Ritenuto in fatto
1. - Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di
Milano, chiamato a provvedere su istanze di scarcerazione per
decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare - e più
precisamente per inefficacia sopravvenuta della misura della custodia
in carcere a seguito della entrata in vigore dell'art. 12 della legge
8 agosto 1995, n. 332 - ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 297,
terzo comma, cod. proc. pen., nel testo sostituito ad opera del
citato art. 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice
di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di
misure cautelari e di diritto di difesa), "nella parte in cui, per
l'ipotesi d'una pluralità di ordinanze restrittive per fatti
diversi, è preveduta la decorrenza del termine massimo della
custodia cautelare, per tutti i reati in rapporto di connessione
qualificata, a far tempo dalla data di più remota contestazione,
anche nei casi in cui la notizia dei fatti di successiva
contestazione non risultasse dagli atti all'epoca del primo
provvedimento". In subordine, l'ordinanza prospetta l'illegittimità
costituzionale della medesima norma "almeno" nella parte in cui viene
esclusa la rilevanza, ai fini di diversificazione dei termini di
decorrenza, della "verifica positiva di tempestività" delle nuove
contestazioni cautelari anche fuori dai casi in cui sia intervenuto
provvedimento che dispone il giudizio relativamente ai fatti di più
remota contestazione.
Osserva il giudice a quo che la nuova disposizione, modificando
radicalmente il consolidato e risalente orientamento
giurisprudenziale che poneva a base del fenomeno dei provvedimenti
custodiali "a catena" ipotesi di artificioso ritardo nella
contestazione dei fatti, non richiede più, per la retrodatazione
degli effetti della custodia cautelare, che la contestazione più
recente sia tardiva. In base, infatti, alla legge che ha modificato
l'art. 297 terzo comma, cod. proc. pen., la retrodatazione sarà
impedita dalla prova che la conoscenza dei fatti di nuova
contestazione è stata tardiva, ma solo a condizione che per i fatti
di più remota contestazione sia già intervenuto il rinvio a
giudizio; sicché, rileva il giudice a quo nel corso delle indagini
preliminari la decorrenza del termine va fissata al giorno della
prima cattura anche se per i nuovi reati la tardiva notitia criminis
sia stata acquisita in epoca molto successiva. Se, dunque, la
funzione della norma è quella di precludere le contestazioni a
catena, il legislatore, osserva il rimettente, "è andato ben oltre,
privando di ogni rilevanza il dato scriminante dello iato tra
possibilità ed effettività della nuova contestazione". La nuova
normativa, pertanto, parificherebbe in modo irragionevole situazioni
assolutamente eterogenee: e ciò, anzitutto, per quanto concerne la
posizione di quanti si sarebbero dovuti avvalere di una nuova
contestazione più tempestiva e non intervenuta per inerzia della
autorità giudiziaria, rispetto alla posizione di indagati per i
quali la tardività della nuova contestazione dipenda, invece,
esclusivamente dalla tardività della relativa acquisizione
indiziaria. Al tempo stesso, soggiunge il giudice a quo si
diversifica la situazione di soggetti che, ugualmente attinti da
contestazioni tempestive in rapporto a nuove emergenze, abbiano visto
o meno disporre il giudizio in relazione al reato di più remota
contestazione: una disparità, questa, che viene fatta dipendere da
un evento (il rinvio a giudizio) eterogeneo rispetto alle esigenze
cautelari e che è frutto della "iniziativa incontrollabile" del
pubblico ministero e del giudice.
La novella dell'agosto 1995, dunque, da un lato dissolverebbe del
tutto la relazione tra gravità del fatto e durata del trattamento
cautelare, almeno nelle ipotesi in cui il primo provvedimento
cautelare riguardi un fatto di gravità pari o minore rispetto a
quello oggetto della successiva contestazione, e, dall'altro,
scinderebbe anche "la relazione tra durata della custodia e qualità
effettiva e concreta delle necessità cautelari", dando così vita,
sotto entrambi i profili, ad una serie di conseguenze che il giudice
a quo enumera come ipotesi esemplificative di "abnormità" e
"paradosso".
2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Dopo
una ampia disamina della ordinanza di rimessione e della evoluzione
normativa e giurisprudenziale che ha attinto il tema delle cosiddette
contestazioni a catena, l'Avvocatura osserva che la scelta del
legislatore è stata quella di unificare la decorrenza della custodia
cautelare quando si sia in presenza di "operazioni criminose che,
quantunque integrative di diverse fattispecie di reato, si presentano
tuttavia nel loro complesso ontologicamente unitarie". Tutto ciò,
osserva l'Avvocatura, per evitare una disparità di trattamento
opposta a quella denunciata dal giudice a quo nel senso che il regime
risulterebbe differenziato "a seconda che le notizie di reato
relative ai fatti avvinti da connessione qualificata emergano tutte
contemporaneamente (donde la decorrenza di un solo termine) ovvero in
momenti successivi ed eventualmente assai distanziati temporalmente
tra loro (donde l'allungamento della durata complessiva della
custodia pur a fronte della cennata unitarietà ontologica della
manifestazione criminosa)".
