Ritenuto in fatto
1.— Il Tribunale ordinario di Grosseto, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale – in riferimento all'art. 3 della Costituzione – dell'art 15-quinquies, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell'art. 59, comma 1, della legge della Regione Toscana 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale), «come interpretato autenticamente» dall'art. 6 della legge della Regione Toscana 14 dicembre 2005, n. 67, recante «Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale). Interpretazione autentica dell'articolo 59 della L.R. n. 40/2005».
Il giudice a quo, in particolare, dubita della legittimità costituzionale delle due norme, in quanto «comportano la perdita della funzione dirigenziale» (del ruolo sanitario) «in caso di scelta del medico di proseguire l'attività extra moenia senza distinguere l'ipotesi in cui vi sia la possibilità concreta dell'esercizio della libera professione intra moenia da quella in cui tale possibilità concreta non vi sia».
1.1.— Premette, in punto di fatto, il Tribunale rimettente – dopo avere rammentato di avere già investito la Corte costituzionale, sempre nell'ambito del medesimo giudizio, di analoga questione di legittimità costituzionale, con esito costituito in entrambi i casi da pronunce di restituzione degli atti ad esso rimettente, in ragione di sopravvenienze normative (ordinanze n. 309 del 2002 e n. 422 del 2005) – di essere stato adito, in funzione di giudice del lavoro, per la conferma del provvedimento, adottato ai sensi dell'art. 700 del codice di procedura civile, con il quale sono stati sospesi gli effetti della opzione espressa in data 20 maggio 2000 (a norma dell'art. 15-quater, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992) dal ricorrente nel giudizio a quo, dirigente della divisione oculistica presso l'ospedale di Grosseto.
Precisa, dunque, il rimettente che l'oggetto del giudizio principale consiste nella conferma del provvedimento cautelare con il quale si è consentito al predetto dirigente sanitario di evitare l'esercizio dell'opzione – prevista dalla disposizione da ultimo richiamata – tra il rapporto esclusivo alle dipendenze dell'ospedale (implicante il divieto di esercizio della libera professione extramuraria), e lo svolgimento, invece, della libera professione extra moenia.
Ai sensi, difatti, del combinato disposto degli artt. 15-quater, comma 3, e 15-quinquies, comma 5, del d.lgs. n. 502 del 1992 – entrambi aggiunti dall'art. 13 del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419) – i dirigenti sanitari, già in servizio alla data del 31 dicembre 1998 (tale è la condizione in cui versa il ricorrente nel giudizio a quo), erano tenuti a comunicare – entro un termine originariamente fissato nel novantesimo giorno successivo all'entrata in vigore del suddetto d.lgs. n. 229 del 1999, e poi prorogato al 14 marzo 2000 dall'art. 1, comma 1, del decreto legislativo 2 marzo 2000, n. 49 (Disposizioni correttive del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, concernenti il termine di opzione per il rapporto esclusivo da parte dei dirigenti sanitari) – l'opzione in ordine al rapporto esclusivo (opzione che, oltretutto, si presumeva in assenza di diversa comunicazione), ciò che, oltre a costituire condizione indefettibile per il mantenimento degli incarichi di direzione di struttura, semplice o complessa, comportava anche la necessità di limitare l'attività libero professionale esclusivamente a quella “intramuraria”.
Assume, inoltre, il rimettente che, mentre l'adozione del provvedimento cautelare con cui sono stati sospesi gli effetti dell'opzione in favore del rapporto esclusivo poteva compiersi (e di fatto è stata compiuta) sulla base di una prognosi di incostituzionalità della relativa disciplina, la conferma di tale provvedimento presuppone, invece, la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate, in quanto «il giudice della causa di merito, a differenza del giudice della causa avente natura cautelare, non può disapplicare una norma di legge».
1.2.— Ritenuta, pertanto, la perdurante rilevanza della questione, pur a seguito delle sopravvenienze normative che avevano indotto la Corte costituzionale a pronunciare le due ordinanze di restituzione degli atti sopra ricordate, il rimettente ribadisce che le due norme censurate – stabilendo che l'incarico di direzione di una struttura sanitaria, semplice o complessa, implica, senza eccezione alcuna, il rapporto di lavoro esclusivo – finiscono con il parificare, irragionevolmente, «il dirigente che possa esercitare un'effettiva scelta tra due opzioni entrambe praticabili (laddove siano state concretamente allestite le strutture per la libera professione intra moenia) e il dirigente a cui sia in concreto preclusa l'alternativa della libera professione intra moenia», in ragione della mancata predisposizione di tali strutture.
Inoltre, la contestata disciplina, con previsione nuovamente irragionevole, impone al dirigente «di esercitare l'opzione prima di sapere se, effettivamente, l'azienda predisporrà le strutture necessarie all'esercizio della libera professione», costringendolo così «ad un salto nel buio».
Né, ad escludere detto inconveniente, potrebbe invocarsi il disposto del comma 10 del predetto art. 15-quinquies, che riconosce al medico – in caso di carenza di strutture e spazi idonei alle necessità connesse allo svolgimento delle attività libero-professionali in regime ambulatoriale – l'utilizzazione del proprio studio professionale, fino alla data, certificata dalla Regione o dalla Provincia autonoma, degli interventi strutturali necessari ad assicurare l'esercizio dell'attività libero-professionale intra moenia e comunque entro il 31 luglio 2007. Per un verso, infatti, siffatta previsione «costringe il medico ad esosi e caduchi investimenti strutturali», per altro verso è «comunque limitata alle attività professionali in regime ambulatoriale».
2.— È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo la declaratoria di inammissibilità della questione, ovvero il rigetto della stessa.
La difesa erariale assume, difatti, l'inammissibilità della questione «per perdurante o comunque sopravvenuta irrilevanza». Previamente ripercorse tanto le vicende oggetto del giudizio principale, quanto l'evoluzione conosciuta dalla legislazione – sia statale che regionale – in materia, l'Avvocatura generale dello Stato contesta l'affermazione sulla quale il rimettente ha fondato la propria rinnovata iniziativa, ovvero che la Corte costituzionale – con la sentenza n. 181 del 2006 – non avrebbe «preso in considerazione l'ipotesi in cui non esista la concreta possibilità di espletare l'attività in regime di rapporto esclusivo», omettendo di valutare anche in base a tale circostanza la ragionevolezza della disciplina in contestazione.
