Titolo
SENT. 422/95 A. ELEZIONI - ELEZIONE A CONSIGLIERE COMUNALE NEI COMUNI CON POPOLAZIONE SINO A 15.000 ABITANTI - LISTE DEI CANDIDATI - IMPOSSIBILITA' PER CIASCUNO DEI DUE SESSI DI ESSERVI RAPPRESENTATO IN MISURA SUPERIORE AI DUE TERZI - INTERPRETAZIONE DI TALE DISPOSIZIONE - CARATTERE NON MERAMENTE PROGRAMMATICO E D'INDIRIZZO MA SICURAMENTE PRECETTIVO.
Testo
In seguito alla eliminazione, ad opera dell'art. 2 della legge 15 ottobre 1993, n. 415, della locuzione "di norma", gia' contenuta nell'art. 5, comma secondo, della legge 25 marzo 1993, n. 81, non v'ha dubbio che questa disposizione, secondo la quale nelle liste dei candidati all'elezione a consiglieri comunali nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, "nessuno dei due sessi puo' essere rappresentato in misura superiore ai due terzi", non ha - contrariamente a quanto in giurisprudenza si era in qualche caso sostenuto - un carattere solo programmatico e d'indirizzo, ma sicuramente precettivo. E' questa, del resto, anche l'interpretazione enunciata dall'Adunanza generale del Consiglio di Stato. red.: S. P.
Riferimenti normativi
legge
25/03/1993
n. 81
art. 5
co. 2
legge
15/10/1993
n. 415
art. 2
co. 0
Titolo
SENT. 422/95 B. EGUAGLIANZA (PRINCIPIO DI) - EGUAGLIANZA DAVANTI ALLA LEGGE SENZA DISTINZIONI DI SESSO - POSSIBILITA' PER TUTTI I CITTADINI, DELL'UNO E DELL'ALTRO SESSO, DI ACCEDERE AGLI UFFICI PUBBLICI E ALLE CARICHE ELETTIVE IN CONDIZIONE DI EGUAGLIANZA - SIGNIFICATO, IN ENTRAMBI I PRECETTI, DELL'EGUAGLIANZA - IRRILEVANZA GIURIDICA E INDIFFERENZA DEL SESSO AI FINI CONSIDERATI.
Testo
Nei precetti stabiliti dagli artt. 3, primo comma, e 51, primo comma, Cost., secondo i quali "tutti sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso" e "tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge", l'eguaglianza non puo' avere significato diverso da quello della irrilevanza giuridica e dell'indifferenza del sesso ai fini considerati. Tale lettura del dettato costituzionale corrisponde infatti al significato letterale ed esplicito delle formule adottate, al punto che potrebbe apparire perfino superflua la specificazione "dell'uno e dell'altro sesso", essendo di per se' sufficiente l'espressione "tutti i cittadini". E' peraltro comprensibile che i costituenti - cosi' come gia' nell'art. 48 avevano ribadito "sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne..." - abbiano voluto rafforzare, in riferimento agli uffici pubblici e alle cariche elettive, - tenuto conto, nel contesto storico, della esclusione delle donne, secondo le leggi vigenti, da buona parte degli uffici pubblici e del fatto che l'elettorato attivo e passivo, concesso loro nel 1945 (d.lgs.lgt. 1 febbraio 1945, n. 23) era stato per la prima volta esercitato in sede politica con la elezione della stessa Assemblea costituente - il precetto esplicito dell'eguaglianza fra i due sessi. red.: S. P.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
co. 1
Costituzione
art. 48
co. 1
Costituzione
art. 51
co. 1
Titolo
SENT. 422/95 C. EGUAGLIANZA (PRINCIPIO DI) - EGUAGLIANZA NELL'ACCESSO ALLE CARICHE ELETTIVE - IMPOSSIBILITA' CHE L'APPARTENENZA ALL'UNO O ALL'ALTRO SESSO SIA ASSUNTA A REQUISITO DI ELEGGIBILITA' O DI CANDIDABILITA' - CONSEGUENZE - INSUPERABILE CONTRASTO CON TALI PRINCIPI DI NORME DI LEGGE CHE IMPONGANO RIGUARDO ALLA PRESENTAZIONE DELLE CANDIDATURE FORME DI QUOTE IN RAGIONE DEL SESSO DEI CANDIDATI - POSSIBILITA', PERALTRO, DI MISURE DI TAL GENERE SE LIBERAMENTE ADOTTATE DA PARTITI POLITICI O ASSOCIAZIONI PARTECIPANTI ALLE ELEZIONI.
