RITENUTO IN FATTO
1. - Con ordinanza del 30 marzo 1987, emessa nel corso del
procedimento civile vertente tra Moroni Anna Maria ed altri contro il
Ministero della pubblica istruzione, il Pretore di Firenze ha
sollevato la questione di legittimità costituzionale, in riferimento
agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, dell'art. 9, punto (recte:
numero) 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 e dell'art. (recte:
punto) 5, lettera b), numero 2 del Protocollo addizionale.
Il giudice a quo, in parziale accoglimento delle eccezioni di
parte, rileva che l'art. 9, numero 2, della legge n. 121 del 1985 e
il punto 5, lettera b), del Protocollo addizionale, qualora non
potessero legittimare la previsione dell'insegnamento religioso come
insegnamento meramente facoltativo, posto al di fuori dell'orario
ordinario delle lezioni, dovrebbero essere considerati
incostituzionali per violazione dell'art. 19 della Costituzione (che
garantisce la libertà di fede religiosa intesa in senso lato e
comprensiva di ogni convinzione a tale riguardo, compresa la libertà
di non professare ed esercitare alcuna fede e quindi anche la
libertà dall'onere della presenza nella scuola o dalla frequenza di
insegnamenti alternativi imposto, nell'attuale assetto dell'orario
delle lezioni, a chi non ha scelto l'insegnamento religioso);
dell'art. 3 della Costituzione (per la discriminazione imposta a
carico degli allievi non avvalentisi nei confronti di coloro che
hanno prescelto tale insegnamento); ed infine dell'art. 2 della
Costituzione (per il danno che l'attuale assetto dell'orario
scolastico cagiona ai diritti inviolabili di libero sviluppo della
personalità del minore nell'ambito della formazione sociale
rappresentata dalla scuola).
2. - Nell'intervento e nella memoria presentata nell'imminenza
dell'udienza, l'Avvocatura dello Stato ha sostenuto - in difesa del
Presidente del Consiglio dei ministri - l'inammissibilità o,
comunque, l'infondatezza della questione.
a) Sotto il primo profilo si denunzia in primo luogo la lettura
antinomica (senza, quindi, una esatta individuazione del thema
decidendum) che il giudice a quo dà della disposizione impugnata; in
secondo luogo, la mancanza di giurisdizione del giudice remittente in
ordine ai provvedimenti organizzatori del servizio scolastico,
rispetto ai quali gli interessati vanterebbero solo un interesse
legittimo. Infine, secondo l'Avvocatura, che si richiama
all'ordinanza di questa Corte n. 914 del 1988, "l'apprezzamento di
situazioni contingenti (...) venutesi a creare nella fase di prima
applicazione della normativa, non può essere compiuto nel giudizio
di costituzionalità, ove le asserite disparità siano, come nella
specie, ricollegabili all'incompletezza delle ordinanze ministeriali
o addirittura alle concrete scelte tecniche di chi è tenuto a darvi
esecuzione": la Corte costituzionale è, infatti, in questo caso,
chiamata a pronunciarsi sull'organizzazione dell'insegnamento
religioso e sulle opportunità date a chi ha esercitato il diritto di
non avvalersene.
b) Argomentando, poi, per la infondatezza della questione,
l'Avvocatura fa riferimento in primo luogo ad una dichiarazione del
Presidente del Consiglio dei ministri alla Camera dei Deputati il 10
ottobre 1987, in cui si ribadiva, al di là dell'impegno dello Stato
ad offrire attività culturali e formative a chi non intendesse
avvalersi dell'insegnamento religioso, la facoltà dello studente,
"pur nel pieno rispetto del vincolo dell'orario scolastico, di non
avvalersi né dell'insegnamento religioso, né degli insegnamenti o
delle attività alternative offertegli dalla scuola, ovviamente
potendo fruire dei servizi che la scuola mette a sua disposizione".
