Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza regolarmente notificata e pubblicata, il
giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale militare di Roma
ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento
agli artt. 2, 3, 13, 25, 27, terzo comma, e 52 della Costituzione,
nei confronti degli artt. 148 e 151 del codice penale militare di
pace e dell'art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772
(Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza), nella
parte in cui non prevedono che siano esonerati dal servizio militare
coloro che, avendo dichiarato di rifiutare incondizionatamente il
servizio militare per motivi diversi da quelli indicati dall'art. 1
della legge n. 772 del 1972 o senza aver addotto motivo alcuno, siano
stati condannati per l'omessa prestazione del servizio militare ad
una pena complessivamente non inferiore ad un anno di reclusione.
Il giudice a quo - dopo aver ricordato di essere stato investito
della richiesta del pubblico ministero di emissione del decreto di
rinvio a giudizio per il reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.) nei
confronti di Alfredo Cospito, un militare ex detenuto, condannato per
diserzione aggravata e ammesso al differimento dell'esecuzione della
pena, che non si era ripresentato alle armi alla scadenza di una
licenza di convalescenza e a tutt'oggi in arbitraria assenza -
osserva che l'esame degli indicati profili di legittimità
costituzionale non può prescindere da una descrizione della vicenda
giudiziaria accaduta all'imputato in conseguenza della pervicace
inosservanza, da parte dello stesso, dell'obbligo di prestare
servizio militare.
Chiamato alle armi e dichiaratosi "obiettore totale" per motivi
non riconducibili all'art. 1 della legge n. 772 del 1972 (dalla
lettura del fascicolo risulta che l'imputato ha dichiarato al giudice
di essere anarchico e, pertanto, ha sostenuto di non sentirsi
vincolato in coscienza dal dovere di prestare il servizio militare o
altro servizio alternativo), Alfredo Cospito è stato condannato una
prima volta per il reato di mancanza alla chiamata (art. 151
c.p.m.p.) ad un anno di reclusione. Scontata soltanto in parte la
pena a seguito del sopravvenire di un'amnistia, lo stesso Cospito,
nei cui confronti non era venuto meno l'obbligo del servizio
militare, il 16 aprile 1991 è stato condannato di nuovo alla pena di
un anno, nove mesi e dieci giorni di reclusione militare per il reato
di diserzione aggravata. Dallo stesso giorno dell'esecuzione
dell'ordine di carcerazione (27 agosto 1991) il detenuto ha iniziato
uno "sciopero della fame" ad oltranza per protestare contro la nuova
condanna, a seguito del quale, quando la situazione organica e
psichica del detenuto era divenuta di estremo disagio, il padre del
detenuto si è determinato a presentare domanda di grazia al
Presidente della Repubblica (27 settembre 1991).
Tre giorni dopo, il Tribunale militare di sorveglianza ha disposto
il differimento dell'esecuzione della pena in attesa della domanda di
grazia, osservando, nella motivazione del relativo decreto, che
l'immutata volontà del condannato di sottrarsi totalmente e
definitivamente all'obbligo del servizio militare e
l'inapplicabilità nei suoi confronti dell'art. 8 della legge n. 772
del 1972 hanno comportato l'insorgere della c.d. "spirale delle
condanne", che costituisce senza dubbio un'anomalia del sistema
penale. Su tale base lo stesso Tribunale, pur giudicando
inaccettabili le forme di protesta intraprese, auspicava
l'accoglimento della domanda di grazia come via obbligata per
risolvere un caso giudiziario che presentava i caratteri di una
vistosa ingiustizia e poneva a nudo una carenza della legislazione in
vigore. Il 27 dicembre 1991 il Presidente della Repubblica ha
concesso ad Alfredo Cospito la grazia, condonando la pena detentiva
ancora da espiare. Tuttavia, con riferimento al periodo decorrente
dalla data della condanna per il reato di diserzione (16 aprile 1991)
al giorno in cui è stato tratto in arresto (27 agosto 1991), lo
stesso obiettore è stato nuovamente imputato di diserzione. Con
riguardo a tale nuova imputazione, il giudice per le indagini
preliminari del Tribunale militare di Roma, in data 15 giugno 1992,
ha emesso sentenza di non luogo a procedere. Nondimeno, il pubblico
ministero, perdurando ancora l'assenza arbitraria di Alfredo Cospito
dalla data di scadenza della licenza di convalescenza (2 gennaio
1992) concessa dopo il differimento dell'esecuzione della pena ad opera del Tribunale militare di sorveglianza, ha chiesto allo stesso
giudice il rinvio a giudizio per il reato di diserzione, in base al
quale si è instaurato il processo a quo.