Testo
Posto che l'art. 3, primo comma, e soprattutto l'art. 51, primo comma, garantiscono l'assoluta eguaglianza fra i due sessi nella possibilita' di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l'appartenenza all'uno o all'altro sesso non puo' mai essere assunta come requisito di eleggibilita', ne consegue che altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la "candidabilita'". Infatti, la possibilita' di essere presentato candidato da coloro ai quali (siano essi organi di partito, o gruppi di elettori) le diverse leggi elettorali, amministrative, regionali o politiche attribuiscono la facolta' di presentare liste di candidati o candidature singole, a seconda dei diversi sistemi elettorali in vigore, non e' che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto, per beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo sancito dal richiamato primo comma dell'art. 51. Viene pertanto a porsi in contrasto con i suddetti parametri costituzionali la norma di legge che imponga nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati, pur riconoscendosi che misure siffatte, costituzionalmente illegittime se imposte per legge, possono invece essere valutate positivamente ove siano liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature. Come e' significativamente avvenuto con l'appello del Parlamento europeo (risoluzione n. 169 del 1988) affinche' siano stabilite quote di riserva per le candidature femminili, appello indirizzato ai partiti politici e non ai governi e ai parlamenti nazionali, con implicita conferma, in questo campo, dell'impraticabilita', della via di soluzioni legislative. red.: S. P.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
co. 1
Costituzione
art. 51
co. 1
Titolo
SENT. 422/95 D. EGUAGLIANZA SOSTANZIALE (ART. 3, SECONDO COMMA, COST.) - ESIGENZA DI "AZIONI POSITIVE" PER LA RIMOZIONE DI LIMITAZIONI DI FATTO DELLA EGUAGLIANZA DEI CITTADINI - APPLICAZIONI IN ORDINE ALL'ACCESSO ALLE CARICHE ELETTIVE - POSSIBILITA' CHE NORME DI LEGGE CHE IMPONGANO, RIGUARDO ALLA PRESENTAZIONE DELLE CANDIDATURE, RISERVE DI QUOTE IN RAGIONE DELL'APPARTENENZA ALL'UNO O ALL'ALTRO SESSO, TROVINO LEGITTIMAZIONE, IN DEROGA AL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA FORMALE (ART. 3, PRIMO COMMA, COST.) RIBADITO DALL'ART. 51, PRIMO COMMA, COST., NEL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA SOSTANZIALE - ESCLUSIONE.
Testo
E' da escludere che una disposizione di legge che imponga, riguardo alla presentazione delle candidature alle elezioni, una riserva di quota in ragione del sesso dei candidati, seppure formulata in modo per cosi' dire "neutro", nei confronti sia degli uomini che delle donne, possa trarre legittimazione dal principio di eguaglianza sostanziale sancito dall'art. 3, secondo comma, Cost.. Certamente tra le cosiddette "azioni positive" intese - in attuazione di tale principio - a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese", vanno comprese quelle misure che, in vario modo, il legislatore ha adottato per promuovere il raggiungimento di una situazione di pari opportunita' fra i sessi: ultime tra queste quelle previste dalla legge 10 aprile 1991, n. 125 (azioni positive per la realizzazione della parita' uomo-donna nel lavoro) e dalla legge 25 febbraio 1992, n. 215 (azioni positive per l'imprenditoria femminile). Ma se tali misure legislative, volutamente diseguali, possono certamente essere adottate per eliminare situazioni di inferiorita' sociale ed economica, o, piu' in generale, per compensare e rimuovere le diseguaglianze materiali tra gli individui (quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali), non possono invece incidere direttamente sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali. In particolare, in tema di diritto all'elettorato passivo, la regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il primo comma dell'art. 51, e' quella dell'assoluta parita', sicche' ogni differenziazione in ragione del sesso non puo' che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato. red.: S. P.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
co. 1
Costituzione
art. 3
co. 2
Costituzione
art. 51
co. 1
Titolo
SENT. 422/95 E. ELEZIONI - ELEZIONE A CONSIGLIERE COMUNALE NEI COMUNI CON POPOLAZIONE SINO A 15.000 ABITANTI - LISTE DEI CANDIDATI - IMPOSSIBILITA' PER CIASCUNO DEI DUE SESSI DI ESSERVI RAPPRESENTATO IN MISURA SUPERIORE AI DUE TERZI - RICONOSCIUTO CONTRASTO CON GLI INDEROGABILI PRINCIPI PER CUI L'APPARTENENZA ALL'UNO O ALL'ALTRO SESSO NON PUO' ESSERE ASSUNTA A REQUISITO DI ELEGGIBILITA' O CANDIDABILITA' - IMPOSSIBILITA' CHE LA DISPOSIZIONE CENSURATA TROVI LEGITTIMAZIONE NELLA PREVISIONE COSTITUZIONALE (PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA SOSTANZIALE) DELLA RIMOZIONE DELLE LIMITAZIONI DI FATTO DELLA LIBERTA' E DELL'EGUAGLIANZA - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE - ASSORBIMENTO DI ALTRA CENSURA.