Evidenzia inoltre l'Avvocatura come sia allo studio lo schema di un
disegno di legge rivolto a "formalizzare" l'esigenza - già presente
nell'attuale organizzazione amministrativa - che nessuno abbia di
più o di meno in funzione della scelta operata, nell'esercizio di
una facoltà del tutto "coerente con i principi costituzionali
ricordati dal giudice a quo". Tale diritto di scelta non è stato
certo limitato dalla intesa di cui al punto 5 del Protocollo
Addizionale, che, tra l'altro, ha determinato le modalità di
organizzazione dell'insegnamento in parola anche in riferimento alla
sua collocazione nel quadro degli orari delle lezioni e che ha avuto
poi esecuzione col d.P.R. n. 751 del 1985 (che, per la sua natura di
atto amministrativo, non sarebbe d'altra parte sindacabile in sede di
giudizio di legittimità costituzionale). Né la scelta di avvalersi
o meno è meno libera per ciò solo che la religione si insegni
nell'orario scolastico ordinario, una volta ammesso che lo Stato,
coerentemente con i principi superiori dell'ordinamento, possa
liberamente scegliere d'impartire nelle sue scuole l'insegnamento
religioso.
A parere dell'Avvocatura, poi, l'insegnamento della dottrina
cattolica nella scuola statale deve essere valutato sia nel suo
aspetto "concordatario" (come obbligo assunto verso la Santa Sede),
sia nel suo aspetto extraconcordatario.
Sotto il primo profilo, l'obbligo concordatario di insegnare la
religione nelle scuole va costituzionalmente valutato con riguardo ai
supremi principi dell'ordinamento cui la Corte costituzionale in
materia concordataria fa costante riferimento, data la "copertura"
dell'art. 7 della Costituzione. Poiché tra i principi supremi
dell'ordinamento non rientra l'esigenza di trattare in modo identico
tutte le confessioni religiose, la preferenza data - nel momento
dell'insegnamento - alla religione cattolica (non implicante una
pretesa di adesione diversa o superiore rispetto a quella richiesta
per qualsiasi altra materia d'insegnamento) non comporta che venga
calpestata la libertà dei non-cattolici o violata la loro autonomia
di pensiero.
Anche sotto il secondo profilo - quello della possibilità di
porre tra le materie di insegnamento la dottrina cattolica a
prescindere dall'obbligo concordatario - è da ritenersi, secondo
l'Avvocatura, infondato qualunque dubbio di costituzionalità.
Infatti, con riguardo all'art. 3, non suona affatto ingiustificata
una scelta che privilegi i cattolici, dal momento che tale fede viene
professata dalla maggior parte degli italiani.
Infine - ricorda l'Avvocatura - la libertà di fede e quella di
pensiero (di cui, rispettivamente, agli artt. 19 e 21 della
Costituzione), non traducendosi in un diritto di veto in ordine ad
ogni scelta non condivisa, vanno coordinate con le esigenze del
sistema costituzionale: lo Stato non limita né conculca tali
libertà, non pretendendo adesione ai principi del cattolicesimo e,
addirittura, concedendo il diritto di scelta.
3. - Nelle memorie presentate dalla difesa delle parti si insiste
per la fondatezza della questione sollevata.
Secondo la difesa, il principio di "non discriminazione" sancito
nella legge n. 121, nell'interpretazione datane dal Consiglio di
Stato con la sentenza n. 1006 del 1988, comporta la legittimità di
obblighi chiaramente discriminatori a carico di chi abbia scelto di
non avvalersi della religione cattolica, sicché la dichiarazione di
illegittimità della disposizione impugnata non solo non "farebbe
cadere" ma anzi "ripristinerebbe la piena parità di diritti tra
tutti gli alunni non più discriminati dalla necessità di optare tra
un insegnamento confessionale ed altre attività alternative
coercitivamente imposte".
Già prima dell'emanazione della legge n. 121 - ricorda la difesa
delle parti - lo stesso principio di non discriminazione nell'ambito
dell'insegnamento religioso era stato limpidamente enunciato all'art.