3. - Nel giudizio si è costituita, depositando "deduzioni", la
parte privata Sarlo Mario. In tale atto si richiede pregiudizialmente
declaratoria di inammissibilità in quanto, si osserva, l'eventuale
dichiarazione di incostituzionalità non potrebbe determinare nel
processo a quo l'applicazione della norma "sfavorevole", ostandovi la
previsione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Inoltre
l'ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale sarebbe stata
usata soltanto come strumento per non procedere alla scarcerazione
dell'imputato, venendosi così a porre in essere una fictio litis che
priverebbe la questione del requisito della rilevanza. Nel merito si
contesta la fondatezza delle censure sul presupposto che il
legislatore avrebbe nella specie effettuato una comparazione tra i
contrapposti valori che il tema coinvolge.
Considerato in diritto
1. - Investito da talune richieste di scarcerazione per decorrenza
dei termini di custodia cautelare, il giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Milano ha sollevato, in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell'art. 297, terzo comma, del codice di procedura
penale, nel testo sostituito ad opera dell'art. 12 della legge 8
agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema
di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto
di difesa). In via principale, il giudice a quo chiede dichiararsi
l'illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui
prevede la decorrenza del termine massimo di custodia cautelare, in
ipotesi di pluralità di ordinanze applicative della misura per fatti
connessi, a far tempo dal giorno in cui è stata eseguita o
notificata la prima ordinanza, anche nel caso in cui la notizia dei
fatti oggetto del successivo provvedimento coercitivo non risultasse
dagli atti all'epoca del primo intervento cautelare. In subordine, si
richiede declaratoria di illegittimità costituzionale della stessa
disposizione nella parte in cui esclude qualsiasi rilevanza della
tempestività della nuova contestazione agli effetti della diversa
decorrenza dei termini di custodia cautelare.
Osserva, infatti, il rimettente che il legislatore del 1995,
superando l'elaborazione giurisprudenziale formatasi in materia di
"contestazioni a catena" e dettata dal chiaro intento di impedire una
indebita protrazione dei termini di custodia cautelare attraverso una
artificiosa diluizione nel tempo dei provvedimenti custodiali, ha
eliminato in radice qualsiasi rilievo alla distinzione "tra
possibilità ed effettività della nuova contestazione". Così
operando, rileva il giudice a quo il legislatore ha assegnato
identità di disciplina a situazioni fra loro assai divergenti,
giacché si stabilisce l'identico regime di decorrenza della misura
sia nell'ipotesi di artificioso ritardo della nuova contestazione
cautelare, sia nel caso in cui il successivo provvedimento sia stato
tempestivo in rapporto al momento in cui il fatto è stato accertato.
Nel contempo, osserva ancora il rimettente, si distingue
irragionevolmente la posizione dei soggetti investiti da nuovi
provvedimenti cautelari tempestivamente disposti alla luce di
elementi sopravvenuti, a seconda che, per i fatti di più remota
contestazione, sia stato o meno disposto il rinvio a giudizio: una
eventualità, questa, che a parere del giudice a quo si appalesa del
tutto inidonea a giustificare il diverso regime, in quanto
indifferente rispetto alle esigenze cautelari e frutto della
"iniziativa incontrollabile del pubblico ministero e del giudice".
La novella oggetto di impugnativa determinerebbe, dunque, a parere
del rimettente, da un lato la dissoluzione del rapporto che deve
sussistere tra la durata della custodia cautelare e la gravità del
fatto contestato e, sotto altro profilo, "il completo abbandono di
necessità cautelari attualissime", il tutto in virtù di una
censurata "presunzione assoluta" di indebito prolungamento della
custodia dalla quale scaturiscono conseguenze pratiche che il giudice
a quo definisce abnormi.
2. - Deve preliminarmente essere disattesa l'eccezione di
inammissibilità sollevata dalla difesa della parte privata
costituitasi in giudizio. Anche a voler prescindere, infatti, dalla
inconferenza, nel caso di specie, del parametro dedotto a sostegno
della eccezione, è assorbente il rilievo che la giurisprudenza di
questa Corte ha da tempo ritenuto ammissibile lo scrutinio di
costituzionalità delle norme penali di favore (v., da ultimo,
sentenza n. 25 del 1994), sicché la questione, lungi dall'integrare
una ipotesi di fictio litis si appalesa senz'altro rilevante agli
effetti della decisione che il rimettente è chiamato ad adottare
alla luce della articolata prospettazione in fatto che compare nel
testo della ordinanza.
