Ritenuto in fatto
1. Il tribunale di Bergamo, II sezione penale, ha proposto - con
ordinanza in data 8 ottobre 1998, nel corso di un giudizio nei
confronti del deputato Vittorio Sgarbi, per il reato di diffamazione
aggravata in danno del dr. Antonio Di Pietro - conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei
deputati, chiedendo l'annullamento della deliberazione, adottata
dall'Assemblea nella seduta del 17 giugno 1998, con la quale è stata
dichiarata l'insindacabilità delle dichiarazioni rese dal
parlamentare.
1.1. - Il tribunale di Bergamo premette che si procede in sede
penale nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi per le
dichiarazioni da lui rese nel corso del programma "Sgarbi
quotidiani", trasmesso dall'emittente televisiva Canale 5,
concernenti la locazione da parte del dr. Antonio Di Pietro di un
appartamento in Milano ad un canone ritenuto esiguo.
Ad avviso del tribunale non esisterebbe nessuna connessione tra
dette dichiarazioni e l'attività parlamentare del deputato Vittorio
Sgarbi e, quindi, mancherebbe il nesso funzionale tra le prime e la
seconda che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, costituisce
condizione dell'insindacabilità delle opinioni ai sensi dell'art.
68, primo comma, della Costituzione. Il Collegio deduce l'erroneità
della motivazione con la quale la Giunta per le autorizzazioni a
procedere ha sostenuto una differente conclusione, valorizzando tre
profili: il contesto in cui le dichiarazioni sono state rese; la
circostanza che il deputato avrebbe indirizzato la sua azione
politica dentro e fuori del Parlamento proprio sul tema oggetto delle
dichiarazioni; il contenuto delle frasi incriminate. L'ordinanza
espone che la Giunta, relativamente al primo profilo, ha premesso che
il deputato ha criticato la condotta tenuta da un magistrato del
pubblico ministero nel corso di un processo penale ripreso dalla
televisione, per sottolineare che essa configurava una "caduta di
stile". In ordine al secondo, ha osservato che il tema affrontato
nella trasmissione televisiva era uno di quelli verso i quali il
deputato "ha, quasi quotidianamente, indirizzato la sua azione
politica sia all'interno sia all'esterno del parlamento"; quanto al
terzo, ha sottolineato che il parlamentare avrebbe preso "in esame
alcune notizie di stampa relative al dottor Di Pietro esprimendo il
proprio convincimento circa la irrisorietà del canone di locazione
pagato dallo stesso per l'affitto di un appartamento". Da siffatte
premesse la Giunta ha quindi derivato che le opinioni, "collocabili
certamente in un contesto politico", presenterebbero "il carattere di
"attività divulgativa connessa" all'esercizio della funzione
parlamentare", dato che, sempre secondo la Giunta, l'articolo 68,
primo comma, della Costituzione sarebbe applicabile a tutti i
comportamenti del parlamentare riconducibili all'attività politica
intesa in senso lato, pure se svolti fuori dalla sede parlamentare ed
anche in caso di giudizi oggettivamente pesanti e tali, quindi, da
costituire in astratto una condotta illecita, purché non
costituiscano insulti gratuiti e personali che nulla hanno a che
vedere con la funzione parlamentare.
1.2. - Il tribunale sostiene l'erroneità della motivazione della
delibera della Giunta, non integrata nel corso del dibattito in aula,
deducendo che la prerogativa dell'insindacabilità non riguarderebbe
l'attività politica del parlamentare intesa in senso lato e che le
opinioni in esame costituirebbero meri apprezzamenti personali
espressi dal deputato alla stregua di un qualunque privato cittadino.
A suo avviso, la circostanza che esse riguardano un argomento di
rilevanza politica non permetterebbe di affermare l'esistenza del
nesso di funzione con l'attività parlamentare, dato che quest'ultimo
sarebbe ravvisabile solo qualora l'attività divulgativa sia
correlata ad uno specifico atto parlamentare. Inoltre, secondo il
tribunale di Bergamo, anche ritenendo che l'insindacabilità possa
concernere opinioni espresse al di fuori delle Camere, la
partecipazione del deputato alla trasmissione televisiva non potrebbe
comunque configurare un'attività riconducibile all'esercizio delle
funzioni parlamentari, in quanto egli sarebbe intervenuto alla
trasmissione quale "conduttore/entertainer di un programma televisivo
denominato "Sgarbi quotidiani", nel corso del quale egli aveva
l'obbligo - sulla base di uno specifico contratto stipulato con la
Reti Televisive Italiane S.p.a. cui fa capo "Canale 5" - di
commentare ed esprimere le proprie opinioni su argomenti di
attualità e su quanto riportato dalla stampa in generale" sicché,
osservano ancora testualmente i giudici, "poiché per tali
prestazioni era, altresì, contrattualmente prevista una determinata
retribuzione" dovrebbe ritenersi che egli ha partecipato alla
trasmissione quale privato cittadino.