Alla luce dei precedenti giudiziari esposti e tenuto presente che
sussistono tutti i requisiti per la configurazione del reato di
diserzione contestato, il giudice rimettente osserva che, dovendosi
escludere la continuazione per le ripetute condotte di assenza dal
servizio militare, l'imputato dovrebbe essere sottoposto a successive
e sempre più rigorose condanne fino al momento del congedo assoluto,
e cioè fino al raggiungimento da parte dell'imputato del
quarantacinquesimo anno di età. Secondo il giudice a quo, la
normativa che consente di sottoporre a un numero indeterminato di
procedimenti penali e a conseguenti condanne chi rifiuti
incondizionatamente di svolgere il servizio militare per motivi
diversi da quelli riconosciuti all'art. 1 della legge n. 772 del 1972
o senza addurre alcun motivo appare inconciliabile con i principi
costituzionali.
2. - In primo luogo, precisa il giudice a quo, l'ipotesi di una
spietata successione di condanne per una condotta ontologicamente
unitaria di rifiuto assoluto e incondizionato di svolgere il servizio
militare appare in contrasto con il principio costituzionale della
tutela della coscienza individuale, il quale costituisce esplicazione
della protezione dei diritti inviolabili assicurata dall'art. 2 della
Costituzione. Per il giudice rimettente, l'effetto vessatorio della
c.d. spirale delle condanne - che ha indotto il legislatore a varare
la legge di tutela dell'obiezione di coscienza e a prevedere, in
particolare, l'esonero dal servizio militare a pena espiata - non
viene meno nel caso in cui gli obiettori abbiano mancato di "addurre"
i motivi indicati nell'art. 1 della legge n. 772 del 1972 o abbiano
rifiutato il servizio militare per altri motivi o, addirittura, senza
alcun motivo.
Dopo aver ricordato che nella sentenza n. 467 del 1991, con la
quale è stato dichiarato parzialmente incostituzionale l'art. 8,
terzo comma, della legge n. 772 del 1972 (nella parte in cui non
prevede che siano esonerati dal servizio militare, a seguito
dell'espiazione della pena, i soggetti che rifiutano il servizio
militare di leva, dopo averlo assunto, per i motivi indicati
dall'art. 1 della legge n. 772 del 1972), questa Corte ha affermato
che la coscienza individuale "gode di una protezione costituzionale
commisurata alla necessità che quella libertà e quei diritti non
risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di
manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o impedimenti
ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della
coscienza medesima", il giudice a quo sottolinea che nel caso di specie la condotta dell'imputato, peraltro precedente all'assunzione del
servizio militare, non è stata compiuta per motivi che il
legislatore riconosce come meritevoli di particolare considerazione.
Ma ciò non potrebbe comunque portare, secondo lo stesso organo
rimettente, ad irrogare a un soggetto che rifiuti irriducibilmente di
svolgere il servizio militare quella "serie di condanne penali così
lunga e pesante da poterne distruggere la sua intima personalità
umana e la speranza di una vita normale" (sent. n. 467 del 1991).
