperta risultava incoerente con la ratio della previsione di standard di edificabilità nelle “zone bianche”, in precedenza evidenziata. Il regime in questione si risolveva, infatti – come nota anche l’Avvocatura generale dello Stato – nell’ammissione di un’attività edificatoria sostanzialmente senza limiti, tramite lo sviluppo in verticale dei fabbricati.
La conclusione risulta tanto più valida ove si consideri che – secondo quanto pure affermato dal Consiglio di Stato – ai fini dell’applicazione della norma abrogata, per «superficie coperta» doveva intendersi quella “di sedime”, vale a dire la porzione di terreno su cui poggia la base del fabbricato, e non già il totale della superficie di calpestio. Quando aveva voluto fare riferimento a quest’ultima, il legislatore urbanistico si era, infatti, avvalso della diversa espressione «superficie lorda di pavimentazione» (Consiglio di Stato, sezione quinta, 8 gennaio 1998, n. 55; Consiglio di Stato, sezione quinta, 2 luglio 1993, n. 770). Di conseguenza, una volta che la base d’appoggio fosse rimasta contenuta entro il decimo dell’area di proprietà, il fabbricato avrebbe potuto svilupparsi in altezza ad libitum, anche grazie alla ripartizione in piani.
È peraltro evidente che – se la norma mira a realizzare un contemperamento tra gli opposti interessi, riconoscendo ai proprietari di fondi siti in “zone bianche” una limitata facoltà edificatoria che non comprometta l’assetto del territorio e non pregiudichi le future scelte in sede di pianificazione – tali ultimi obiettivi verrebbero vanificati da un simile regime.
Si deve, quindi, concludere che l’inequivoca estensione ai complessi produttivi del limite volumetrico, operata dal legislatore delegato, trovi giustificazione nell’esigenza di garantire la «coerenza logica e sistematica» della normativa considerata, in accordo con la direttiva del legislatore delegante.
È ben vero che l’applicazione congiunta finisce, a sua volta, per svuotare di significato il limite superficiario, il quale resta di regola assorbito dal più incisivo limite di densità fondiaria. Ma si tratta di una incongruenza che, a differenza dell’altra, non mina la ratio legis: il limite superficiario congiunto potrà risultare superfluo, ma non è, in ogni caso, disfunzionale rispetto all’obiettivo perseguito, come invece sarebbe il limite superficiario autonomo.
6.3.– Un discorso analogo vale anche in rapporto alla limitazione della clausola di cedevolezza alle sole norme regionali più restrittive.
Come meglio si verificherà poco oltre, la previsione di limiti invalicabili all’edificazione nelle “zone bianche”, per la finalità ad essa sottesa, ha le caratteristiche intrinseche del principio fondamentale della legislazione statale in materia di governo del territorio, coinvolgendo anche valori di rilievo costituzionale quali il paesaggio, l’ambiente e i beni culturali.
In quest’ottica, la fissazione di standard rigorosi, ma cedevoli di fronte a qualsiasi regolamentazione regionale della materia – sulla falsariga di quanto previsto dalla norma anteriore – rappresenterebbe una soluzione contraddittoria. Come rilevato dal Consiglio di Stato nel dichiarare manifestamente infondate le questioni in esame, detta soluzione lascerebbe, infatti, aperta la possibilità che «eventuali legislatori regionali, prodighi di facoltà edificatorie, finiscano con il frustrare la ratio della disciplina in commento, compromettendo in modo tendenzialmente irreversibile interessi di rango costituzionale»: ragione per la quale «l’art. 9 individua un principio fondamentale della legislazione statale tale da condizionare necessariamente quella regionale a regolare solo in senso più restrittivo l’edificazione» (Consiglio di Stato, sezione quarta, 12 marzo 2010, n. 1461).
Configurando gli standard considerati come limiti minimi, derogabili dalle Regioni solo nella direzione dell’innalzamento della tutela, il legislatore si è, quindi, novamente mosso nell’ambito della direttrice di delega del promovimento della coerenza logico-sistematica della disciplina.
7.– Infondata è anche l’ulteriore censura di violazione della potestà legislativa regionale in materia di «governo del territorio» (art. 117, terzo comma, Cost.).
Secondo il rimettente, la limitazione della clausola di cedevolezza, di cui all’art. 9, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, alle sole norme regionali più restrittive farebbe sì che la regola del doppio limite, posta dal legislatore statale – costituente, in assunto, norma di dettaglio – resti applicabile anche quando la Regione abbia provveduto a dettare norme proprie più favorevoli, come è avvenuto nell’ipotesi in esame, contravvenendo così alle regole di riparto della potestà legislativa nelle materie di competenza concorrente.
La giurisprudenza di questa Corte è, in effetti, costante nel ritenere che l’urbanistica e l’edilizia vadano ricondotte alla materia «governo del territorio», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.: materia di legislazione concorrente nella quale lo Stato ha il potere di fissare i principi fondamentali, mentre spetta alle Regioni il potere di emanare la normativa di dettaglio (per tutte, sentenze n. 102 del 2013 e n. 303 del 2003).
Contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, tuttavia, la norma censurata – nonostante la puntuale quantificazione dei limiti di cubatura e di superficie in essa contenuta – non può qualificarsi come norma di dettaglio, esprimendo piuttosto un principio fondamentale della materia: il che risponde, del resto, all’indirizzo accolto dalla giurisprudenza amministrativa pressoché unanime, e recepito dallo stesso Tribunale amministrativo regionale per la Campania in precedenti decisioni.
Di là dalle non decisive previsioni generali degli artt. 1, comma 1, e 2, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 – secondo le quali il testo unico reca i principi fondamentali dell’attività edilizia ai quali i legislatori regionali debbono attenersi – milita in tale direzione l’evidenziata funzione della norma di impedire, tramite l’applicazione di standard legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di “vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di valori di chiaro rilievo costituzionale. Funzione rispetto alla quale la specifica previsione di livelli minimi di tutela si presenta coessenziale, in quanto necessaria per esprimere la regola (al riguardo, sentenza n. 430 del 2007).
Questa Corte, d’altro canto, ha già avuto modo di qualificare come principio fondamentale in materia di «governo del territorio» le misure di salvaguardia previste dall’art. 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001: e ciò anche – e specificamente – per quanto attiene al puntuale termine di durata cui esse sono sottoposte (sentenza n. 102 del 2013). Dette misure hanno una ratio similare a quella dell’art. 9: mirano, infatti, anch’esse a salvaguardare la funzione di pianificazione urbanistica, evitando che l’introduzione di una nuova disciplina, ritenuta più aderente alle esigenze del territorio e della popolazione, sia pregiudicata dal rilascio di contrastanti titoli edilizi nelle more del procedimento di approvazione del nuovo strumento urbanistico.
Al pari del citato art. 12, comma 3, anche la norma oggi in esame lascia, d’altro canto, uno spazio di intervento alle Regioni nel definire la disciplina di dettaglio – conformemente a quanto stabilito dall’art. 117, terzo comma, Cost. – sia pure al solo fine di restringere le potenzialità edificatorie.
8.– Con riguardo alla censura di violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), va disattesa l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura dello Stato, legata all’asserita genericità della relativa motivazione.
Il rimettente pone, infatti, a base della doglianza l’assunto – corroborato anche con l’allegazione di esempi concreti – per cui l’applicazione congiunta dei limiti di cubatura e di superficie penalizzerebbe oltre misura le attività produttive, facendo sì che, per realizzare edifici idonei allo svolgimento di tali attività, occorra la disponibilità di aree molto estese.
Nel merito, tuttavia, la doglianza è infondata, per le ragioni già indicate in sede di esame della censura di eccesso di delega.
L’inconveniente che il giudice a quo lamenta rientra nella logica della disciplina di cui si discute, che è quella di riconoscere al privato – fin tanto che non intervenga la pianificazione dell’area – facoltà edificatorie significativamente compresse, proprio per non compromettere l’esercizio di quella funzione. Al contrario, è la soluzione auspicata dal rimettente – ossia l’applicabilità del solo limite superficiario, con conseguente libero sviluppo degli edifici in verticale – a collidere con la coerenza della norma.
9.– Quanto, poi, alla prospettata violazione dell’art. 41, primo comma, Cost., il parametro evocato è inconferente (in tale senso, sentenza n. 186 del 1993, con riguardo alla materia affine della proroga dei vincoli urbanistici).
La disciplina dei limiti di edificabilità nelle “zone bianche” non incide affatto sulla libertà di iniziativa economica privata, la quale non deve essere necessariamente garantita – per imperativo costituzionale – consentendo al privato di realizzare opifici su terreni non coperti dalla pianificazione urbanistica.
10.– Con riguardo, infine, alla denunciata violazione della garanzia costituzionale del diritto di proprietà (art. 42, secondo e terzo comma, Cost.), è assorbente il rilievo che si tratta di doglianza non congruente rispetto al petitum.
La censura fa perno, infatti, sulla giurisprudenza di questa Corte in tema di vincoli di inedificabilità preordinati all’espropriazione o a contenuto sostanzialmente espropriativo: vincoli ai quali il giudice a quo reputa assimilabile il regime delle “zone bianche”. In base alla giurisprudenza richiamata, peraltro, i vincoli in questione non sono inammissibili: il principio che da essa emerge è piuttosto l’altro della necessaria alternativa tra la previsione di un termine massimo ragionevole di durata dei vincoli stessi e l’obbligo di indennizzo (tra le altre, sentenze n. 411 del 2001, n. 179 del 1999, n. 344 del 1995 e n. 379 del 1994).
Il rimettente non si duole, tuttavia, del fatto che, in assenza della previsione di un termine massimo di durata del regime delle “zone bianche”, non sia riconosciuto al proprietario il diritto all’indennizzo (questione che risulterebbe, peraltro, irrilevante nel giudizio a quo), ma chiede una cosa diversa: ossia di incrementare le facoltà edificatorie del proprietario (peraltro in modo “unidirezionale”, ossia solo con riferimento ai complessi produttivi in zone extraurbane), così da rendere “non eccessiva” – secondo il suo apprezzamento – la compressione dello ius aedificandi. Soluzione, questa, affatto estranea alla evocata linea d’intervento di questa Corte.
11.– Le questioni vanno dichiarate, pertanto, non fondate in rapporto a tutti i parametri evocati.