3. - Nel merito la questione è infondata.
Non può negarsi, innanzi tutto, che la innovazione introdotta
dall'art. 12 della legge n. 332 del 1995, in tema di computo dei
termini di durata delle misure, si sia effettivamente spinta ben
oltre i risultati cui era pervenuta la giurisprudenza di legittimità
che aveva preso in esame il patologico fenomeno delle cosiddette
contestazioni a catena. Così come è evidente che le scelte operate
dal legislatore possano offrire spazio alle perplessità ed ai dubbi
di coerenza che il giudice a quo ha diffusamente enunciato, sia sul
piano della congruità del censurato meccanismo di retrodatazione
delle misure di successiva contestazione agli effetti della
salvaguardia delle esigenze cautelari ad esse riferibili, sia per
ciò che concerne il diverso regime che è stato invece stabilito
nell'ipotesi in cui i fatti oggetto della nuova ordinanza cautelare
siano stati accertati dopo il rinvio a giudizio disposto per il fatto
"connesso" posto a fondamento della prima ordinanza. Ma al di là
delle critiche che possono essere mosse ad una siffatta disciplina,
l'unico punto che rileva in questa sede è verificare se, alla luce
delle prospettate censure, la norma impugnata si presenti o meno in
contrasto con il principio sancito dall'art. 3 della Costituzione,
sicché è proprio sulla portata di tale precetto che dovrà
incentrarsi la preliminare disamina, dal momento che il giudice a quo
mostra di aver annesso a quel principio una configurazione che non
può essere condivisa.
Il parametro della eguaglianza, infatti, non esprime la
concettualizzazione di una categoria astratta, staticamente elaborata
in funzione di un valore immanente dal quale l'ordinamento non può
prescindere, ma definisce l'essenza di un giudizio di relazione che,
come tale, assume un risalto necessariamente dinamico. L'eguaglianza
davanti alla legge, quindi, non determina affatto l'obbligo di
rendere immutabilmente omologhi fra loro fatti o rapporti che, sul
piano fenomenico, ammettono una gamma di variabili tanto estesa
quante sono le imprevedibili situazioni che in concreto possono
storicamente ricorrere, ma individua il rapporto che deve
funzionalmente correlare la positiva disciplina di quei fatti o
rapporti al paradigma dell'armonico trattamento che ai destinatari di
tale disciplina deve essere riservato, così da scongiurare
l'intrusione di elementi normativi arbitrariamente discriminatorii.
D'altra parte, essendo qualsiasi disciplina destinata per sua stessa
natura ad introdurre regole e, dunque, a operare distinzioni,
qualunque normativa positiva finisce per risultare necessariamente
destinata ad introdurre nel sistema fattori di differenziazione,
sicché, ove a quel parametro fosse annesso il valore di paradigma
cristallizzato su base meramente "naturalistica" e dunque statica,
ogni norma vi si porrebbe in evidente contrasto proprio perché
chiamata a discriminare ciò che è attratto nell'alveo della
relativa previsione da ciò che non lo è. Se, dunque, il principio
di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtù del quale a
situazioni eguali deve corrispondere l'identica disciplina e,
all'inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni
differenti, ciò equivale a postulare che la disamina della
conformità di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un
modello dinamico, incentrandosi sul "perché" una determinata
disciplina operi, all'interno del tessuto egualitario
dell'ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le
debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo.
Il giudizio di eguaglianza, pertanto, in casi come quello
sottoposto alla Corte costituzionale con l'ordinanza del giudice
rimettente, è in sé un giudizio di ragionevolezza, vale a dire un
apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la "causa"
normativa che la deve assistere: ove la disciplina positiva si
discosti dalla funzione che la stessa è chiamata a svolgere nel
sistema e ometta, quindi, di operare il doveroso bilanciamento dei
valori che in concreto risultano coinvolti, sarà la stessa "ragione"
della norma a venir meno, introducendo una selezione di regime
giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su scelte
arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone
dell'eguaglianza. Ogni tessuto normativo presenta, quindi, e deve
anzi presentare, una "motivazione" obiettivata nel sistema, che si
manifesta come entità tipizzante del tutto avulsa dai "motivi",
storicamente contingenti, che possono avere indotto il legislatore a
formulare una specifica opzione: se dall'analisi di tale motivazione
scaturirà la verifica di una carenza di "causa" o "ragione" della
disciplina introdotta, allora e soltanto allora potrà dirsi
realizzato un vizio di legittimità costituzionale della norma,
proprio perché fondato sulla "irragionevole" e per ciò stesso
arbitraria scelta di introdurre un regime che necessariamente finisce
per omologare fra loro situazioni diverse o, al contrario, per
differenziare il trattamento di situazioni analoghe.
