Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso, depositato il 14 maggio 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell’art. 19, comma 1, lettera b), della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 13 febbraio 2013, n. 3 (Disposizioni in materia di politiche abitative), nella parte in cui annovera, fra i requisiti di accesso all’edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza nella Regione da almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente».
1.1.– Il ricorrente ritiene che tale disposizione, prescrivendo un requisito temporale di residenza nella Regione Valle d’Aosta così prolungato (otto anni) ai fini dell’accesso all’edilizia residenziale pubblica, imporrebbe un obbligo sproporzionato rispetto al pur legittimo scopo della norma, che è quello di stabilire un collegamento tra il richiedente la provvidenza e l’ente competente alla sua erogazione, onde preservare l’equilibrio finanziario del sistema locale di assistenza sociale, tale da causare una significativa ed ingiustificata restrizione alla libertà di circolazione e di soggiorno stabilita dall’art. 21, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), in violazione degli artt. 117, primo comma, e 3 della Costituzione.
Essa, inoltre, si porrebbe in contrasto anche con l’art. 24, paragrafo 1, della direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE), che stabilisce che «ogni cittadino dell’Unione che risiede […] nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato», in quanto opererebbe una discriminazione irragionevole nei confronti dei cittadini dell’Unione, i quali avrebbero minori possibilità di ottenere il richiesto requisito rispetto ai valdostani ed agli stessi cittadini italiani, anche in tal caso in violazione degli artt. 117, primo comma, e 3 Cost.
Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale della norma regionale impugnata è, inoltre, ravvisato nell’irragionevole discriminazione da essa operata nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che abbiano ottenuto lo status di soggiornanti di lungo periodo in seguito ad una residenza presso un Paese UE protratta per cinque anni. Questi ultimi, infatti, per poter concorrere all’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, nell’ipotesi in cui non abbiano trascorso il periodo quinquennale necessario ai fini dell’acquisizione dello status nel territorio valdostano ma in altra Regione, devono ineluttabilmente attendere un termine complessivo superiore agli otto anni, in contrasto con il principio stabilito dall’art. 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE (Direttiva del Consiglio relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo), in virtù del quale i soggiornanti di lungo periodo godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda anche l’accesso alla procedura per l’ottenimento di un alloggio. La norma impugnata tratterebbe in modo eguale situazioni diverse, introducendo una sostanziale disparità di trattamento nei confronti del soggiornante di lungo periodo, del tutto ingiustificata, poiché attuata nell’ambito di categorie di soggetti (di cui all’art. 2 della stessa legge) tutti egualmente bisognosi, in violazione del limite di ragionevolezza «imposto dal rispetto del principio di uguaglianza» ed in contrasto anche con la ratio che sottende l’intera normativa.
Infine, la norma regionale in esame è censurata per violazione dell’art. 3 Cost., in relazione all’art. 40, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in quanto realizzerebbe una irragionevole discriminazione nei confronti dei cittadini dell’Unione europea rispetto a quanto stabilito dal legislatore statale per gli stranieri extracomunitari. Infatti, mentre questi ultimi, in virtù di quanto statuito all’art. 40, comma 6, possono accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica dopo aver soggiornato nel territorio nazionale per soli due anni, in base alla normativa regionale in esame, i cittadini europei, pur trovandosi nelle medesime condizioni di bisogno, devono viceversa soddisfare il requisito della residenza protratta per almeno otto anni nel territorio regionale, senza che ciò sia giustificato da esigenze particolari ed in netto contrasto con la stessa ratio normativa perseguita dal legislatore regionale, di tutela delle categorie più deboli.
2.– All’udienza pubblica il ricorrente ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni svolte nel ricorso introduttivo.
3.– La Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste non si è costituita nel presente giudizio.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettera b), della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 13 febbraio 2013, n. 3 (Disposizioni in materia di politiche abitative), nella parte in cui annovera, fra i requisiti di accesso all’edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza nella Regione da almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente».