La libertà morale dell'individuo sarebbe, infatti, annullata da
una pena che, pur se deve sussistere ed essere indubbiamente
commisurata alla gravità del fatto, non dovrebbe comunque risolversi
in uno stillicidio di condanne in grado di impedire a una persona,
fino al quarantacinquesimo anno di età, di esplicare la propria
personalità mediante il lavoro e le relazioni sociali. Sotto questo
profilo - tenuto conto che ciò che caratterizza l'obiettore di
coscienza non è la condotta posta in essere, ma i motivi che
presiedono a tale condotta - non si comprende perché la
deliberazione di coscienza volta a rifiutare per sempre il servizio
militare non possa essere giustificata come causa legittima per
evitare la "spirale delle condanne" quando sia dettata da motivi non
di natura religiosa o filosofica o morale (come nel caso di specie,
ove l'obiezione era dettata da motivi politici). Del resto, continua
il giudice a quo, anche l'eventuale riconoscimento del vincolo della
continuazione tra le condotte successivamente sottoposte a processo
potrebbe attenuare, ma non annullare, le conseguenze di
quell'inaccettabile meccanismo di condanne a catena.
3. - Secondo il giudice rimettente, la sottoponibilità di una
persona, che rifiuti di svolgere il servizio militare per motivi
diversi da quelli previsti dalla legge sull'obiezione di coscienza,
ad una serie indeterminata di condanne contrasterebbe anche con
l'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
La pena, infatti, diviene un trattamento contrario al senso di
umanità nel momento in cui tende alla coartazione morale della
persona. Né, continua lo stesso giudice, può essere ravvisata
alcuna finalità rieducativa in una sorta di "sfida" o di "prova di
forza" tra la volontà dello Stato e quella dell'individuo, che
dovrebbe portare a "piegare" quest'ultima volontà solo dopo averne
negato il valore come persona umana (come si può constatare da un
esame del caso di specie).
4. - Le norme contestate, ad avviso del giudice rimettente,
sarebbero in contrasto anche con i principi costituzionali di
offensività e di materialità dell'illecito penale (artt. 13 e 25
della Costituzione), nonché con quello di democraticità
dell'ordinamento delle forze armate (art. 52 della Costituzione).
Sotto il primo profilo, in particolare, la lesione di quei principi
deriva dal rilievo che le norme impugnate mirano a colpire
l'atteggiamento soggettivo di irriducibile contrarietà allo
svolgimento del servizio militare, anziché il fatto del rifiuto,
cioè un fatto unitario rispetto al quale le singole condotte di
omessa prestazione del servizio militare non sono che contingenti
manifestazioni.
5. - Infine, il giudice a quo rileva la pretesa violazione
dell'art. 3 della Costituzione in relazione all'asserita disparità
di trattamento tra chi rifiuta il servizio militare "adducendo" i
motivi di cui all'art. 1 della legge n. 772 del 1972 e chi rifiuta il
servizio medesimo "adducendo" altri motivi ovvero senza "addurre"
alcun motivo, sussistendo una sproporzione eccessiva di trattamento
sanzionatorio per l'una e per l'altra ipotesi, pur essendo violato
con modalità offensive analoghe lo stesso bene giuridico.
Dopo aver rilevato che l'attuale indiscutibile trattamento
deteriore dei soggetti condannati per i reati di cui agli artt. 148 e
151 c.p.m.p. rispetto a quelli colpevoli per il reato di cui all'art.
8 della legge n. 772 del 1972 deriva in gran parte
dall'interpretazione giurisprudenziale data alla seconda fattispecie
legale dopo la sentenza n. 409 del 1989 di questa Corte, il giudice a
quo sottolinea come, per altra parte, la stessa disparità derivi
dalle norme vigenti. Innanzitutto, ricorda che ai militari che non si
presentano a svolgere il servizio militare è applicabile, quando la
durata dell'assenza supera i sei mesi, un'aggravante ad effetto
speciale per la quale la pena è aumentata da un terzo alla metà (v.