2. - Nel giudizio preliminare di delibazione in camera di
consiglio, il conflitto è stato dichiarato ammissibile (ordinanza n.
129 del 16 aprile 1999).
Dopo l'avvenuta notifica alla Camera dei deputati, il 3 maggio
1999, ed il deposito in cancelleria, il 19 maggio 1999, l'ordinanza
è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33,
prima serie speciale, del 18 agosto 1999.
3. - La Camera dei deputati si è ritualmente costituita in
giudizio, chiedendo che il conflitto sia dichiarato infondato.
La difesa della Camera premette che la stessa formulazione del capo
di imputazione dimostrerebbe che nel caso in esame le dichiarazioni
non costituiscono critiche riguardanti vicende private, ma
configurano una "denuncia da parte di un parlamentare di un fatto che
riguarda un titolare di funzioni pubbliche: fatto sul quale il
controllo parlamentare non può, pertanto, ritenersi interdetto". In
tal senso, a suo avviso, avrebbe pregnante importanza la
considerazione che la fattispecie è stata ampiamente esaminata sia
da parte della Giunta per le autorizzazioni a procedere, sia
dall'Assemblea, avendo in particolare un deputato sottolineato che le
dichiarazioni, sia pure rese extra moenia sarebbero riconducibili
all'attività parlamentare, in quanto riguardano la vicenda che "va
sotto il nome di "affittopoli" che ha interessato, tra l'altro, il
Parlamento "in iniziative parlamentari tipiche (Interrogazioni,
interpellanze e mozioni) ed anche in richieste di Commissioni
parlamentari di inchiesta".
3.1. - La difesa della Camera osserva che la proposta della Giunta
è stata approvata senza voti contrari e che la relativa relazione si
è soffermata sui seguenti punti: a) il parlamentare conduceva da
tempo una personale battaglia nei confronti di alcuni magistrati che
egli riteneva responsabili di comportamenti poco ortodossi; b) le
opinioni riguardavano una vicenda, "affittopoli", che aveva coinvolto
l'opinione pubblica ed interessato anche il Parlamento; c) i fatti si
inserivano in detta vicenda; d) il contesto nel quale le opinioni
erano state rese era particolarmente significativo per farle
ricondurre all'esercizio del mandato parlamentare. Dunque, secondo la
resistente, si sarebbe trattato "di un'attività di denuncia di un
comportamento più che discutibile e che l'opinione pubblica aveva
interesse non solo a conoscere, ma anche a vedere dibattuto" ossia
dell'esercizio "della funzione ispettiva del parlamentare su
comportamenti di persone investite di funzioni giudiziarie".
Ad avviso della Camera, la giurisprudenza costituzionale avrebbe
affermato che, qualora sia stata deliberata l'insindacabilità, la
Corte può soltanto verificare se sia stato seguito un procedimento
corretto ovvero se manchino i presupposti di detta dichiarazione -
tra i quali è essenziale quello del collegamento delle opinioni
espresse con la funzione parlamentare - o se tali presupposti siano
stati arbitrariamente valutati, tenendo conto che, con la sentenza n.
375 del 1997, la Corte ha sottolineato che "la funzione parlamentare
ha natura generale ed è libera nel fine" e ciò determinerebbe
"conseguenze significative in ordine alle garanzie accordate per le
opinioni espresse e i voti dati".
Secondo la resistente, nel caso in esame si verserebbe
"nell'esercizio della funzione ispettiva, tipica dell'attività
parlamentare" anche perché il deputato Vittorio Sgarbi aveva
indirizzato la sua azione politica dentro e fuori il Parlamento
nell'ordine di interessi affrontato nella trasmissione incriminata.
3.2. - In prossimità dell'udienza pubblica, la difesa della Camera
dei deputati, ha depositato memoria con la quale insiste per il
rigetto del conflitto.