Testo
Nel prevedere, riguardo alla elezione a consigliere comunale, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, che nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi puo' essere rappresentato in misura superiore a due terzi, l'impugnato art. 5, comma secondo, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81, e' in contrasto con i principi posti dagli artt. 3, primo comma, e 51, primo comma, Cost., in forza dei quali nella disciplina dell'accesso alle cariche elettive, l'appartenenza all'uno o all'altro sesso non puo' mai essere assunta a requisito ne' della eleggibilita' ne' della candidabilita'. In proposito infatti non puo' sostenersi che la norma censurata tragga una sua legittimazione dal secondo comma dello stesso art. 3 Cost., giacche', se e' vero che - come risulta ampiamente dai lavori preparatori - essa e' stata proposta e votata (dopo lungo e contrastato dibattito) con la dichiarata finalita' di garantire alle donne una riserva di posti nelle liste dei candidati per favorire le condizioni per un riequilibrio della rappresentanza dei sessi nelle assemblee comunali, non appare affatto coerente con le finalita' indicate nel secondo comma dell'art. 3 Cost. in quanto non si propone di "rimuovere" gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, ma, incidendo sullo stesso contenuto del diritto alla eleggibilita' e alla candidabilita', di attribuire loro direttamente quei risultati, cosicche' la ravvisata disparita' di condizioni non viene rimossa ma costituisce solo il motivo per assicurare una tutela preferenziale in base al sesso: proprio il tipo di risultato, cioe', espressamente escluso dai su richiamati principi costituzionali, finendo col creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate. Pertanto - assorbita l'altra censura formulata in riferimento all'art. 49 Cost. - per la riscontrata violazione degli artt. 3, primo comma, e 51, primo comma, Cost., l'art. 5, comma secondo, ult. periodo, della legge n. 81 del 1993 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo. - V. le precedenti massime B, C e D. red.: S. P.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
co. 1
Costituzione
art. 3
co. 2
Costituzione
art. 49
Costituzione
art. 51
co. 1
Riferimenti normativi
legge
25/03/1993
n. 81
art. 5
co. 2
Titolo
SENT. 422/95 F. ELEZIONI - ACCESSO ALLE CARICHE ELETTIVE - DISCIPLINA - MISURE PREVEDENTI LIMITI, VINCOLI O RISERVE NELLE LISTE DEI CANDIDATI IN RAGIONE DEL LORO SESSO, INTRODOTTE, IN LEGGI STATALI E REGIONALI, RIGUARDO ALLE ELEZIONI ALLA CAMERA DEI DEPUTATI, AI CONSIGLI REGIONALI E AGLI ORGANI DELLE AMMINISTRAZIONI DI COMUNI CON POPOLAZIONE SUPERIORE A 15.000 ABITANTI - CONTENUTO NORMATIVO SOSTANZIALMENTE IDENTICO A QUELLO DI DISPOSIZIONE STATALE, CONCERNENTE LA ELEZIONE A CONSIGLIERE COMUNALE NEI COMUNI CON POPOLAZIONE SINO A 15.000 ABITANTI, DICHIARATA COSTITUZIONALMENTE ILLEGITTIMA PER VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO PER CUI IN NESSUN CASO LA APPARTENENZA ALL'UNO O ALL'ALTRO SESSO PUO' ESSERE ASSUNTA A REQUISITO DI ELEGGIBILITA' O DI CANDIDABILITA' - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE CONSEGUENZIALE.
Testo
In conseguenza della dichiarazione di illegittimita' costituzionale, per violazione dell'art. 3, comma primo, e dell'art. 51, comma primo, Cost., dell'art. 5, comma secondo, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81, che riguardo alla elezione a consigliere comunale nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, prevedeva che nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato in misura superiore ai due terzi, devono essere dichiarati costituzionalmente illegittimi, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, anche l'art. 7, comma primo, ultimo periodo, della stessa legge n. 81 del 1993 - che contiene identica prescrizione per le liste dei candidati nei Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti - nonche', in quanto contengono analoghe misure , le nuove formulazioni degli stessi artt. 5, comma secondo, ultimo periodo, e 7, comma primo, ultimo periodo, introdotte dall'art. 2 della legge 15 ottobre 1993, n. 415. Ulteriore applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953 va inoltre fatta nei confronti delle misure che prevedono limiti, vincoli o riserve nelle liste dei candidati in ragione del loro sesso, introdotte nelle leggi elettorali politiche, regionali o amministrative, ivi comprese quelle contenute in leggi regionali, data la sostanziale identita' di contenuti normativi con la disposizione statale riconosciuta illegittima, non potendo essere lasciati spazi di incostituzionalita' (da cui discenderebbero incertezze e contenzioso diffuso) in una materia, quale quella elettorale, dove la certezza del diritto e' di importanza fondamentale per il funzionamento dello Stato democratico. La dichiarazione di illegittimita' costituzionale deve essere quindi estesa, riguardo alla elezione alla Camera dei deputati, all'art. 4, comma secondo, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, come modificato dall'art. 1 della legge 4 agosto 1993, n. 277; riguardo alla elezione dei Consigli delle Regioni a statuto ordinario, all'art. 1, comma sesto, della legge 23 febbraio 1995, n. 43; riguardo alla elezione degli organi delle amministrazioni comunali nel Trentino-Alto Adige, agli artt. 41, comma terzo, 42, comma terzo, e 43, comma quarto, ultimo periodo, e comma quinto, ultimo periodo, del testo unico delle leggi regionali approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale 13 gennaio 1995, n. 1/L; riguardo alle elezioni comunali nel Friuli-Venezia Giulia, all'art. 6, comma primo, ultimo periodo, della legge regionale 9 marzo 1995, n. 14 e infine, riguardo alle elezioni comunali nella Valle d'Aosta, all'art. 32, commi terzo e quarto, della legge regionale 9 febbraio 1995, n. 4. - V. la precedente massima E. red.: S. P.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
co. 1
Costituzione
art. 51
co. 1
Altri parametri e norme interposte
legge
11/03/1953
n. false
art. 27
Riferimenti normativi
legge
25/03/1993
n. 81
art. 7
co. 1
legge
15/10/1993
n. 415
art. 2
co. 0
decreto del Presidente della Repubblica
30/03/1957
n. 361
art. 4
co. 2
legge
04/08/1993
n. 277
art. 1
co. 0
legge
23/02/1995
n. 43
art. 1
co. 6
decreto del Presidente giunta Trentino-Alto Adige
13/01/1995
n. 1
art. 41
co. 3
decreto del Presidente giunta Trentino-Alto Adige
13/01/1995
n. 1
art. 42
co. 3
decreto del Presidente giunta Trentino-Alto Adige
13/01/1995
n. 1
art. 43
co. 4
decreto del Presidente giunta Trentino-Alto Adige
13/01/1995
n. 1
art. 43
co. 5
legge Regione autonoma Friuli Venezia Giulia
09/03/1995
n. 14
art. 6
co. 1
legge della Regione autonoma Valle d'Aosta
09/02/1995
n. 4
art. 32
co. 3
legge della Regione autonoma Valle d'Aosta
09/02/1995
n. 4
art. 32
co. 4
N. 422
SENTENZA 6-12 SETTEMBRE 1995
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE;
Giudici: prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi
MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Francesco
GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv.
Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5, secondo
comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione
diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio
comunale e del consiglio provinciale), promosso con ordinanza emessa
il 27 maggio 1994 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Maio
Giovanni contro il Ministero dell'Interno ed altri, iscritta al n.
700 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 1994;
Visto l'atto di costituzione di Maio Giovanni;
Udito nell'udienza pubblica del 27 giugno 1995 il Giudice relatore
Mauro Ferri.
Ritenuto in fatto
1. - L'elettore Giovanni Maio, iscritto nelle liste del comune di
Baranello, avente popolazione non superiore a 15.000 abitanti, ha
impugnato avanti il T.A.R Molise le operazioni per l'elezione del
sindaco e del consiglio comunale in quanto, tra i trentasei candidati
al consiglio comunale complessivamente presentatisi nelle tre liste
in competizione, era presente una sola donna, in violazione dell'art.
5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993 n. 81,
secondo cui "Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può
essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi".
2. - Il Consiglio di Stato, in sede di appello avverso la sentenza
del T.A.R. Molise, che aveva respinto il ricorso interpretando la
citata disposizione come una proposizione legislativa priva di valore
precettivo, ha sollevato questione di legittimità costituzionale
della medesima in riferimento agli artt. 3, primo comma, 49 e 51,
primo comma, della Costituzione.
3. - Il giudice a quo premette, ai fini della rilevanza della
questione, che in altre precedenti decisioni la disposizione
impugnata (nel testo anteriore alla modifica apportata con legge 15
ottobre 1993, n. 415) è già stata interpretata nel senso della
precettività della norma sulla rappresentanza dei sessi, salvo
deroghe da motivare in sede di presentazione delle liste, che, nel
caso di specie, non sono state in alcun modo addotte.
Il Consiglio di Stato ritiene, altresì, che la modifica della
disposizione, operata dalla legge n. 415 del 1993 mediante la
soppressione della locuzione "di norma", e l'attribuzione di
inequivocabile valore precettivo alla proposizione, non possa non
riflettersi sull'interpretazione della formula originaria, sia pure
considerando che la successiva legge avrebbe trovato altrimenti il
modo di eludere la necessità di rappresentanza dei sessi proclamata
nella legge di pochi mesi prima: mentre infatti la legge n. 81, con
la dizione "nessuno dei due sessi può essere .. rappresentato in
misura superiore ai due terzi", faceva implicito riferimento al
numero dei candidati in lista, e quindi imponeva la presenza di
candidati d'ambo i sessi, la successiva dizione, "nessuno dei due
sessi può essere rappresentato in misura superiore ai tre quarti dei
consiglieri assegnati", facendo riferimento al numero di consiglieri
comunali da eleggere, e facendo coincidere la presenza massima dei
candidati di un sesso con il numero minimo dei candidati da porre in
lista, consente la presentazione di liste con candidati di un solo
sesso.
4. - Ritenuto dunque il valore precettivo della disposizione,
anche prima della modificazione apportata dalla citata legge n. 415,
il collegio remittente dubita della legittimità costituzionale
dell'art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge n. 81 del
1993, il quale avrebbe per la prima volta introdotto nella
legislazione elettorale la nozione di "rappresentanza dei sessi".
La questione di legittimità viene sollevata in primo luogo con
riferimento al principio di eguaglianza, sancito dall'articolo 3,
primo comma, della Costituzione, e ribadito, in materia elettorale,
dall'art. 51, primo comma. Il principio di eguaglianza, secondo cui
"tutti ..sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso
.. ", si porrebbe, infatti, come regola di irrilevanza giuridica del
sesso e delle altre diversità contemplate dall'art. 3.
5. - D'altra parte, prosegue il remittente, escluso che nel caso
in esame il sesso costituisca una situazione obiettivamente
giustificante la sua assunzione ad elemento di una fattispecie
normativa, non sembra neppure che si possa dare rilievo al sesso in
base alla regola cosiddetta di "eguaglianza sostanziale", di cui al
secondo comma dell'art. 3, come, verosimilmente, è stato
intendimento del legislatore.
La regola secondo cui è compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine sociale, che, limitando di fatto l'eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica del Paese, non potrebbe che riferirsi, ad avviso del
remittente, agli ostacoli di ordine materiale la cui esistenza
vanifica o limita, per taluni, i diritti astrattamente garantiti a
tutti, ma non ai pregiudizi ed agli atteggiamenti di disfavore da cui
taluni o molti possono essere affetti nei confronti di persone
appartenenti a un sesso o a una data razza, religione, o madrelingua.