9 della legge n. 449 del 1984 (concernente la regolazione dei
rapporti tra lo Stato e le Chiese rappresentate dalla Tavola
Valdese), laddove si chiariva che, per dare reale efficacia
all'attuazione del diritto di non avvalersi dell'insegnamento
religioso, l'ordinamento scolastico doveva provvedere a che tale
insegnamento, nelle classi in cui fossero presenti alunni che
avessero dichiarato di non avvalersi, non si svolgesse né "in
occasione dell'insegnamento di altre materie" né secondo orari che
avessero per detti alunni effetti comunque discriminanti.
La successiva "traduzione" amministrativa delle norme contenute
nella legge n. 121 del 1985 ha confermato - secondo la difesa - che
l'interpretazione accolta dal Pretore di Firenze e fatta propria dal
Consiglio di Stato dà luogo a un sistema di "flagrante
discriminazione". Infatti a una prima circolare ministeriale (n. 368
del 20 dicembre 1985) - che correttamente si limitava ad affermare
che il rispetto del diritto di non avvalersi implica che la scuola
assicuri ai non avvalentisi ogni opportuna attività culturale e di
studio, con l'assistenza degli insegnanti, escluse le attività
curricolari comuni a tutti gli allievi - seguivano varie circolari
applicative (nn. 128, 129, 130 e 131 del 3 maggio 1986) volte ad
organizzare genericamente le attività alternative nelle scuole
materne, elementari e medie e infine la circolare n. 302 del 29
ottobre 1986 nella quale drasticamente si affermava il principio
della obbligatorietà della frequenza delle attività integrative
anche per i non avvalentisi.
Annullata (con sentenze nn. 1273 e 1274 del 17 luglio 1987) la
circolare ministeriale n. 302 del 1986, il Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio affermava il diritto dei non avvalentisi di
allontanarsi dalla scuola sulla base di una correlativa riduzione del
normale orario scolastico. Con le ordinanze nn. 578 e 579 del 28
agosto 1987 il Consiglio di Stato, mentre confermava in parte
l'esecutività delle suddette sentenze del Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio, sospendeva le stesse decisioni proprio nella
parte in cui era stato affermato che i non avvalentisi potessero
allontanarsi dalla scuola. Nelle more del giudizio di appello, la
circolare n. 284 del 1987 disponeva che, a parziale modifica della
circolare n. 302 e ad integrazione della circolare n. 131 del 3
maggio 1986, "per gli alunni che non si avvalgono dell'insegnamento
della religione cattolica né delle attività formative e integrative
il genitore o chi esercita la potestà può chiedere di optare per la
semplice presenza nei locali scolastici, senza, peraltro,
allontanarsene". Con la sentenza n. 1006 del 1988 il Consiglio di
Stato ha quindi definitivamente sancito l'obbligo per i non
avvalentisi di frequentare le ore alternative: si è, con tale
intepretazione delle leggi n. 121 del 1985 e n. 449 del 1984, creato,
secondo la difesa, un insanabile contrasto non solo con fondamentali
principi costituzionali, ma anche con "la più corretta lettura della
norma neoconcordataria", risultante, tra l'altro, dai lavori
preparatori della legge n. 121, di cui la difesa riporta amp/'
squarci.
Nell'insistere per la declaratoria di illegittimità
costituzionale, la difesa ribadisce che il dettato costituzionale
viene violato non dal fatto che nella scuola pubblica s'impartisce
l'insegnamento religioso, ma dalla mancata previsione a favore dei
non avvalentisi della "possibilità di restare assenti senza per
questo essere discriminati", possibilità che "non implicherebbe
alcuna violazione (attuale o potenziale) dei diritti degli alunni
avvalentisi dell'insegnamento della religione cattolica, ma potrebbe
allo stesso tempo efficacemente salvaguardare i diritti degli alunni"
non avvalentisi. Naturalmente, precisa la difesa, ciò vale in
quanto, in virtù della legge n. 449 del 1984 appare tacitamente
abrogata la previgente disciplina della dispensa, prevista dall'art.
6 della legge 24 giugno 1929, n. 1159.
