Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 12 ottobre 2015, iscritta al n. 52 del registro ordinanze 2016, il Tribunale di sorveglianza di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui impedisce che le modalità di espiazione della pena ivi previste siano concesse alle condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis della medesima legge.
1.1.– Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate nell’ambito del procedimento di sorveglianza relativo ad L.A., condannata, con sentenza pronunciata il 12 aprile 2012, alla pena di anni sette di reclusione per il delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), con decorrenza dal 19 febbraio 2014 e fine pena al 18 febbraio 2021.
Il giudice a quo ricorda che la condannata è stata ammessa alla detenzione domiciliare sino al 17 ottobre 2015, ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975, in relazione all’art. 147, comma 1, numero 3), del codice penale, in quanto madre di prole di età inferiore a tre anni. Ricorda anche che, all’approssimarsi del compimento dei tre anni di età della minore, e, dunque, del ripristino della detenzione in carcere, il difensore di L.A. ha chiesto al magistrato di sorveglianza la proroga in via provvisoria della detenzione domiciliare, e al Tribunale di sorveglianza la concessione della detenzione domiciliare speciale ai sensi dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975; in via subordinata, ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione da ultimo citata, nella parte in cui esclude dalla concessione del beneficio i soggetti condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975.
Il giudice rimettente osserva che, con sentenza n. 239 del 2014, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge, nonché quella della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
Il giudice a quo ritiene che, pur a seguito di tale pronuncia, non sia possibile accogliere la richiesta del difensore di L.A., in quanto la ricordata sentenza n. 239 del 2014 ha riguardato il solo comma 1 dell’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, in base al quale, se non è possibile concedere il beneficio di cui all’art. 47-ter della medesima legge, la detenuta madre di prole di età inferiore ai dieci anni può espiare la parte residua di pena anche in ambito domiciliare, purché sia stato scontato almeno un terzo della pena ovvero quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo. La pronuncia della Corte costituzionale, invece, non avrebbe inciso sul comma 1-bis del ricordato art. 47-quinquies, il quale prevede modalità «agevolate» per espiare la frazione iniziale della pena, con esclusione, tuttavia, proprio dei condannati per i delitti elencati all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, anche nel caso in cui costoro collaborino con la giustizia.
Il giudice rimettente – ritenuto, dunque, che difettino i presupposti per la concessione della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, in quanto non è stato ancora espiato un terzo della pena, e ritenuto che la natura ostativa del reato oggetto della condanna impedisca l’applicazione del comma 1-bis del medesimo articolo – chiede alla Corte costituzionale di dichiarare l’illegittimità di quest’ultimo in riferimento agli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost., poiché «le esigenze superiori di tutela della maternità e del minore anziché prevalere risulterebbero recessive rispetto alla pretesa punitiva dello Stato». In particolare, il giudice rimettente, sul presupposto che la ratio ispiratrice dell’istituto della detenzione domiciliare ex art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975 prescinderebbe da qualsiasi contenuto rieducativo e sarebbe volto esclusivamente a ripristinare la convivenza tra madri e figli, osserva che la logica sottesa alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 239 del 2014 dovrebbe applicarsi anche con riferimento alla preclusione assoluta per le madri condannate per taluno dei delitti elencati nel citato art. 4-bis contenuta nella disposizione censurata: l’applicazione di quest’ultima, anche in assenza di concreta pericolosità della detenuta, determinerebbe infatti l’interruzione del rapporto di convivenza della detenuta stessa con la figlia minore, rapporto che era stato, invece, già preservato grazie alla pregressa concessione della misura di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975.
Il rimettente sottolinea infine, in ordine al comportamento della detenuta, l’«assoluta regolarità comportamentale serbata durante il pregresso periodo di restrizione domiciliare», nonché la «risalenza nel tempo dei reati oggetto della condanna».
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio, per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 31 marzo 2016, ha chiesto che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate.
Osserva, anzitutto, l’Avvocatura generale dello Stato che il giudice rimettente avrebbe richiamato la sentenza della Corte costituzionale n. 239 del 2014 in modo non conferente. Mentre, infatti, con tale decisione sarebbe stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, in quanto impediva in modo assoluto alle condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis della medesima legge l’accesso al beneficio, la disposizione ora all’esame della Corte costituzionale non precluderebbe l’espiazione della frazione iniziale della pena con modalità agevolate in caso di riconoscimento del requisito della collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter della legge n. 354 del 1975, secondo le disposizioni contenute nello stesso art. 4-bis. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Bari sarebbero, dunque, inammissibili «in quanto già oggetto di specifica considerazione» da parte della Corte costituzionale.