Tale assunto sarebbe smentito, secondo la difesa erariale, da quel passaggio della citata sentenza ove si afferma che, nel quadro «di una evoluzione legislativa diretta a conferire maggiore efficienza, anche attraverso innovazioni del rapporto di lavoro dei dipendenti, all'organizzazione della sanità pubblica così da renderla concorrenziale con quella privata», non risulta irragionevole «la previsione di limiti all'esercizio dell'attività libero-professionale da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale», e ciò anche in ragione del fatto «che la denunciata – e comunque indiretta – limitazione all'esercizio della libera professione», risulta «peraltro frutto di una precisa scelta del medico».
Inoltre, a rendere immune le norme censurate dal denunciato vizio di incostituzionalità – donde la richiesta, formulata in via di subordine dall'Avvocatura generale dello Stato, di declaratoria di non fondatezza della questione – soccorrerebbe la previsione del comma 10 dell'art. 15-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, giacché essa, in via eccezionale e transitoria, abilita il sanitario all'utilizzazione del proprio studio professionale per lo svolgimento dell'attività intramuraria.
Né in senso contrario potrebbe sostenersi – prosegue la difesa erariale – che «detta previsione da un lato costringe il medico ad investimenti per attrezzare il proprio studio professionale e, dall'altro, esclude, o comunque rende estremamente difficoltoso, l'esercizio da parte dello stesso dell'attività libero professionale in regime di ricovero». Difatti, se così fosse – è la conclusione – «la questione andrebbe posta, caso mai, in termini di mancata previsione del rimborso delle spese sostenute» nel primo caso, essendo invece superata, nel secondo, grazie previsione contenuta nell'art. 72, comma 11, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), la quale fa carico al direttore generale dell'azienda sanitaria di assumere specifiche iniziative per reperire fuori dall'azienda spazi sostitutivi in strutture non accreditate nonché ad autorizzare l'utilizzazione di studi professionali privati.
3.— È intervenuta in giudizio la Regione Toscana per chiedere che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque non fondata, atteso che la Corte costituzionale avrebbe già rilevato, con la sentenza n. 181 del 2006, la legittimità costituzionale della norma regionale censurata.
4.– Si è costituito in giudizio il ricorrente del giudizio principale.
Questi, richiamandosi alle argomentazioni contenute nell'ordinanza di rimessione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle norme censurate, rileva, in particolare, come soltanto attraverso l'accoglimento della stessa sarebbe possibile pervenire alla conferma del provvedimento cautelare adottato nel corso del giudizio principale, e dunque alla definitiva reintegrazione di esso ricorrente nell'esercizio delle funzioni di primario ospedaliero, unitamente al riconoscimento della continuazione della facoltà di esercizio della libera professione “extramuraria”, risultati questi ambedue conseguiti, sin qui, solo in via interinale, come del resto l'inibitoria imposta all'azienda ospedaliera grossetana, essendole fatto carico di non di dare corso alla procedura per il conferimento dell'incarico dirigenziale.
Ribadisce, per il resto, che i principi costituzionali di «eguaglianza, imparzialità, di buon andamento, proporzionalità, giusto mezzo e ragionevolezza» impongono che «l'esercizio dell'opzione di cui trattasi» – avente ad oggetto la scelta tra la possibilità, da un lato, di esercizio dell'attività libero-professionale extra moenia, accompagnata però dalla perdita delle funzioni di direzione di una struttura sanitaria, e quella, dall'altro, di svolgere unicamente la libera professione intra moenia, conservando le funzioni di direzione – venga richiesto al sanitario soltanto allorché siano state organizzate «le strutture e le attrezzature che effettivamente permettano l'esercizio della libera professione intramuraria».
A tale scopo mira, appunto, la sollevata questione di costituzionalità, la quale – osserva la parte privata – ha mantenuto inalterata la sua rilevanza anche dopo gli interventi legislativi, statali e regionali, che hanno nuovamente indotto la Corte costituzionale – con l'ordinanza n. 422 del 2005 – a restituire gli atti al giudice rimettente.
Ed infatti, se le modifiche apportate dall'art. 2-septies del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2004, n. 138 del 2004, al testo del comma 4 dell'art. 15-quater del d.lgs. n. 502 del 1992 hanno interessato, «alleggerendole», le conseguenze dell'opzione per il rapporto esclusivo («essendo stata eliminata», osserva sempre la parte privata, «l'irreversibilità della scelta del rapporto esclusivo e l'impossibilità per il medico in rapporto non esclusivo di assumere incarichi di direzione»), resta pur sempre fermo «l'obbligo di optare», e ciò senza che possa assumere rilievo l'effettiva predisposizione, o meno, delle strutture necessarie allo svolgimento dell'attività professionale intramuraria.
D'altra parte, poi, su tale profilo non ha inciso neppure la legge regionale della Toscana n. 40 del 2005, la quale, anzi, ha inteso addirittura far rivivere il sistema – abbandonato dal legislatore statale – secondo cui gli incarichi di direzione di struttura, semplice o complessa, sono conferiti ai dirigenti sanitari «in regime di rapporto di lavoro esclusivo da mantenere per tutta la durata dell'incarico».
5.– Si è costituita in giudizio anche la Società Oftalmologica Italiana – Associazione Medici Oculisti Italiani (SOI-AMOI), la quale, in via preliminare, ha chiarito di aver già spiegato intervento ad adiuvandum a sostegno della pretesa azionata dal ricorrente nel giudizio a quo, ciò che di per sé varrebbe a legittimare la sua partecipazione all'odierno giudizio.
Nel merito, oltre a fare propri i rilievi di cui all'ordinanza di rimessione, la predetta società sottolinea l'ininfluenza, rispetto ai già prospettati dubbi di costituzionalità, del mutamento subito dal quadro normativo di riferimento.
Essa, infine, ha chiesto la declaratoria di illegittimità costituzionale – oltre che delle disposizioni censurate dal rimettente – anche «delle disposizioni di cui agli artt. 3 e 5» del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, nonché della legge regionale della Toscana 22 ottobre 2004, n. 56, recante «Modifiche alla legge regionale 8 marzo 2000, n. 22 (Riordino delle norme per l'organizzazione del servizio sanitario regionale) in materia di svolgimento delle funzioni di direzione delle strutture organizzative», ipotizzando la «violazione degli artt. 3, 32, 33, 36, 41, 76, 97 e 117 della Costituzione».
6.— In data 13 febbraio 2008, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale una nuova memoria.
Ricostruite, vieppiù, le vicende oggetto del presente giudizio, la difesa erariale osserva che il decreto legislativo n. 229 del 1999 «si è posto l'obiettivo di una radicale discontinuità rispetto alla disciplina previgente», proponendosi «di pervenire, seppure con gradualità, all'esclusività del rapporto di lavoro dei dirigenti sanitari in ruolo al 31 dicembre 1998».