Il principio di eguaglianza davanti alla legge, inoltre, sarebbe
vanificato se, in nome di una pretesa eguaglianza sostanziale, il
legislatore potesse assumere disposizioni di favore in ragione delle
diverse condizioni personali elencate nel primo comma, o in ogni caso
assumere quelle diverse condizioni personali come elemento di
discriminazione fine a se stessa. Sotto questo profilo, osserva il
remittente, non sembra esservi nessuna differenza tra l'escludere uno
dei due sessi da determinati uffici o cariche, e il prevederne
obbligatoriamente la presenza, ove questa non sia richiesta da
esigenze oggettive.
6. - Analoghe considerazioni vengono espresse per quanto riguarda
l'eguaglianza nell'accesso alle cariche elettive proclamata dall'art.
51, primo comma; al riguardo il Consiglio di Stato osserva che il
costituente ha ritenuto opportuno (con riferimento alla situazione di
allora, nella quale le donne erano escluse dalle cariche elettive e
dalla maggior parte degli uffici pubblici) precisare che il diritto
di accesso alle cariche e agli uffici si riferiva ai cittadini
"dell'uno o dell'altro sesso"; ma, acquisito ciò, non può ritenersi
che l'eguaglianza tra i sessi nelle cariche elettive significhi
qualcosa di diverso dalla indifferenza del sesso ai fini considerati
nella disposizione costituzionale, e in particolare che detta
eguaglianza sia qualcosa che debba essere "attuato" mediante la
positiva previsione del sesso come condizione di accesso alle cariche
elettive.
7. - L'art. 51, primo comma, verrebbe in considerazione anche
sotto altro profilo.
Il giudice a quo osserva che il diritto di accesso alle cariche
elettive comporta il divieto di stabilire titoli o condizioni
positive per l'accesso alle cariche stesse, diversi dai requisiti
previsti in via generale per il godimento dei diritti politici e
dall'assenza di cause di ineleggibilità; ma una volta stabilite le
cause di ineleggibilità, il legislatore non potrebbe poi
contemplare, fra le condizioni per la assunzione di cariche elettive
e per la partecipazione alle relative competizioni, l'appartenenza
all'uno o all'altro dei due sessi, ad una razza, religione, gruppo
linguistico, ovvero il possesso di determinate altre caratteristiche
o condizioni personali.
La disposizione elettorale in esame introdurrebbe, quindi, un
concetto di "rappresentanza dei sessi" che, se legittimo, dovrebbe
essere applicato non tanto alla composizione delle liste di candidati
nei sistemi plurinominali quanto piuttosto alla composizione degli
organi elettivi: di ciò, osserva il Collegio remittente, ci si è
resi ben conto, dal momento che nei lavori preparatori è stato
enunciato che la rappresentanza dei sessi nelle liste ha una portata
limitata rispetto alla espressione di preferenze separate per
candidati dei due sessi o, comunque, alla presenza dei due sessi tra
gli eletti.
8. - Ciò posto, prosegue il giudice a quo, un'eventuale
rappresentanza collettiva di un gruppo linguistico, razziale o
religioso, negli organi elettivi, deve necessariamente trovare
fondamento nel patto costituzionale, costituendo essa una deroga al
principio di eguaglianza dei cittadini; il che, sottolinea il
Consiglio di Stato, non è riscontrabile nell'attuale ordinamento,
anche ammesso che una regola siffatta sia mai concepibile.
9. - Infine, il remittente ravvisa il contrasto della disposizione
impugnata con la regola di libertà politica sancita dall'art. 49
della Costituzione: norma che consentirebbe soltanto ai cittadini di
essere arbitri di determinare gli interessi da rappresentare in sede
politica, e quindi anche di costituire gruppi e movimenti che si
prefiggano di esaltare gli interessi di coloro che si trovino in
determinate condizioni personali, tra cui sesso, razza, o religione.
Posto, quindi, che le liste elettorali presentate dagli elettori
sono null'altro che i partiti politici nel momento elettorale, ad
avviso del remittente, il legislatore non potrebbe limitare le scelte
dei presentatori delle liste elettorali, e imporre che le liste
stesse contengano, in tutto o in parte, candidati di un determinato
sesso, o aventi qualsiasi altra caratteristica, fisica, intellettuale
o morale, diversa dal possesso dei requisiti, positivi o negativi, di
eleggibilità.
10. - Ha presentato atto di costituzione Maio Giovanni, appellante
nel giudizio a quo, concludendo per l'infondatezza della sollevata
questione.
La parte privata ritiene, in sostanza, che la norma di cui si
sospetta l'illegittimità costituzionale non impone
incondizionatamente l'obbligo di proporzione tra i sessi nelle liste
ma solo di motivare adeguatamente i casi in cui tale proporzione non
può essere raggiunta.
A questo conseguirebbe l'assenza di qualsiasi lesione ai principi
costituzionali espressi dagli artt. 3, 49 e 51.
Le stesse argomentazioni evidenziate dall'amministrazione
resistente, con particolare riferimento alle difficoltà incontrate
dai presentatori delle liste nell'ottenere l'accettazione di
candidature da parte di elettrici, mentre evidenzia l'assenza di
qualsiasi danno per i presentatori (potendo essi stessi motivare tali
ragioni, ottenendo la deroga), comproverebbero la sussistenza di
legittime ragioni, sotto il profilo costituzionale, perseguite dal
legislatore.