1.1.– Il ricorrente, anzitutto, ritiene che la predetta norma determini un’irragionevole discriminazione nei confronti dei cittadini dell’Unione europea, violando l’art. 21, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), che riconosce e garantisce la libertà di circolazione e di soggiorno, nonché l’art. 24, paragrafo 1, della direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE), in contrasto con gli artt. 117, primo comma, e. 3 Cost.
Essa, infatti, determinerebbe un’irragionevole discriminazione nei confronti dei cittadini UE, i quali, pur godendo del diritto al pari trattamento rispetto ai cittadini degli Stati membri (art. 24, par. 1, della direttiva 2004/38/CE), avrebbero minori possibilità di soddisfare il requisito della residenza protratta per otto anni sul territorio regionale ai fini dell’accesso all’edilizia residenziale pubblica, in specie rispetto ai valdostani. I cittadini europei sarebbero, peraltro, ingiustificatamente soggetti ad un obbligo sproporzionato rispetto al pur legittimo scopo della norma, che è quello di stabilire un collegamento tra il richiedente la provvidenza e l’ente competente alla sua erogazione onde preservare l’equilibrio finanziario del sistema locale di assistenza sociale, tale da causare una significativa ed ingiustificata restrizione alla libertà di circolazione e di soggiorno.
La norma impugnata determinerebbe, inoltre, anche una irragionevole discriminazione nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, i quali, in virtù dell’art. 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE (Direttiva del Consiglio relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo), godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda anche l’accesso alla procedura per l’ottenimento di un alloggio.
Questi ultimi, infatti, nell’ipotesi in cui non abbiano trascorso il periodo quinquennale necessario ai fini dell’acquisizione dello status di soggiornanti di lungo periodo in territorio valdostano, ma in altra Regione, devono attendere un termine complessivo superiore agli otto anni richiesti per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica, pur rientrando nell’ambito di quelle categorie di soggetti che la stessa legge regionale, all’art. 2, annovera fra i soggetti bisognosi, in contrasto con la lettera e la ratio del citato art. 11 della direttiva, e quindi con l’art. 117, primo comma, Cost., oltre che con l’art. 3 Cost.
Infine, il ricorrente denuncia anche la pretesa irragionevole discriminazione operata dalla norma impugnata nei confronti dei cittadini UE, rispetto a quanto stabilito dal legislatore statale per gli stranieri extracomunitari (e quindi in violazione dell’art. 3 Cost.). Infatti, mentre questi ultimi, in virtù di quanto statuito all’art. 40, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), possono accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica solo dopo aver soggiornato nel territorio nazionale per due anni, in base alla normativa regionale in esame, i cittadini europei, pur trovandosi nelle medesime condizioni di bisogno, devono viceversa soddisfare il requisito della residenza protratta per almeno otto anni nel territorio regionale, senza che ciò trovi fondamento in esigenze particolari ed in netto contrasto con la stessa ratio normativa perseguita dal legislatore regionale, di tutela delle categorie più deboli.
2.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati.
Questa Corte ha da tempo rilevato che le finalità proprie dell’edilizia residenziale pubblica sono quelle di «garantire un’abitazione a soggetti economicamente deboli nel luogo ove è la sede dei loro interessi» (sentenza n. 176 del 2000), al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti (art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), mediante un servizio pubblico deputato alla «provvista di alloggi per i lavoratori e le famiglie meno abbienti» (sentenze n. 417 del 1994, n. 347 del 1993, n. 486 del 1992). Dal complesso delle disposizioni costituzionali relative al rispetto della persona umana, della sua dignità e delle condizioni minime di convivenza civile, emerge, infatti, con chiarezza che l’esigenza dell’abitazione assume i connotati di una pretesa volta a soddisfare un bisogno sociale ineludibile, un interesse protetto, cui l’ordinamento deve dare adeguata soddisfazione, anche se nei limiti della disponibilità delle risorse finanziarie. Per tale motivo, l’accesso all’edilizia residenziale pubblica è assoggettato ad una serie di condizioni relative, tra l’altro, ai requisiti degli assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica, quali, ad esempio, il basso reddito familiare (sentenza n. 121 del 1996) e l’assenza di titolarità del diritto di proprietà o di diritti reali di godimento su di un immobile adeguato alle esigenze abitative del nucleo familiare dell’assegnatario stesso, requisiti sintomatici di una situazione di reale bisogno.
In questa prospettiva la legge n. 3 del 2013 della Regione Valle d’Aosta, intitolata «Disposizioni in materia di politiche abitative», stabilisce che la Regione «promuove una serie coordinata di interventi di interesse generale e di carattere sociale» (art. 1), tesi, fra l’altro, a «risolvere, anche con interventi straordinari, gravi e imprevedibili emergenze abitative presenti sul territorio regionale o espresse da particolari categorie sociali» (comma 1, lettera g), fra le quali ricomprende gli anziani, i soggetti diversamente abili, gli immigrati. Fra gli interventi suddetti, vi è la realizzazione della cosiddetta edilizia residenziale pubblica, definita dalla stessa legge, all’art. 8, comma 1, come «il patrimonio immobiliare realizzato con il concorso finanziario di enti pubblici e costituito da abitazioni destinate a ridurre il disagio abitativo dei nuclei familiari che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi nel libero mercato», e quindi destinate a sopperire a situazioni di “emergenza abitativa”(art. 13, comma 5, lettera a).
Al fine di realizzare tale servizio sociale, di natura gratuita per il fruitore, la Regione ha stabilito, all’art. 19, comma 1, specifici criteri di accesso per l’assegnazione dei beni facenti parte del patrimonio abitativo regionale in esame, fra i quali, accanto alla previsione di indicatori del basso reddito e della assenza di titolarità di diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione su quote di immobili adeguati alle esigenze abitative del nucleo familiare richiedente (requisiti rivelatori della situazione di bisogno), indica, alla lettera b), il diverso criterio della residenza protratta per otto anni, anche non consecutivi, sul territorio regionale.
Questa Corte ha riconosciuto che «le politiche sociali delle Regioni legate al soddisfacimento dei bisogni abitativi ben possono prendere in considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla sola residenza» (sentenza n. 222 del 2013), considerato che «L’accesso a un bene di primaria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, […] può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’ambito dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e riducendone l’efficacia» (sentenza n. 222 del 2013). Un simile requisito, tuttavia, deve essere «contenuto entro limiti non palesemente arbitrari ed irragionevoli» (sentenza n. 222 del 2013), anche in linea con il principio che «se al legislatore, sia statale che regionale (e provinciale), è consentito introdurre una disciplina differenziata per l’accesso alle prestazioni assistenziali al fine di conciliare la massima fruibilità dei benefici previsti con la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili» (sentenza n. 133 del 2013), tuttavia «la legittimità di una simile scelta non esclude che i canoni selettivi adottati debbano comunque rispondere al principio di ragionevolezza» (sentenza n. 133 del 2013) e che, quindi, debbano essere in ogni caso coerenti ed adeguati a fronteggiare le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto principale di fruibilità delle provvidenze in questione (sentenza n. 40 del 2011).
Nella specie, la previsione dell’obbligo di residenza da almeno otto anni nel territorio regionale, quale presupposto necessario per la stessa ammissione al beneficio dell’accesso all’edilizia residenziale pubblica (e non, quindi, come mera regola di preferenza), determina un’irragionevole discriminazione sia nei confronti dei cittadini dell’Unione, ai quali deve essere garantita la parità di trattamento rispetto ai cittadini degli Stati membri (art. 24, par. 1, della direttiva 2004/38/CE), sia nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, i quali, in virtù dell’art. 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2003/109/CE, godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda anche l’accesso alla procedura per l’ottenimento di un alloggio.
Quanto ai primi, risulta evidente che la norma regionale in esame li pone in una condizione di inevitabile svantaggio in particolare rispetto alla comunità regionale, ma anche rispetto agli stessi cittadini italiani, che potrebbero più agevolmente maturare gli otto anni di residenza in maniera non consecutiva, realizzando una discriminazione vietata dal diritto comunitario (oggi «diritto dell’Unione europea», in virtù dell’art. 2, numero 2, lettera a, del Trattato di Lisbona, che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007), in particolare dall’art. 18 del TFUE, in quanto determina una compressione ingiustificata della loro libertà di circolazione e soggiorno, garantita dall’art. 21 del TFUE. Infatti, il requisito della residenza protratta per otto anni sul territorio regionale induce i cittadini dell’Unione a non esercitare la libertà di circolazione abbandonando lo Stato membro cui appartengono (Corte di giustizia, sentenza 21 luglio 2011, in causa C-503/09, Stewart), limitando tale libertà in una misura che non risulta né proporzionata, né necessaria al pur legittimo scopo di assicurare che a beneficiare della provvidenza siano soggetti che abbiano dimostrato un livello sufficiente di integrazione nella comunità presso la quale risiedono (Corte di giustizia, sentenza 23 marzo 2004, in causa C-138/02, Collins), anche al fine di evitare oneri irragionevoli onde preservare l’equilibrio finanziario del sistema locale di assistenza sociale (Corte di giustizia, sentenza 2 agosto 1993, in cause riunite C-259/91, C-331/91 e C-332/91, Allué). Non è, infatti, possibile presumere, in termini assoluti, che i cittadini dell’Unione che risiedano nel territorio regionale da meno di otto anni, ma che siano pur sempre ivi stabilmente residenti o dimoranti, e che quindi abbiano instaurato un legame con la comunità locale, versino in stato di bisogno minore rispetto a chi vi risiede o dimora da più anni e, per ciò stesso siano estromessi dalla possibilità di accedere al beneficio.
Sulla base di analoghe argomentazioni, è agevole ravvisare la portata irragionevolmente discriminatoria della norma regionale impugnata anche con riguardo ai cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. L’art. 11 della direttiva 2003/109/CE stabilisce, alla lettera f) del paragrafo 1, che il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda «l’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi, nonché alla procedura per l’ottenimento di un alloggio». Tale previsione, che è stata recepita dall’art. 9, comma 12, lettera c), del d.lgs. n. 286 del 1998 (nel testo modificato dal decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, recante «Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo»), mira ad impedire qualsiasi forma dissimulata di discriminazione che, applicando criteri di distinzione diversi dalla cittadinanza, conduca di fatto allo stesso risultato, a meno che non sia obiettivamente giustificata e proporzionata al suo scopo. La previsione di una certa anzianità di soggiorno o di residenza sul territorio ai fini dell’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, che si aggiunge al requisito prescritto per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo, costituito dal possesso del permesso di soggiorno da almeno cinque anni nel territorio dello Stato, ove tale soggiorno non sia avvenuto nel territorio della Regione, potrebbe trovare una ragionevole giustificazione nella finalità di evitare che detti alloggi siano assegnati a persone che, non avendo ancora un legame sufficientemente stabile con il territorio, possano poi rinunciare ad abitarvi, rendendoli inutilizzabili per altri che ne avrebbero diritto, in contrasto con la funzione socio-assistenziale dell’edilizia residenziale pubblica. Tuttavia, l’estensione di tale periodo di residenza fino ad una durata molto prolungata, come quella pari ad otto anni prescritta dalla norma impugnata, risulta palesemente sproporzionata allo scopo ed incoerente con le finalità stesse dell’edilizia residenziale pubblica, in quanto può finire con l’impedire l’accesso a tale servizio proprio a coloro che si trovino in condizioni di maggiore difficoltà e disagio abitativo, rientrando nella categoria dei soggetti in favore dei quali la stessa legge della Regione Valle d’Aosta n. 3 del 2013 dispone, all’art. 1, comma 1, lettera g), l’adozione di interventi, anche straordinari, finalizzati a fronteggiare emergenze abitative.
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettera b), della legge della Regione Valle d’Aosta n. 3 del 2013, nella parte in cui indica, fra i requisiti di accesso all’edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza nella Regione da almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente», per violazione dell’art. 3 e dell’art. 117, primo comma, Cost. in riferimento all’art. 21, paragrafo 1, del TFUE, all’art. 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE, nonché all’art. 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2003/109/CE.
3.– Restano assorbite le ulteriori censure formulate dal ricorrente.