Né, ad avviso della difesa, la fondatezza delle censure sollevate
è scalfita dall'ordinanza della Corte costituzionale n. 914 del 7
luglio 1988; mentre il Tribunale di Milano contestava soltanto il
vuoto normativo caratterizzante le attività alternative
all'insegnamento religioso, il Pretore di Firenze "contesta le norme
neoconcordatarie in quanto suscettibili di portare a un insegnamento
religioso non facoltativo. Ciò che interessa, in questo giudizio,
non è (...) la deficitaria organizzazione delle attività
alternative; ma sono, al contrario, le palesi violazioni che da
questa organizzazione derivano per i diritti fondamentali dei non
avvalentisi". Sul punto la difesa richiama la motivazione della
decisione di inammissibilità dell'eccezione sollevata dal Tribunale
di Milano in cui si sottolinea che la medesima si configura come una
"generalizzata censura delle carenze organizzative conseguenti
all'attuazione che le norme impugnate avrebbero ricevuto da una serie
di disposizioni amministrative" e che "l'apprezzamento di situazioni
contingenti - anche se per più versi criticabili - venutesi a creare
nella fase di prima applicazione della normativa, non può essere
compiuto nel giudizio di costituzionalità, ove le asserite
disparità siano, come nella specie, ricollegabili all'incompletezza
delle ordinanze ministeriali o addirittura alle concrete scelte
tecniche di chi è tenuto a darvi esecuzione". A differenza della
questione sollevata dal Tribunale di Milano - conclude la difesa - la
questione ora all'esame della Corte costituzionale investe non le
"carenze organizzative" ma la stessa "organizzazione" dell'ora
alternativa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. - Il Pretore di Firenze, con ordinanza del 30 marzo 1987
(pervenuta alla Corte costituzionale il 30 settembre 1988, R.O. n.
575/1988), solleva questione di legittimità costituzionale, in
riferimento agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, dell'art. 9,
punto (recte: numero) 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica
ed esecuzione dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a
Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato
lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la
Santa Sede) e dell'art. (recte: punto) 5, lettera b), numero 2, del
suddetto Protocollo addizionale, nel dubbio ch'essi causerebbero
discriminazione a danno degli studenti non avvalentisi
dell'insegnamento di religione cattolica "ove non potessero
legittimare la previsione dell'insegnamento religioso come
insegnamento meramente facoltativo".
2. - Prima di passare al merito, occorre prendere in esame le tre
eccezioni di inammissibilità opposte per il Presidente del Consiglio
dei ministri dall'Avvocatura dello Stato: a) natura ancipite
dell'ordinanza di rimessione; b) difetto di giurisdizione del Pretore
in ordine a provvedimenti organizzatori del servizio scolastico; c)
improponibilità nel giudizio costituzionale dell'apprezzamento di
situazioni contingenti verificatesi in fase di prima e incompleta
applicazione della normativa.
L'eccezione sub a) non è nella specie accoglibile, perché il
giudice a quo, prospettando anche l'effetto discriminante a danno
degli studenti avvalentisi dell'insegnamento di religione cattolica,
precisa, proprio per la descritta reciprocità di effetti
discriminatori, il thema decidendum, se l'insegnamento di religione
cattolica, compreso tra gli altri insegnamenti del piano didattico,
con pari dignità culturale, come previsto nella normativa di fonte
pattizia, sia o non causa di discriminazione.
Quanto al punto b), versandosi in materia di diritto soggettivo,
qual è il diritto di avvalersi o di non avvalersi dell'insegnamento
di religione cattolica, non è contestabile la giurisdizione del
giudice ordinario, né può assumere rilevanza in questa sede il
possibile contenuto del provvedimento di urgenza che il giudice a quo
potrebbe adottare.