Secondo la resistente, l'atto con il quale è stato sollevato il
conflitto mancherebbe del dovuto approfondimento dei fatti e delle
motivazioni esposte negli atti parlamentari, le quali danno invece
conto della rilevanza politica della vicenda oggetto delle
dichiarazioni. Inoltre, nonostante l'ordinanza riconosca che
l'argomento trattato dal deputato Vittorio Sgarbi aveva rilevanza
politica, erroneamente esclude l'insindacabilità delle
dichiarazioni, in quanto ritenute non riconducibili ad atti tipici
della funzione parlamentare. A suo avviso, siffatta ricostruzione
sarebbe però inesatta e da essa deriverebbe che la politica non
potrebbe avvalersi dei mezzi di comunicazione di massa e dovrebbe
essere relegata al di fuori di quella che è definita la moderna
società della comunicazione e della partecipazione.
La difesa della resistente ha infine concluso deducendo che gli
apprezzamenti sull'insindacabilità ex art. 68, primo comma, Cost.,
sono riservati alla Camera di appartenenza del parlamentare anche
perché essi richiedono "motivazioni assai complesse, difficilmente
percepibili in altre sedi" ed ha chiesto che la Corte dichiari che il
potere di deliberare l'insindacabilità delle opinioni è stato
correttamente esercitato e, conseguentemente, annulli l'ordinanza con
la quale è stato sollevato il conflitto, dichiarando che l'azione
penale non può essere proseguita.
Considerato in diritto
1. - Il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato ha ad
oggetto la deliberazione con la quale la Camera dei deputati, nella
seduta del 17 giugno 1998, ha dichiarato che i fatti per i quali era
in corso innanzi al tribunale di Bergamo, II sezione penale, il
giudizio per diffamazione aggravata nei confronti del deputato
Vittorio Sgarbi riguardano opinioni espresse nell'esercizio delle
funzioni parlamentari e, conseguentemente, sarebbero insindacabili ai
sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.
Il tribunale di Bergamo sostiene che detta deliberazione
violerebbe la propria sfera di attribuzioni, costituzionalmente
garantita, in quanto la Camera dei deputati avrebbe erroneamente
esercitato il potere ad essa spettante, di dichiarare
l'insindacabilità delle dichiarazioni rese dall'on. Sgarbi. A suo
avviso, la Camera avrebbe arbitrariamente ritenuto insindacabili le
dichiarazioni, omettendo di considerare che esse costituirebbero meri
apprezzamenti personali e che non sarebbe "riscontrabile alcuna
connessione con atti tipici della funzione parlamentare" e neppure
"un qualche intento divulgativo di una scelta o di un'attività
politico-parlamentare". La circostanza che esse riguardavano materia
di rilevanza politica non permetterebbe infatti di ritenere esistente
il nesso di funzione, identificabile soltanto qualora l'attività di
divulgazione sia comunque correlata ad un atto parlamentare tipico.
Il tribunale di Bergamo, conseguentemente, chiede che la Corte
annulli la predetta deliberazione.
2. - In linea preliminare deve essere confermata l'ammissibilità
del conflitto di attribuzione in esame, già dichiarata da questa
Corte in sede di sommaria delibazione con l'ordinanza n. 129 del
1999.
Sotto il profilo dei requisiti soggettivi, devono ritenersi
legittimati ad essere parti del presente conflitto sia il tribunale
di Bergamo, in quanto organo giurisdizionale competente a dichiarare
definitivamente la volontà del potere cui appartiene, in posizione
di piena indipendenza garantita dalla Costituzione, sia la Camera
dei deputati, dato che essa è competente a dichiarare in modo
definitivo la propria volontà in ordine all'applicabilità ai suoi
componenti dell'art. 68, primo comma, della Costituzione (tra le più
recenti, sentenze nn. 417, 329 del 1999 e 289 del 1998). Sotto il
profilo oggettivo, avendo il tribunale denunciato la lesione della
propria sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita, parimenti
sussiste la materia del conflitto (ex plurimis sentenza n. 289 del
1998).
La forma dell'ordinanza utilizzata dalla seconda sezione penale del
tribunale di Bergamo nel caso in esame, di per sé sola non può,
infine, comportare la irricevibilità del conflitto.