Né potrebbe disconoscersi sia il ruolo che l'effetto dispiegato
dalla norma, e cioè quello di rimuovere, ove correttamente
interpretata ed applicata, gli ostacoli che, per tradizione o costume
o per altri motivi di natura socioeconomica impediscono di fatto, in
particolare al sesso femminile, di prendere parte alla vita politica
locale, relegandone le potenzialità e le capacità di impegno in un
contesto marginale, e riconoscendo di fatto, al sesso maschile, un
vero e proprio monopolio all'interno della vita politica di tanti
comuni e piccole realtà locali.
11. - In assenza della citata norma, osserva la parte privata,
verrebbe vanificata l'attuazione del secondo comma dell'art. 3 della
Costituzione, il quale diverrebbe un'inutile ripetizione del primo
comma, ovvero del principio valido, ma tuttavia superato dal sistema
giuridico-costituzionale, dell'"eguaglianza formale", ovvero di una
eguaglianza di per sé inidonea a garantire ai cittadini "pari
opportunità" ed "uguali diritti", quanto meno nelle disposizioni "di
partenza", e conseguentemente anche in sede di elettorato attivo
(opportunità di scelta) e passivo (diritto di accesso alle cariche:
art. 51 della Costituzione).
12. - Né potrebbe invocarsi un principio di libertà politica
(art. 49 della Costituzione) nel senso di esaltare gli interessi di
coloro i quali si trovino in determinate condizioni personali, ivi
compreso il sesso, la razza, la religione e via dicendo, essendo tali
scelte o incostituzionali o, se legittime sotto tale ultimo profilo,
sempre ammissibili, previa congrua motivazione in sede di
presentazione della lista e di ammissione della stessa, essendo
riconosciuta, grazie alla locuzione "di norma", ove argomentata,
qualsiasi legittima volontà, se costituzionalmente tutelata.
Considerato in diritto
1. - Il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell'art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della
legge 25 marzo 1993, n. 81 dal titolo "Elezione diretta del sindaco,
del presidente della provincia, del consiglio comunale e del
consiglio provinciale". La disposizione, che si riferisce
all'elezione dei consiglieri comunali nei comuni con popolazione sino
a 15.000 abitanti, recita: "Nelle liste dei candidati nessuno dei due
sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore a due
terzi". Ad avviso del giudice remittente detta norma contrasterebbe
con gli artt. 3, primo comma, 49 e 51, primo comma, della
Costituzione.
Questa Corte, pertanto, è chiamata a decidere se la norma che
stabilisce una riserva di quote per l'uno e per l'altro sesso nelle
liste dei candidati, sia compatibile col principio di eguaglianza
enunciato nel primo comma dell'art. 3 e confermato, per quanto
riguarda specificamente l'accesso agli uffici pubblici e alle cariche
elettive, dal primo comma dell'art. 51; nonché col diritto di tutti
i cittadini, garantito dall'art. 49, "di associarsi liberamente in
partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la
politica nazionale"; diritto di cui la presentazione delle liste dei
candidati alle elezioni costituisce essenziale estrinsecazione.
2. - Il Consiglio di Stato si è dato carico, in primo luogo,
dell'interpretazione della norma; questione del resto posta come
unico motivo d'appello contro la sentenza del T.A.R. della Basilicata
sul quale il giudice a quo deve pronunciarsi.
Il legislatore, nello stabilire la quota di riserva per l'uno e
per l'altro sesso nelle liste dei candidati al consiglio comunale, ha
usato la locuzione "di norma", espressione che, secondo il giudice di
primo grado, indicava il carattere solo programmatico e d'indirizzo
della disposizione. Il giudice d'appello, invece, uniformandosi a
proprie precedenti decisioni, ritiene che essa abbia carattere
precettivo, e che tale lettura venga confermata dalla successiva
modifica legislativa intervenuta con la legge 15 ottobre 1993, n. 72.
Non vi sono motivi per discostarsi da questa interpretazione, del
resto già enunciata dall'Adunanza generale del Consiglio di Stato.
3. - Si può quindi passare all'esame del merito della questione,
valutando in primo luogo, congiuntamente, per la loro intima
connessione, i profili di violazione dell'art. 3, primo comma, e 51,
primo comma, della Costituzione.
La questione è fondata.
Sostiene il giudice remittente che il principio di eguaglianza
secondo cui "tutti sono uguali davanti alla legge senza distinzioni
di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali" (art. 3, primo comma) si pone
"prima di tutto come regola di irrilevanza giuridica del sesso e
delle altre diversità contemplate".
Tale regola, è a sua volta ribadita, in materia di elettorato
passivo, dall'art. 51, primo comma: "tutti i cittadini dell'uno e
dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche
elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti
dalla legge"; eguaglianza che, secondo il giudice remittente, non
può avere significato diverso da quello dell'indifferenza del sesso
ai fini considerati.