Per il punto c), il criterio ancor recentemente ribadito da questa
Corte (ordinanza n. 914 del 1988) che "l'apprezzamento di situazioni
contingenti (...) venutesi a creare nella fase di prima applicazione
della normativa, non può essere compiuto nel giudizio di
costituzionalità, ove le asserite disparità siano, come nella
specie, ricollegabili all'incompletezza delle ordinanze ministeriali
o addirittura alle concrete scelte tecniche di chi è tenuto a darvi
esecuzione", non è applicabile allo status quaestionis, essendo nel
frattempo intervenuta pronuncia del Consiglio di Stato (sentenza n.
1006 del 1988) con l'effetto di consolidare l'assetto organizzatorio
scolastico che si lamenta causa di discriminazione a danno di
studenti non avvalentisi dell'insegnamento di religione cattolica,
obbligati alla frequenza di insegnamenti o di attività alternative.
3. - Questa Corte ha statuito, e costantemente osservato, che i
principî supremi dell'ordinamento costituzionale hanno "una valenza
superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale,
sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le
quali godono della particolare copertura costituzionale fornita
dall'art. 7, secondo comma, della Costituzione, non si sottraggono
all'accertamento della loro conformità ai principi supremi
dell'ordinamento costituzionale (v. sentenze n. 30 del 1971, n. 12
del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977 e n. 18 del 1982), sia
quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della
C.E.E. può essere assoggettata al sindacato di questa Corte in
riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento
costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana (v.
sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984)" (cfr. sentenza n. 1146
del 1988).
Pertanto la Corte non può esimersi dall'estendere la verifica di
costituzionalità alla normativa denunziata, essendo indubbiata di
contrasto con uno dei principi supremi dell'ordinamento
costituzionale, dati i parametri invocati, artt. 2, 3 e 19. In
particolare, nella materia vessata gli artt. 3 e 19 vengono in
evidenza come valori di libertà religiosa nella duplice
specificazione di divieto: a) che i cittadini siano discriminati per
motivi di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la
libertà negativa di non professare alcuna religione.
4. - I valori richiamati concorrono, con altri (artt. 7, 8 e 20
della Costituzione), a strutturare il principio supremo della
laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato
delineata nella Carta costituzionale della Repubblica.
Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19
e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi
alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della
libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e
culturale. Il Protocollo addizionale alla legge n. 121 del 1985 di
ratifica ed esecuzione dell'Accordo tra la Repubblica italiana e la
Santa Sede esordisce, in riferimento all'art. 1, prescrivendo che "Si
considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato
dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione
dello Stato italiano", con chiara allusione all'art. 1 del Trattato
del 1929 che stabiliva: "L'Italia riconosce e riafferma il principio
consacrato nell'art. 1 dello Statuto del regno del 4 marzo 1848, pel
quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola
religione dello Stato".
La scelta confessionale dello Statuto albertino, ribadita nel
Trattato lateranense del 1929, viene così anche formalmente
abbandonata nel Protocollo addizionale all'Accordo del 1985,
riaffermandosi anche in un rapporto bilaterale la qualità di Stato
laico della Repubblica italiana.
5. - Per intendere correttamente a qual titolo e con quali
modalità sia conservato l'insegnamento di religione cattolica nelle
scuole dello Stato non universitarie entro un quadro normativo
rispettoso del principio supremo di laicità, giova esaminare le
proposizioni che compongono il testo del denunciato art. 9, numero 2,
della legge n. 121 del 1985.
Nella prima proposizione ("La Repubblica italiana, riconoscendo il
valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del
cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano,
continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola,
l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non
universitarie di ogni ordine e grado") sono individuabili quattro
dati significativi: 1) il riconoscimento del valore della cultura
religiosa; 2) la considerazione dei principi del cattolicesimo come
parte del patrimonio storico del popolo italiano; 3) la continuità
di impegno dello Stato italiano nell'assicurare, come precedentemente
all'Accordo, l'insegnamento di religione nelle scuole non
universitarie; 4) l'inserimento di tale insegnamento nel quadro delle
finalità della scuola.
I dati sub 1), 2) e 4) rappresentano una novità coerente con la
forma di Stato laico della Repubblica italiana.