Dagli artt. 37 della legge n. 87 del 1953 e 26 delle norme
integrative per i giudizi davanti a questa Corte si ricava infatti
che l'organo legittimato a sollevare conflitto di attribuzione deve
manifestare la propria volontà di promuoverlo mediante ricorso, che
deve avere i requisiti puntualmente stabiliti da dette norme. La
giurisprudenza costituzionale, con orientamento assolutamente
costante e consolidato, ha però già più volte affermato e chiarito
che, qualora il conflitto venga sollevato dall'autorità giudiziaria,
il principio della tipicità dei provvedimenti del giudice (tra le
molte, ordinanze n. 37 del 1998; nn. 469, 442, 325, 251 del 1997; n.
339 del 1996; n. 68 del 1993; nn. 228 e 229 del 1975) non esclude che
anche la forma dell'ordinanza sia idonea alla valida instaurazione
del giudizio, sempre che l'atto contenga tutti i requisiti
specificamente prescritti. Questo orientamento va confermato,
precisando che, in ogni caso, in applicazione del principio
processuale di strumentalità delle forme, la proposizione del
conflitto mediante un atto avente forma diversa da quella del ricorso
non potrebbe essere sanzionata con l'irricevibilità, qualora si
accerti, come appunto nella fattispecie in esame, che esso possiede
tutti i requisiti stabiliti dalle norme da ultimo richiamate ed è
quindi idoneo a conseguire lo scopo cui è preordinato e a consentire
la valida instaurazione del contraddittorio innanzi a questa Corte.
3. - Nel merito il ricorso è fondato.
Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il conflitto di
attribuzione tra autorità giudiziaria e Assemblee parlamentari
relativamente all'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della
Costituzione postula che il confine tra i due distinti valori
confliggenti - autonomia delle Camere e legalità-giurisdizione - sia
posto sotto il controllo di questa Corte, che può essere adi'ta dal
potere che si ritenga leso o menomato dall'attività dell'altro
(sentenza n. 379 del 1996). In questa sede non spetta invero alla
Corte di accertare la sussistenza o meno delle responsabilità
dedotte in giudizio, ma piuttosto di accertare, trattandosi di un
conflitto per menomazione, se vi sia stata una illegittima
interferenza nella sfera del potere ricorrente, verificando
l'eventuale sussistenza di vizi del procedimento, ovvero l'omessa o
erronea valutazione delle condizioni e dei presupposti richiesti
dall'art. 68, primo comma, della Costituzione (sentenze n. 329 del
1999, n. 289 del 1998, nn. 375 e 265 del 1997, n. 129 del 1996, n.
443 del 1993, n. 1150 del 1988).
A questa ricognizione della propria competenza la Corte è
pervenuta sulla base dei principi costituzionali che definiscono la
posizione delle Camere nei confronti della giurisdizione, dai quali
appunto emerge "un equilibrio razionale e misurato tra le istanze
dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi
all'esercizio della giurisdizione (...) e la salvaguardia di ambiti
di autonomia parlamentare sottratti al diritto comune che valgono a
conservare alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio
di libertà"; in questo senso si debbono pertanto ritenere "coperti
da immunità non tutti i comportamenti dei membri delle Camere, ma
solo quelli strettamente funzionali all'esercizio indipendente delle
attribuzioni proprie del potere legislativo" (sentenza n. 379 del
1996). Ma se appare costante nella giurisprudenza costituzionale il
criterio della necessità di un collegamento, affinché l'immunità
non si trasformi da esenzione di responsabilità legata alla funzione
in privilegio personale, tra la manifestazione dell'opinione e la
funzione parlamentare stessa (cfr. da ultimo sentenza n. 417 del
1999), non sempre agevole risulta l'individuazione in concreto dei
criteri identificativi dei comportamenti "strettamente funzionali
all'esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere
legislativo".
È pacifico che la funzione della Corte costituzionale in ordine
all'art. 68, primo comma, della Costituzione sia quella di accertare
- come giudice dei conflitti - se dall'esercizio illegittimo da parte
di uno dei poteri confliggenti risulti lesa o menomata una competenza
costituzionalmente spettante all'altro; e cioè, in particolare, se
l'esercizio della potestà spettante alla Camera di appartenenza in
base all'art. 68, primo comma, abbia determinato, per vizi del
procedimento o in ragione dell'insussistenza o dell'arbitrarietà
della valutazione dei presupposti richiesti per esercitare tale
potere, la lamentata, illegittima interferenza nelle attribuzioni
dell'autorità giudiziaria (sentenza n. 289 del 1998). La Corte non
può peraltro limitarsi ad esaminare la valutazione o la congruità
delle motivazioni - talvolta neppure espresse - adottate dalla Camera
di appartenenza, ma deve necessariamente, dovendo giudicare sul
rapporto tra le rispettive sfere di attribuzione dei poteri
confliggenti, accertare se, in concreto, l'espressione dell'opinione
in questione possa o meno ricondursi a quell'"esercizio delle
funzioni" parlamentari, il cui ambito, trattandosi di norma
costituzionale, spetta alla Corte definire.
Il controllo della Corte quindi investe direttamente il merito
della controversia costituzionale sulla portata e l'applicazione
dell'art. 68, primo comma. È infatti vero che il controllo si
esplica sull'apprezzamento della Camera di appartenenza in ordine
alla sindacabilità delle dichiarazioni del parlamentare (sentenza n.
379 del 1996), ma risulta pur sempre attuato in posizione di
terzietà e di garanzia dell'equilibrio costituzionale fra
salvaguardia della potestà autonoma della Camera di appartenenza e
tutela della sfera di attribuzione dell'autorità giudiziaria (cfr.
sentenza in pari data n. 10 del 2000).
4. - Superata ormai, in ragione dei fattori di trasformazione della
comunicazione politica nella società contemporanea, la tradizionale
interpretazione che considerava compiuti nell'esercizio delle
funzioni parlamentari - e quindi coperti dall'immunità che appunto
garantisce l'autonomia delle Camere - i soli atti svolti all'interno
dei vari organi parlamentari o anche paraparlamentari (quali, ad
esempio, i "gruppi" o le "deputazioni"), è tuttavia evidente che
l'estensione del regime di insindacabilità anche agli atti compiuti
al di fuori dell'ambito dei lavori dei predetti organi non può
essere automatica, ma è necessario, essendo questa forma di
insindacabilità significativamente circoscritta, nella previsione
costituzionale, all'esercizio di funzioni parlamentari, verificare,
in base a specifici criteri, più complessi rispetto a quello della
mera "localizzazione" dell'atto, l'esistenza di un "nesso funzionale"
stretto tra espressione di "opinioni" e di "voti" ed "esercizio"
delle funzioni parlamentari. Il nesso funzionale deve cioè
qualificarsi non come "semplice collegamento di argomento o di
contesto fra attività parlamentare e dichiarazione, ma come
identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di
attività parlamentare" (sentenza in pari data n. 10 del 2000).
L'interpretazione del primo comma dell'art. 68 porta infatti ad
escludere, per non trasformare la prerogativa in un privilegio
personale (cfr. da ultimo sentenze n. 329 del 1999 e n. 289 del
1998), che sia compresa nella insindacabilità tutta la complessiva
attività politica che il singolo membro del Parlamento pone in
essere, rientrandovi invece soltanto quella che si manifesta
attraverso l'"esercizio" delle funzioni parlamentari. Ed invero la
giurisprudenza di questa Corte è costante nella riaffermazione di
questo criterio distintivo, statuendo che "il discrimine tra i
giudizi e le critiche che anche il parlamentare manifesta nel più
esteso ambito dell'attività politica, per le quali non vale
l'immunità, e le opinioni coperte da tale garanzia, è dunque
costituito dalla inerenza delle opinioni all'esercizio delle funzioni
parlamentari" (da ultimo sentenza n. 417 del 1999).
Nei casi in cui non è riscontrabile esercizio di funzioni
parlamentari, il valore della legalità-giurisdizione non collide
certo con quello dell'autonomia delle Camere e così si spiega che la
giurisprudenza costituzionale abbia appunto stabilito che l'immunità
non vale per tutte quelle opinioni che "il parlamentare manifesta nel
più esteso ambito della politica". Alla luce di tale interpretazione
si debbono pertanto ritenere, in linea di principio, sindacabili
tutte quelle dichiarazioni, che fuoriescono dal campo applicativo del
"diritto parlamentare" e che non siano immediatamente collegabili con
specifiche forme di esercizio di funzioni parlamentari, anche se
siano caratterizzate da un asserito "contesto politico" o ritenute,
per il contenuto delle espressioni o per il destinatario o la sede in
cui sono state rese, manifestazione di sindacato ispettivo. Questa
forma di controllo politico rimessa al singolo parlamentare può
infatti aver rilievo, nei giudizi in oggetto, soltanto se si esplica
come funzione parlamentare, attraverso atti e procedure
specificamente previsti dai regolamenti parlamentari.
Se dunque l'immunità copre il membro del Parlamento per il
contenuto delle proprie dichiarazioni soltanto se concorre il
contesto funzionale, il problema specifico, che non appare
irrilevante in questo conflitto, della riproduzione all'esterno degli
organi parlamentari di dichiarazioni già rese nell'esercizio di
funzioni parlamentari si può risolvere nel senso
dell'insindacabilità solo ove sia riscontrabile corrispondenza
sostanziale di contenuti con l'atto parlamentare, non essendo
sufficiente a questo riguardo una mera comunanza di tematiche.
5. - In questa ottica va dunque considerata la vicenda in esame, il
cui oggetto riguarda dichiarazioni rese dal deputato Sgarbi nel corso
di un programma televisivo e ritenute di contenuto diffamatorio.
A questa Corte, come già rilevato in precedenza, non compete certo
di entrare nel merito del processo penale, ma solo di verificare,
come giudice dei conflitti, se il "cattivo" uso del potere esercitato
dalla Camera di appartenenza in base all'art. 68, primo comma, abbia
determinato o meno la lamentata, illegittima interferenza nelle
attribuzioni dell'autorità giudiziaria ricorrente. Trattandosi di
dichiarazioni che fuoriescono dal campo applicativo del "diritto
parlamentare", la Corte, ai fini dell'insindacabilità del primo
comma dell'art. 68, deve dunque accertare la corrispondenza di
contenuti con un atto parlamentare precedente o sostanzialmente
contestuale.
Incentrandosi le posizioni delle parti del conflitto sulla
interpretazione delle deliberazioni parlamentari adottate nella
vicenda in esame, va ricordato che la Giunta per le autorizzazioni a
procedere della Camera dei deputati si era limitata a ritenere
applicabile l'art. 68, primo comma, in quanto tale disposizione
appare riferibile a "tutti i comportamenti riconducibili
all'attività politica intesa in senso lato, anche se svolti fuori
dalla sede parlamentare". A sua volta, l'Assemblea aveva confermato
tale criterio interpretativo stabilendo, nella seduta del 17 giugno
1998, che le opinioni espresse dall'on. Sgarbi, nel corso di una
trasmissione televisiva da lui stesso condotta, "sia pure
pronunciate extra moenia cioè al di fuori della Camera dei deputati
e non nel contesto di iniziative parlamentari tipiche, erano comunque
riconducibili all'attività ... di parlamentare dell'on. Sgarbi" e
pertanto non potevano essere sindacate.
Da queste deliberazioni risulta dunque che le dichiarazioni del
deputato Sgarbi erano state pronunciate fuori del Parlamento e non
"nel contesto di iniziative parlamentari tipiche". Le stesse
dichiarazioni non si possono neppure considerare connesse con alcuna
forma di esercizio di funzioni parlamentari, giacché non è
individuabile quale specifico atto parlamentare adottato dal medesimo
deputato esse riproducessero, essendo invece soltanto genericamente
ricollegabili alla sua "attività politica intesa in senso lato", che
però, come già rilevato, non può, per questa Corte, costituire
valido oggetto dell'immunità parlamentare.
In questo giudizio non emerge quindi e non è riscontrabile in
alcun modo la sussistenza del requisito della connessione tra le
opinioni espresse dal parlamentare e l'esercizio delle relative
funzioni; "requisito che, come più volte affermato da questa Corte,
costituisce l'indefettibile presupposto di legittimità della
deliberazione parlamentare di insindacabilità" (sentenza n. 329 del
1999).
Le dichiarazioni in oggetto dell'on. Sgarbi non possono pertanto,
per carenza del nesso funzionale, ritenersi rese nell'esercizio delle
funzioni parlamentari e quindi per esse non è invocabile
l'immunità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.
La Camera dei deputati, adottando la deliberazione di
insindacabilità in oggetto, ha perciò interferito, in modo
illegittimo, nella sfera di attribuzione dell'autorità giudiziaria
ricorrente e di conseguenza deve essere disposto l'annullamento della
predetta deliberazione.