Esse sarebbero comunque non fondate, in quanto – osserva l’Avvocatura generale dello Stato – il rapporto tra i detenuti condannati per i delitti compresi nell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 e i propri figli sarebbe tutelato attraverso i colloqui effettuati in istituto, i quali non sono ricompresi nel divieto imposto da tale disposizione.
L’Avvocatura statale ritiene, infine, che il legislatore, introducendo la misura alternativa della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, avrebbe effettuato un bilanciamento tra due valori costituzionalmente protetti, la tutela della famiglia e del rapporto tra le detenute madri e i propri figli, da un lato, e l’interesse dello Stato ad esercitare la potestà punitiva, dall’altro, limitando l’accesso alle modalità agevolate indicate nella disposizione censurata nei soli casi di condotte incriminatrici che assumono un significativo grado di offensività in relazione alla rilevanza del bene protetto, come quelle relative ai delitti elencati al citato art. 4-bis, comma 1, e soltanto nei casi in cui non sussista né la collaborazione prevista dall’art. 58-ter della legge n. 354 del 1975, né alcuna delle forme di collaborazione con la giustizia richiamate nel comma 1-bis del più volte citato art. 4-bis.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di sorveglianza di Bari dubita della legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui impedisce alle madri condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis della medesima legge l’accesso alle modalità di espiazione della pena ivi previste.
La disposizione censurata stabilisce che, «[s]alvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis», l’espiazione di un terzo della pena, o di almeno quindici anni in caso di condanna all’ergastolo – condizione necessaria per accedere alla detenzione domiciliare speciale prevista nel comma 1 del medesimo art. 47-quinquies – può avvenire presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ovvero, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli. Essa prevede inoltre che, in caso d’impossibilità di scontare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la stessa può essere espiata nelle case famiglia protette, ove istituite.
Secondo il rimettente, la preclusione all’accesso a tali modalità agevolate di espiazione della pena per le madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, in quanto ispirata dalla volontà di far prevalere la pretesa punitiva statale rispetto alle esigenze, che pur dovrebbero essere preminenti, di tutela della maternità e del minore. Sarebbe così vanificata la stessa ratio ispiratrice della detenzione domiciliare speciale, in tesi volta primariamente a ripristinare la convivenza tra madri e figli. È in particolare richiamata la sentenza di questa Corte n. 239 del 2014, la cui ratio decidendi sarebbe conferente anche nel caso in esame nel giudizio principale.
Osserva, infine, il rimettente che la disposizione censurata si inserirebbe disarmonicamente in un sistema che consente, anche alle madri condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, di essere ammesse sin dall’inizio alla detenzione domiciliare, a prescindere dall’entità della pena da espiare, quando può essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione di questa, ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale (art. 47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975). Tale disarmonia sarebbe ben illustrata dalle peculiarità del caso che ha dato origine al presente giudizio di legittimità costituzionale, nel quale la madre condannata, inizialmente ammessa alla detenzione domiciliare sino al compimento dei tre anni di età della figlia, dovrebbe entrare in carcere – interrompendo la convivenza con la bambina – al fine di scontare il terzo di pena necessario per essere, successivamente, ammessa alla detenzione domiciliare speciale.
2.– La questione è fondata.
2.1.– La disposizione censurata è contenuta nell’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, che disciplina l’istituto della detenzione domiciliare speciale. Tale istituto, introdotto dall’art. 3, comma 1, della legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), è finalizzato ad ampliare la possibilità, per le madri (o i padri) condannati a pena detentiva, di scontare quest’ultima con modalità esecutive extracarcerarie, per meglio tutelare il loro rapporto con i figli minori e per evitare il fenomeno della “carcerizzazione degli infanti”.
L’art. 47-ter, comma 1, della legge n. 354 del 1975 già prevedeva (e prevede tuttora) che la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possano essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, quando la condannata è donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente (ovvero padre, quando la madre è deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole).
Con l’introduzione del citato art. 47-quinquies, si è stabilito, al comma 1, che, «[q]uando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47-ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo».
In tal modo, si è consentito anche alle madri condannate a pene detentive superiori a quattro anni, o che devono ancora scontare più di quattro anni di pena, di accedere alla detenzione domiciliare speciale, alla condizione, però, che abbiano già scontato almeno un terzo della pena, ovvero almeno quindici anni in caso di condanna all’ergastolo.