In particolare, mentre le «precedenti discipline avevano inteso collegare l'obbligo della scelta dei dirigenti sanitari all'approntamento delle relative strutture», attraverso l'inserimento – nel testo del d.lgs. n. 502 del 1992 – degli artt. da 15-quinqiues a 15-sexies, «il legislatore ha volutamente scelto un sistema inverso a quello precedentemente in vigore, ossia di preventivamente assumere le differenti disponibilità all'attività intra o extra moenia e successivamente riorganizzare il servizio su tale base cognitiva». Pertanto, la decisione assunta a livello statale, «lungi dal costituire una scelta irragionevole, in quanto non permetterebbe di conoscere le opzioni effettivamente praticabili, costituisce espressione di un principio di razionalizzazione volto a dare concretezza alle scelte del legislatore».
Analogamente, il fatto che «la Regione Toscana abbia voluto condizionare l'attribuzione di incarichi apicali alla scelta del rapporto esclusivo, non solo non confligge con alcuna disposizione di rango costituzionale, ma è proprio il portato della legge di riforma del titolo V della Costituzione», che attribuisce alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni la materia della tutela della salute. Inoltre, la scelta del legislatore regionale appare «funzionale alla protezione di altri interessi ed altre esigenze parimenti fatte oggetto di protezione costituzionale»
Su tali basi, quindi, la difesa erariale ha ribadito le conclusioni già formulate.
7.— Sempre in data 13 febbraio anche la SOI-AMOI ha depositato, presso la cancelleria della Corte costituzionale, una nuova memoria.
Essa ribadisce di voler «esporre considerazioni che estendono e rafforzano, a suo parere, la manifesta illegittimità delle norme in questione».
Deduce, pertanto, la violazione dell'art. 3 Cost. anche sotto altro profilo, assumendo, in particolare, che le norme censurate «sembrano impedire non solo le condizioni di libertà e di eguaglianza del cittadino medico, ma anche l'esercizio della sua personalità umana (indissolubilmente legata alla sua professione)», nonché «il diritto acquisito alla libera professione». Viene ipotizzata, inoltre, la violazione dell'art. 32 Cost., atteso che l'esercizio del diritto alla salute sarebbe «strettamente collegato con la libera scelta del medico e dunque con l'esercizio del rapporto fiduciario da parte dell'utente che, per effetto del sistema delineato, viene, come si è visto, del tutto compromesso».
Del pari, è dedotto il contrasto delle norme censurate con il combinato disposto degli artt. 3 e 36 Cost., «la cui armonizzante lettura dispone parità di trattamento in rapporto a parità di compiti e di condizioni dei lavoratori», e con l'art. 41 Cost., poiché la libera competizione tra i medici del Servizio sanitario nazionale verrebbe «sicuramente compromessa» dal sistema delineato dalle norme stesse.
Infine, si ipotizza la violazione dell'art. 76 Cost., atteso che il d.lgs. n. 229 del 1999 – nel dettare la previsione di cui all'art. 15-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992 – «avrebbe esorbitato lo spazio offerto dal legislatore delegante».
Ribadisce la SOI-AMOI, conclusivamente, l'attualità dei descritti rilievi di illegittimità costituzionale, anche alla luce di quanto ritenuto dalla Corte costituzionale con sentenza n. 50 del 2007, secondo cui la facoltà di scelta tra i due regimi di lavoro dei dirigenti sanitari (esclusivo e non esclusivo) appare «espressione di un principio fondamentale, volto a garantire una tendenziale uniformità tra le diverse legislazioni ed i sistemi sanitari delle Regioni e delle Province autonome in ordine ad un profilo qualificante del rapporto tra sanità ed utenti».
Né, poi, una nuova decisione di restituzione degli atti potrebbe essere giustificata dalla sopravvenienza dell'art. 3 della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria), atteso che tale norma non farebbe «che ribadire l'ennesima disposizione» finalizzata ad «indurre le Regioni e le AUSL ad adottare misure organizzative tali da consentire in concreto la libera professione intramuraria in ogni situazione», oltretutto senza prevedere «alcun finanziamento per i propositi – sempre vanificati – di effettiva organizzazione a sostegno dell'attività professionale intramuraria», anzi facendo «espresso divieto di oneri aggiuntivi nell'impiego di personale che dovrebbe essere posto a sostegno di tale attività».
8.— Anche la Regione Toscana, del pari in data 12 febbraio, ha depositato, presso la cancelleria della Corte costituzionale, una nuova memoria.
La Regione evidenzia, innanzitutto, come il Tribunale rimettente abbia ribadito i dubbi di legittimità costituzionale delle norme censurate – con riferimento al solo art. 3 Cost. – «limitatamente al profilo della prevista perdita della funzione dirigenziale in ogni caso di scelta di proseguire l'attività extra moenia, senza distinguere tra l'ipotesi in cui vi fosse l'alternativa della libera professione intra moenia e quella in cui tale alternativa non vi fosse per carenza di strutture aziendali all'uopo dedicate».
Ciò premesso, essa deduce che, subito dopo l'emissione dell'ordinanza di rimessione, è intervenuta la delibera della Giunta regionale della Toscana 23 luglio 2007, n. 555 di recepimento delle disposizioni di cui al decreto legislativo 28 luglio 2000, n. 254 (Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, per il potenziamento delle strutture per l'attività libero-professionale dei dirigenti sanitari), il quale prevedeva «la realizzazione da parte delle aziende sanitarie, tramite un programma di investimenti ad hoc» di apposite «strutture per l'esercizio della libera professione intra moenia». In particolare, detta delibera «stabiliva per quanto attiene all'Azienda USL 9 di Grosseto la realizzazione di strutture per lo svolgimento dell'attività intra moenia entro il 31 luglio 2007».
Inoltre, la difesa regionale segnala come l'art. 1 della legge n. 120 del 2007 abbia espressamente previsto che, al fine di garantire l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria, «le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano assumono le più idonee iniziative volte ad assicurare gli interventi di ristrutturazione edilizia, presso le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta e gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) di diritto pubblico, necessari per rendere disponibili i locali destinati a tale attività» (così, testualmente, il comma 1), stabilendo, altresì, che l'adozione di tali iniziative «dovrà essere completata entro il termine di diciotto mesi a decorrere dalla data del 31 luglio 2007» (in tal senso il comma 2).
In attuazione di tali previsioni, prosegue la Regione Toscana, «l'Azienda USL 9 di Grosseto ha già predisposto tutti gli spazi e le tecnologie idonee all'attività intramuraria», come attesterebbe la delibera aziendale n. 494 del 2007.