Da tutto ciò consegue che il controllo di costituzionalità,
dovendosi per un verso saldare al generale principio di conservazione
dei valori giuridici e restando comunque circoscritto all'interno dei
confini proprii dello scrutinio di legittimità, non può travalicare
in apprezzamenti della ragionevolezza che sconfinino nel merito delle
opzioni legislative, e ciò specie nelle ipotesi in cui la questione
dedotta investa, come nel caso in esame, sistemi normativi complessi,
all'interno dei quali la ponderazione dei beni e degli interessi non
può certo ritenersi frutto di soluzioni univoche. Non può quindi
venire in discorso, agli effetti di un ipotetico contrasto con il
canone della eguaglianza, qualsiasi incoerenza, disarmonia o
contraddittorietà che una determinata previsione normativa possa,
sotto alcuni profili o per talune conseguenze, lasciar trasparire,
giacché, ove così fosse, al controllo di legittimità
costituzionale verrebbe impropriamente a sovrapporsi una verifica di
opportunità, per di più condotta sulla base di un etereo parametro
di giustizia ed equità, al cui fondamento sta una composita
selezione di valori che non spetta a questa Corte operare. Norma
inopportuna e norma illegittima sono pertanto due concetti che non si
sovrappongono, dovendosi il sindacato arrestare in presenza di una
riscontrata correlazione tra precetto e scopo che consenta di
rinvenire, nella "causa" o "ragione" della disciplina, l'espressione
di una libera scelta che soltanto il legislatore è abilitato a
compiere.
Così inquadrato l'ambito all'interno del quale deve svolgersi il
controllo di costituzionalità della disposizione oggetto di
impugnativa, risulterà allora evidente come la stessa non possa
affatto ritenersi priva di "ragione" nel senso dianzi delineato. Se,
infatti, nel nucleo della disciplina in questione può essere
agevolmente rinvenuto l'intendimento di comprimere entro spazi sicuri
il termine di durata massima delle misure cautelari, in perfetta
aderenza con quanto previsto dall'art. 13, ultimo comma, della Carta
fondamentale, e se, dunque, la "causa" della norma è quella di
impedire la diluizione dei termini in ragione dell'episodico
concatenarsi di più fattispecie cautelari, non può certo ritenersi
incoerente allo scopo e, dunque, priva di ragione, la scelta di
individuare alcune ipotesi che, più di altre, presentano elementi di
correlazione contenutistica di spessore tale da consentirne una
valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare. Allo
stesso modo, una volta individuata la regola, non può neppure dirsi
eterodossa rispetto ai fini perseguiti la "causa" che sostiene la
deroga introdotta nel secondo periodo del terzo comma dell'art. 297
cod. proc. pen., la quale esclude l'applicabilità del principio
della retrodatazione dei termini in relazione alle ordinanze per
fatti "nuovi" che, malgrado connessi a quelli oggetto della primitiva
contestazione, emergano soltanto dopo il rinvio a giudizio disposto
per il fatto cui si riferisce l'originaria ordinanza cautelare. La
individuazione del rinvio a giudizio come momento processuale che
traccia la linea di displuvio agli effetti della operatività della
deroga, appare, infatti, da un lato perfettamente simmetrica rispetto
al regime che scandisce, nell'art. 303 cod. proc. pen., i termini
massimi di durata delle misure in funzione delle diverse fasi
processuali e, dall'altro, aderente all'intendimento del legislatore
di impedire che, nel corso delle indagini, le contestazioni cautelari
plurime per fatti connessi ammettano un diverso trattamento sul piano
della durata delle misure a seconda che l'indagato riesca o meno a
provare l'artificiosa diluizione nel tempo delle singole ordinanze.
L'introduzione di parametri certi e predeterminati, quindi, lungi
dall'assumere connotazioni di arbitrarietà, si appalesa nella specie
come opzione del tutto coerente rispetto alla avvertita esigenza di
configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata dei
provvedimenti che incidono sulla libertà personale e ciò con
particolare riguardo alla fase delle indagini preliminari, la quale,
per essere affidata alle iniziative investigative del pubblico
ministero, mal si presta a controlli successivi sul sempre opinabile
terreno della tempestività delle relative acquisizioni.
Posto, dunque, che è la stessa Costituzione ad imporre la
previsione di termini di durata delle misure cautelari e a
presupporre, quindi, l'inconferenza delle esigenze che dovessero
residuare al di là di un limite temporale certo e invalicabile, ne
deriva che la disciplina impugnata sfugge a qualsiasi censura di
irragionevolezza, proprio perché il valore che la stessa ha inteso
preservare non lascia spazio a diseguaglianze arbitrarie, avendo anzi
il legislatore ricondotto il sistema all'interno di un alveo
contrassegnato da garanzie di obiettività e, dunque, di effettivo
rispetto del principio di eguaglianza.