Al medesimo beneficio sono ammessi i padri detenuti, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre.
Successivamente, la legge 21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori), ha novellato il comma 1 dell’art. 47-quinquies, stabilendo che la prima parte di pena (un terzo o quindici anni in caso di ergastolo) possa essere espiata «secondo le modalità di cui al comma 1-bis», e ha introdotto tale comma, oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale.
Anche in questo caso, il legislatore ha l’obiettivo di ampliare la possibilità, per le madri condannate a pene detentive, di espiare la pena attraverso misure extracarcerarie che permettano di meglio provvedere alla cura e all’assistenza dei figli. A tal fine, il comma 1-bis consente loro di espiare, sin dall’inizio, la pena detentiva secondo le descritte modalità agevolate, anche nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, di cura, assistenza o accoglienza, purché non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga.
Tuttavia, e questo è l’oggetto della censura del giudice a quo, dall’accesso a tali modalità agevolate di espiazione della prima frazione di pena sono espressamente escluse le madri condannate per un delitto indicato nell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975.
Che tale sia, in effetti, il significato della formulazione letterale del primo periodo del comma 1-bis dell’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975 («[s]alvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis») non può essere revocato in dubbio.
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, invece, la disposizione censurata consentirebbe alle condannate che abbiano collaborato con la giustizia, o che si siano trovate nell’impossibilità di farlo, di accedere alle descritte modalità di espiazione della pena. Nella prospettazione della difesa statale, il riferimento alle madri condannate per i delitti indicati nel ricordato art. 4-bis non sarebbe, infatti, che un rinvio al regime sostanziale ivi descritto (che, appunto, consente la concessione dei benefici penitenziari ai condannati per i delitti elencati al comma 1 del medesimo art. 4-bis, a condizione che collaborino con la giustizia o che tale collaborazione non sia possibile).
L’assunto della difesa statale non coglie nel segno. A prescindere dal fatto che il giudice a quo non fornisce indicazioni su un’eventuale collaborazione della condannata con la giustizia, questa Corte ha già escluso che il riferimento all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, contenuto nella disposizione censurata, possa intendersi come un richiamo alle differenziate condizioni (tra le quali la collaborazione con la giustizia) che tale articolo prevede, a seconda del reato commesso, per la concessione dei benefici penitenziari. Come è fatto palese dalla sua formulazione letterale, il significato del comma 1-bis dell’art. 47-quinquies è quello di impedire in assoluto, alle condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis, di espiare la frazione iniziale di pena secondo le ricordate modalità agevolate, anche laddove si sia verificata la condizione della collaborazione con la giustizia (sentenza n. 239 del 2014).
È dunque questo significato della disposizione censurata a doversi confrontare con i parametri costituzionali evocati.
2.2.– Il comma 1-bis dell’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975 si inserisce nell’ambito di un istituto – la detenzione domiciliare speciale – che, pur partecipando della finalità di reinserimento sociale del condannato, è primariamente indirizzato a consentire l’instaurazione, tra madri detenute e figli in tenera età, di un rapporto quanto più possibile “normale” (sentenze n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009). In tal senso, si tratta di un istituto in cui assume rilievo prioritario la tutela di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, qual è il minore (ancora sentenze n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009, e sentenza n. 350 del 2003).
Questa Corte ha evidenziato in numerose occasioni (sentenze n. 17 del 2017, n. 239 del 2014, n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012) la speciale rilevanza dell’interesse del figlio minore a mantenere un rapporto continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione, ed ha riconosciuto che tale interesse è complesso ed articolato in diverse situazioni giuridiche. Queste ultime trovano riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento costituzionale interno – che demanda alla Repubblica di proteggere l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, secondo comma, Cost.) – sia nell’ordinamento internazionale, ove vengono in particolare considerazione le previsioni dell’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dell’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo.
Queste due ultime disposizioni qualificano come «superiore» l’interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative ad esso, adottate da autorità pubbliche o istituzioni private, tale interesse deve essere considerato «preminente»: «precetto che assume evidentemente una pregnanza particolare quando si discuta dell’interesse del bambino in tenera età a godere dell’affetto e delle cure materne» (così, in particolare, sentenza n. 239 del 2014).
L’elevato rango dell’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne, tuttavia, non lo sottrae in assoluto ad un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali sono quelli di difesa sociale, sottesi alla necessaria esecuzione della pena. Lo dimostra, del resto, la stessa disposizione censurata, che consente alle madri (tranne a quelle condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975) di espiare la prima frazione di pena presso un istituto a custodia attenuata, ovvero richiede al giudice di valutare l’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, prima di concedere alla condannata l’accesso alla detenzione domiciliare ovvero in altri luoghi di privata dimora, di cura, di assistenza o di accoglienza.