In forza di tali ultime considerazioni, la Regione assume in via pregiudiziale – non senza previamente eccepire, peraltro, «l'inammissibilità degli ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti dalle parti private intervenute nel presente giudizio incidentale, non richiamate nell'ordinanza di rimessione» (cita, in proposito, la sentenza n. 405 del 1999) e comunque l'impossibilità di imputare il vizio di eccesso dalla delega, pure da esse prospettato, alle leggi regionali (cita la sentenza n. 221 del 1992 e l'ordinanza n. 209 del 2005) – che la questione sollevata non sarebbe «assistita dal requisito della rilevanza».
Nel merito, la Regione deduce l'infondatezza della questione, richiamando le sentenze della Corte costituzionale n. 63 del 2000, n. 353 del 1993, oltre che la sentenza n. 181 del 2006, con la quale, in particolare, si è provveduto «a sindacare le specifiche norme oggetto dell'odierno giudizio di costituzionalità, riconoscendone la legittimità costituzionale proprio in relazione all'art. 3 (oltre che all'art. 117 della Costituzione)».
In particolare, la Corte ha affermato – sottolinea la difesa regionale – che «non appare irragionevole la previsione di limiti all'esercizio dell'attività libero-professionale da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale», e ciò anche in ragione del fatto «che la denunciata – e comunque indiretta – limitazione all'esercizio della libera professione», risulta «peraltro frutto di una precisa scelta del medico».
Richiamate, pertanto, anche le sentenze n. 147 del 2005, n. 330 del 1999 e n. 145 del 1985, la Regione insiste per la declaratoria di non fondatezza della questione sollevata.
Quanto, poi, in particolare, alla specifica doglianza del rimettente – circa l'assenza delle condizioni che permetterebbero al sanitario di compiere una scelta consapevole in favore del rapporto esclusivo – decisiva appare alla difesa regionale la circostanza che «il legislatore, con l'art. 15-quinquies, comma 10, al fine di ovviare a possibili disfunzioni organizzative, ha consentito l'utilizzo di studi professionali privati, laddove e fino a quando l'azienda non abbia reperito gli spazi adeguati all'esercizio dell'intra moenia»; ne consegue, pertanto, che per lo stesso ricorrente del giudizio principale, «nel momento in cui è stato chiamato ad esercitare l'opzione a favore del regime esclusivo, l'esercizio dell'attività intramuraria era, comunque, garantito, anche nelle forme della cd. intra moenia allargata».
Considerato in diritto
1.— Torna all'esame di questa Corte la questione, già sollevata dal Tribunale ordinario di Grosseto, in funzione di giudice del lavoro, in relazione alla quale sono già state adottate due ordinanze di restituzione degli atti al giudice rimettente (ordinanze n. 309 del 2002 e n. 422 del 2005) in ragione di ius superveniens.
Con l'ordinanza di rimessione di cui in epigrafe, il medesimo Tribunale ha sollevato questione di legittimità costituzionale – in riferimento all'art. 3 della Costituzione – dell'art 15-quinquies, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell'art. 59, comma 1, della legge della Regione Toscana 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale), «come interpretato autenticamente» dall'art. 6 della legge regionale 14 dicembre 2005, n. 67, recante «Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale). Interpretazione autentica dell'articolo 59 della L.R. n. 40/2005».
Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale delle suddette norme, in quanto «comportano la perdita della funzione dirigenziale» di una struttura sanitaria «in caso di scelta del medico di proseguire l'attività extra moenia senza distinguere l'ipotesi in cui vi sia la possibilità concreta dell'esercizio della libera professione intra moenia da quella in cui tale possibilità concreta non vi sia».
1.2.— Ritenuta la perdurante rilevanza della questione, pur a seguito delle sopravvenienze normative che avevano indotto questa Corte a pronunciare le due ordinanze di restituzione degli atti sopra ricordate, il rimettente assume che le norme censurate – stabilendo che l'incarico di direzione di una struttura sanitaria, semplice o complessa, implica, senza eccezione alcuna, il rapporto di lavoro esclusivo – finiscono con il parificare, irragionevolmente, «il dirigente che possa esercitare un'effettiva scelta tra due opzioni entrambe praticabili (laddove siano state concretamente allestite le strutture per la libera professione intra moenia) e il dirigente a cui sia in concreto preclusa l'alternativa della libera professione intra moenia», in ragione della mancata predisposizione di tali strutture.
Inoltre, la contestata disciplina, con previsione oltretutto irragionevole, impone al dirigente «di esercitare l'opzione prima di sapere se, effettivamente, l'azienda predisporrà le strutture necessarie all'esercizio della libera professione», costringendolo così «ad un salto nel buio».
2.— È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo la declaratoria di inammissibilità della questione, ovvero il rigetto della stessa.
In particolare, la difesa erariale reputa che il dubbio di costituzionalità sollevato dal rimettente debba ritenersi superato alla luce di quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 181 del 2006. Si tratta della pronuncia che ha definito un giudizio di legittimità costituzionale in via principale avente ad oggetto, tra le altre norme, tanto l'art. 2-septies, comma 1, del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2004, n. 138 (disposizione, questa, che ha sostituito il comma 4 dell'art. 15-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, cancellando il principio della irreversibilità che caratterizzava il rapporto esclusivo dei dirigenti sanitari), quanto l'art. 59, comma 1, della legge regionale della Toscana n. 40 del 2005 (cioè proprio una delle due norme censurate dall'odierno rimettente), il quale prevede che gli incarichi di direzione delle strutture organizzative sanitarie siano conferiti ai dirigenti sanitari «in regime di rapporto di lavoro esclusivo da mantenere per tutta la durata dell'incarico».
3.— Si sono costituiti nel presente giudizio il ricorrente del giudizio principale e la Società Oftalmologica Italiana – Associazione Medici Oculisti Italiani (SOI-AMOI), già interveniente nel giudizio a quo, chiedendo l'accoglimento della questione sollevata dal giudice rimettente e sollecitando un ampliamento del thema decidendum.
In particolare, la predetta SOI-AMOI ha chiesto la declaratoria di illegittimità costituzionale anche «delle disposizioni di cui agli artt. 3 e 5» del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), e delle norme «di cui agli artt. 15, 15-bis, 15-ter, 15-quater, 15-quinquies, 15-sexies, 15-nonies» del d.lgs. n. 502 del 1992, nonché della legge regionale della Toscana 22 ottobre 2004, n. 56, recante «Modifiche alla legge regionale 8 marzo 2000, n. 22 (Riordino delle norme per l'organizzazione del servizio sanitario regionale) in materia di svolgimento delle funzioni di direzione delle strutture organizzative», ipotizzando la «violazione degli artt. 3, 32, 33, 36, 41, 76, 97 e 117 della Costituzione».
4.— È intervenuta anche la Regione Toscana per chiedere il rigetto della questione, richiamando anch'essa la già citata sentenza n. 181 del 2006.