art. 154, n. 1, c.p.m.p.). In secondo luogo, ed è ciò che qui
maggiormente rileva, la mancata previsione dell'esonero per effetto
della espiazione della pena comporta l'irragionevole proliferazione
di comportamenti punibili nel caso di assoluto rifiuto del servizio
militare: sicché lo stesso fatto - rifiuto incondizionato del
servizio militare - in un caso (quando è compiuto per motivi di
coscienza previsti dalla legge) viene punito una sola volta (con la
pena edittale da sei mesi a due anni) e in un altro caso (quando è
compiuto per motivi diversi) viene punito per un numero indefinito di
volte (con la stessa pena edittale aumentata da un terzo alla metà
per l'applicazione dell'aggravante prevista per l'ipotesi che
l'assenza superi i sei mesi).
Nel ricordare che i motivi di coscienza devono essere "addotti",
ai sensi dell'art. 1 della legge n. 772 del 1972, e che su tale
elemento si è formata una giurisprudenza molto permissiva che ha
portato a un incremento di obiezioni totali "di convenienza", il
giudice a quo sottolinea come si sia venuta a creare la situazione
paradossale per la quale coloro che sinceramente dichiarano
l'esistenza effettiva di motivi di obiezione diversi da quelli
previsti dal legislatore - come nel caso dell'obiettore politico di
cui si tratta - sono sottoposti a un trattamento deteriore rispetto
agli obiettori "di convenienza" e, in ogni caso, sono vittime di una
discriminazione inammissibile in base alla Costituzione, nel senso
che, grazie all'innesco della c.d. spirale delle condanne, subiscono
una disciplina che appare fuoriuscire dai limiti della proporzione e
della ragionevolezza.
Certo, precisa conclusivamente il giudice rimettente, soltanto il
legislatore potrebbe ricondurre a razionalità il sistema dei reati
di assenza dal servizio militare e di rifiuto dello stesso (come
richiesto anche dalla sentenza n. 467 del 1991). Ma, di fronte
all'inerzia del legislatore, il presentarsi di casi come quello posto
alla cognizione del giudice a quo impone a quest'ultimo di richiedere
una dichiarazione d'incostituzionalità delle norme denunciate, in
conseguenza della quale, potendo considerare l'imputato esonerato da
obblighi militari sin dal 2 gennaio 1992 (data di scadenza della
licenza di convalescenza), potrebbe emettere sentenza dichiarativa di
non luogo a procedere nei suoi confronti perché il fatto non
sussiste.
Considerato in diritto
1. - Il giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale
militare di Roma dubita della legittimità costituzionale degli artt.
148 e 151 del codice penale militare di pace, nonché dell'art. 8,
terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il
riconoscimento dell'obiezione di coscienza), in riferimento agli
artt. 2, 3, 13, 25, 27, terzo comma, e 52 della Costituzione, in
quanto le norme contestate non prevedono che siano esonerati dal
servizio militare coloro che, avendo rifiutato incondizionatamente la
prestazione del servizio stesso sulla base di motivi di coscienza
diversi da quelli indicati nell'art. 1, primo comma, della legge n.
772 del 1972 ovvero senza aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato
per quel comportamento una pena complessivamente non inferiore ad un
anno di reclusione.
2. - La questione di legittimità costituzionale sollevata va
dichiarata in parte inammissibile per l'irrilevanza del profilo
relativo all'art. 151 c.p.m.p..
Ai fini dell'esame della rilevanza della questione sottoposta al
giudizio di questa Corte, occorre muovere dalla premessa che in
sostanza il giudice a quo intende contestare, sotto il profilo della
legittimità costituzionale, l'effetto connesso alla c.d. spirale
delle condanne, vale a dire il susseguirsi delle condanne penali che
sistematicamente colpiscono coloro che, senza addurre i motivi di
coscienza indicati dall'art. 1 della legge n. 772 del 1972, rifiutano
incondizionatamente e totalmente di prestare il servizio militare
fino al momento della persistenza dell'obbligo di leva (compimento
del quarantacinquesimo anno di età): il rinnovo della richiesta di
inquadramento dopo un primo rifiuto, che va ripetuto, sino all'età
del congedo per limiti di età, ogni volta che sia stata espiata la
pena irrogata per qualcuno dei reati connessi al rifiuto del servizio
militare (mancanza alla chiamata, diserzione, allontanamento
illecito, disobbedienza, etc.), escluso quello regolato dall'art. 8,
secondo comma, della legge n. 772 del 1972, comporta infatti un
susseguirsi di inottemperanze all'obbligo di leva, con il probabile
formarsi di una catena di condanne conseguente ai vari episodi in cui
si concreta l'originario e immodificato convincimento di non sentirsi
vincolato al dovere di prestare il servizio militare.
Il legislatore, a seguito dell'adozione della legge n. 772 del
1972, ha impedito il prodursi del ricordato effetto a favore di
coloro che rifiutino il servizio militare sulla base dei motivi di
coscienza indicati nell'art. 1 della stessa legge, cioè per coloro
"che dichiarino di essere contrari in ogni circostanza all'uso
personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza ( ..)
attinenti ad una concezione generale della vita basata su profondi
convincimenti religiosi o filosofici o morali professati". Costoro,
infatti, quando non siano ammessi al beneficio di prestare il
servizio militare non armato o un servizio civile sostitutivo, sono
sottoposti alla stessa pena prevista per chi rifiuta anche questi
ultimi servizi (pena edittale poi ridotta da sei mesi a due anni,
solo per il reato di cui all'art. 8, secondo comma, per effetto della
sentenza n. 409 del 1989 di questa Corte), ma, a norma dell'art. 8,
terzo comma, della legge medesima, sono esonerati dall'obbligo di
leva una volta che abbiano espiato la pena irrogata.
Questa clausola, come si è già accennato, non è prevista per
gli obiettori totali che adducano motivi di coscienza diversi da
quelli indicati nel ricordato art. 1 ovvero non adducano alcun
motivo. Sicché il giudice a quo, al fine di espungere
dall'ordinamento la possibilità della c.d. spirale delle condanne a
danno di costoro, ha chiesto a questa Corte una pronunzia additiva
diretta a estendere anche ai soggetti appena menzionati la clausola
di esonero dalla prestazione del servizio militare di leva prevista
dall'art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972.
3. - Poiché la clausola ora ricordata viene riferita, nel
petitum, a qualsiasi ipotesi di rifiuto di prestare il servizio
militare, il giudice a quo, si è preoccupato di delimitarne la
rilevanza alla fattispecie dedotta di fronte a lui stesso. Tuttavia,
nel compiere siffatta operazione, egli ha correttamente individuato i
confini della questione soltanto sotto il profilo soggettivo.
L'imputato del giudizio a quo, infatti, non ha usufruito dei benefici
previsti dalla legge sulla obiezione di coscienza, dal momento che
non ha formalmente addotto i motivi individuati dallo stesso
legislatore come valide ragioni di obiezione, ma ha informato della
sua convinta adesione all'ideologia politica anarchica soltanto il
giudice che l'ha interrogato in sede di accertamento del reato. Di
modo che ben ha fatto il giudice rimettente a estendere i termini
della questione al trattamento previsto per tutti gli obiettori
totali che si pongono fuori della disciplina disposta dagli artt. 1 e
8 della legge n. 772 del 1972, vale a dire tanto coloro che non
adducono alcun motivo, quanto coloro che adducono motivi diversi da
quelli indicati dall'appena citato art. 1.
Il giudice a quo ha, invece, peccato per eccesso nell'individuare
le forme di illecito penale connesse al rifiuto di prestare il
servizio militare. Il reato di rifiuto delineato dall'art. 8, secondo
comma, della legge n. 772 del 1972, il cui elemento materiale è dato
dalla manifestazione di volontà attinente all'inottemperanza
dell'obbligo di leva, è un reato a forma libera, che può
manifestarsi tanto in comportamenti meramente omissivi (come, ad
esempio, il non rispondere alla chiamata alle armi) quanto in
comportamenti commissivi (come, ad esempio, il rifiuto di indossare
l'uniforme, l'allontanamento illecito). Sicché quando non ricorre lo
specifico elemento costitutivo del reato di rifiuto di cui all'art.
8, della legge n. 772 del 1972, consistente nell'adduzione dei motivi
indicati dall'art. 1 della legge stessa, possono entrare in gioco
altri reati militari, che si pongono come generali rispetto al reato
speciale di rifiuto, configurato dal citato art. 8. Nella specie,
trattandosi di un caso in cui non sono stati addotti i predetti
motivi, il giudice a quo, al fine di radicare correttamente
nell'ordinamento normativo la pronunzia additiva vo'lta
all'estensione della clausola di esonero prevista dall'art. 8, terzo
comma, della legge n. 772 del 1972, ha giustamente collegato
quest'ultimo articolo a disposizioni delineanti altre figure di reato
militare. Nell'operare tale riferimento, tuttavia, lo stesso giudice,
mentre ha correttamente indicato la norma sul reato di diserzione
(art. 148 c.p.m.p.), ha invece erroneamente aggiunto il pur affine
reato di mancanza alla chiamata (art. 151 c.p.m.p.).
Dall'ordinanza di rimessione, infatti, si deduce
inequivocabilmente che l'unico reato per il quale l'imputato è
chiamato a rispondere nel giudizio a quo è quello di diserzione
(art. 148 c.p.m.p.). Per il reato di mancanza alla chiamata (art. 151
c.p.m.p.) lo stesso imputato era già stato condannato in un
precedente giudizio e, precisamente, nel primo di quelli che lo hanno
riguardato. Ma, anche se l'ordinanza di rimessione mira a colpire, in
sostanza, la c.d. spirale delle condanne, questo intento non può
legittimare una definizione della questione tale da scardinare il
carattere incidentale del giudizio di costituzionalità e non può,
quindi, obliterare il principio che la rilevanza della questione va
valutata soltanto rispetto al giudizio a quo. Quest'ultima regola
porta, dunque, a delimitare l'oggetto del giudizio in esame alla
richiesta di estendere, mediante una pronunzia additiva, la clausola
di esonero dal servizio militare prevista dall'art. 8, terzo comma,
della legge n. 772 del 1972 a coloro che, rifiutando radicalmente, in
tempo di pace, il predetto servizio dopo aver addotto motivi diversi
da quelli indicati nell'art. 1 della medesima legge o senza aver
addotto motivo alcuno, siano incorsi nel reato di diserzione (art.
148 c.p.m.p.).
4. - Così definita, la questione merita l'accoglimento.
Nel contestare, sotto il profilo del principio costituzionale di
parità di trattamento (art. 3 della Costituzione), l'irragionevole
discriminazione operata dall'art. 8, terzo comma, della legge n. 772
del 1972 a danno di coloro che rifiutano "in toto" di prestare il
servizio militare adducendo motivi diversi da quelli indicati
dall'art. 1 della stessa legge ovvero non adducendo alcun motivo, il
giudice a quo individua la manifestazione di tale arbitraria
determinazione del legislatore nella macroscopica sproporzione
sussistente, sul piano del regime sanzionatorio, tra l'ipotesi prima
ricordata e quella dell'obiettore totale che adduce i motivi di
coscienza riconosciuti come meritevoli di tutela dallo stesso
legislatore. Infatti, egli precisa, mentre in quest'ultimo caso
coloro che rifiutano il servizio militare, una volta espiata la pena
inflitta, fruiscono dell'esonero dalla prestazione del servizio
militare di leva a norma del citato art. 8, terzo comma, della legge
n. 772 del 1972, nell'altro caso, invece, chi si rifiuta
definitivamente di ottemperare all'obbligo della leva, pur essendo
sottoposto a una pena edittale identica a quella prevista per
l'ipotesi precedentemente considerata, è tuttavia soggetto, a causa
della mancata previsione a suo favore della clausola di esonero, alla
probabilità di un'ininterrotta catena di condanne, destinata a
prolungarsi sino al venir meno dell'obbligo di leva per limiti di
età.
Trattandosi di un giudizio che viene innanzitutto svolto sotto il
profilo dell'art. 3 della Costituzione, occorre preliminarmente
ribadire che i valori costituzionali, il cui bilanciamento ad opera
del legislatore dev'essere in questa sede scrutinato, sono dati, da
un lato, dall'obbligo di prestare il servizio militare di leva (art.
52, secondo comma, della Costituzione) - obbligo che va annoverato
fra i doveri di solidarietà sociale di carattere inderogabile, ai
sensi dell'art. 2 della Costituzione, - e, dall'altro lato, dalla
libertà personale, connessa all'incriminazione del rifiuto di prestare il predetto servizio (art. 13 della Costituzione), libertà che
gode anch'essa della copertura dell'art. 2 della Costituzione in
quanto diritto inviolabile (v. sent. n. 409 del 1989). Poiché nella
decisione appena ricordata è stato chiarito che tanto
l'incriminazione del rifiuto totale di prestare il servizio militare,
quanto la previsione di una clausola di esonero come quella stabilita
dall'art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, sono frutto di
scelte discrezionalmente assunte dal legislatore, non rinvenendosi in
Costituzione alcun obbligo in tal senso, è opportuno sottolineare,
sempre in via di premessa, che il giudizio sotto il profilo
considerato deve svolgersi nelle forme proprie dello scrutinio di
ragionevolezza dell'uso discrezionale del potere legislativo in
riferimento alla costellazione di valori costituzionali prima
precisata.
5. - Nella sentenza n. 409 del 1989, questa Corte ha affermato che
il caso di chi rifiuta di assolvere in ogni modo all'obbligo di leva
senza addurre motivi o adducendo motivi diversi da quelli considerati
nella legge sull'obiezione di coscienza merita un trattamento
sanzionatorio differenziato, presumibilmente più severo, rispetto al
caso di chi tiene lo stesso comportamento materiale adducendo motivi
di coscienza meritevoli di tutela. Ma la stessa Corte nella medesima
decisione, se pure con riferimento a un'ipotesi di raffronto
esattamente inversa a quella ora esaminata, ha pure sostenuto che, in
considerazione dell'identità dell'interesse leso nelle due distinte
ipotesi criminose (interesse a una regolare incorporazione degli
obbligati al servizio di leva), oltreché dell'analogia delle
modalità oggettive di comportamento, non può ammettersi che fra le
pene edittali previste per le suddette ipotesi sussista un'eccessiva
sproporzione.
Sebbene, per effetto della stessa decisione, la pena edittale
prevista per il reato di rifiuto totale della prestazione del
servizio militare di cui all'art. 8, secondo comma, della legge n.
772 del 1992 sia stata eguagliata a quella stabilita per altri reati
analoghi (come, ad esempio, la mancanza alla chiamata), l'omissione
legislativa di una clausola di esonero simile a quella stabilita nel
terzo comma del citato art. 8 rende palesemente sproporzionato il
trattamento sanzionatorio complessivo concernente gli altri reati
comunque collegati a un rifiuto totale di adempiere la prestazione
del servizio militare di leva, relativamente ai quali sussiste, come
si è già ricordato, la possibilità effettiva del realizzarsi della
c.d. spirale delle condanne. E non può certo dirsi che tale effetto
eventuale, ancorché probabile, debba restar fuori dai confini di un
giudizio di legittimità costituzionale, poiché, come questa Corte
ha ribadito anche recentemente (v. sent. n. 163 del 1993), il
rispetto del principio di eguaglianza, quale è configurato nell'art.