Detta lettura del dettato costituzionale non può non essere
condivisa. Essa corrisponde infatti al significato letterale ed
esplicito della formula adottata, ed al suo collegamento con il primo
comma dell'art. 3. Anzi, proprio con riferimento alla formulazione di
questa norma, potrebbe apparire superflua la specificazione "dell'uno
e dell'altro sesso", essendo di per sé sufficiente l'espressione
"tutti i cittadini"; ma è invece comprensibile che i costituenti -
così come già nell'art. 48 avevano ribadito "sono elettori tutti i
cittadini, uomini e donne, .." - abbiano voluto rafforzare, in
riferimento agli uffici pubblici e alle cariche elettive, il precetto
esplicito dell'eguaglianza fra i due sessi. Va tenuto conto del
contesto storico in cui essi operavano: le leggi vigenti escludevano
le donne da buona parte degli uffici pubblici, e l'elettorato attivo
e passivo, concesso loro nel 1945 (decreto legislativo
luogotenenziale 1 febbraio 1945, n. 23), era stato per la prima volta
esercitato in sede politica con la elezione della stessa Assemblea
costituente. Anche dai lavori preparatori e dal raffronto del testo
della Carta costituzionale con quello proposto dalla commissione dei
settantacinque, si ricava che si volle sottolineare l'eguaglianza fra
i due sessi, nel significato prima ricordato, senza possibilità di
dubbi: fu aggiunta la menzione delle cariche elettive, e fu soppresso
l'inciso "conformemente alle loro attitudini" nel timore che potesse
giustificare il mantenimento di esclusioni discriminatrici nei
confronti delle donne.
4. - Posto dunque che l'art. 3, primo comma, e soprattutto l'art.
51, primo comma, garantiscono l'assoluta eguaglianza fra i due sessi
nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel
senso che l'appartenenza all'uno o all'altro sesso non può mai
essere assunta come requisito di eleggibilità, ne consegue che
altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la "candidabilità".
Infatti, la possibilità di essere presentato candidato da coloro ai
quali (siano essi organi di partito, o gruppi di elettori) le diverse
leggi elettorali, amministrative, regionali o politiche attribuiscono
la facoltà di presentare liste di candidati o candidature singole, a
seconda dei diversi sistemi elettorali in vigore, non è che la
condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto, per
beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo
sancito dal richiamato primo comma dell'art. 51. Viene pertanto a
porsi in contrasto con gli invocati parametri costituzionali la norma
di legge che impone nella presentazione delle candidature alle
cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del
sesso dei candidati.
5. - Tanto basta per dichiarare la illegittimità costituzionale
della norma sottoposta al giudizio di questa Corte, nondimeno alcune
ulteriori considerazioni possono chiarire ancor meglio altri aspetti
della questione.
Risulta dai lavori preparatori, che la disposizione che impone una
riserva di quota in ragione del sesso dei candidati, seppure
formulata in modo per così dire "neutro", nei confronti sia degli
uomini che delle donne, è stata proposta e votata (dopo ampio e
contrastato dibattito) con la dichiarata finalità di assicurare alle
donne una riserva di posti nelle liste dei candidati, al fine di
favorire le condizioni per un riequilibrio della rappresentanza dei
sessi nelle assemblee comunali. Nell'intendimento del legislatore,
pertanto, la norma tendeva a configurare una sorta di azione positiva
volta a favorire il raggiungimento di una parità non soltanto
formale, bensì anche sostanziale, fra i due sessi nell'accesso alle
cariche pubbliche elettive; in tal senso essa avrebbe dovuto trarre
la sua legittimazione dal secondo comma dell'art. 3 della
Costituzione.
6. - Non è questa la sede per soffermarsi sul dibattito
dottrinale, storico e politico che si è sviluppato intorno ai
concetti di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale, e
conseguentemente al nesso che intercorre fra il primo ed il secondo
comma dell'art. 3 della Costituzione.
Certamente fra le cosiddette azioni positive intese a "rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese", vanno comprese quelle misure che, in vario modo, il
legislatore ha adottato per promuovere il raggiungimento di una
situazione di pari opportunità fra i sessi: ultime tra queste quelle
previste dalla legge 10 aprile 1991, n. 125 (Azioni positive per la
realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro) e dalla legge 25
febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l'imprenditoria
femminile). Ma se tali misure legislative, volutamente diseguali,
possono certamente essere adottate per eliminare situazioni di
inferiorità sociale ed economica, o, più in generale, per
compensare e rimuovere le diseguaglianze materiali tra gli individui
(quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali), non
possono invece incidere direttamente sul contenuto stesso di quei
medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i
cittadini in quanto tali.
In particolare, in tema di diritto all'elettorato passivo, la
regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il primo
comma dell'art. 51, è quella dell'assoluta parità, sicché ogni
differenziazione in ragione del sesso non può che risultare
oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il
contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri,
appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato.
È ancora il caso di aggiungere, come ha già avvertito parte
della dottrina nell'ampio dibattito sinora sviluppatosi in tema di
"azioni positive", che misure quali quella in esame non appaiono
affatto coerenti con le finalità indicate dal secondo comma
dell'art. 3 della Costituzione, dato che esse non si propongono di
"rimuovere" gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere
determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei
risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve,
non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una
tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è
posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal
già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare
discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.
7. - Questa Corte nel corso degli anni dal suo insediamento ad
oggi, ogni qual volta sono state sottoposte al suo esame questioni
suscettibili di pregiudicare il principio di parità fra uomo e
donna, ha operato al fine di eliminare ogni forma di discriminazione,
giudicando favorevolmente ogni misura intesa a favorire la parità
effettiva. Ma, val la pena ripetere, si è sempre trattato di misure
non direttamente incidenti sui diritti fondamentali, ma piuttosto
volte a promuovere l'eguaglianza dei punti di partenza e a realizzare
la pari dignità sociale di tutti i cittadini, secondo i dettami
della Carta costituzionale.
C'è ancora da ricordare che misure quali quella in esame si
pongono irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la
rappresentanza politica, quali si configurano in un sistema fondato
sulla democrazia pluralistica, connotato essenziale e principio
supremo della nostra Repubblica.