In via preliminare, peraltro, la Regione ha chiesto che venga dichiarata l'inammissibilità dell'ampliamento del thema decidendum, rispetto a quello prospettato nell'ordinanza di rimessione.
Essa, inoltre, ha dedotto il difetto di rilevanza della questione sollevata, in quanto, essendo stata eccepita l'illegittimità delle norme censurate «sul presupposto della mancanza degli spazi idonei per lo svolgimento dell'attività intra moenia», la censura sarebbe divenuta irrilevante per effetto della deliberazione della Giunta regionale della Toscana 23 luglio 2007, n. 555 (la quale, in relazione proprio all'Azienda USL 9 di Grosseto, ha stabilito la realizzazione delle strutture per lo svolgimento dell'attività intra moenia entro il 31 luglio 2007), e, soprattutto, della deliberazione aziendale n. 494 del 2007 (nella quale si dà atto che la predetta Azienda ha già predisposto tutti gli spazi e le tecnologie idonei all'attività intramuraria).
5.— In via preliminare, debbono essere esaminate proprio le eccezioni pregiudiziali sollevate dalla Regione Toscana.
5.1.— La prima eccezione è fondata.
Deve, infatti, ribadirsi, quanto all'oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale, che esso è «limitato alle norme ed ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, poiché, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non possono essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste fissate, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze» (così, testualmente, l'ordinanza n. 174 del 2003, nonché, nello stesso senso, la sentenza n. 244 del 2005 e l'ordinanza n. 273 del 2005).
Conseguentemente, devono ritenersi inammissibili le deduzioni delle parti private, costituitesi nel presente giudizio, dirette ad estendere il thema decidendum non soltanto attraverso l'evocazione di ulteriori parametri costituzionali, ma anche attraverso la denuncia di norme ulteriori rispetto a quelle sospettate di illegittimità costituzionale dal giudice rimettente.
5.2.— Non può essere accolta, invece, l'eccezione di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, atteso che le deliberazioni alle quali fa riferimento la difesa regionale sono di epoca successiva, oltre che alla instaurazione del giudizio a quo, anche alla stessa ordinanza di rimessione.
6.— Ciò premesso, passando ad esaminare il merito del presente giudizio, deve rilevarsi come la questione sollevata dal Tribunale ordinario di Grosseto non sia fondata.
7.— Al riguardo, appare necessario ripercorrere, nei suoi passaggi più significativi, l'evoluzione complessiva della disciplina del rapporto di lavoro dei dirigenti del Servizio sanitario nazionale, contraddistinta sin dall'origine da un tendenziale disfavore nei confronti dello svolgimento dell'attività libero-professionale.
7.1.— In tale prospettiva, deve rammentarsi, innanzitutto, che ai sensi dell'art. 43, lettera d), della legge 12 febbraio 1968, n. 132 (Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera), venne stabilito il principio dell'incompatibilità tra rapporto di servizio «a tempo definito» del medico ospedaliero e l'esercizio di attività professionale in case di cura private, principio che superò indenne lo scrutinio di costituzionalità condotto con la sentenza n. 103 del 1977. Questa Corte, infatti, sottolineò gli «effetti negativi ed impeditivi» che avrebbe avuto, rispetto alla scelta legislativa di potenziare con nuove strutture il servizio pubblico di assistenza ospedaliera, «il consentire alla collaterale organizzazione dell'assistenza sanitaria privata di assorbire, con impegni quasi sempre non accidentali, il personale sanitario ospedaliero».
Detta scelta legislativa venne, poi, confermata dall'art. 24 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130 (Stato giuridico dei dipendenti degli enti ospedalieri), che, dando attuazione al suddetto principio di incompatibilità, definì compiutamente due diverse tipologie di rapporti di lavoro. Si previde, infatti, accanto ad un rapporto a «tempo pieno» (instaurato «a domanda» e comportante l'attribuzione di un «premio di servizio», che bilanciava la «rinuncia alla attività libero-professionale extra-ospedaliera» e la «totale disponibilità» per i compiti d'istituto dell'ente ospedaliero), un rapporto a «tempo definito», contraddistinto dalla «facoltà del libero esercizio professionale, anche fuori dell'ospedale», purché non in contrasto con le incompatibilità disposte dal predetto art. 43, lettera d), della citata legge n. 132 del 1968.
7.2.— Tale impianto complessivo risultò confermato anche dall'art. 35, secondo comma, lettere c) e d), del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali).
Infatti, da un lato, venne ribadito il diritto dei medici a «tempo pieno» ad esercitare attività libero-professionale intramuraria, e cioè esclusivamente «nell'ambito dei servizi, presidi e strutture dell'unità sanitaria locale, sulla base di norme regionali», limitandola, al di fuori di tale ambito, soltanto a «consulti e consulenze non continuativi», autorizzati «sulla base di norme regionali»; dall'altro, si stabilì, per i sanitari a «tempo definito», la facoltà di svolgere – purché in orari compatibili e non in contrasto con gli interessi ed i fini istituzionali della struttura sanitaria – l'attività libero-professionale extramuraria, anche «in regime convenzionale», in conformità con le direttive degli accordi nazionali.
7.3.— Segna, viceversa, una cesura rispetto a questa evoluzione l'art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica).
Con tale intervento il legislatore, vietando ai medici a «tempo definito» prestazioni di lavoro in regime convenzionale o presso strutture convenzionate, ha nel contempo liberalizzato del tutto l'esercizio dell'attività professionale sia extra che intramuraria e ha incentivato «la scelta per il rapporto di lavoro dipendente, assicurando in tal caso, a semplice domanda, il passaggio dal “tempo definito” al “tempo pieno” anche in soprannumero» (sentenza n. 457 del 1993).
La liberalizzazione, per tutto il personale sanitario, dell'esercizio della attività professionale in regime esclusivamente privatistico – che, come osservato da questa Corte nella sentenza n. 330 del 1999, «si conformava, per certi aspetti, alla logica della aziendalizzazione del Servizio sanitario e della “privatizzazione” del rapporto di lavoro del personale dipendente» – determinava, come ulteriore effetto, che anche i medici a “tempo pieno” potessero svolgere attività extramuraria, senza la precedente limitazione ai soli consulti e consulenze non continuativi.
Orbene, in una situazione siffatta, i soggetti, pubblici e privati, che erogavano prestazioni per conto del Servizio sanitario nazionale, «potevano essere scelti liberamente dal cittadino e venivano retribuiti in base alle prestazioni rese»; si veniva così a determinare una forte «concorrenzialità tra strutture sanitarie pubbliche e strutture sanitarie private» (ancora la citata sentenza n. 330 del 1999).
Rispetto a tale situazione, pertanto, «rischiava di apparire contraddittoria la facoltà, riconosciuta al sanitario dipendente pubblico, di esercitare l'attività professionale anche all'esterno della struttura di appartenenza», e ciò tanto più per il dirigente medico, giacché il medesimo «in questo nuovo modello organizzativo, appariva in grado di contribuire efficacemente a determinare sia le scelte strategiche ed operative dell'azienda, attraverso la partecipazione al Consiglio dei sanitari, sia quelle specifiche del dipartimento o del servizio, cui era preposto», donde allora «le premesse per il profilarsi di una situazione di conflitto di interessi, qualora il medico svolgesse libera attività professionale extramuraria».
È, dunque, in tale contesto che il legislatore «ha adottato misure per incentivare l'attività professionale intramuraria» ed essa soltanto, e ciò in coerenza con una «evoluzione legislativa diretta a conferire maggiore efficienza, anche attraverso innovazioni del rapporto di lavoro dei dipendenti, all'organizzazione della sanità pubblica così da renderla concorrenziale con quella privata». A questa stessa logica, inoltre, risponde «la previsione di limiti all'esercizio dell'attività libero-professionale» nelle forme dell'extra moenia, da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale, previsione che, come affermato da questa Corte, «non appare irragionevole» (ancora la sentenza n. 330 del 1999).
7.4.— La concreta attuazione di tale disegno è stata affidata all'art. 13 del d.lgs. n. 229 del 1999, che enuncia, tra gli altri, il principio secondo cui gli «incarichi di direzione di struttura, semplice o complessa, implicano il rapporto di lavoro esclusivo» del sanitario (art. 15-quinquies, comma 5, del d.lgs. n. 502 del 1992) e quello che ricollega a detto rapporto esclusivo «il diritto all'esercizio di attività libero professionale individuale, al di fuori dell'impegno di servizio», unicamente «nell'ambito delle strutture aziendali individuate dal direttore generale d'intesa con il collegio di direzione» (comma 2, lettera a, del medesimo art. 15-quinquies).
Il citato art. 13 del d.lgs. n. 229 del 1999 ha inserito nel d.lgs. n. 502 del 1992, tra gli altri, gli artt. 15-quater (Esclusività del rapporto di lavoro dei dirigenti del ruolo sanitario), 15-quinquies (Caratteristiche del rapporto di lavoro esclusivo dei dirigenti sanitari) e 15-sexies (Caratteristiche del rapporto di lavoro dei dirigenti sanitari che svolgono attività libero-professionale extramuraria).
Tale regime, in particolare, è quello applicabile anche nei confronti dei «dirigenti in servizio alla data del 31 dicembre 1998» (tale è la condizione del ricorrente nel giudizio a quo). Per questi ultimi, anzi, è stato previsto un meccanismo di opzione “tacita” in favore del rapporto esclusivo (con conseguente perdita della facoltà di svolgere l'attività libero-professionale extra moenia), atteso che gli interessati, ai sensi dell'art. 15-quater, comma 3, del citato d.lgs. n. 502 del 1992, risultavano «tenuti a comunicare al direttore generale l'opzione in ordine al rapporto esclusivo» (entro un termine originariamente fissato nel novantesimo giorno successivo all'entrata in vigore del d.lgs. n. 229 del 1999 e poi prorogato al 14 marzo 2000 dal decreto legislativo 2 marzo 2000, n. 49, recante «Disposizioni correttive del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, concernenti il termine di opzione per il rapporto esclusivo da parte dei dirigenti sanitari»), prevedendosi, inoltre, che, in «assenza di comunicazione», l'opzione del dipendente «per il rapporto esclusivo» fosse da presumersi.
7.4.1.— Nel quadro normativo derivante dai molteplici interventi legislativi cui si è accennato, è stato, tuttavia, previsto un parziale temperamento del principio secondo cui l'esclusività del rapporto di lavoro del dirigente sanitario implica lo svolgimento della sola attività libero-professionale intramuraria.
Infatti, l'espressa salvezza – come emerge, in particolare, dalla scelta compiuta dal citato art. 13 del d.lgs. n. 229 del 1999 di inserire anche la previsione di cui alla lettera a), nel testo dell'art. 15-quinquies, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992 – di «quanto disposto dall'art. 72, comma 11, della legge 23 dicembre 1998, n. 448» (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), già allora comportava l'impegno del direttore generale delle aziende ospedaliere, fino alla realizzazione di «idonee strutture e spazi distinti per l'esercizio dell'attività libero professionale intramuraria in regime di ricovero ed ambulatoriale», «ad assumere le specifiche iniziative per reperire fuori dall'azienda spazi sostitutivi in strutture non accreditate nonché ad autorizzare l'utilizzazione di studi professionali privati».
E per dare concreta attuazione a tale prescrizione, con decreto del Ministro della sanità 28 febbraio 1997 (Attività libero-professionale e incompatibilità del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale), si è fatto carico ai «direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere» di adottare, sentite le organizzazioni sindacali del personale della dirigenza sanitaria, «un apposito atto regolamentare per definire le modalità organizzative dell'attività libero-professionale del personale medico e delle altre professionalità della dirigenza del ruolo sanitario» (così l'art. 4). Con previsione analoga, anche il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 marzo 2000 (Atto di indirizzo e coordinamento concernente l'attività libero-professionale intramuraria del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale) stabilisce che i «direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere, avvalendosi del collegio di direzione, adottano, in conformità alle direttive regionali, alle previsioni dei contratti collettivi nazionali di lavoro e del presente atto di indirizzo e coordinamento, un apposito atto aziendale per definire le modalità organizzative dell'attività libero-professionale del personale medico e delle altre professionalità della dirigenza del ruolo sanitario» (art. 5).
Né è senza significato – ancora nella prospettiva della concreta attuazione del sistema incentrato sull'esercizio dell'attività libero-professionale intra moenia – la previsione di cui all'art. 1 del decreto del Ministro della sanità 8 giugno 2001 (Ripartizione delle risorse finanziarie destinate alla realizzazione delle strutture sanitarie per l'attività libero-professionale intramuraria, ai sensi dell'art. 1 del d.lgs. 28 luglio 2000, n. 254), che ha «approvato il programma per la realizzazione delle strutture sanitarie destinate all'attività libero-professionale intramuraria per un ammontare complessivo di lire 1.599.636.179.465 pari a euro 826.143.140,92».