3 della Costituzione, comporta che la regola della proporzionalità
in esso implicita debba esser valutata "in relazione agli effetti
pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita".
L'eccessiva sproporzione del trattamento sanzionatorio dei reati
di rifiuto del servizio militare diversi da quello disciplinato
nell'art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972 deriva dal
fatto che la clausola di esonero prevista nel terzo comma del
ricordato art. 8 costituisce una sorta di clausola di garanzia della
proporzionalità della pena, nel senso che, in mancanza della stessa,
di fronte alla manifestazione di un rifiuto totale del servizio di
leva, la sanzione penale, pur se determinata nella stessa misura
edittale stabilita per il reato di cui all'art. 8, è destinata ad
applicazioni reiterate fino all'esaurimento del correlativo obbligo
di leva. Nelle precise parole usate da questa Corte nella già citata
sentenza n. 409 del 1989, "l'esonero in discussione - conseguenza di
una libera, discrezionale scelta del legislatore - non appare violare
la Carta fondamentale ( ..), né è irrazionale: non essendo
ipotizzabili altre sanzioni adeguate al caso particolarissimo in
discussione, il legislatore ritiene d'interrompere la spirale delle
"condanne a catena", nella presunzione che, ormai, anche la sanzione
penale non può raggiungere gli effetti rieducativi di cui all'art.
27, comma terzo, della Costituzione".
6. - Nel dictum di questa Corte appena citato è contenuta la ratio decidendi applicabile anche al presente giudizio.
La possibilità reale della c.d. spirale delle condanne in
relazione ai reati di rifiuto totale di prestazione del servizio
militare diversi da quello disciplinato dall'art. 8 della legge n.
772 del 1972 - conseguente alla mancanza di una clausola di esonero
dall'obbligo di leva a pena espiata - è la manifestazione della
palese irragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore, in
sede di trattamento sanzionatorio di quei reati, tra il valore
costituzionale del dovere di prestare il servizio militare (art. 52
della Costituzione) e quello della libertà personale (art. 13 della
Costituzione).
L'incriminazione del rifiuto totale di adempiere l'obbligo di
leva, se deve condurre a un sacrificio della libertà personale, non
può tuttavia estendere questo sacrificio sino al punto da sottoporre
colui che abbia commesso i relativi reati "a una serie di condanne
penali così lunga e pesante da poterne distruggere la sua intima
personalità umana e la speranza di una vita normale" (v. sent. n.
467 del 1991). La palese sproporzione del sacrificio della libertà
personale che così si realizza produce, infatti, una vanificazione
del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27, terzo comma,
della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia
istituzionale in relazione allo stato di detenzione.
Sulla base di tali motivi, questa Corte dichiara l'illegittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione,
dell'art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, in connessione
con l'art. 148 c.p.m.p., nella parte in cui non prevede l'esonero
dalla prestazione del servizio militare di leva in favore di coloro
che, avendo rifiutato totalmente in tempo di pace la prestazione del
servizio stesso dopo aver addotto motivi diversi da quelli indicati
nell'art. 1 della legge n. 772 del 1972 o senza aver addotto motivo
alcuno, abbiano espiato per quel comportamento la pena della
reclusione in misura quantomeno non inferiore complessivamente alla
durata del servizio militare di leva.
Nell'adottare tale pronunzia di accoglimento questa Corte rinnova
il pressante invito al legislatore in ordine a un urgente intervento
razionalizzatore sull'insieme delle pene relative ai vari reati
militari connessi al rifiuto di prestare il servizio di leva (v. già
sent. n. 467 del 1991). Tale intervento, che dovrebbe provvedere al
necessario riproporzionamento delle pene concernenti i reati appena
ricordati, assume ora i caratteri dell'improrogabilità, in ragione
delle conseguenze che il principio di diritto affermato nella
presente pronuncia può produrre su future decisioni.
Restano assorbiti gli ulteriori profili di legittimità
costituzionale sollevati dal giudice rimettente.