È opportuno, infine, osservare che misure siffatte,
costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge, possono
invece essere valutate positivamente ove liberamente adottate da
partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle
elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o
regolamenti concernenti la presentazione delle candidature. A
risultati validi si può quindi pervenire con un'intensa azione di
crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere
la necessità improcrastinabile di perseguire l'effettiva presenza
paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche
rappresentative in particolare. Determinante in tal senso può
risultare il diretto impegno dell'elettorato femminile ed i suoi
conseguenti comportamenti.
Del resto, mentre la convenzione sui diritti politici delle donne,
adottata a New York il 31 marzo 1953, e la Convenzione
sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione, adottata
anch'essa a New York il 18 dicembre 1979, prevedono per le donne il
diritto di votare e di essere elette in condizioni di parità con gli
uomini, il Parlamento europeo, con la risoluzione n. 169 del 1988, ha
invitato i partiti politici a stabilire quote di riserva per le
candidature femminili; è significativo che l'appello sia stato
indirizzato ai partiti politici e non ai governi e ai parlamenti
nazionali, riconoscendo così, in questo campo, l'impraticabilità
della via di soluzioni legislative.
Spetta invece al legislatore individuare interventi di altro tipo,
certamente possibili sotto il profilo dello sviluppo della persona
umana, per favorire l'effettivo riequilibrio fra i sessi nel
conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte
misure, come si è detto, possono essere in grado di agire sulle
differenze di condizioni culturali, economiche e sociali.
Resta comunque escluso che sui principi di eguaglianza contenuti
nell'art. 51, primo comma, possano incidere direttamente,
modificandone i caratteri essenziali, misure dirette a raggiungere i
fini previsti dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.
8. - Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale della
norma impugnata, per violazione degli artt. 3 e 51 della
Costituzione, restando assorbito l'ulteriore profilo d'illegittimità
costituzionale sollevato in ordine all'art. 49.
In applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la
dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa all'art. 7,
primo comma, ultimo periodo della stessa legge 25 marzo 1993, n. 81,
che contiene l'identica prescrizione per le liste dei candidati nei
Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti. Trattandosi di
disposizioni sostitutive contenenti misure analoghe in contrasto coi
principi affermati nella odierna decisione devono parimenti essere
dichiarate costituzionalmente illegittime le nuove formulazioni degli
stessi art. 5, secondo comma, ultimo periodo, e art. 7, primo comma,
ultimo periodo, introdotte dall'art. 2 della legge 15 ottobre 1993,
n. 415.
Ritiene inoltre la Corte che debba esser fatta ulteriore
applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953 nei confronti
delle misure che prevedono limiti, vincoli o riserve nelle liste dei
candidati in ragione del loro sesso; misure, introdotte nelle leggi
elettorali politiche, regionali o amministrative ivi comprese quelle
contenute in leggi regionali, la cui illegittimità costituzionale
deve ritenersi conseguenziale per la sostanziale identità dei
contenuti normativi, non potendo certamente essere lasciati spazi di
incostituzionalità (da cui discenderebbero incertezze e contenzioso
diffuso) in materia quale quella elettorale, dove la certezza del
diritto è di importanza fondamentale per il funzionamento dello
Stato democratico.
Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale anche delle
norme seguenti:
art. 4, secondo comma, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo
1957, n. 361 (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione
della Camera dei deputati), come modificato dall'art. 1, della legge
4 agosto 1993, n. 277;
art. 1, sesto comma, della legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove
norme per la elezione dei consigli delle Regioni a statuto
ordinario);
artt. 41, terzo comma, 42, terzo comma e 43, quarto comma,
ultimo periodo, e quinto comma, ultimo periodo, (corrispondenti alle
rispettive norme degli artt. 18, 19 e 20 della legge regionale
Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del decreto del
Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13 gennaio
1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed
elezione degli organi delle amministrazioni comunali);
art. 6, primo comma, ultimo periodo, della legge regionale
Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni
comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia,
nonché modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49);
art. 32, terzo e quarto comma, della legge regionale Valle
d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice
sindaco e del consiglio comunale).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, secondo
comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81
(Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del
consiglio comunale e del consiglio provinciale);
Dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
l'illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni:
art. 7, primo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993,
n. 81;
art. 2 della legge 15 ottobre 1993, n. 415 (Modifiche ed
integrazioni alla legge 25 marzo 1993, n. 81);
art. 4, secondo comma, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo
1957, n. 361, come modificato dall'art. 1, della legge 4 agosto 1993,
n. 277, (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della
Camera dei deputati);
art. 1, sesto comma, della legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove
norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto
ordinario);
artt. 41, terzo comma, 42, terzo comma, e 43, quarto comma,
ultimo periodo, e quinto comma, ultimo periodo (corrispondenti alle
rispettive norme degli artt. 18, 19 e 20 della legge regionale
Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del decreto del
Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13 gennaio
1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed
elezione degli organi delle amministrazioni comunali);
art. 6, primo comma, ultimo periodo, della legge regionale
Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni
comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia,
nonché modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49);
art. 32, terzo e quarto comma, della legge regionale Valle
d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice
sindaco e del consiglio comunale).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 settembre 1995.
Il Presidente: BALDASSARRE
Il redattore: FERRI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 12 settembre 1995.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA