Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso (qualificato come «ordinanza/ricorso») depositato il 15 giugno 2010, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Perugia – nell’ambito di un processo penale affidatogli – ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione alle note del 3 dicembre 2009, n. 50067/181.6/2/07.IX.I, e del 22 dicembre 2009, n. 52285/181.6/2/07.IX.I, aventi ad oggetto la conferma del segreto di Stato opposto in sede di conclusione delle indagini da due persone, poi imputate in detto processo.
1.1.– Riferisce il ricorrente di doversi pronunciare sulla richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero nei confronti del generale Nicolò Pollari, già direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (SISMI) dal 15 ottobre 2001, e di Pio Pompa, consulente dal novembre 2001 e quindi dipendente del medesimo Servizio dal dicembre 2004 al dicembre 2006, quale direttore di sezione addetto all’ufficio del direttore.
Agli imputati è contestato, in primo luogo, il delitto di peculato aggravato continuato in concorso (artt. 314, 81, secondo comma, 61, numero 2, e 110 del codice penale). Secondo l’ipotesi accusatoria, tra il 2001 e il luglio 2006, il Pompa – su richiesta o, comunque, con l’approvazione del Pollari, suo superiore gerarchico – avrebbe svolto attività dirette alla raccolta e all’elaborazione di informazioni sulle opinioni politiche, i contatti e le iniziative di magistrati, funzionari dello Stato, giornalisti e parlamentari, nonché sulle attività di associazioni di magistrati, anche europei, e di movimenti sindacali, ritenuti «di parte politica avversa», al fine di commettere o di far commettere a terzi diffamazioni, calunnie e abusi di ufficio in loro danno. Con ciò, gli imputati si sarebbero appropriati di somme e di risorse umane e materiali del SISMI, utilizzandoli per scopi palesemente estranei a quelli istituzionali del Servizio, oltre che in violazione delle disposizioni in materia di trattamento dei dati personali, di cui all’art. 58, in riferimento agli artt. 2 e 11 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali).
Agli imputati è contestato, inoltre, il delitto di violazione di corrispondenza aggravata continuata in concorso (artt. 616, primo comma, 81, secondo comma, 61, numero 9, e 110 cod. pen.), per avere, con abuso delle rispettive funzioni pubbliche, preso cognizione della «corrispondenza elettronica» circolante all’interno della lista chiusa dei destinatari delle comunicazioni dell’associazione MEDEL (Magistrats européens pour la démocratie et les libertés), ledendo, con ciò, la riservatezza del dibattito interno all’associazione (fatto accertato il 5 luglio 2006).
Al solo Pompa è addebitato, infine, il delitto di possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio (art. 260, primo comma, numero 3, cod. pen.), per essere stato colto, il 26 giugno 2007, in possesso di supporti informatici atti a fornire notizie che, nell’interesse della sicurezza dello Stato, dovevano rimanere segrete, «in quanto in parte protocollate agli atti del Servizio, inoltrate ad articolazioni competenti di esso e comunque relative, tra l’altro, a vicende militari in materia di terrorismo internazionale».
Ricevuta la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari – prosegue il ricorrente – tanto il Pollari che il Pompa avevano chiesto al pubblico ministero di essere sottoposti a interrogatorio, ai sensi dell’art. 415-bis, comma 3, del codice di procedura penale e in occasione di tale atto avevano poi rappresentato con memorie come, per difendersi compiutamente dalle accuse loro mosse, essi avrebbero dovuto rivelare notizie coperte da segreto di Stato, in quanto inerenti agli «interna corporis» del SISMI: quali, in specie, le direttive e gli ordini impartiti dalle competenti Autorità di Governo e dal direttore del Servizio agli appartenenti all’organismo, la posizione del Pompa all’interno di questo, i suoi rapporti con gli altri operatori del Servizio, le risorse utilizzate per la sua attività, l’attinenza o meno della documentazione richiamata nei capi d’accusa alla sicurezza dello Stato e la sua rilevanza per l’attività istituzionale del SISMI. Di conseguenza, gli indagati opponevano il segreto di Stato su tutti i fatti descritti nei capi di imputazione.
A fronte di ciò, il pubblico ministero, con note del 27 ottobre e del 16 novembre 2009, chiedeva al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 41 della legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto), di confermare l’esistenza del segreto di Stato riguardo a quattro circostanze, la cui conoscenza era ritenuta essenziale per la definizione del procedimento, e cioè: a) se il SISMI, durante il periodo in cui era stato diretto dal generale Pollari, avesse «finanziato in qualsiasi modo e forma, sia direttamente che indirettamente, la sede di Roma, via Nazionale, gestita da Pio Pompa»; b) se avesse «retribuito economicamente, in qualsiasi modo e forma, direttamente o indirettamente, il citato Pio Pompa o Jennj Tontodimamma»; c) se avesse «impartito ordini e direttive ai […] menzionati Pompa e Tontodimamma»; d) se, infine, avesse «impartito ordini e direttive ai […] menzionati Pompa e Tontodimamma di raccolta di informazioni su magistrati italiani o stranieri».
Con note del 3 e del 22 dicembre 2009, oggetto dell’odierna impugnativa, il Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento ai primi due punti della richiesta, dichiarava di confermare il segreto di Stato tanto in ordine a «modi e forme dirette e indirette di finanziamento per la gestione da parte di Pio Pompa della sede del SISMI di via Nazionale, allorché il Servizio era diretto da Nicolò Pollari»; quanto in relazione a «modi e forme di retribuzione, diretta o indiretta, di Pio Pompa e Jennj Tontodimamma, collaboratori prima e dipendenti poi del SISMI, diretto da Nicolò Pollari». Richiamando la sentenza n. 106 del 2009 di questa Corte, il Presidente del Consiglio rilevava come la conferma del segreto si imponesse per l’«esigenza di tutela degli interna corporis dell’allora SISMI con riferimento al disvelamento di dinamiche interne all’attività del Servizio».
Il Presidente del Consiglio confermava l’esistenza del segreto anche sulle altre due circostanze oggetto della richiesta, osservando che – alla luce di quanto precisato nella citata sentenza n. 106 del 2009 – «anche le direttive e gli ordini impartiti all’interno del servizio possono costituire interna corporis da tutelare, se dalla loro divulgazione vengono in evidenza, come nel caso in esame, profili attinenti alle modalità organizzative e a quelle tecnico-operative che è opportuno non disvelare»; profili che la vigente normativa sul segreto di Stato, e in particolare il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 aprile 2008 (Criteri per l’individuazione delle notizie, delle informazioni, dei documenti, degli atti, delle attività, delle cose e dei luoghi suscettibili di essere oggetto di segreto di Stato), considererebbero, d’altra parte, «tutelabili al massimo livello».
Il Presidente del Consiglio dichiarava, quindi, conclusivamente, di dover confermare il segreto di Stato su tutte le circostanze dianzi indicate «allo scopo di evitare danni gravi agli interessi individuati dal comma 1 dell’art. 39 della legge n. 124 [del] 2007».
Il successivo 29 dicembre 2009, il pubblico ministero chiedeva il rinvio a giudizio del Pollari e del Pompa, ritenendo che gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari – costituiti da dati non coperti da segreto di Stato, acquisiti essenzialmente a seguito della perquisizione e del conseguente sequestro operati il 5 luglio 2006 presso la sede del SISMI di via Nazionale in Roma – fossero comunque idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
Nell’udienza preliminare, il pubblico ministero sosteneva – con l’adesione dei difensori delle parti civili – che l’opposizione e la conferma del segreto di Stato non potessero assumere rilievo nell’attuale fase processuale, ma, semmai, solo nella successiva fase dibattimentale: ciò, in quanto gli imputati non avevano contestato la legittimità dell’ingresso nel fascicolo processuale di elementi già acquisiti, ma si erano limitati a dedurre l’impossibilità di produrre atti – peraltro, non indicati – in tesi necessari per la loro difesa, perché costituenti oggetto di segreto di Stato.
La validità dell’assunto era contestata dai difensori degli imputati, secondo i quali l’avvenuta conferma del segreto – concernente notizie essenziali per l’accertamento dei fatti e per l’esercizio della difesa – avrebbe imposto, al contrario, l’immediata declaratoria di non doversi procedere nei confronti degli imputati per l’esistenza del segreto di Stato, secondo quanto previsto dall’art. 41, comma 3, della legge n. 124 del 2007.
1.2.– Disattendendo la tesi del pubblico ministero e delle parti civili, il giudice ricorrente ritiene che la questione relativa alla sussistenza del segreto di Stato rilevi, in effetti, già nella fase processuale in corso, finalizzata ad una prima verifica della fondatezza delle accuse e dell’eventuale esistenza di cause di non punibilità o di situazioni ostative al seguito dell’azione penale. Nella specie, verrebbe segnatamente in considerazione l’impedimento all’esercizio del diritto di difesa degli imputati, derivante dall’impossibilità di contrastare le accuse loro mosse adducendo cause di giustificazione basate su atti coperti, in assunto, da segreto di Stato.
Al fine di rendere rilevante tale impedimento, non sarebbe, d’altro canto, necessario sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 41 (e, eventualmente, degli artt. 39 e 40) della legge n. 124 del 2007, così come sostenuto dal pubblico ministero e dalle parti civili. Nella sentenza n. 106 del 2009, questa Corte avrebbe, infatti, già implicitamente riconosciuto la conformità a Costituzione delle anzidette norme, omettendo di sollevare avanti a sé tale questione di legittimità costituzionale in un caso nel quale uno degli imputati aveva parimenti opposto il segreto di Stato, quale ostacolo al compiuto esercizio delle sue facoltà difensive.
1.3.– Tanto premesso, il ricorrente pone in dubbio, tuttavia, la legittimità degli atti di conferma del segreto, reputandoli lesivi delle proprie attribuzioni riconosciute dalla Costituzione.
In via preliminare, il ricorrente osserva come la legittimità degli atti impugnati debba essere appropriatamente verificata sulla base delle previsioni della legge n. 124 del 2007, vigente nel momento in cui il segreto di Stato è stato opposto e confermato, e non già di quelle della legge 24 ottobre 1977, n. 801 (Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato), in vigore all’epoca di commissione dei fatti di reato contestati agli imputati. Al di là della «portata definitoria» di talune disposizioni, la disciplina del segreto di Stato avrebbe, infatti, carattere processuale, rimanendo, perciò, soggetta al principio tempus regit actum, il quale comporta che, nel caso di successione di leggi nel tempo, la nuova disciplina si applichi anche ai procedimenti in corso, quanto alle attività non completamente «esaurite» nella vigenza della precedente normativa.
Del resto, la legge del 2007, benché foriera nel suo complesso di rilevanti innovazioni, parrebbe in una linea di sostanziale continuità con la disciplina previgente, quanto alla delimitazione dell’area degli interessi tutelabili a mezzo del segreto di Stato. L’art. 39, comma 1, di detta legge – richiamato negli atti impugnati – stabilisce, infatti, sulla falsariga dell’art. 12 della legge n. 801 del 1977, che «sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e difesa militare dello Stato». La disposizione recepirebbe, d’altra parte, le indicazioni di questa Corte, che – già prima della sentenza n. 106 del 2009 – aveva posto in evidenza come la disciplina del segreto di Stato involgesse il supremo interesse della sicurezza dello Stato nella sua personalità internazionale – riconosciuto dall’art. 52, in correlazione agli artt. 1 e 5 Cost. – vale a dire l’interesse dello Stato-comunità alla propria integrità territoriale e alla propria indipendenza, coincidente, al limite, con la sopravvivenza dello Stato stesso. Ciò, in quanto «un principio di segretezza che possa resistere anche dinanzi ad altri valori costituzionali, quali quelli tutelati dal potere giurisdizionale, deve […], a sua volta, trovare fondamento e giustificazione in esigenze anch’esse fatte proprie e garantite dalla Costituzione e che possano essere poste su un piano superiore» (sentenza n. 86 del 1977).
Ad avviso del ricorrente, l’oggetto del processo penale in corso non evocherebbe sotto alcun profilo i supremi interessi dianzi richiamati. Risulterebbe, al contrario, evidente – alla luce del complesso delle acquisizioni di indagine, recepite nei capi di imputazione – come tutta l’attività che, secondo l’ipotesi accusatoria, sarebbe stata indebitamente finanziata dal SISMI con risorse pubbliche si ponga al di fuori degli scopi istituzionali del Servizio.
A fronte di ciò, resterebbe inconferente il richiamo, parimenti operato dagli atti impugnati, al d.P.C.m. 8 aprile 2008, che, a integrazione del citato art. 39, comma 1, della legge n. 124 del 2007, stabilisce i criteri per l’individuazione delle notizie suscettibili di tutela a mezzo del segreto di Stato, recando, in allegato, un elenco esemplificativo di materie cui le notizie stesse possono attenere (art. 5 del decreto). Se è ben vero, infatti, che nell’ambito di tale elenco si rinvengono dei riferimenti (peraltro, gli unici) agli «interna corporis» dei servizi informativi (punti 6, 7 e 8), in nessuna parte di esso risulta, tuttavia, prevista la possibilità di opporre il segreto di Stato in relazione alla concessione di finanziamenti o all’emanazione di ordini e direttive per lo svolgimento di attività estranee alle finalità istituzionali del Servizio.
La circostanza risulterebbe tanto più significativa alla luce della disposizione dell’art. 26, comma 1, della stessa legge n. 124 del 2007, in forza della quale la raccolta e il trattamento delle notizie, da parte del Sistema di informazione per la sicurezza, debbono essere finalizzati esclusivamente al perseguimento dei suoi scopi istituzionali: precetto che il successivo comma 3 munisce di energico presidio sanzionatorio, punendo con la reclusione da tre a dieci anni (salvo che il fatto costituisca più grave reato) il personale dei servizi che istituisca, in qualsiasi forma, «schedari informativi» in violazione di esso.