Il bilanciamento dell’interesse del minore con le esigenze di difesa sociale sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato, in via di principio, è rimesso alle scelte discrezionali del legislatore (sentenza n. 17 del 2017) e può realizzarsi attraverso regole legali che determinano, in astratto, i limiti rispettivi entro i quali i diversi principi possono trovare contemperata tutela. In tal senso, varie disposizioni dell’ordinamento penitenziario e del codice di procedura penale assicurano tutela all’interesse dei minori, figli di soggetti sottoposti a misure cautelari o condannati in via definitiva a pene detentive, a mantenere un rapporto costante, fuori dal carcere, con le figure genitoriali, ma stabiliscono che tale esigenza di tutela si arresta al compimento, da parte del minore, di una determinata età.
Se invece il legislatore, tramite il ricorso a presunzioni insuperabili, nega in radice l’accesso della madre alle modalità agevolate di espiazione della pena e, così, impedisce al giudice di valutare la sussistenza in concreto, nelle singole situazioni, delle ricordate esigenze di difesa sociale, non si è più in presenza di un bilanciamento tra principi, che si traduce nella determinazione di una ragionevole regola legale: si è al cospetto dell’introduzione di un automatismo basato su indici presuntivi, il quale comporta il totale sacrificio dell’interesse del minore.
Questa Corte, tuttavia, ha già chiarito che, affinché il preminente interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine, la legge deve consentire che sussistenza e consistenza di queste ultime siano verificate in concreto, e non già sulla base di automatismi che impediscono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni (ancora, sentenza n. 239 del 2014).
Proprio una tale preclusione è contenuta nella disposizione censurata. Il legislatore, infatti, esclude in assoluto dall’accesso ad un istituto primariamente volto alla salvaguardia del rapporto con il minore in tenera età le madri accomunate dall’aver subito una condanna per taluno dei delitti indicati in una disposizione (l’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975) che contiene, oltretutto, un elenco di reati complesso, eterogeneo, stratificato e di diseguale gravità (sentenza n. 32 del 2016).
Non è in principio vietato alla legge differenziare il trattamento penitenziario delle madri condannate, a seconda della gravità del delitto commesso, ma la preclusione assoluta ora in esame è certamente lesiva dell’interesse del minore, e perciò dell’art. 31, secondo comma, Cost.
A causa della disposizione censurata, vengono del tutto pretermessi l’interesse del minore ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre, nonché la stessa finalità di reinserimento sociale della condannata, non estranea, come si è già detto, alla detenzione domiciliare speciale, quale misura alternativa alla detenzione. Questa sorta di esemplarità della sanzione – la madre deve inevitabilmente espiare in carcere la prima frazione di pena – non può essere giustificata da finalità di prevenzione generale o di difesa sociale (sentenza n. 313 del 1990). Infatti, le esigenze collettive di sicurezza e gli obiettivi generali di politica criminale non possono essere perseguiti attraverso l’assoluto sacrificio della condizione della madre e del suo rapporto con la prole.
La disposizione censurata è dunque costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis,».
L’accertata violazione dell’art. 31, secondo comma, Cost., determina l’assorbimento delle censure relative agli altri parametri costituzionali evocati.
È appena il caso di rilevare, infine, che la presente pronuncia d’accoglimento non mette in pericolo le esigenze di contrasto alla criminalità che avevano indotto il legislatore ad introdurre la preclusione qui caducata.
Da un lato, il comma 1-bis dell’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, oltre a consentire che la prima frazione di pena sia scontata in un istituto a custodia attenuata per detenute madri, affida al prudente apprezzamento del giudice – come si è evidenziato – l’accesso della condannata alla detenzione nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, ovvero di cura, assistenza o accoglienza, condizionandolo all’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga.
Dall’altro, rientrando l’istituto in oggetto tra le misure alternative alla detenzione, ai condannati per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 resta pur sempre applicabile il complesso ed articolato regime previsto da tale disposizione per la concessione dei benefici penitenziari, in base, però, alla ratio della sentenza n. 239 del 2014 di questa Corte, secondo la quale la mancata collaborazione con la giustizia non può ostare alla concessione di un beneficio primariamente finalizzato a tutelare il rapporto tra la madre e il figlio minore.