7.4.2.— La tendenza – di cui sono espressione, oltre alla previsione legislativa da ultimo richiamata, i citati provvedimenti attuativi in sede amministrativa – a rendere meno problematico il passaggio al nuovo regime del rapporto esclusivo (o meglio, ad attenuare le conseguenze derivanti dall'abbandono dell'attività libero-professionale extra moenia) si è vieppiù consolidata, negli anni, alla luce di una serie di ulteriori interventi legislativi.
Rileva, in tale prospettiva, innanzitutto, quanto stabilito dagli artt. 1 e 3 del decreto legislativo 28 luglio 2000, n. 254 (Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, per il potenziamento delle strutture per l'attività libero-professionale dei dirigenti sanitari).
Il primo di tali articoli – nell'introdurre nel testo del d.lgs. n. 502 del 1992 l'art. 15-duodecies (significativamente rubricato «Strutture per l'attività libero professionale») – ha fatto carico alle Regioni di provvedere, entro il 31 dicembre 2000, «alla definizione di un programma di realizzazione di strutture sanitarie per l'attività libero-professionale intramuraria». Esso, inoltre, ha stabilito che il Ministro della sanità (oggi della salute), d'intesa con la Conferenza Stato-Regioni, determini, seppure entro un limite complessivo dalla stessa norma prefissato, l'ammontare dei fondi «utilizzabili da ciascuna Regione per gli interventi» suddetti. Sempre ai sensi, poi, del predetto art. 1 si è previsto che «in caso di ritardo ingiustificato rispetto agli adempimenti fissati dalle regioni per la realizzazione delle nuove strutture e la acquisizione delle nuove attrezzature e di quanto necessario al loro funzionamento, la regione vi provvede tramite commissari ad acta».
Quanto, invece, all'art. 3 del predetto d.lgs. n. 254 del 2000, esso – nel novellare il testo del comma 10 dell'art. 15-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, dettando una disposizione speculare a quella già prevista, per l'attività libero-professionale in regime di ricovero, dal già citato art. 72, comma 11, della legge n. 448 del 1998 – ha stabilito che al dirigente sanitario «è consentita, in caso di carenza di strutture e spazi idonei alle necessità connesse allo svolgimento delle attività libero-professionali in regime ambulatoriale, limitatamente alle medesime attività e fino al 31 luglio 2003, l'utilizzazione del proprio studio professionale».
Successivamente, con nuovi interventi legislativi che si ispirano alla stessa logica, tale termine è stato prorogato prima al 31 luglio 2005 (art. 1, comma 1, del decreto-legge 23 aprile 2003, n. 89, recante «Proroga dei termini relativi all'attività professionale dei medici e finanziamento di particolari terapie oncologiche ed ematiche, nonché delle transazioni con soggetti danneggiati da emoderivati infetti», comma inserito dalla legge di conversione 20 giugno 2003, n. 141), poi al 31 luglio 2006 (in virtù di quanto stabilito dall'art. 1-quinquies del decreto-legge 27 maggio 2005, n. 87, recante «Disposizioni urgenti per il prezzo dei farmaci non rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale nonché in materia di confezioni di prodotti farmaceutici e di attività libero-professionale intramuraria», articolo aggiunto dalla legge di conversione 26 luglio 2005, n. 149), e, da ultimo, «fino alla data, certificata dalla regione o dalla provincia autonoma, del completamento da parte dell'azienda sanitaria di appartenenza degli interventi strutturali necessari ad assicurare l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria e comunque entro il 31 luglio 2007» (art. 22-bis, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», aggiunto dalla relativa legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248).
Ancora nella prospettiva cui si è accennato – accanto alla previsione contenuta nel citato art. 2-septies, comma 1, del d.l. n. 81 del 2004 (articolo aggiunto dalla relativa legge di conversione n. 138 del 2004), il quale, nel modificare il comma 4 dell'art. 15-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, ha inteso conferire all'opzione in favore del rapporto esclusivo carattere non più irreversibile, stabilendo, difatti, che i dirigenti sanitari «possono optare, su richiesta da presentare entro il 30 novembre di ciascun anno, per il rapporto di lavoro non esclusivo, con effetto dal 1° gennaio dell'anno successivo» – deve essere menzionata la disciplina recata dall'art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria).
Tale articolo ha previsto, innanzitutto, che Regioni e Province autonome, al fine di garantire l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria, devono assumere «le più idonee iniziative volte ad assicurare gli interventi di ristrutturazione edilizia, presso le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta e gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) di diritto pubblico, necessari per rendere disponibili i locali destinati a tale attività» (così, in particolare, il comma 1). Nel sancire, poi, che l'adozione di tali iniziative (comma 2) «dovrà essere completata entro il termine di diciotto mesi a decorrere dalla data del 31 luglio 2007», il legislatore ha inoltre stabilito che, limitatamente a tale periodo e agli ambiti in cui non sia stata ancora data attuazione alle necessarie iniziative, continuino «ad applicarsi i provvedimenti già adottati per assicurare l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria», anche oltre quel termine del 31 luglio 2007 fino al quale è stata prorogata la possibilità di svolgimento delle attività libero-professionali in regime ambulatoriale mediante l'utilizzazione, da parte dei dirigenti sanitari, del proprio studio professionale. Sempre con il suddetto comma 2 si è, altresì, previsto che Regioni e Province autonome, del pari entro diciotto mesi dal 31 luglio 2007, procedano «all'individuazione e all'attuazione delle misure dirette ad assicurare, in accordo con le organizzazioni sindacali delle categorie interessate e nel rispetto delle vigenti disposizioni contrattuali, il definitivo passaggio al regime ordinario del sistema dell'attività libero-professionale intramuraria della dirigenza sanitaria, medica e veterinaria del Servizio sanitario nazionale e del personale universitario di cui all'articolo 102 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382» (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica).
Significativo appare, poi, il disposto di cui al comma 4 dell'articolo in esame, secondo il quale, tra le misure di cui al comma 2, «può essere prevista, ove ne sia adeguatamente dimostrata la necessità e nell'ambito delle risorse disponibili, l'acquisizione di spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari, per l'esercizio di attività sia istituzionali sia in regime di libera professione intramuraria, i quali corrispondano ai criteri di congruità e idoneità per l'esercizio delle attività medesime, tramite l'acquisto, la locazione, la stipula di convenzioni»; per la sola attività clinica e diagnostica ambulatoriale è stabilito (comma 9) che «gli spazi e le attrezzature dedicati all'attività istituzionale possono essere utilizzati anche per l'attività libero-professionale intramuraria, garantendo la separazione delle attività in termini di orari, prenotazioni e modalità di riscossione dei pagamenti».
Ai sensi, inoltre, del comma 5 si fa carico ad ogni «azienda sanitaria locale, azienda ospedaliera, azienda ospedaliera universitaria, policlinico universitario a gestione diretta ed IRCCS di diritto pubblico» di predisporre «un piano aziendale, concernente, con riferimento alle singole unità operative, i volumi di attività istituzionale e di attività libero-professionale intramuraria», disciplinando, con il successivo comma 6, le modalità di approvazione dei detti piani.
Di rilievo, infine, è la norma contenuta nel comma 7, secondo cui Regioni e Province autonome «assicurano il rispetto delle previsioni di cui ai commi 1, 2, 4, 5 e 6 anche mediante l'esercizio di poteri sostitutivi e la destituzione, nell'ipotesi di grave inadempienza, dei direttori generali delle aziende, policlinici ed istituti».
8.— Alla luce, pertanto, di tale complessiva disciplina, così come essa si è venuta stratificando ed attuando nel tempo, risulta evidente il carattere assolutamente residuale della ipotesi alla quale si riferisce il rimettente nel sollevare la presente questione di legittimità costituzionale.
Ed invero, il caso nel quale la scelta del dirigente, in favore del rapporto esclusivo, rappresenterebbe «un salto nel buio» (per adoperare le parole del Tribunale di Grosseto) si presenta sostanzialmente come un'evenienza del tutto marginale e, in definitiva, di carattere accidentale.
9.— La conclusione della non fondatezza della questione sollevata dal rimettente non postula, tuttavia, che possa essere condivisa la tesi sostenuta dall'Avvocatura generale dello Stato e dalla difesa della Regione Toscana secondo cui tale conclusione deriverebbe da una pedissequa applicazione di quanto deciso da questa Corte con la sentenza n. 181 del 2006.
La citata pronuncia ha, innanzitutto, affermato che le singole Regioni «sono libere di disciplinare le modalità relative al conferimento degli incarichi di direzione delle strutture sanitarie, ora privilegiando in senso assoluto il regime del rapporto esclusivo» (è quanto ha fatto il legislatore toscano con il censurato art. 59, comma 1, della legge regionale n. 40 del 2005), ora, invece, «facendo della scelta in suo favore un criterio “preferenziale” per il conferimento degli incarichi di direzione».
Essa, inoltre, ha proceduto ad uno scrutinio sulla ragionevolezza della norma regionale, sospettata di illegittimità costituzionale dal Tribunale ordinario di Grosseto, sotto un profilo diverso da quello evocato dal rimettente. Difatti, con la citata sentenza, questa Corte si è limitata a stabilire che, nel «quadro di una evoluzione legislativa diretta a conferire maggiore efficienza, anche attraverso innovazioni del rapporto di lavoro dei dipendenti, all'organizzazione della sanità pubblica così da renderla concorrenziale con quella privata, (...) non appare irragionevole la previsione di limiti all'esercizio dell'attività libero-professionale da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale»; e ciò anche in ragione del fatto «che la denunciata – e comunque indiretta – limitazione all'esercizio della libera professione» risulta «peraltro frutto di una precisa scelta del medico».
È rimasto, dunque, estraneo al decisum di detta pronuncia il tema della presunta irragionevolezza dell'art. 59, comma 1, della legge regionale della Toscana n. 40 del 2005, e con esso anche dell'art. 15-quinquies, comma 5, del d.lgs. n. 502 del 1992, dipendente dal fatto che entrambe le disposizioni, ricorrendo certe condizioni fattuali, non garantirebbero una scelta consapevole a favore del rapporto esclusivo.
10.— Alla luce delle considerazioni innanzi svolte deve affermarsi che l'inconveniente lamentato dal rimettente e dalle parti private, nei limitati casi in cui si verifica, non nasce come conseguenza diretta ed immediata delle previsioni legislative censurate, ma deriva dalle differenti condizioni “fattuali” in cui possono trovarsi le strutture sanitarie pubbliche. Da ciò consegue che, al più, può venire in rilievo una situazione di disparità di mero fatto, alla quale la giurisprudenza costituzionale ha sempre negato rilevanza agli effetti della violazione dell'art. 3 Cost. (da ultimo, ordinanze n. 375, n. 186 e n. 142 del 2006).
Ha affermato, difatti, questa Corte che «le cosiddette disparità di mero fatto – ossia quelle differenze di trattamento che derivano da circostanze contingenti ed accidentali, riferibili non alla norma considerata nel suo contenuto precettivo ma semplicemente alla sua concreta applicazione – non danno luogo a un problema di costituzionalità, nel senso che l'eventuale funzionamento patologico della norma stessa non può costituire presupposto per farne valere una illegittimità riferita alla lesione (…) del principio di uguaglianza» (così in particolare, ex multis, sentenza n. 417 del 1996).
11.— Da ultimo, deve rilevarsi che l'eventuale inadempimento (o il ritardo nell'adempimento) da parte degli organi delle strutture sanitarie pubbliche, in special modo del direttore generale di esse (come implicitamente conferma il comma 7 dell'art. 5 della legge n. 120 del 2007, nel prevedere la possibilità della destituzione di quest'ultimo), nella predisposizione di quanto necessario per lo svolgimento dell'attività libero-professionale intramuraria da parte dei medici che abbiano optato per il rapporto esclusivo, potrebbe dare luogo a gravi forme di responsabilità dei medesimi organi. Risultano, quindi, previsti, adeguati strumenti affinché possano trovare rimedio i descritti inconvenienti di fatto lamentati dal giudice rimettente e dalle parti private costituitesi nel presente giudizio.
D'altra parte, l'eventuale accoglimento della tesi secondo cui, per ovviare ai suddetti inconvenienti di fatto, occorrerebbe la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme denunciate, sarebbe soltanto idoneo, in buona sostanza, a dare vita ad un regime in cui l'opzione per il rapporto esclusivo non costituisca più un prius, bensì un posterius, rispetto alla predisposizione delle strutture occorrenti per lo svolgimento dell'attività libero-professionale intramuraria, e si risolverebbe, inevitabilmente, in un grave fattore di disincentivazione nell'assunzione, da parte dei soggetti a ciò competenti, delle iniziative necessarie a garantire la funzionalità del sistema configurato dal d.lgs. n. 229 del 1999.
A tutto ciò va aggiunto che, subordinando – come in sostanza richiede il giudice a quo – l'esercizio della scelta in favore del rapporto esclusivo, da parte del dirigente sanitario, al preventivo allestimento di quanto necessario per l'esercizio della professione nelle forme dell'intra moenia, si finirebbe con il contravvenire ad un elementare principio di programmazione delle scelte organizzative demandate all'amministrazione sanitaria (principio cui si ispira il d.lgs. n. 229 del 1999), costringendo, pertanto, quest'ultima ad invertire la normale sequenza degli adempimenti necessari al corretto funzionamento del sistema.