Rimarchevole sarebbe, altresì, il fatto che l’art. 17 della legge n. 124 del 2007, nell’introdurre una speciale causa di giustificazione a favore del personale dei servizi che ponga in essere condotte previste dalla legge come reato, ne subordini espressamente l’operatività alla condizione che si tratti di condotte indispensabili alle finalità istituzionali dei servizi stessi, oltre che al rigoroso rispetto dei limiti stabiliti (commi 1 e 6, lettera a).
1.4.– Sotto diverso profilo, e con particolare riguardo al primo dei reati contestati agli imputati (quello di peculato), occorrerebbe anche tenere conto – secondo il ricorrente – della rilevanza costituzionale propria della materia della spesa pubblica, alla luce dei precetti espressi dagli artt. 3, 81, 97, 100 e 103 Cost.: precetti dai quali si desumerebbe l’esistenza di un generale obbligo dei soggetti pubblici di giustificare l’impiego delle risorse di cui dispongono, in conformità alle rispettive finalità istituzionali, e, al tempo stesso, l’esigenza che la gestione di dette risorse sia sempre soggetta a controllo, anche giurisdizionale.
A tali principi non si sottrarrebbe il settore dei servizi di informazione, relativamente ai quali l’art. 29 della legge n. 124 del 2007 dispone l’istituzione di una apposita unità previsionale di base nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’economia e delle finanze, stabilendo, altresì, che il relativo regolamento di contabilità venga adottato anche in deroga alle norme di contabilità generale dello Stato, ma comunque nel rispetto dei principi fondamentali da esse enunciati, nonché di ulteriori specifiche disposizioni, che prefigurano forme di controllo preventivo e di rendiconto (comma 3, lettere d ed e).
1.5.– Alla stregua delle considerazioni esposte, sarebbe, dunque, contraddittorio riconoscere che determinate condotte, tenute dal personale dei servizi al di fuori delle proprie attribuzioni istituzionali, siano sanzionate penalmente, e, nello stesso tempo, ammettere che il loro accertamento da parte dell’autorità giudiziaria possa venire inibito mediante l’opposizione indiscriminata del segreto di Stato sugli «interna corporis». Del pari sarebbe contraddittorio richiedere anche ai servizi di informazione il rispetto dei principi costituzionali in tema di impiego delle risorse pubbliche e, contemporaneamente, consentire che venga precluso l’accesso a qualunque notizia relativa alla concreta destinazione di tali risorse.
Non gioverebbe, in senso contrario, il richiamo operato dalle note impugnate alla sentenza n. 106 del 2009 di questa Corte, nella quale pure si riconosce che gli «interna corporis» del SISMI sono tutelabili mediante l’opposizione del segreto di Stato, al fine di proteggere il Servizio stesso e le sue modalità operative e organizzative da ogni indebita pubblicità. Tale principio sarebbe stato enunciato, infatti, con riguardo a una situazione fattuale sostanzialmente diversa da quella odierna, nella quale venivano in rilievo i rapporti tra l’intelligence italiana e quella di altri Stati e la connessa esigenza di preservare la «credibilità» internazionale della prima.
Rispetto all’ipotesi di peculato di cui al presente si discute, la conferma del segreto di Stato opposto dagli imputati verrebbe, per converso, a precludere al giudice penale – prima ancora dell’accertamento dell’esistenza di eventuali cause di giustificazione – la verifica del fatto in tutti i suoi elementi costitutivi, fornendo agli imputati stessi «una sorta di esimente “in bianco”, da spendere a piacimento», senza alcuna possibilità di riscontro da parte dell’autorità giudiziaria.
1.6.– Sotto questo profilo, la non opponibilità del segreto di Stato, nei termini di cui alle note impugnate, si desumerebbe dagli stessi principi tradizionalmente affermati dalla giurisprudenza costituzionale, letti alla luce della successiva evoluzione della disciplina legislativa della materia, la quale si sarebbe mossa nella direzione di un sempre maggiore contemperamento tra gli interessi alla cui tutela il segreto di Stato è preordinato e gli altri interessi protetti dalla Costituzione.
Già nella sentenza n. 110 del 1998, questa Corte avrebbe, infatti, evidenziato con chiarezza l’impossibilità di configurare una «immunità sostanziale» collegata all’attività dei servizi segreti. In aderenza a tale indicazione, il legislatore del 2007 – nell’introdurre la scriminante speciale a favore del personale dei servizi in precedenza ricordata – avrebbe quindi stabilito, proprio per non trasformare la scriminante in una immunità, che non possono costituire oggetto di segreto atti, notizie e documenti concernenti le condotte tenute da appartenenti ai servizi di informazione in violazione della disciplina relativa alla causa di giustificazione considerata (comma 1-bis dell’art. 204 cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 40, comma 3, della legge n. 124 del 2007).
Alla luce del quadro normativo di riferimento e del «principio di proporzionalità», già enucleato dalla precedente sentenza di questa Corte n. 86 del 1977, le esigenze di riserbo riguardo alle modalità organizzative e operative del Servizio – evocate dalla sentenza n. 106 del 2009 – non potrebbero costituire, dunque, oggetto di tutela indiscriminata, specie quando vengano in considerazione condotte di appartenenti al Servizio aventi carattere criminoso. La configurabilità del segreto di Stato rimarrebbe subordinata, di contro, alla concreta preminenza degli interessi che esso mira a salvaguardare rispetto agli altri beni costituzionalmente protetti, tra cui quello della corretta amministrazione della giustizia.
In questa prospettiva, l’atto con il quale il Presidente del Consiglio dei ministri confermi il segreto di Stato opposto dell’ambito di un procedimento penale non potrebbe, dunque, prescindere da una congrua motivazione, la quale dia conto delle ragioni della prevalenza della tutela degli «interna corporis» su ogni altro interesse salvaguardato da norme costituzionali. Lo stesso art. 41, comma 5, della legge n. 124 del 2007 è, del resto, esplicito nel richiedere che la conferma abbia luogo con «atto motivato».
A fronte di tale disposizione e di quella del comma 8 dello stesso art. 41, per cui in nessun caso il segreto di Stato è opponibile alla Corte costituzionale, non potrebbe essere considerato, quindi, ancora attuale, nella sua assolutezza, il principio enunciato dalla sentenza n. 86 del 1977, secondo il quale la decisione del Presidente del Consiglio dei ministri – stante il carattere squisitamente «politico» – non sarebbe soggetta ad alcun sindacato giurisdizionale, ma esclusivamente al controllo del Parlamento.
La circostanza che l’atto di conferma del segreto costituisca espressione di discrezionalità politica potrebbe valere, bensì, a sottrarlo al sindacato dell’autorità giudiziaria ordinaria, ma non anche a quello della Corte costituzionale, essendo la Corte chiamata a svolgere funzioni di controllo su atti tipicamente politici, come le leggi, nonché a decidere i conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, inclusi quelli titolari di poteri politici. Diversamente opinando, d’altro canto, si assisterebbe a un inaccettabile abbassamento del livello delle garanzie poste a tutela di funzioni anch’esse essenziali dello Stato e di diritti individuali, e si priverebbe, al tempo stesso, di ogni concreto significato lo specifico riferimento alla possibile proposizione del conflitto di attribuzione contro l’atto di conferma del segreto, pure contenuto nell’art. 41, commi 7 e 8, della legge n. 124 del 2007.
1.7.– Il ricorrente chiede, pertanto, a questa Corte di dichiarare che non spettava al Presidente del Consiglio dei ministri adottare gli atti di conferma del segreto di Stato impugnati e, per l’effetto, di annullarli.
2.– Il ricorso è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 376 del 2010, «impregiudicata ogni ulteriore e diversa determinazione anche relativamente ai profili attinenti alla stessa ammissibilità del ricorso».
3.– Si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso venga dichiarato in parte inammissibile e, per il resto, infondato.
3.1.– Svolte alcune considerazioni di carattere generale in ordine alla giurisprudenza di questa Corte e alla vigente disciplina legislativa in materia di segreto di Stato, l’Avvocatura dello Stato rileva come – contrariamente a quanto sostenuto dal giudice ricorrente – le notizie oggetto degli atti impugnati rientrino senz’altro nel novero di quelle tutelabili a mezzo del segreto di Stato ai sensi del d.P.C.m. 8 aprile 2008. Dette notizie risulterebbero, infatti, ricomprese nell’ampia previsione dell’art. 3 del decreto, che fa riferimento alle informazioni la cui diffusione sia idonea ad arrecare un danno grave ai supremi interessi dello Stato, indicati nel medesimo articolo in termini omologhi a quelli dell’art. 39, comma 1, della legge n. 124 del 2007. Le medesime notizie sarebbero, d’altra parte, agevolmente inquadrabili fra quelle inerenti alle attribuzioni, alla programmazione, alla pianificazione, all’impiego e alle strutture dei servizi informativi, specificamente menzionate nel punto 6 dell’elenco allegato al citato d.P.C.m.: elenco che ha, peraltro, carattere meramente esemplificativo. Risulterebbe evidente, in particolare, che la divulgazione dei dati relativi all’esistenza e alle modalità dei finanziamenti di una sede operativa del Servizio consentirebbe di conoscere i modi di ottenimento delle informazioni e i luoghi di svolgimento delle operazioni di intelligence, investendo i relativi assetti organizzativi e operativi.
Né varrebbe fare leva, in senso contrario, sulla disciplina penalistica contenuta nella legge n. 124 del 2007, in base alla quale la speciale scriminante prevista dall’art. 17 non opera rispetto alle attività estranee ai compiti istituzionali dei servizi. Nel confermare l’esistenza del segreto di Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri non avrebbe certamente inteso segretare le attività illegali contestate agli imputati, ma si sarebbe limitato a individuare delle notizie destinate a rimanere segrete, sulla base di una valutazione, squisitamente politica, dell’idoneità della loro rivelazione a nuocere alla sicurezza dello Stato.
3.2.– Parimenti non condivisibile risulterebbe l’ulteriore argomento del ricorrente, stando al quale non si potrebbe, senza cadere in contraddizione, considerare punibili le condotte poste in essere dal personale dei servizi per fini estranei a quelli istituzionali e, al tempo stesso, lasciare che ne venga impedito l’accertamento, mediante l’opposizione – in assunto indiscriminata – del segreto di Stato.
Alla luce di quanto stabilito, in conformità alle indicazioni della giurisprudenza di questa Corte, dall’art. 202 cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 40 della legge n. 124 del 2007, la conferma del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio dei ministri non impedisce al pubblico ministero di indagare sui fatti di reato cui si riferisce la notitia criminis in suo possesso, e di esercitare, se del caso, l’azione penale, ma inibisce all’autorità giudiziaria soltanto l’acquisizione e l’utilizzazione, anche indiretta, degli elementi di conoscenza coperti dal segreto.
L’apposizione del segreto su una o più fonti di prova non è, dunque, incompatibile, in linea di principio, con la possibilità di procedere all’accertamento del fatto di reato sulla base di elementi autonomi. È solo la mancanza di questi ultimi, unitamente all’essenzialità delle fonti di prova sottoposte a segreto, a imporre al giudice la dichiarazione di non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato, ai sensi dell’art. 202, comma 3, cod. proc. pen.
In questa prospettiva, l’eventualità che l’opposizione e la conferma del segreto vengano, in linea di fatto, a precludere al giudice l’accertamento di taluno dei reati sottoposti alla sua cognizione, lungi dal giustificare la doglianza di lesione della sfera di attribuzioni riservata al potere giudiziario, costituirebbe una evenienza assolutamente fisiologica, come attesta proprio la previsione legislativa della declaratoria di non doversi procedere ora ricordata.
3.3.– Privo di fondamento risulterebbe anche l’assunto del ricorrente secondo il quale la segretazione dell’esistenza e delle modalità dei finanziamenti relativi alla sede di via Nazionale, precludendo l’accesso alle informazioni relative alla destinazione dei fondi gestiti dal Servizio, contrasterebbe con la necessità che anche i servizi di sicurezza rispettino i principi costituzionali in materia di impiego delle risorse pubbliche.
Il Giudice perugino non avrebbe tenuto adeguato conto, infatti, della speciale disciplina dettata dall’art. 29 della legge n. 124 del 2007 – pure da lui richiamato – riguardo al controllo sulla gestione dei fondi assegnati ai servizi, in correlazione all’assoluta peculiarità delle funzioni che essi sono chiamati a svolgere. Detto controllo sarebbe congegnato in modo da non precludere la verifica della rispondenza della gestione alle finalità istituzionali, articolandosi in un controllo successivo sulla legittimità e regolarità della gestione stessa, mediante l’esame del bilancio consuntivo da parte di un ufficio della Corte dei conti distaccato presso il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), e in un controllo preventivo sugli atti di gestione delle spese ordinarie, da parte di un ufficio – parimenti distaccato presso il DIS – facente capo all’Ufficio bilancio e ragioneria della Presidenza del Consiglio dei ministri (art. 29, comma 3, lettere c e d, della legge n. 124 del 2007). Il riserbo sulle relative informazioni risulterebbe assicurato dal vincolo del segreto, cui i componenti dei predetti uffici distaccati sono espressamente tenuti (art. 29, comma 3, lettera e).
La lettera f) del citato art. 29 attribuisce, inoltre, in via esclusiva ai responsabili dei servizi la competenza ad adottare gli atti di gestione delle spese riservate, con obbligo di rendiconto trimestrale e di relazione finale annuale al Presidente del Consiglio dei ministri, prefigurando, così, un controllo di tipo esclusivamente politico su dette spese; mentre la lettera g) impone la trasmissione al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) del consuntivo della gestione finanziaria delle spese ordinarie, nonché la presentazione a tale organo parlamentare di un’informativa semestrale sulle singole linee essenziali della gestione finanziaria delle spese riservate.
In tale quadro, non sarebbe, dunque, affatto anomala la segretazione dell’esistenza e delle modalità dei finanziamenti di una singola struttura del Servizio.
3.4.– Non significativa sarebbe, per altro verso, la circostanza – su cui il ricorrente pone l’accento – che, nel caso di specie, gli interna corporis del SISMI non vengano in considerazione con riferimento ai rapporti tra l’intelligence italiana e quella di altri Stati, diversamente che nella fattispecie esaminata dalla sentenza n. 106 del 2009.
La conferma del segreto di Stato, ritenuta legittima da tale sentenza, è stata, infatti, giustificata non soltanto con la necessità di preservare la credibilità del Servizio italiano nell’ambito dei rapporti internazionali, ma anche, e più in generale, con l’esigenza – intrinseca alla qualità stessa del Servizio – di porre le proprie modalità organizzative e operative al riparo dagli ovvi ed esiziali rischi di una indistinta conoscibilità.
3.5.– Destinato all’insuccesso sarebbe, altresì, il tentativo del ricorrente di far emergere una discontinuità tra la giurisprudenza di questa Corte antecedente alla legge n. 124 del 2007 e la sentenza n. 106 del 2009, con riguardo ai limiti di sindacabilità degli atti di conferma del segreto di Stato.
Detta sentenza avrebbe ribadito, in realtà, senza riserve il consolidato principio per cui le modalità di esercizio del potere di individuazione delle notizie destinate a rimanere segrete nel supremo interesse alla sicurezza dello Stato, spettante al Presidente del Consiglio dei ministri, sono soggette a un sindacato esclusivamente parlamentare, stante la natura eminentemente politica delle sottostanti valutazioni e la spettanza al solo Parlamento del controllo nel merito delle più alte e gravi decisioni dell’Esecutivo. Tale principio – in precedenza riflesso nella disciplina dettata dall’art. 16 della legge n. 801 del 1977 – sarebbe stato, d’altra parte, pienamente confermato dalla legge n. 124 del 2007, nel regolare in modo più articolato il controllo esercitato dal COPASIR sulla politica informativa per la sicurezza dello Stato (art. 31).
3.6.– Neppure potrebbe accedersi, infine, alla tesi del Giudice perugino, secondo la quale l’atto di conferma del segreto resterebbe comunque sindacabile, sotto il profilo dell’adeguatezza della motivazione, dalla Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzione, quanto meno al fine di verificare «il rispetto dei limiti che inquadrano in un ambito costituzionalmente definito ed accettabile l’avvenuta opposizione/conferma del segreto».
Tale motivo di ricorso sarebbe inammissibile per genericità, stante la «palese […] inconsistenza» del parametro costituzionale alla cui stregua la Corte dovrebbe esercitare il suo ipotetico sindacato.
La tesi del ricorrente risulterebbe, in ogni caso, manifestamente infondata. L’art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), con disposizione di chiara valenza sistematica, impone infatti alla Corte, nei giudizi di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, di astenersi da ogni valutazione di tipo politico e da ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento. La natura politica del potere di conferma del segreto di Stato renderebbe la posizione del Presidente del Consiglio dei ministri assimilabile, per questo verso, a quella del Parlamento: con la conseguenza che, anche in sede di risoluzione dei conflitti tra poteri dello Stato insorti in tale materia, la Corte non potrebbe decidere sulla base di valutazioni di tipo politico, ma solo sulla scorta di considerazioni di stretto diritto positivo.
3.7.– In conclusione – secondo il resistente – gli atti impugnati risulterebbero pienamente legittimi, in quanto sorretti da motivazione non arbitraria o irrazionale, che si concreta nel riferimento alla riconducibilità delle notizie in essi indicate alle ipotesi normativamente previste di opposizione e conferma del segreto di Stato. Ciò che manca – né potrebbe essere altrimenti, a meno di vanificare le stesse ragioni dell’apposizione del segreto – è solo «la specifica indicazione delle ragioni di opportunità e soprattutto della valutazione di pertinenza delle circostanze prese in considerazione con le ipotesi normativamente ora previste nell’allegato al d.P.C.m. 8 aprile 2008».
4.– In prossimità dell’udienza pubblica, il giudice ricorrente ha depositato una memoria illustrativa, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
4.1.– In essa egli rammenta come il procedimento penale da cui il conflitto trae origine abbia preso avvio a seguito del sequestro eseguito il 5 luglio 2006 dalla Procura della Repubblica di Milano, nell’ambito di altro procedimento, presso la sede del SISMI di via Nazionale in Roma, gestita da Pio Pompa. Nell’occasione, era stato rinvenuto un archivio contenente un gran numero di dossier sulla vita, sull’attività e sugli orientamenti politici di funzionari dello Stato, giornalisti, parlamentari e magistrati e sulle attività di movimenti sindacali e associazioni di magistrati. Alla luce dei documenti sequestrati, la raccolta di informazioni sarebbe dovuta servire di base per iniziative volte a «delegittimare», tramite diffamazioni e calunnie, i soggetti «monitorati», in quanto «vicini a una determinata parte politica», avversa alla maggioranza di Governo del momento.
Si tratterebbe di materiale «inquietante», al punto da aver indotto il Parlamento a introdurre, con la legge n. 124 del 2007 – proprio a fronte dello scandalo seguito al sequestro di via Nazionale – il reato (severamente punito) di istituzione e utilizzazione di schedari informativi per finalità estranee agli scopi istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza, unitamente all’espresso divieto di istituzione, da parte del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) e dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI), di archivi diversi da quelli la cui esistenza sia stata ufficialmente comunicata al COPASIR (art. 26).
Sarebbe evidente, d’altro canto, come la formazione di dossier su magistrati, funzionari e giornalisti, ove giustificata solo dalle loro (reali o presunte) idee politiche e finalizzata a screditarli, non risponda alle finalità istituzionali dei servizi, ma costituisca, al contrario, una «attività deviata», «ai confini con l’eversione costituzionale». In nessun caso essa potrebbe ritenersi, quindi, coperta da segreto di Stato: secondo il costante orientamento della Corte costituzionale e alla luce di quanto stabilito dapprima dall’art. 12 della legge n. 801 del 1977 e, oggi, dall’art. 39 della legge n. 124 del 2007, possono essere, infatti, oggetto di segreto di Stato le sole notizie la cui diffusione esponga a pericolo un ristretto catalogo di interessi “superiori” (integrità dello Stato anche in relazione ad accordi internazionali, difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati, relazioni internazionali, preparazione e difesa militare dello Stato). L’accertamento delle responsabilità penali per la formazione dei dossier rinvenuti in via Nazionale non solo non porrebbe affatto in pericolo i predetti interessi, ma, al contrario, sarebbe esso stesso necessario per la difesa di una istituzione posta dalla Costituzione a suo fondamento, vale a dire la magistratura.
4.2.– Tanto puntualizzato, il Giudice ricorrente rileva, altresì, come il Pollari e il Pompa, nelle memorie, rispettivamente, del 27 luglio e del 12 novembre 2009, si fossero entrambi difesi dal primo dei reati loro contestati (quello di peculato) sostenendo che i documenti sequestrati sarebbero stati raccolti, per la quasi totalità, dal Pompa anteriormente alla sua assunzione alle dipendenze del SISMI, e, in parte, anche prima dell’inizio della sua collaborazione esterna con il Servizio, avvalendosi di mezzi e risorse personali. Detta documentazione sarebbe stata, inoltre, formata sulla base di notizie tratte da organi di informazione e da internet.
Gli indagati avevano, tuttavia, contemporaneamente dedotto che, «per fornire ulteriori e decisivi elementi idonei a dimostrare in modo inconfutabile la totale insussistenza dei fatti ascritti», essi avrebbero dovuto riferire notizie coperte da segreto di Stato, concernenti gli «interna corporis» del Servizio. Entrambi avevano, quindi, opposto il segreto di Stato «su tutti i fatti descritti nell’ipotesi accusatoria».
Ad avviso del ricorrente, vi sarebbe una evidente contraddizione logica tra la tesi difensiva “principale” e l’opposizione del segreto. Se fosse vero, infatti, che il Pompa ha formato i dossier a proprie spese, si tratterebbe di un’attività del tutto estranea agli interna corporis del SISMI. Soprattutto, però, non si comprenderebbe come le notizie che entrambi gli indagati hanno sostenuto essere coperte da segreto di Stato possano valere a scagionare, al tempo stesso, sia l’uno che l’altro. Affermando di non poter dimostrare la propria innocenza se non svelando gli interna corporis del Servizio, il Pompa avrebbe, infatti, implicitamente sostenuto di aver agito in esecuzione di ordini e direttive di un suo superiore (con conseguente operatività della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen.). Opponendo nei medesimi termini il segreto, il Pollari avrebbe lasciato intuire l’esatto contrario, ossia che esisterebbero prove del fatto che il Pompa abbia agito senza che egli, all’epoca direttore del Servizio, ne sapesse alcunché. In un simile contesto, non potrebbe quindi non sorgere il sospetto che almeno uno degli indagati abbia opposto il segreto, non già a tutela della salus rei publicae, quanto piuttosto per sottrarsi all’accertamento della sua responsabilità penale.
Considerazioni similari varrebbero anche in rapporto alla linea difensiva degli indagati relativa al secondo capo di imputazione (violazione di corrispondenza). Entrambi gli indagati avevano sostenuto, infatti, da un lato, che la corrispondenza interna all’associazione MEDEL sarebbe stata scaricata da siti internet liberamente accessibili, e, dall’altro, di trovarsi, tuttavia, nell’impossibilità di dimostrare in modo inconfutabile l’insussistenza del fatto, per «l’esistenza del segreto di Stato su circostanze fondamentali per la propria difesa»: segreto che avevano, quindi, nuovamente opposto «su tutti i fatti descritti nel capo di imputazione».
Nei medesimi ampi termini il segreto di Stato era stato opposto, infine, dal Pompa in relazione al terzo reato, a lui esclusivamente ascritto (possesso di notizie che nell’interesse dello Stato dovevano rimanere segrete).
In sostanza, dunque, gli indagati non avevano opposto il segreto di Stato a fronte di una specifica domanda loro rivolta dal pubblico ministero, o comunque in riferimento a una determinata notizia, ma lo avevano opposto in modo generico e onnicomprensivo su tutti i fatti loro contestati, asserendo che tale segreto sarebbe stato di ostacolo all’articolazione delle proprie difese e sostenendo, poi – in sede di udienza preliminare, dopo che era intervenuta la conferma del Presidente del Consiglio dei ministri – che, a fronte di ciò, il Giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto necessariamente pervenire alla dichiarazione di non doversi procedere nei confronti di entrambi.
Al riguardo, il ricorrente dubita, tuttavia, che l’opposizione del segreto di Stato possa avere un oggetto così ampio e generico, da impedirgli di conoscere «l’intera fenomenologia del fatto in tutti i suoi elementi costitutivi». È, in effetti, possibile che una o più prove dell’esistenza di una causa di giustificazione, ovvero dell’estraneità dell’imputato ai fatti a lui addebitati, siano coperte da segreto di Stato, ma – affinché ciò possa portare a una pronuncia di non luogo a procedere – occorrerebbe quanto meno un «“principio di prova”, ovvero la delimitazione del segreto in un contesto difensivo univoco e non contraddittorio».
4.3.– Il ricorrente osserva, per altro verso, come il pubblico ministero, con note del 27 ottobre e del 16 novembre 2009, abbia chiesto al Presidente del Consiglio dei ministri di confermare l’opposizione del segreto su quattro distinte circostanze, ritenute essenziali ai fini del procedimento penale.
Con riferimento ai primi due punti della richiesta, la conferma del segreto sarebbe illegittima sotto un duplice profilo.
In primo luogo, perché risulterebbe frutto di un travisamento dell’oggetto della richiesta. La Procura della Repubblica aveva chiesto, infatti, la conferma del segreto riguardo al «se» la sede di via Nazionale fosse stata finanziata dal SISMI, durante il periodo in cui era stato diretto dal Pollari, e al «se» il Pompa e la Tontodimamma fossero stati retribuiti dal Servizio. Il Presidente del Consiglio avrebbe confermato invece il segreto su circostanze diverse e ulteriori, non essenziali per il procedimento penale: vale a dire, non sull’«esistenza», ma sui «modi» e sulle «forme» di detto finanziamento e di dette retribuzioni.
La conferma sarebbe illegittima, in secondo luogo, perché la richiesta riguardava, per tale parte, circostanze palesemente non segrete. Sarebbe, infatti, notorio che il Pompa e la Tontodimamma siano stati alle dipendenze del SISMI, al punto che le qualifiche da essi rivestite risultano riaffermate dallo stesso Presidente del Consiglio dei ministri nelle note impugnate. Di conseguenza, risulterebbe del tutto pacifico che essi venissero retribuiti dal Servizio, in quanto collaboratori prima e dipendenti poi. Egualmente notoria sarebbe la circostanza che l’appartamento di via Nazionale nel quale è stato effettuato il sequestro fosse una sede del SISMI. Tale circostanza sarebbe stata, in effetti, anch’essa ribadita nelle note impugnate ed emergerebbe dalla stessa motivazione della sentenza n. 106 del 2009 di questa Corte – occupatasi, sotto altro profilo, del sequestro in questione – senza che nessuno, nel corso del giudizio, avesse dedotto trattarsi di una notizia coperta da segreto. D’altra parte, proprio perché si trattava di una sede del SISMI, sarebbe ovvio – e non certo segreto – che essa venisse finanziata dal Servizio.
Spostando l’attenzione dall’esistenza delle retribuzioni e dei finanziamenti alle «forme» e ai «modi» dei medesimi, le note del Presidente del Consiglio porterebbero all’assurdo risultato di rendere non utilizzabili nel processo circostanze ormai di pubblico dominio, la cui diffusione non creerebbe, dunque, alcun pericolo per le esigenze primarie che il segreto di Stato mira a tutelare.
Un discorso analogo varrebbe anche in rapporto alla conferma del segreto sul terzo punto della richiesta. L’oggetto di quest’ultima era unicamente il fatto che il Pompa e la Tontodimamma ricevessero ordini o direttive dal SISMI, e non già – come sembrerebbero supporre gli atti impugnati – l’esistenza di una specifica direttiva o la sua esibizione. D’altra parte, essendo notorio che il Pompa e la Tontodimamma siano stati alle dipendenze del Servizio, dovrebbe risultare pacifico – e non già segreto – che a essi venissero impartiti ordini e direttive.
Una ulteriore ragione di illegittimità degli atti impugnati, in rapporto ai tre punti in questione, risiederebbe nel fatto che il segreto potrebbe riguardare solo notizie o atti specifici, non essendo ipotizzabile che tutte le retribuzioni dei dipendenti dei servizi di informazione, tutte le spese sostenute per le loro sedi e tutte le direttive ad essi impartite siano coperte da segreto di Stato, e perciò non acquisibili e non utilizzabili dall’autorità giudiziaria.
In realtà, il vero e unico punto nodale – tra quelli oggetto della richiesta di conferma del segreto di Stato – ai fini della verifica della fondatezza delle difese dei due indagati sarebbe il quarto: sapere, cioè, se, nel procedere alla raccolta di informazioni su magistrati e altri soggetti considerati «ostili», il Pompa avesse o meno agito in esecuzione di ordini o direttive del Servizio.
Anche in relazione a tale punto, la conferma del segreto risulterebbe, peraltro, illegittima. Ove, infatti, una direttiva nei sensi indicati non esistesse, non si comprenderebbe quale sia l’oggetto del segreto. Qualora, al contrario, il direttore del SISMI avesse ordinato al Pompa e alla Tontodimamma la formazione dei dossier in questione, si tratterebbe di una gravissima deviazione dagli scopi istituzionali del Servizio, ai limiti del tentativo di eversione costituzionale, con la conseguenza che una simile direttiva non potrebbe mai essere coperta dal segreto di Stato.
4.4.– Gli atti impugnati sarebbero, infine, illegittimi perché, rendendo impossibile l’accertamento penale dei fatti, trasformerebbero l’opposizione del segreto di Stato in una sorta di «esimente in bianco».
Al riguardo, il ricorrente ricorda come il rapporto tra diritto di difesa dell’imputato e segreto di Stato sia stato al centro di un ampio dibattito. Nel vigore del codice di procedura penale del 1930, la giurisprudenza di legittimità aveva, in particolare, escluso che la disposizione di cui all’art. 352 di detto codice, in tema di opposizione del segreto di Stato, potesse applicarsi, oltre che al testimone, anche all’imputato, il quale, da un lato, aveva ampia libertà di articolare la propria difesa, anche rifiutandosi di rispondere alle domande che gli venivano rivolte, e, dall’altro, qualora si fosse trovato nella necessità di rivelare fatti coperti da segreto di Stato a fini difensivi, doveva ritenersi legittimato a farlo, rimanendo la sua condotta scriminata dall’art. 51 cod. pen.
Più di recente, il problema si era, peraltro, riproposto nel corso del processo relativo al sequestro di persona ai danni di [Nasr Osama Mustafa Hassan, alias] Abu Omar – da cui sono scaturiti i conflitti di attribuzione decisi dalla sentenza n. 106 del 2009 – giacché anche nell’occasione il generale Pollari aveva dedotto che esistevano prove della sua innocenza, non producibili in giudizio perché coperte da segreto di Stato.
Prima ancora che la Corte costituzionale si pronunciasse, era intervenuto, tuttavia, il legislatore con la legge n. 124 del 2007, il cui art. 41 vieta in termini generali ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati e agli incaricati di pubblico servizio di riferire riguardo a fatti coperti dal segreto di Stato, e disciplina l’opposizione del segreto nel processo penale da parte di soggetti diversi dai testimoni, ivi compresi, dunque – secondo il ricorrente – gli imputati e le persone sottoposte alle indagini.
La citata disposizione – scaturita da un intenso dibattito parlamentare – non avrebbe, peraltro, affatto previsto che alla mera deduzione, da parte dell’imputato, dell’esistenza di non ben definite prove della sua innocenza coperte da segreto di Stato debba automaticamente seguire una pronuncia di proscioglimento. Essa avrebbe adottato, di contro, una soluzione «aperta» riguardo al problema dell’operatività della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen., demandando, in sostanza, il bilanciamento dei valori in gioco – diritto di difesa e tutela del segreto – alle scelte difensive dell’imputato e alla valutazione del giudice.
In proposito, occorrerebbe anche considerare che, a differenza della legge n. 801 del 1977, la quale non delineava alcuna ipotesi di immunità sostanziale collegata all’attività dei servizi informativi (come rilevato anche dalla sentenza n. 110 del 1998 di questa Corte), la legge n. 124 del 2007 ha invece previsto una scriminante speciale per il personale dei Servizi di informazione e di sicurezza, fissandone, tuttavia, in modo puntuale presupposti e limiti di operatività, in modo da prevenire qualsiasi abuso (artt. 17, 18, 19 e 39). In particolare, è previsto, da un lato, che la scriminante operi solo in rapporto alle condotte indispensabili alle finalità istituzionali dei servizi e previa autorizzazione scritta del Presidente del Consiglio dei ministri; dall’altro, che la Corte costituzionale – adita in sede di conflitto di attribuzione – debba verificare l’esistenza dell’autorizzazione e valutarne la legittimità.
Alla luce di ciò, sarebbe, dunque, impensabile che gli agenti dei servizi imputati di un reato possano sottrarsi al giudizio penale semplicemente affermando che esistono prove della loro innocenza non acquisibili in quanto coperte da segreto di Stato. Proprio questa strategia difensiva sarebbe stata, per contro, avallata dal Presidente del Consiglio dei ministri nel caso di specie.
4.5.– A fronte di tutto ciò, sarebbe quindi necessario, ad avviso del ricorrente, da parte di questa Corte verificare la reale esistenza delle prove allegate dagli imputati e la legittimità della loro segretazione.
Ciò non significherebbe sindacare nel merito l’esercizio del potere di segretazione – operazione, questa, preclusa alla Corte, come ribadito dalla sentenza n. 106 del 2009 – ma soltanto controllare, in fatto, che non vi sia stato un palese abuso dell’istituto del segreto di Stato. Tale controllo potrebbe essere agevolmente svolto dalla Corte, nell’esercizio dei propri poteri istruttori, chiedendo al Presidente del Consiglio dei ministri l’ostensione degli atti in questione (se esistenti), non essendole il segreto di Stato in nessun caso opponibile (art. 41, comma 8, della legge n. 124 del 2007).
D’altra parte, ove pure riscontrasse l’esistenza di atti interni al Servizio che possano scriminare uno o entrambi gli imputati, la Corte non potrebbe comunque esimersi dal verificare se essi rispondano ai fini istituzionali dell’organismo, giacché, in caso contrario, essi non potrebbero essere considerati «interna corporis», né coperti da segreto di Stato.
5.– Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria, insistendo per il rigetto del ricorso.
Nel ribadire e sviluppare le precedenti eccezioni e difese, il resistente si sofferma, in particolare, sulla non configurabilità del denunciato vulnus ai principi costituzionali in tema di controllo sulla gestione delle risorse pubbliche, rilevando come – alla luce della speciale disciplina dettata dall’art. 29 della legge n. 124 del 2007, già richiamata in sede di costituzione in giudizio – i dati relativi ai finanziamenti dei servizi e alle modalità di gestione di tali finanziamenti debbano ritenersi, non già semplicemente suscettibili di segretazione, ma addirittura senz’altro coperti da segreto, nell’ottica di garantire l’efficienza e la funzionalità dei servizi stessi.
Né, d’altro canto, la suddetta disciplina speciale – segnatamente nella parte in cui prefigura un controllo di tipo esclusivamente politico sulla gestione delle spese riservate – contrasterebbe, sotto alcun profilo, con i parametri evocati dal ricorrente. Non pertinente sarebbe, infatti, il riferimento all’art. 81 Cost., trattandosi di disposizione che non riguarda la disciplina del controllo sulla gestione finanziaria dello Stato, ma la formazione della legge di bilancio. Dalla disposizione combinata degli artt. 100 e 103 Cost. – che attribuiscono alla Corte dei conti competenze relative al controllo preventivo e successivo in materia di contabilità pubblica e gestione finanziaria – non potrebbe, inoltre, desumersi l’illegittimità della sottrazione al sindacato giurisdizionale della gestione dei fondi riservati assegnati ai servizi, in quanto la concreta delimitazione delle competenze della Corte dei conti resterebbe comunque affidata alla discrezionalità del legislatore. Nella specie, d’altra parte, la previsione di un controllo esclusivamente politico sulle spese riservate non sarebbe affatto irragionevole, né contrastante con il principio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, enunciato dall’art. 97 Cost., trovando giustificazione nella specificità delle funzioni assolte dai servizi.
Considerato in diritto
1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Perugia, nell’ambito di un processo penale che vede imputati un ex direttore del SISMI (il generale Nicolò Pollari) e un ex collaboratore e poi dipendente del medesimo Servizio (Pio Pompa), ha proposto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione alle note del 3 dicembre 2009, n. 50067/181.6/2/07.IX.I, e del 22 dicembre 2009, n. 52285/181.6/2/07.IX.I, con le quali è stato confermato – nei termini ivi indicati – il segreto di Stato opposto dai sunnominati Pollari e Pompa in occasione dell’interrogatorio reso ai sensi dell’art. 415-bis, comma 3, del codice di procedura penale.
2.– Giova, al riguardo, preliminarmente riepilogare, nei suoi termini essenziali, la vicenda che ha dato origine al conflitto, quale emerge dalle deduzioni e dalle produzioni documentali delle parti.
Il processo di cui il ricorrente è investito trae origine dalla perquisizione e dal conseguente sequestro eseguiti il 5 luglio 2006 dalla Procura della Repubblica di Milano, nell’ambito di altro procedimento, presso la sede del SISMI di via Nazionale in Roma, che si deduce gestita dal Pompa. Nell’occasione, era rinvenuto un archivio contenente numerosi dossier sulla vita, sull’attività e sugli orientamenti politici di magistrati, funzionari statali, giornalisti e parlamentari e sulle attività di movimenti sindacali e associazioni di magistrati. Secondo l’ipotesi accusatoria, alla luce dei documenti sequestrati, detta raccolta di informazioni avrebbe avuto come obiettivo quello di screditare, mediante diffamazioni, calunnie e abusi di ufficio, i soggetti interessati, considerati «ostili» in ragione delle loro idee politiche.
A seguito di ciò, il Pollari e il Pompa erano sottoposti a procedimento penale in relazione – per quanto qui interessa – a due ipotesi di reato. Da un lato, quella di peculato aggravato continuato, per essersi appropriati, in concorso tra loro, di somme e di risorse materiali e umane del SISMI, impiegandoli per scopi palesemente estranei alle finalità istituzionali del Servizio, quale l’anzidetta attività di raccolta e trattamento di informazioni. Dall’altro, quella di violazione di corrispondenza aggravata continuata, per aver preso cognizione, sempre in concorso fra loro, della corrispondenza informatica inerente a una associazione di magistrati europei (la MEDEL). Al solo Pompa era contestato, inoltre, il delitto di cui all’art. 260, numero 3, del codice penale, per essere stato colto successivamente in possesso di documenti informatici atti a fornire notizie destinate a rimanere segrete nell’interesse dello Stato.
Ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, gli indagati chiedevano e ottenevano di essere sottoposti a interrogatorio, ai sensi dell’art. 415-bis, comma 3, cod. proc. pen. In tale sede, attraverso memorie che depositavano, contestavano entrambi gli addebiti loro mossi. Quanto al peculato, assumevano che la documentazione sequestrata apparteneva al Pompa, il quale l’avrebbe formata con risorse personali – per la quasi totalità prima della sua assunzione alle dipendenze del SISMI e, in parte, addirittura prima dell’inizio della sua collaborazione esterna col Servizio – avvalendosi di informazioni tratte da organi di informazione e da internet. Quanto alla violazione di corrispondenza, sostenevano – fermo quanto precede – che il materiale era stato scaricato da siti internet liberamente accessibili. Gli indagati soggiungevano, tuttavia, che per fornire ulteriori e decisivi elementi, atti a dimostrare in modo inconfutabile l’insussistenza dei fatti, avrebbero dovuto rivelare notizie coperte da segreto di Stato, in quanto inerenti agli «interna corporis» del Servizio (quali le direttive e gli ordini impartiti dalle autorità governative e dal direttore agli appartenenti all’organismo, la posizione del Pompa all’interno di questo, le risorse utilizzate per la sua attività e via dicendo). Di conseguenza, opponevano il segreto di Stato su tale complesso di circostanze e, in definitiva, «su tutti i fatti descritti» nei capi di imputazione. Analoga posizione assumeva il Pompa quanto al delitto di possesso di notizie destinate a rimanere segrete nell’interesse dello Stato, a lui ascritto in via esclusiva.
A fronte di ciò, il pubblico ministero chiedeva al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 41 della legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto), di confermare l’esistenza del segreto di Stato riguardo a quattro circostanze, la cui conoscenza era ritenuta essenziale per la definizione del procedimento; vale a dire se il SISMI, nel periodo in cui era stato diretto dal Pollari: a) avesse «finanziato in qualsiasi modo e forma, sia direttamente che indirettamente», la sede di via Nazionale, gestita dal Pompa»; b) avesse «retribuito economicamente, in qualsiasi modo e forma, direttamente o indirettamente», il Pompa o Jennj Tontodimamma; c) avesse «impartito ordini e direttive» ai medesimi; d) avesse, infine, «impartito ordini e direttive» al Pompa o alla Tontodimamma «di raccolta di informazioni su magistrati italiani o stranieri».
Con le note impugnate, il Presidente del Consiglio dei ministri confermava il segreto relativamente a «modi e forme dirette e indirette di finanziamento per la gestione da parte di Pio Pompa della sede del SISMI in via Nazionale, a Roma, allorché il Servizio era diretto da Nicolò Pollari»; a «modi e forme di retribuzione, diretta o indiretta, di Pio Pompa e di Jennj Tontodimamma, collaboratori prima e dipendenti poi del SISMI, diretto da Nicolò Pollari»; nonché in relazione alle direttive e agli ordini impartiti al Pompa e alla Tontodimamma all’interno del Servizio. La conferma del segreto veniva motivata con l’esigenza di tutela degli «interna corporis» del SISMI, nell’ottica di non rendere di pubblico dominio le modalità di organizzazione e le tecniche operative del Servizio: profili che – alla luce di quanto chiarito da questa Corte con la sentenza n. 106 del 2009, nonché di quanto stabilito dalla vigente normativa, e segnatamente dal d.P.C.m. 8 aprile 2008 – rientrerebbero tra quelli suscettibili di protezione a mezzo del segreto di Stato.
Ad avviso del giudice ricorrente, gli atti impugnati – da reputare rilevanti ai fini dei provvedimenti che egli è chiamato ad adottare a conclusione dell’udienza preliminare – sarebbero illegittimi sotto più profili e, di conseguenza, lesivi delle proprie attribuzioni giurisdizionali, costituzionalmente garantite.
3.– Va confermata, anzitutto, l’ammissibilità del conflitto – già dichiarata da questa Corte, in sede di prima e sommaria delibazione, con l’ordinanza n. 376 del 2010 – sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi.
Quanto ai primi, sussiste la legittimazione attiva del ricorrente Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Perugia, a fronte della costante giurisprudenza della Corte, che riconosce ai singoli organi giurisdizionali la legittimazione a essere parti nei giudizi per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto competenti, in posizione di piena indipendenza garantita dalla Costituzione, a dichiarare definitivamente, nell’esercizio delle relative funzioni, la volontà del potere cui appartengono (con specifico riferimento ai conflitti concernenti il segreto di Stato, sentenza n. 106 del 2009; con riguardo alla legittimazione passiva, sentenze n. 487 del 2000 e n. 410 del 1998).
Sussiste, del pari, la legittimazione passiva del Presidente del Consiglio dei ministri, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene in ordine alla tutela, apposizione, opposizione e conferma del segreto di Stato, non solo in base alla legge n. 124 del 2007, ma – come questa Corte ha avuto modo di chiarire (sentenza n. 86 del 1977) – anche alla stregua delle norme costituzionali che ne determinano le attribuzioni (sentenza n. 106 del 2009; con riferimento alla legittimazione attiva, altresì, sentenze n. 487 del 2000, n. 410 e n. 110 del 1998).
Quanto, poi, al profilo oggettivo, il conflitto riguarda attribuzioni costituzionalmente garantite inerenti, da un lato, all’esercizio della funzione giurisdizionale da parte del giudice dell’udienza preliminare e, dall’altro, alla salvaguardia della sicurezza dello Stato attraverso lo strumento del segreto, la cui tutela, mediante la sua opposizione e conferma, è attribuita alla responsabilità del Presidente del Consiglio dei ministri, sotto il controllo del Parlamento (sentenza n. 487 del 2000). La possibilità che gli atti di conferma del segreto di Stato formino oggetto di conflitto di attribuzione è, d’altra parte, espressamente prevista dalla normativa in vigore (art. 202, comma 7, cod. proc. pen. e, per quanto qui interessa, art. 41, comma 7, della legge n. 124 del 2007).
4.– Nel merito, il ricorso non è fondato.
5.– Questa Corte ha già avuto modo di rimarcare la perdurante attualità, anche dopo le innovazioni introdotte dalla legge n. 124 del 2007, dei principi enunciati dalla propria pregressa giurisprudenza in ordine al fondamento costituzionale dell’istituto del segreto di Stato: principi che – nel dare ragione e nel segnare, al tempo stesso, i limiti della sua prevalenza rispetto alle contrapposte esigenze dell’accertamento giurisdizionale – si presentano, «all’evidenza, non cedevoli né manipolabili alla luce dei possibili mutamenti di fatto indotti dal passare del tempo» (sentenza n. 106 del 2009). Si tratta, d’altra parte, di principi ai quali il legislatore ha inteso concretamente uniformare la disciplina della materia, recata dapprima dalla legge 24 ottobre 1977, n. 801 (Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato) e, attualmente, dalla citata legge n. 124 del 2007.
Secondo quanto chiarito dalla Corte, l’istituto in questione può rinvenire la sua base di legittimazione esclusivamente nell’esigenza di salvaguardare supremi interessi riferibili allo Stato-comunità, ponendosi quale «strumento necessario per raggiungere il fine della sicurezza», esterna e interna, «dello Stato e per garantirne l’esistenza, l’integrità, nonché l’assetto democratico»: valori che trovano espressione in un complesso di norme costituzionali, e particolarmente in quelle degli artt. 1, 5 e 52 Cost. (sentenza n. 110 del 1998; in prospettiva analoga, sentenze n. 106 del 2009, n. 86 del 1977 e n. 82 del 1976). A tali indicazioni intende rispondere la definizione del profilo oggettivo del segreto di Stato, offerta dall’art. 39, comma 1, della legge n. 124 del 2007 (che sostituisce in ciò, con limitate modifiche, il previgente art. 12 della legge n. 801 del 1977), ove si prevede che sono coperti dal segreto «gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato».
Rispetto ai valori considerati, altri valori – pure di rango costituzionale primario – sono “fisiologicamente” destinati a rimanere recessivi. La caratterizzazione come strumento di salvaguardia della salus rei publicae rende ragione, in particolare, del fatto che il segreto di Stato si presti a fungere da «sbarramento» all’esercizio della funzione giurisdizionale, e segnatamente di quella volta all’accertamento delle responsabilità individuali per fatti previsti dalla legge come reato. La sicurezza dello Stato costituisce, infatti, un «interesse essenziale, insopprimibile della collettività, con palese carattere di assoluta preminenza su ogni altro, in quanto tocca […] la esistenza stessa dello Stato», del quale la giurisdizione costituisce soltanto «un aspetto» (sentenze n. 106 del 2009, n. 110 del 1998 e n. 86 del 1977).
In un equilibrato bilanciamento dei valori coinvolti, il segreto di Stato può valere, peraltro, esclusivamente a «inibire all’autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente utilizzare» – tanto in via diretta che indiretta – «gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto». Non è, di contro, preclusa all’autorità giudiziaria la possibilità di procedere per i fatti oggetto della notitia criminis in suo possesso, qualora «disponga o possa acquisire per altra via elementi […] del tutto autonomi e indipendenti dagli atti e documenti coperti da segreto» (sentenze n. 106 del 2009, n. 410 e n. 110 del 1998). Si tratta di enunciati, anche in questo caso, puntualmente recepiti nell’ambito della vigente disciplina processuale (art. 202, commi 5 e 6, cod. proc. pen. e art. 41, commi 5 e 6, della legge n. 124 del 2007).
Questa Corte ha ribadito, per altro verso, il carattere ampiamente discrezionale e la natura squisitamente politica della valutazione – spettante al Presidente del Consiglio dei ministri – in ordine ai mezzi idonei e necessari per garantire la sicurezza dello Stato, sulla cui base ha luogo l’individuazione delle notizie che, nel supremo interesse alla salus rei publicae, sono destinate a rimanere segrete. Conseguenza ne è che – ferme restando le competenze della Corte in sede di conflitto di attribuzione – il sindacato sulle modalità di esercizio del potere di segretazione resta affidato in via esclusiva al Parlamento, essendo, quella parlamentare, «la sede normale di controllo nel merito delle più alte e più gravi decisioni dell’Esecutivo», con esclusione di qualsiasi sindacato giurisdizionale al riguardo (sentenze n. 106 del 2009 e n. 86 del 1977).
6.– Il tratto peculiare della vicenda che ha dato luogo al conflitto di attribuzione oggi in esame risiede, peraltro, nel fatto che il segreto di Stato è stato opposto da due persone sottoposte alle indagini, in occasione dell’interrogatorio da esse stesse richiesto ai sensi dell’art. 415-bis, comma 3, cod. proc. pen. In particolare, come già ricordato, gli indagati – facenti parte del personale del SISMI all’epoca dei fatti loro contestati, l’uno quale direttore, l’altro quale collaboratore e poi come dipendente – hanno sostenuto che, per potersi difendere in modo compiuto, dimostrando inconfutabilmente l’insussistenza dei fatti loro contestati, avrebbero dovuto esporre circostanze non suscettibili di rivelazione, in quanto coperte dal segreto di Stato.
6.1.– Nel sollevare il conflitto, il giudice ricorrente muove dal presupposto interpretativo – condiviso dal pubblico ministero, allorché ha richiesto al Presidente del Consiglio dei ministri la conferma del segreto – che la situazione di fatto considerata ricada nella previsione dell’art. 41 della legge n. 124 del 2007, alla luce della quale anche l’imputato e la persona sottoposta alle indagini dovrebbero ritenersi attualmente compresi nel novero dei soggetti abilitati a opporre il segreto di Stato.
Tale postulato ermeneutico – sulla cui base il ricorrente reputa rilevanti l’opposizione e la conferma del segreto già nella fase processuale in corso (quella dell’udienza preliminare) – appare, in sé, corretto.
6.2.– La tematica involge evidentemente il problema delle interferenze fra il segreto di Stato e un ulteriore valore costituzionale primario, rientrante tra i diritti fondamentali dell’individuo: ossia il diritto di difesa. Gli interrogativi che, al riguardo, tradizionalmente si pongono sono di duplice ordine: da un lato, se l’imputato sia abilitato a rivelare all’autorità giudiziaria circostanze coperte da segreto di Stato, ove ciò appaia necessario al fine di evitare una condanna ingiusta; dall’altro, quali siano gli effetti della eventuale opposizione del segreto.
Anteriormente alla riforma operata dalla legge n. 124 del 2007, era opinione largamente maggioritaria che al primo quesito – la cui risoluzione condiziona evidentemente quella del secondo – dovesse rispondersi in senso affermativo.
Nel vigore del codice di procedura penale del 1930, la Corte di cassazione escluse, in particolare, che l’imputato rientrasse fra i destinatari della disciplina dettata dall’art. 352 di quel codice (come sostituito dall’art. 15 della legge n. 801 del 1977), che, dopo aver imposto ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati e agli incaricati di pubblico servizio di astenersi dal deporre su fatti coperti da segreto di Stato, prefigurava, in presenza della relativa dichiarazione, una procedura di interpello del Presidente del Consiglio dei ministri, destinata (come l’attuale) a sfociare – in caso di conferma del segreto e ove la conoscenza della notizia riservata apparisse essenziale – nella dichiarazione di non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato. Al riguardo, si osservò come – al di là dell’ambiguità della locuzione impiegata nel dettato normativo («non debbono essere interrogati») – la collocazione della disposizione in un capo dedicato ai testimoni, il riferimento alla testimonianza, contenuto nella rubrica, e la prevista esclusione dell’azione penale per il delitto di falsa testimonianza, nel caso di conferma del segreto, rendessero palese che la disciplina in discorso atteneva unicamente a coloro i quali venissero sentiti in qualità di testi. Decisivo sarebbe stato, peraltro, l’argomento basato sulla ratio della norma, identificabile segnatamente nel fine di tutelare il testimone – il quale si trovasse gravato dal divieto di rivelare notizie coperte da segreto di Stato – rispetto al rischio di incriminazione per falsa testimonianza, sotto il profilo della reticenza. Analoga esigenza non sarebbe stata, di contro, ravvisabile in rapporto alla persona interrogata in qualità di imputato, avendo costui ampia libertà di articolare la propria difesa, anche rifiutandosi di rispondere, senza il rischio di vedersi addebitato il reato di cui all’art. 372 cod. pen., essendogli inibite solo le dichiarazioni integranti il delitto di calunnia. Sul fronte opposto, l’imputato avrebbe potuto, d’altra parte, rendere tutte le dichiarazioni idonee a provare la propria innocenza, ove pure implicassero la rivelazione di notizie coperte da segreto di Stato, senza rendersi con ciò responsabile del delitto di cui all’art. 261 cod. pen., rimanendo la sua condotta scriminata, ai sensi dell’art. 51 cod. pen., dall’esercizio del diritto di difesa, garantito come «inviolabile» dall’art. 24, secondo comma, Cost. (Corte di cassazione, sezione VI, 10 marzo 1987-8 maggio 1987, n. 5752).
6.3.– Secondo l’orientamento dominante, la situazione non sarebbe mutata con l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, alla luce del quale la conclusione dianzi ricordata si sarebbe, anzi, imposta con ancora maggiore evidenza: ciò, pur dopo la caduta del riferimento alla testimonianza nella rubrica dell’originario art. 202 – in cui le statuizioni dell’art. 352 del codice abrogato erano refluite – e la scomparsa, nel testo della norma, della previsione dell’improcedibilità dell’azione penale per il delitto di falsa testimonianza. Se per un verso, infatti, la disposizione risultava collocata nel Capo I del Titolo II del Libro III del codice, relativo alla prova testimoniale, ben distinto dal Capo II, dedicato all’«Esame delle parti»; per altro verso, sul piano letterale, il comma 1 dell’art. 202 enunciava, a carico dei pubblici funzionari, il solo «obbligo di astenersi dal deporre», senza il concorrente ambiguo richiamo al divieto di interrogarli, mentre i successivi commi 2 e 4 recavano espressi ed esclusivi riferimenti al «testimone». Significativa appariva, inoltre, la circostanza che l’art. 209 del nuovo codice, nell’estendere all’esame dell’imputato talune regole proprie della testimonianza, non operasse alcun rinvio all’art. 202.
A fronte di tale dato normativo, il divieto di rendere dichiarazioni su fatti coperti da segreto di Stato – e la speciale ipotesi di chiusura del processo ad esso eventualmente connessa, ai sensi dell’art. 202, comma 3 – non avrebbero potuto essere, dunque, invocati dall’imputato (o dalla persona sottoposta alle indagini). Questi ultimi avrebbero continuato, di contro, a godere della più ampia libertà di manovra, in ossequio al precetto di cui all’art. 24, secondo comma, Cost. (e, indi, anche a quello di cui al novellato art. 111, terzo comma, Cost., nella parte in cui riconosce all’imputato il diritto di difendersi provando), potendo scegliere se tacere o rendere dichiarazioni, anche sui fatti coperti da segreto di Stato, o persino di produrre prove a loro sostegno. La rivelazione – ove necessaria a fini difensivi – non sarebbe risultata in ogni caso punibile, operando la causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, di rango primario.
6.4.– La disciplina della materia è stata, tuttavia, significativamente innovata, sotto il profilo che interessa, dalla legge n. 124 del 2007. Se pure, infatti, l’avvenuta riscrittura dell’art. 202 cod. proc. pen. non ha inciso sull’esclusiva riferibilità della norma codicistica al testimone, questa viene ad essere però affiancata da una disposizione parallela, collocata al di fuori del codice (l’art. 41 della stessa legge n. 124 del 2007), che, nel ricalcarne in larga misura le cadenze, non incontra – né sul piano sistematico, né su quello letterale – limiti applicativi correlati alla veste processuale del dichiarante.
La nuova disposizione – scaturita da un ampio dibattito parlamentare, il quale attesta come il tema che qui interessa sia stato ben presente al legislatore – stabilisce, infatti, in termini indistinti, che «ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati e agli incaricati di pubblico servizio è fatto divieto di riferire riguardo a fatti coperti da segreto di Stato» (comma 1, primo periodo). Tale statuizione – che, come precetto sostanziale, risulterebbe superflua, posto che la rivelazione di un segreto di Stato, da chiunque effettuata, integra un illecito penale (art. 261 cod. pen.), costituendo, perciò stesso, una condotta vietata – è destinata in realtà ad assumere, negli intenti del legislatore, una valenza precipuamente processuale, come emerge dalla successiva previsione del secondo periodo del comma 1, ove è stabilito che in ogni stato e grado del procedimento penale «salvo quanto disposto dall’art. 202 del codice di procedura penale, […] se è stato opposto il segreto di Stato, l’autorità giudiziaria ne informa il Presidente del Consiglio dei ministri, nella sua qualità di Autorità nazionale per la sicurezza, per le eventuali deliberazioni di sua competenza».
Lo stesso art. 41 replica indi i contenuti del novellato art. 202 cod. proc. pen., in ordine alla procedura di interpello del Presidente del Consiglio dei ministri e ai relativi effetti (commi da 3 a 8), salvo un non trascurabile elemento differenziale. Di fronte all’opposizione del segreto, l’autorità giudiziaria è tenuta, infatti, a chiederne la conferma al Presidente del Consiglio dei ministri, non in ogni caso – come previsto dalla norma del codice – ma solo quando ritenga «essenziale quanto coperto dal segreto per la definizione del processo» (comma 2). Si tratta, dunque, di un vaglio di «essenzialità» preliminare alla richiesta di conferma, che si aggiunge a quello, successivo alla conferma stessa, previsto ai fini dell’eventuale pronuncia della sentenza di non doversi procedere (comma 3 dell’art. 41 della legge n. 124 del 2007, in parallelo a quanto stabilito dal comma 3 dell’art. 202 cod. proc. pen. per il testimone).
Come già incidentalmente rilevato da questa Corte (sentenza n. 106 del 2009), mediante la disposizione considerata il legislatore è venuto a conferire portata generale al vincolo di riserbo, in sede processuale, dei pubblici funzionari riguardo alle notizie coperte da segreto di Stato, con previsione che – estrapolata da una specifica sedes materiae – si presta a ricomprendere, nella sua genericità, anche l’imputato e la persona sottoposta alle indagini, pure in assenza di espliciti riferimenti a tali figure. Non appare in effetti significativa, in senso contrario, la circostanza che la norma faccia uso del verbo «riferire» («è fatto divieto di riferire»), generalmente impiegato dal codice di rito con riguardo agli apporti conoscitivi offerti da soggetti diversi dall’imputato (quali, in specie, i testimoni, i periti, i consulenti tecnici o la polizia giudiziaria, laddove, invece, nel lessico codicistico, l’imputato «dichiara», «espone» o «risponde»). A fronte dell’ampia portata del precetto in questione – rivolto all’intera platea dei soggetti sentiti in qualità diversa da quella di testimone – è, infatti, plausibile che il legislatore si sia avvalso del termine «riferire» nella sua accezione comune e corrente, espressiva di ogni forma di esposizione di fatti, da chiunque effettuata.
Sul piano teleologico, d’altra parte, occorre osservare come la normativa anteriore alla legge n. 124 del 2007 – nella lettura datane dall’orientamento interpretativo maggioritario – rimettesse, in pratica, all’imputato il bilanciamento tra il diritto individuale di difesa e il supremo interesse alla sicurezza della Repubblica, conferendogli una facoltà di scelta che poneva, peraltro, a suo esclusivo carico i “costi” dell’eventuale opzione per il secondo dei due valori. Rivelando il segreto, l’imputato avrebbe potuto, infatti, ottenere una pronuncia assolutoria a detrimento della sicurezza nazionale; scegliendo invece di tacere, avrebbe preservato quest’ultima, esponendosi però al rischio di una condanna ingiusta.
L’assetto considerato – nel quale era comunque insita la preminenza delle esigenze difensive individuali rispetto a quelle di protezione della sicurezza dello Stato, quante volte l’imputato non ritenesse di dover affrontare il predetto rischio – non valeva, peraltro, neppure ad assicurare una tutela indefettibile dell’altro interesse pubblico in gioco, rappresentato dal regolare esercizio della giurisdizione penale. Depositario della prova di innocenza avrebbe potuto essere, infatti, non già direttamente l’imputato, ma un testimone qualificato addotto dalla difesa, rispetto al quale avrebbe comunque operato l’obbligo di astensione dal deporre: con la conseguenza che, in tale evenienza, la notizia segreta avrebbe potuto essere svelata dall’imputato nell’esporre la sua tesi difensiva e nell’articolare le relative prove, senza tuttavia che la giustizia penale potesse seguire il suo ordinario corso, dovendosi comunque adottare una pronuncia di non liquet, ai sensi dell’art. 202, comma 3, cod. proc. pen., di fronte alla conferma del segreto sulle prove decisive richieste a sostegno di detta tesi.
Il nuovo art. 41 della legge n. 124 del 2007 muta i termini del bilanciamento. L’imputato viene a essere, infatti, per un verso, incluso tra i titolari del potere-dovere di opporre il segreto di Stato, ma, al tempo stesso, sottratto – ove tenga la condotta conforme all’esigenza di protezione della sicurezza nazionale – al rischio di una indebita affermazione di responsabilità penale. Lo Stato – mirando all’“autoconservazione” – richiede, cioè, anche alla persona sottoposta a processo il silenzio sulla notizia coperta da segreto, esigendo dalla giurisdizione un possibile esito processuale scevro da connotati negativi nei confronti del giudicabile (la dichiarazione di non doversi procedere), fermo restando il vaglio di “essenzialità” rimesso all’autorità giudiziaria.
7.– Appurato, dunque, che anche l’imputato e l’indagato sono attualmente abilitati a opporre il segreto di Stato, non occorre affrontare in questa sede l’ulteriore problematica evocata dal giudice ricorrente nella memoria: stabilire, cioè, se – e in quali termini – la nuova disciplina resti comunque “permeabile” all’operatività della scriminante prevista dall’art. 51 cod. pen., nel caso in cui i soggetti in questione violino il divieto di rivelazione del segreto nell’esercizio del proprio diritto di difesa (soluzione a sostegno della quale militano, in effetti, anche talune indicazioni ricavabili dai lavori parlamentari relativi alla legge n. 124 del 2007). L’evenienza dianzi indicata non risulta essersi, infatti, verificata nel caso in esame e non viene, perciò, in alcun modo in rilievo ai fini della decisione dell’odierno conflitto.
Non conferente, ai presenti fini, risulta anche l’altro rilievo del ricorrente, per cui, alla stregua del disposto dell’art. 41 della legge n. 124 del 2007, non sarebbe comunque sufficiente che l’imputato alleghi l’esistenza di imprecisate prove a discolpa, non acquisibili in quanto segrete – opponendo, come nel caso di specie, il segreto di Stato sull’intero capo di imputazione – per obbligare l’autorità giudiziaria a pronunciare una sentenza di non doversi procedere: giacché, se così fosse, l’opposizione del segreto finirebbe per trasformarsi, inammissibilmente, «in una sorta di esimente “in bianco” sempre a disposizione del personale dei Servizi». La declaratoria di improcedibilità presupporrebbe, di contro – sempre secondo quanto sostenuto dal ricorrente – «quanto meno un “principio di prova”, ovvero la delimitazione dell’ambito del segreto in un contesto difensivo univoco e non contraddittorio»: condizioni – in assunto – non riscontrabili nel caso di specie, stante la sostanziale inconciliabilità dell’opposizione del segreto di Stato rispetto alla tesi difensiva prospettata in via “principale” dagli imputati e l’impossibilità, sul piano logico, che le circostanze che si deducono segrete risultino idonee a scriminarli entrambi.
Al riguardo, si deve peraltro osservare che, nella presente sede, la Corte non è chiamata a stabilire se il segreto di Stato sia stato opposto dagli indagati in modo appropriato e utile ai loro fini, né a determinare in quale modo la conferma del segreto sia destinata a influire sull’esito del processo penale in corso, spettando tali valutazioni all’autorità giudiziaria. Oggetto di scrutinio sono, di contro, unicamente gli atti di conferma del segreto concretamente adottati dal Presidente del Consiglio dei ministri, in rapporto alla loro denunciata attitudine lesiva delle attribuzioni costituzionali del giudice ricorrente.
Come già rimarcato, l’art. 41, comma 2, della legge n. 124 del 2007 prevede che, di fronte all’opposizione del segreto, l’autorità giudiziaria debba procedere all’interpello del Presidente del Consiglio dei ministri solo se – e nei limiti in cui – la conoscenza delle circostanze sulle quali il segreto è stato allegato appaia «essenziale» per la definizione del processo. La previsione di tale vaglio selettivo preliminare – non richiesto dall’art. 202 cod. proc. pen. per l’ipotesi in cui a opporre il segreto sia un testimone – appare giustificabile, sul piano logico, anche e proprio in considerazione della particolare posizione dell’imputato o dell’indagato, il quale, diversamente dal testimone, ha un interesse personale diretto nel procedimento, che potrebbe risultare eventualmente di pungolo all’allegazione pretestuosa del segreto al fine di sottrarsi all’accertamento delle proprie responsabilità, o anche solo di rallentarne il corso.
Nel caso di specie, è in fatto avvenuto che – a fronte di una opposizione del segreto di Stato in termini particolarmente ampi da parte degli indagati – il pubblico ministero, procedendo al suddetto vaglio preliminare, abbia chiesto al Presidente del Consiglio dei ministri di confermare l’esistenza del segreto limitatamente a quattro specifiche circostanze, reputate per l’appunto «essenziali» nell’ottica della definizione del processo. Ed è in rapporto alla risposta offerta a tale interpello – non già ai termini originari dell’opposizione del segreto da parte degli indagati – che lo scrutinio di questa Corte deve esplicarsi.
Risulta in pari tempo evidente come la valutazione di «essenzialità», effettuata in via preliminare dal rappresentante della pubblica accusa, non vincoli il giudice chiamato a verificare – “a valle” della conferma del segreto – se sussistano i presupposti per la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere, ai sensi dell’art. 41, comma 3, della legge n. 124 del 2007. In tale sede, il giudice potrà dunque stabilire, in piena autonomia, se le circostanze coperte da segreto debbano ritenersi effettivamente essenziali – tenuto conto del complesso degli altri elementi probatori legittimamente acquisiti o acquisibili e dei termini in cui il segreto di Stato è stato opposto – per la definizione del processo, segnatamente nella prospettiva della (possibile) dimostrazione dell’insussistenza dei fatti, dell’estraneità a essi degli imputati o dell’esistenza di eventuali cause di giustificazione.
Altrettanto evidente, d’altra parte, è che il vaglio di «essenzialità», prodromico all’adozione della pronuncia di non liquet, assuma connotazioni differenziate a seconda delle singole figure di dichiaranti nel processo, attualmente abilitate a opporre il segreto di Stato. Ove si tratti di testimone, tenuto a rispondere secondo verità alle specifiche domande che gli sono rivolte, occorre valutare direttamente quale contributo la conoscenza delle circostanze dedotte nei capitoli di prova potrebbe portare all’accertamento dei fatti e delle responsabilità; ove si tratti, invece, dell’imputato – che non ha obbligo di verità e che, come nel caso di specie, potrebbe opporre il segreto a prescindere da specifiche domande postegli in sede di interrogatorio o di esame – la verifica in questione, da condurre nella prospettiva dell’esercizio del diritto di difesa, assume inevitabilmente caratteristiche diverse. Al riguardo, non vi è dubbio che il riconoscimento dell’incidenza del segreto sul diritto di difesa non possa rimanere affidato alla mera attestazione del soggetto sottoposto a processo – che a quel riconoscimento ha interesse – ma debba poggiare su una prospettazione dotata di adeguato tasso di persuasività. L’inerenza del segreto al diritto di difesa si traduce in un fatto da cui dipende l’applicazione di norme processuali, anch’esso oggetto di prova ai sensi dell’art. 187, comma 2, cod. proc. pen., nel contraddittorio con le parti controinteressate, sia pure con le limitazioni necessariamente connesse all’esigenza di non rivelare indirettamente le notizie segrete, che imprimono alla relativa verifica i tratti di un giudizio di tipo eminentemente presuntivo. In tale appropriata cornice potrà tenersi, quindi, conto anche di elementi quali la coerenza e la plausibilità della prospettazione dell’imputato, in rapporto al complesso delle sue deduzioni difensive e di quelle dei coimputati che versino in posizione analoga.
Ma tutto ciò rientra nell’ambito di una indagine rimessa alla stessa autorità giudiziaria, senza investire la legittimità dell’atto di conferma del segreto. Nell’adottare quest’ultimo, il Presidente del Consiglio dei ministri non si pronuncia affatto sulla reale idoneità delle informazioni segretate a fornire prove decisive della non colpevolezza di chi ha opposto il segreto – apprezzamento che non gli compete – ma solo sull’attitudine di quelle informazioni a ledere, se divulgate, la sicurezza nazionale. Non si può pertanto parlare, sotto questo profilo – come fa il ricorrente – di illegittimo “avallo”, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, di una strategia difensiva basata su un presupposto, in assunto, distonico rispetto all’esigenza di non creare una “via di fuga” dalla responsabilità penale, fruibile ad libitum dal personale dei servizi informativi. La pertinenza del segreto al fatto oggetto di giudizio è affermata dall’imputato, non dal Presidente del Consiglio (fuori del caso previsto dall’art. 66, comma 2, disp. att. cod. proc. pen., che qui non viene in rilievo), e spetta esclusivamente al giudice valutarla.
8.– Fermi questi punti, occorre prendere anzitutto in esame, per ragioni di priorità logica, la censura sviluppata dal ricorrente nella memoria, secondo la quale – con riferimento ai primi tre punti della richiesta del pubblico ministero – la conferma del segreto da parte del Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe illegittima «in quanto frutto dell’errata individuazione dell’oggetto della richiesta».
Le circostanze in discussione – sulle quali il pubblico ministero aveva chiesto la conferma del segreto con note del 27 ottobre e 19 novembre 2009 – riguardavano segnatamente il fatto che il SISMI, durante il periodo in cui era stato diretto dal generale Pollari: a) avesse «finanziato in qualsiasi modo e forma, sia direttamente che indirettamente, la sede di Roma, via Nazionale, gestita da Pio Pompa»; b) avesse «retribuito economicamente, in qualsiasi modo e forma, direttamente o indirettamente» il Pompa o la Tontodimamma; c) avesse «impartito ordini o direttive» a questi ultimi.
Secondo il ricorrente, il Presidente del Consiglio dei ministri, travisando il contenuto della richiesta, avrebbe confermato il segreto su circostanze diverse da quelle indicate e non rilevanti ai fini del procedimento penale. Quanto ai primi due punti, il Presidente del Consiglio ha dichiarato, infatti, di confermare il segreto sui «modi» e sulle «forme» dei finanziamenti della sede di via Nazionale e delle retribuzioni del Pompa e della Tontodimamma, quando invece la richiesta atteneva unicamente alla loro esistenza (al «se», non al «come»). Analogamente, quanto al terzo punto, dalla motivazione degli atti di conferma si desumerebbe che il Presidente del Consiglio ha inteso segretare le direttive e gli ordini impartiti dal SISMI in rapporto al loro contenuto, trascurando il fatto che la richiesta aveva ad oggetto, anche in questo caso, solo il «se» il Pompa e la Tontodimamma avessero ricevuto ordini e direttive dal Servizio nel periodo considerato.
Al riguardo, occorre peraltro rilevare, in termini generali, che qualora il Presidente del Consiglio, richiesto di confermare il segreto di Stato su una determinata notizia, lo confermi su una notizia diversa, non essenziale ai fini del procedimento in corso, ciò non si traduce automaticamente in un motivo di illegittimità dell’atto di conferma, censurabile dall’autorità giudiziaria con lo strumento del conflitto di attribuzione. Nel caso considerato, infatti, non si assiste ad alcuna lesione delle attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria, giacché la conferma del segreto su una notizia diversa da quella cui atteneva la richiesta equivale, nei fatti, a mancata conferma del segreto su tale informazione, atta a rendere operante la previsione dell’art. 41, comma 4, della legge n. 124 del 2007 (in forza della quale «se entro trenta giorni dalla notificazione della richiesta il Presidente del Consiglio dei Ministri non dà conferma del segreto, l’autorità giudiziaria acquisisce la notizia e provvede per l’ulteriore corso del procedimento»).
Nel caso di specie, la richiesta del pubblico ministero di conferma del segreto – per i termini in cui era formulata – appariva, in realtà, suscettibile di venire riferita, riguardo ai primi due punti, tanto all’esistenza dei finanziamenti e delle retribuzioni in questione, quanto alle loro modalità (evocate, in specie, dalla formula «in qualsiasi modo e forma, direttamente o indirettamente»). La circostanza che il Presidente del Consiglio abbia confermato il segreto sul quomodo, e non anche sull’an, comporterà che solo in rapporto al primo operi lo «sbarramento» all’esercizio dei poteri dell’autorità giudiziaria conseguente alla conferma.
Analoga conclusione si impone in rapporto al terzo punto, laddove a fronte di una richiesta genericamente riferita al fatto che il SISMI abbia impartito ordini o direttive al Pompa e alla Tontodimamma, il Presidente del Consiglio ha confermato il segreto sulla scorta di una motivazione tale da rendere palese che l’esigenza di riserbo attiene al contenuto degli ordini e delle direttive («anche le direttive e gli ordini impartiti all’interno del Servizio possono costituire interna corporis da tutelare, se dalla loro divulgazione vengono in evidenza, come nel caso in esame, profili attinenti alle modalità organizzative ed a quelle tecnico-operative che è opportuno non disvelare»).
9.– Le considerazioni che precedono valgono anche a escludere l’ulteriore profilo di illegittimità, in parte qua, degli atti impugnati, connesso, in assunto, al fatto che – con riferimento ai tre punti considerati – la richiesta di conferma del segreto avrebbe avuto ad oggetto circostanze notorie e, perciò, insuscettibili di segretazione. Di pubblico dominio sarebbe, in specie – secondo il ricorrente – la circostanza che l’appartamento di via Nazionale, presso il quale è stato effettuato il sequestro di documenti che ha dato origine al processo, fosse una sede del SISMI (e, dunque, da esso finanziata), come pure notorio sarebbe il fatto che il Pompa e la Tontodimamma siano stati alle dipendenze del Servizio (ricevendo, perciò, da esso tanto emolumenti, quanto ordini e direttive), al punto che le rispettive qualifiche («collaboratori prima e dipendenti poi») risultano ribadite nelle stesse note di conferma del segreto.
A prescindere da ogni altra considerazione, è assorbente, al riguardo, il rilievo che la legittimità degli atti impugnati va valutata, non in base al tenore della richiesta di conferma del segreto, ma a quello della risposta. Nella specie – secondo la stessa prospettazione del ricorrente – la conferma del segreto, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, non ha avuto ad oggetto i fatti che si assumono notori (la generica esistenza dei finanziamenti, delle retribuzioni e delle direttive: vale a dire, l’an), ma altri fatti (le modalità degli uni e i contenuti delle altre) che non risultano essere tali.
10.– Quanto agli altri motivi di ricorso – che investono gli atti di conferma del segreto nella loro interezza (anche, dunque, per la parte rapportabile al quarto punto della richiesta, che il ricorrente reputa nodale ai fini del giudizio in corso, inerente al se il Pompa e la Tontodimamma avessero ricevuto ordini o direttive «di raccolta di informazioni su magistrati, italiani o stranieri») – il Giudice perugino assume che le notizie nella specie segretate esulerebbero dal novero di quelle suscettibili di tutela a mezzo del segreto di Stato ai sensi dell’art. 39, comma 1, della legge n. 124 del 2007 e del d.P.C.m. 8 aprile 2008, pure evocati negli atti impugnati. Si dovrebbe, infatti, escludere in radice che possano costituire oggetto di segreto di Stato notizie attinenti all’esistenza di finanziamenti, ordini e direttive dei servizi informativi finalizzati allo svolgimento di attività palesemente estranee alle finalità istituzionali dei servizi stessi, quali quelle contestate nella specie agli imputati. Ciò, tanto più alla luce delle previsioni dell’art. 26 della legge n. 124 del 2007 – che vieta, sotto comminatoria di severa sanzione penale, al personale del Sistema di informazione per la sicurezza di istituire o utilizzare schedari informativi per scopi diversi da quelli istituzionali – e dell’art. 17 della medesima legge – che, nel prevedere una scriminante a favore del personale dei servizi che ponga in essere condotte costituenti reato, ne subordina l’applicabilità alla condizione che si tratti di condotte indispensabili alle finalità istituzionali degli organismi di appartenenza.
La tesi del ricorrente poggia, peraltro, su un presupposto inesatto: e, cioè, che il segreto di Stato, confermato dal Presidente del Consiglio dei ministri con gli atti impugnati, concerna direttamente le attività illegali ascritte agli imputati, quando, invece, esso si riferisce a notizie – pur se in qualche modo ricollegabili ai fatti per cui si procede – la cui propalazione è stata reputata suscettibile di esporre a indebita pubblicità le modalità organizzative e operative dei servizi.
La circostanza è di tutta evidenza con riguardo alla conferma del segreto sulle forme e modalità di finanziamento della sede di via Nazionale e di retribuzione del Pompa e della Tontodimamma: notizie che lo stesso ricorrente – come già segnalato – non reputa, peraltro, neppure essenziali per la definizione del processo.
Ma il rilievo vale anche in rapporto al contenuto degli ordini e delle direttive impartite ai sunnominati Pompa e Tontodimamma, sia nella loro generalità che con specifico riguardo a eventuali ordini o direttive «di raccolta di informazioni su magistrati, italiani o stranieri». A quest’ultimo proposito, occorre, in effetti, rimarcare come le richieste di conferma del segreto – e, parallelamente a esse, gli atti di conferma – risultino formulati in termini generici e indifferenziati, senza alcun riferimento né ai soggetti interessati (o ai criteri per la loro individuazione), né, soprattutto, alle finalità della raccolta di informazioni considerata. Non è consentito, pertanto, “interpretare” gli atti impugnati, nel senso di attribuire al Presidente del Consiglio dei ministri l’intento di imporre, omisso medio, il vincolo del segreto su quanto costituisce il thema demonstrandum nel processo da cui il conflitto origina: e, cioè, sull’avvenuta formazione – nell’ambito del SISMI e con impiego delle relative risorse materiali e umane – di dossier su magistrati e altri soggetti, reputati «di parte politica avversa» rispetto alla maggioranza governativa, con lo specifico obiettivo di servirsi del materiale raccolto per “delegittimare” detti soggetti a mezzo di diffamazioni, calunnie e abusi di ufficio.
Cade, con ciò, l’argomento del ricorrente, per cui delle due l’una: o una direttiva nei termini appena ora indicati non esiste, e allora non vi sarebbe alcun segreto da tutelare; oppure esiste, ma allora non essa sarebbe “per definizione” tutelabile a mezzo del segreto di Stato, in quanto avente ad oggetto una attività «deviata» dei servizi. L’argomento non è, infatti, pertinente in rapporto al tenore degli atti di conferma del segreto di cui si discute, i quali – anche per quanto concerne la risposta fornita sul quarto punto della richiesta – non attengono all’esistenza o meno di una direttiva di tal fatta, ma hanno un oggetto più generico, non qualificato da riferimenti che evochino il carattere “non istituzionale” dell’attività in questione (e, anzi, presuppongono il contrario).
Per il resto, questa Corte ha già avuto modo di affermare che tra le notizie tutelabili a mezzo del segreto di Stato possono essere fatte rientrare anche quelle inerenti agli ordini e alle direttive impartiti dal direttore del servizio informativo (e, in specie, del SISMI, ora AISI) agli appartenenti al medesimo organismo: e ciò, non soltanto – come si sostiene nel ricorso – allorché emerga la necessità di «preservare la credibilità del Servizio nell’ambito dei suoi rapporti internazionali con gli organismi collegati» (ipotesi estranea al caso di specie), ma anche (e più in generale) in relazione all’«esigenza di riserbo» – addotta negli atti oggi impugnati – «che deve tutelare gli interna corporis di ogni Servizio, ponendo al riparo da indebita pubblicità le sue modalità organizzative ed operative» (sentenza n. 106 del 2009). Tale esigenza può profilarsi anche in rapporto ad altre procedure interne – quali, nella specie, quelle di finanziamento delle sedi operative e di corresponsione dei compensi a collaboratori esterni e dipendenti – la cui divulgazione si presti a pregiudicare la funzionalità dei servizi. Le modalità operative e organizzative dei servizi risultano d’altronde evocate – come lo stesso giudice ricorrente riconosce – in più punti dell’elenco delle «materie di riferimento» delle informazioni suscettibili di costituire oggetto di segreto di Stato, allegato al d.P.C.m. 8 aprile 2008 (in particolare, punti 6, 7 e 8): elenco peraltro solo esemplificativo (art. 5 del citato decreto).
11.– Contrariamente a quanto afferma il ricorrente, nessuna contraddizione è, per altro verso, ravvisabile tra la previsione, da parte dell’ordinamento, della punibilità di taluni fatti – e, segnatamente, di determinate condotte poste in essere dal personale dei servizi per finalità estranee a quelle istituzionali – e il riconoscimento della possibilità che, a seguito dell’opposizione e della conferma del segreto di Stato sugli «interna corporis» dei servizi stessi, l’accertamento dei predetti fatti in sede giurisdizionale rimanga inibito (in senso analogo, sentenza n. 106 del 2009).
Come già ricordato, infatti, l’opposizione del segreto di Stato, confermata dal Presidente del Consiglio dei ministri, inibisce all’autorità giudiziaria di acquisire e di utilizzare, anche in via indiretta, le notizie coperte dal segreto, ma non le impedisce di procedere in base a elementi autonomi e indipendenti da esse.
Peraltro quando pure la fonte di prova segretata risultasse essenziale e mancassero altre fonti di prova – con conseguente applicabilità delle disposizioni che impongono la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato (artt. 202, comma 3, cod. proc. pen. e 41, comma 3, della legge n. 124 del 2007) – non potrebbe scorgersi in ciò alcuna antinomia. Tale esito – espressamente previsto dalla legge – non è, infatti, che il portato della evidenziata preminenza dell’interesse della sicurezza nazionale, alla cui salvaguardia il segreto di Stato è preordinato, rispetto alle esigenze dell’accertamento giurisdizionale.
12.– Nella memoria, il ricorrente sostiene a più riprese – senza, peraltro, sviluppare ulteriormente l’argomento – che l’illegale attività di raccolta e trattamento di informazioni contestata agli imputati si porrebbe «ai confini con l’eversione costituzionale».
Deve tuttavia escludersi che, nella fattispecie in esame, possa venire in rilievo la regola secondo la quale «in nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato notizie, documenti o cose relativi a fatti […] eversivi dell’ordine costituzionale»: regola enunciata dall’art. 39, comma 11, della legge n. 124 del 2007, ma che – come ripetutamente sottolineato da questa Corte (sentenza n. 86 del 1977, nonché sentenze n. 106 del 2009 e n. 110 del 1998) – esprime un limite immanente in materia, non potendo il segreto di Stato fungere da ostacolo all’accertamento di fatti volti a minare quegli stessi valori che è destinato a preservare.
Affinché divenga operante tale limite non basta, in effetti, che il fatto oggetto di giudizio si ponga «ai confini» dell’eversione costituzionale, ma occorre che li superi. Nel caso di specie, tale evenienza non trova alcun riscontro nella formulazione del capo di imputazione. Posto che il delitto di cui all’art. 26, comma 3, della legge n. 124 del 2007 non può venire in rilievo, trattandosi di norma entrata in vigore successivamente ai fatti per cui si procede, agli imputati è contestato – con riguardo all’attività in questione – un reato contro la pubblica amministrazione legato all’indebito utilizzo di risorse pubbliche (il peculato), aggravato unicamente dalla finalità di eseguire altri reati (art. 61, numero 2, cod. pen.) e non anche dalla finalità di eversione dell’ordine democratico (art. 1, comma 1, del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante «Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15). Questa Corte ha già avuto modo, d’altra parte, di rimarcare come connotato imprescindibile del fatto eversivo – in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità – sia la sua preordinazione «a sovvertire, disarticolandolo, l’assetto complessivo delle Istituzioni democratiche» (sentenza n. 106 del 2009): caratteristica che non appare riscontrabile nell’attività criminosa – per quanto grave – oggetto del giudizio in corso.
13.– Nelle considerazioni in precedenza svolte è insita anche l’infondatezza dell’ulteriore motivo di ricorso, relativo alla pretesa inconciliabilità degli atti impugnati – segnatamente in rapporto alla predetta imputazione per peculato – con i principi espressi, in materia di spesa pubblica, da un insieme di norme costituzionali (artt. 3, 81, 97, 100 e 103 Cost.): principi a fronte dei quali dovrebbe essere sempre garantito il controllo, anche giurisdizionale, sulla destinazione delle risorse affidate ai funzionari pubblici – compresi quelli appartenenti ai servizi informativi – e, in particolare, sul loro impiego per finalità conformi a quelle che detti funzionari sono tenuti a perseguire.
A prescindere da ogni rilievo in ordine alla conferenza dei parametri costituzionali evocati – contestata dal resistente – è dirimente, al riguardo, la considerazione che il principio di preminenza del supremo interesse alla sicurezza della Repubblica, protetto dal segreto di Stato, rispetto a quello del regolare esercizio della funzione giurisdizionale (e, in specie, della giurisdizione penale, che qui interessa) non viene meno – stante il suo fondamento giustificativo – per il solo fatto che si discuta dell’accertamento di responsabilità legate alla irregolare gestione di risorse pubbliche.
L’esigenza di riserbo sulle modalità di impiego dei fondi destinati ai servizi di informazione – stante la peculiare natura dei compiti a essi affidati – è tenuta, d’altra parte, in particolare considerazione dallo stesso art. 29 della legge n. 124 del 2007 – invocato dal ricorrente a conforto della sua tesi – il quale prevede, proprio per assecondare tale esigenza, forme speciali di controllo sulla gestione delle spese dei servizi, derogatorie rispetto a quelle ordinarie. In particolare, è previsto che le «spese riservate», diversamente da quelle «ordinarie», vengano inserite esclusivamente nel bilancio preventivo, ma non in quello consuntivo (comma 3, lettera a), dovendo essere presentato, riguardo a esse, un rendiconto a parte, trimestrale, e una relazione finale, annuale, entrambi al Presidente del Consiglio dei ministri (comma 3, lettera f), nonché una informativa semestrale sulle «linee essenziali della gestione» al COPASIR (comma 3, lettera g), così da prefigurare un controllo di tipo precipuamente politico. Ciò dimostra come, nel contesto della disciplina che regola il funzionamento dei servizi, non possa ritenersi affatto anomala l’eventualità che il segreto di Stato risulti idoneo a incidere sul controllo giurisdizionale relativo alla destinazione delle dotazioni finanziarie.
14.– Il ricorrente censura, da ultimo, il fatto che, negli atti di conferma del segreto, il Presidente del Consiglio dei ministri non abbia comunque chiarito, «a mezzo di opportuna motivazione», le «ragioni della prevalenza della tutela degli “interna corporis” su ogni altro interesse tutelato da norme costituzionali»: indicazione che si dovrebbe ritenere, per contro, indispensabile alla luce dell’attuale quadro normativo – ispirato, in assunto, a un «sempre maggiore contemperamento tra le finalità del segreto di Stato e [gli] altri fondamentali interessi tutelati dalla Costituzione» – nonché del «principio di proporzionalità», affermato da questa Corte già nella sentenza n. 86 del 1977, a fronte del quale occorrerebbe sempre assicurare, in materia, «un ragionevole rapporto di mezzo a fine». In questa prospettiva, la tutela delle esigenze di riserbo sulle modalità organizzative e operative dei servizi non potrebbe essere indiscriminata – specie quando vengano in considerazione condotte del personale dei medesimi servizi costituenti reato – ma rimarrebbe subordinata alla effettiva preminenza, nel caso concreto, degli interessi alla cui salvaguardia il segreto di Stato è preordinato rispetto agli altri beni costituzionalmente protetti, tra cui quello della corretta amministrazione della giustizia. Su tali premesse, il ricorrente invita, quindi, la Corte a verificare «il rispetto dei limiti che inquadrano in un ambito costituzionalmente definito ed accettabile l’avvenuta opposizione/conferma del segreto»: ciò, in base all’assunto che, in sede di conflitto di attribuzione, debba ritenersi consentito alla Corte – diversamente che al giudice penale – «sindacare il corretto esercizio della discrezionalità» spettante al Presidente del Consiglio dei ministri in materia, «alla luce dei principi costituzionali e del loro corretto bilanciamento».
L’eccezione di inammissibilità della censura per «genericità», formulata dall’Avvocatura dello Stato sul rilievo che non si comprenderebbe in base a quale parametro costituzionale la Corte dovrebbe effettuare il sindacato richiestole, non è fondata. Nella prospettiva del ricorrente, i parametri che dovrebbero venire in considerazione sono evidentemente, da un lato, quelli che offrono il fondamento costituzionale del segreto di Stato, e, dall’altro, quelli che reggono l’esercizio della funzione giurisdizionale.
Nel merito, tuttavia, la tesi del ricorrente non può essere recepita.
Come già rimarcato, infatti, deve tenersi fermo – anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 124 del 2007 – quanto chiarito, a tale proposito, dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 86 del 1977): e, cioè, che il giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri in ordine ai mezzi necessari o utili al fine di garantire la sicurezza della Repubblica, per il suo carattere squisitamente politico e ampiamente discrezionale, resta soggetto a un sindacato di tipo esclusivamente parlamentare, essendo quella parlamentare la sede istituzionale «di controllo nel merito delle più alte e gravi decisioni dell’Esecutivo» (sentenza n. 106 del 2009). Proprio a questo scopo, è previsto che il Presidente del Consiglio dei ministri debba dare comunicazione al COPASIR di ogni caso di conferma del segreto, «indicandone le ragioni essenziali», e che detto Comitato parlamentare, ove ritenga infondata l’opposizione del segreto, debba riferirne a ciascuna delle Camere per le conseguenti valutazioni (artt. 40, comma 5, e 41, comma 9, della legge n. 124 del 2007).
Nel conflitto di attribuzione che, in base alle espresse previsioni degli artt. 202, comma 7, cod. proc. pen. e 41, comma 7, della legge n. 124 del 2007, l’autorità giudiziaria può proporre nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, la Corte è chiamata, infatti, «a valutare la sussistenza o insussistenza dei presupposti del segreto di Stato ritualmente opposto e confermato, non già ad esprimere una valutazione di merito sulle ragioni […] del segreto stesso; giudizio quest’ultimo riservato, come si è precisato, in sede politica, al Parlamento» (sentenza n. 106 del 2009).
Ciò non toglie che la motivazione della conferma del segreto, anche nei confronti dell’autorità giudiziaria, sia comunque necessaria (sentenza n. 86 del 1977): essa è, del resto, espressamente richiesta dalla normativa in vigore (artt. 202, comma 5, cod. proc. pen., 66, comma 2, disp. att. cod. proc. pen. e, per quanto qui interessa, art. 41, comma, 5, della legge n. 124 del 2007). Ma lo è in una prospettiva diversa da quella ipotizzata dal giudice ricorrente e, al tempo stesso, distinta da quella della motivazione al Parlamento, come rivela anche la circostanza che il legislatore abbia disciplinato in modo autonomo e separato l’esposizione delle ragioni della segretazione nelle due sedi, giudiziaria e parlamentare (mentre, diversamente opinando, sarebbe bastato prescrivere la trasmissione al Comitato parlamentare di una copia del provvedimento già inviato al giudice all’esito della procedura di interpello). L’obbligo di motivazione, nel senso precisato, verso l’autorità giudiziaria non mira a permettere un sindacato sulle modalità di esercizio in concreto del potere di segretazione (precluso, come detto, in sede giurisdizionale), quanto piuttosto a giustificare, in termini congruenti e plausibili – nei rapporti tra poteri – lo «sbarramento» all’esercizio della funzione giurisdizionale conseguente alla conferma del segreto, dando atto delle considerazioni che consentono di ricondurre le notizie segretate agli interessi fondamentali riassumibili nella formula della sicurezza nazionale. Ed è solo quando la motivazione non risponda a tale scopo – denotando, con ciò, un possibile “sviamento” del potere di segretazione dai suoi fini istituzionali – che può ravvisarsi un vizio dell’atto suscettibile di denuncia davanti a questa Corte con lo strumento del conflitto di attribuzione.
La portata dell’obbligo motivazionale nei confronti dell’autorità giudiziaria risente naturalmente dell’esigenza di non vanificare lo stesso provvedimento cui accede, come avverrebbe se, con una descrizione particolareggiata, si lasciassero trapelare le informazioni su cui si intende mantenere il riserbo. Ma, fermo restando ciò, e per quanto qui più interessa, l’adeguatezza della motivazione all’autorità giudiziaria va rapportata anche alle caratteristiche della notizia sulla quale viene confermato il segreto, riflettendone il livello di specificità. Altro è che la conferma riguardi circostanze puntualmente circoscritte, altro che – in correlazione al tenore della richiesta – essa investa, invece, notizie più generiche o, addirittura, di tipo “categoriale”. Nella specie, la richiesta di conferma del segreto atteneva – per limitarsi all’unico profilo che il ricorrente reputa realmente significativo nel giudizio di cui è investito – al fatto che, nell’arco di un quinquennio, il SISMI avesse impartito ordini o direttive al Pompa o alla Tontodimamma per la «raccolta di informazioni su magistrati, italiani o stranieri», senza specificazione – come già rimarcato – né di nomi (o di criteri di “selezione” degli interessati), né di finalità. Di fronte a una richiesta di tale ampiezza può ritenersi, dunque, sufficiente a giustificare la conferma del segreto il richiamo, altrettanto generale, del Presidente del Consiglio dei ministri all’esigenza di non palesare indirettamente, tramite la rivelazione dell’esistenza e dei contenuti di detti ordini e direttive, le modalità e le tecniche operative dei servizi medesimi (comprensive anche dei relativi obiettivi generali). Al riguardo, si coglie, del resto, con immediatezza la sproporzione tra la specificità del tema di prova nel giudizio da cui trae origine il conflitto e l’ampiezza dell’area che, mediante il conflitto stesso, si vorrebbe sottrarre alla tutela apprestata dallo strumento del segreto.
15.– Neppure, poi, può essere accolta la diversa richiesta formulata dal giudice ricorrente nella parte conclusiva della memoria, laddove si sollecita questa Corte ad appurare – tramite opportuna indagine istruttoria – se, nell’ambito del materiale segretato, esistano realmente le asserite prove della non colpevolezza degli imputati e se le stesse «siano legittimamente coperte da segreto»: indagine, in assunto, pienamente praticabile – giacché, per espressa previsione dell’art. 41, comma 8, della legge n. 124 del 2007, «in nessun caso il segreto di Stato è opponibile alla Corte costituzionale» – e che non comporterebbe, altresì, secondo il ricorrente, un sindacato di merito sull’esercizio del potere discrezionale, ma solo la verifica, in fatto, che «non vi sia stato un palese abuso dell’istituto del segreto di Stato e che la sua opposizione non sia stato un mero escamotage degli indagati per sottrarsi ad un giudizio penale».
La richiesta in questione poggia, in effetti, su una non consentita sovrapposizione tra l’oggetto del processo penale, da cui il conflitto di attribuzione trae origine, e l’oggetto di quest’ultimo, mirando nuovamente a rimettere a questa Corte valutazioni che – in chiave prognostica – restano invece affidate all’autorità giudiziaria.
Come già sottolineato, nel momento in cui è chiamato a confermare il segreto di Stato da altri opposto nell’ambito di un procedimento penale, il Presidente del Consiglio dei ministri non si esprime in alcun modo sull’attitudine delle notizie in discussione a incidere sugli esiti del procedimento in corso – valutazione che non gli compete, essendo rimessa istituzionalmente al giudice di detto procedimento – ma solo sulla loro idoneità a compromettere, se propalate, la sicurezza nazionale. Correlativamente, l’atto di conferma del segreto non potrebbe essere ritenuto illegittimo da questa Corte, in sede di conflitto di attribuzione, sulla base di una considerazione “eccentrica” rispetto ai suoi contenuti: e, cioè, a seguito dell’ipotetica verifica che il materiale segretato non fornisce, in realtà, elementi utili per la definizione del giudizio, siano essi a sostegno delle tesi dell’accusa, ovvero – come nel caso qui in esame – a supporto di quelle della difesa.