Con l'art. 36 del Concordato del 1929 ("L'Italia considera
fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica l'insegnamento
della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione
cattolica. E perciò consente che l'insegnamento religioso ora
impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore
sviluppo nelle scuole medie, secondo programmi da stabilirsi
d'accordo tra la Santa Sede e lo Stato") lo Stato definiva
l'insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma della
tradizione cattolica, "fondamento e coronamento dell'istruzione
pubblica". La formula "fondamento e coronamento" era apparsa nel
regio decreto 1° ottobre 1923, n. 2185, all'art. 3, ed era limitata
alla istruzione elementare. Dopo il complesso dibattito dell'età
giolittiana e del primo dopoguerra, si ripristinava l'insegnamento
obbligatorio di religione cattolica nelle scuole elementari, con
quella formula dettata dal Ministro della pubblica istruzione
Giovanni Gentile, che intendeva la religione fase preparatoria
dell'educazione, philosophia minor della mente infantile, destinata
ad essere superata nella maturazione successiva. La formula sarà
ripetuta, in identico contesto, dall'art. 25 del regio decreto 22
gennaio 1925, n. 432 e dall'art. 27 del regio decreto 5 febbraio
1928, n. 577.
6. - Nella vicenda dello Stato risorgimentale, la legge Casati del
1859, stabilì l'insegnamento obbligatorio di religione cattolica nei
ginnasi e licei (art. 193), negli istituti di istruzione tecnica
(art. 278), nelle scuole elementari (artt. 315, 325); fino alle
minuziose disposizioni degli artt. 66, 67, 68 e 183 del regio decreto
24 giugno 1860, n. 4151 (Regolamento per le scuole normali e
magistrali degli aspiranti maestri e delle aspiranti maestre).
Significativa l'endiadi "La religione e la morale" con cui era
indicata la prima delle nove materie di insegnamento nelle scuole
normali governative elencate nell'art. 1 del regio decreto 9 novembre
1861, n. 315 (Regolamento per le scuole normali e magistrali e per
gli esami di patente dei maestri e delle maestre delle scuole
primarie), così come ancora la collocazione al primo posto di
"catechismo e storia sacra" tra le materie obbligatorie per gli esami
sia scritti sia orali, nell'art. 22 dello stesso Regolamento.
Con legge 23 giugno 1877, n. 3918 (Legge che modifica
l'ordinamento dei licei, dei ginnasi e delle scuole tecniche),
l'ufficio di direttore spirituale in dette scuole è abolito (art.
1); la legge 15 luglio 1877, n. 3961 (Legge sull'obbligo
dell'istruzione elementare), introduce nel corso elementare inferiore
"le prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino", materia
estesa dieci anni dopo ai due gradi dell'insegnamento elementare
dall'art. 1 del regio decreto 16 febbraio 1888, n. 5292 (Regolamento
unico per l'istruzione elementare), che all'art. 2 stabilisce, in
sintomatica correlazione con il disposto dell'art. 1, che
l'insegnamento religioso, fin allora obbligatorio, sarà fatto
impartire solo "a quegli alunni, i cui genitori lo domandino".
Codesto sistema, della religione a domanda dei genitori, sarà
confermato nei due regolamenti generali per l'istruzione elementare
del 1895 (art. 3 del regio decreto 9 ottobre 1895, n. 623) e del 1908
(art. 3 del regio decreto 6 febbraio 1908, n. 150). Quest'ultima
norma, al secondo comma, prevedeva finanche l'insegnamento religioso
"a cura dei padri di famiglia che lo hanno richiesto", quando la
maggioranza dei consiglieri comunali non credesse di ordinarlo a
carico del Comune.
7. - Esaurito il ciclo storico, prima, della strumentale
utilizzazione della religione come sostegno alla morale comune, poi
della opposizione positivistica tra religione e scienza, quindi della
eticità dello Stato totalitario, allontanati gli ultimi relitti
della contesa risorgimentale tra Monarchia e Papato, la Repubblica
può, proprio per la sua forma di Stato laico, fare impartire
l'insegnamento di religione cattolica in base a due ordini di
valutazioni: a) il valore formativo della cultura religiosa, sotto
cui s'inscrive non più una religione, ma il pluralismo religioso
della società civile; b) l'acquisizione dei principi del
cattolicesimo al "patrimonio storico del popolo italiano".
Il genus ("valore della cultura religiosa") e la species
("principi del cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo
italiano") concorrono a descrivere l'attitudine laica dello
Stato-comunità, che risponde non a postulati ideologizzati ed
astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona
o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un
particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della
coscienza civile e religiosa dei cittadini.
L'insegnamento della religione cattolica sarà impartito, dice
l'art. 9, "nel quadro delle finalità della scuola", vale a dire con
modalità compatibili con le altre discipline scolastiche.
8. - La seconda proposizione dell'art. 9, numero 2, della legge n.
121 del 1985 ("Nel rispetto della libertà di coscienza e della
responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il
diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto
insegnamento") è di gran lunga la più rilevante dal punto di vista
costituzionale.
Vi si richiama, in tema di insegnamento della religione cattolica,
il rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità
educativa dei genitori, che trovano tutela nella Costituzione della
Repubblica rispettivamente agli artt. 19 e 30.
Ma dinanzi ad un insegnamento di una religione positiva impartito
"in conformità alla dottrina della Chiesa", secondo il disposto del
punto 5, lettera a), del Protocollo addizionale, lo Stato laico ha il
dovere di salvaguardare che non ne risultino limitate la libertà di
cui all'art. 19 della Costituzione e la responsabilità educativa dei
genitori di cui all'art. 30.
Torna qui la logica strumentale propria dello Stato-comunità che
accoglie e garantisce l'autodeterminazione dei cittadini, mediante il
riconoscimento di un diritto soggettivo di scelta se avvalersi o non
avvalersi del predisposto insegnamento della religione cattolica.
Tale diritto ha come titolari i genitori e, per le scuole
secondarie superiori, direttamente gli studenti, in base all'art. 1,
punto 1, della legge 18 giugno 1986, n. 281 (Capacità di scelte
scolastiche e di iscrizione nelle scuole secondarie superiori).
Siffatta figura di diritto soggettivo non ha precedenti in
materia.
Nella legge Casati del 1859, all'art. 222, per i ginnasi e i licei
era prevista la dispensa "dal frequentare l'insegnamento religioso e
dall'intervenire agli esercizi che vi si riferiscono" per gli alunni
acattolici o per quelli "il cui padre, o chi ne fa legalmente le
veci, avrà dichiarato di provvedere privatamente all'istruzione
religiosa dei medesimi".
L'art. 374 della stessa legge riconosceva la dispensa per gli
allievi delle scuole pubbliche elementari "i cui parenti avranno
dichiarato di prendere essi stessi cura della loro istruzione
religiosa".
Nel 1865, con il regio decreto n. 2498 del 1° settembre
(Regolamento per le scuole mezzane e secondarie del Regno), all'art.
61 si disponeva: "Gli alunni debbono assistere alle funzioni
religiose, se non hanno ottenuta regolare dispensa dal Preside o
Direttore, sopra domanda per iscritto del padre dell'alunno o di chi
legalmente lo rappresenta".
Dal 1888, con regio decreto 16 febbraio n. 5292 (Regolamento unico
per l'istruzione elementare), l'insegnamento di religione diveniva
non più obbligatorio, ma istituibile dai Comuni solo su richiesta
dei genitori. Nella restaurazione dell'insegnamento di religione
nelle scuole elementari del 1923, ricompariva, all'art. 3 del regio
decreto 1° ottobre n. 2185, la esenzione per i fanciulli "i cui
genitori dichiarano di volervi provvedere personalmente".
L'art. 112 del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione
del regolamento generale sui servizi dell'istruzione elementare),
aggiungeva l'ulteriore onere, per i genitori che chiedevano la
dispensa così motivata, di indicare in che modo avrebbero provveduto
alla istruzione privata di religione.
Il meccanismo della dispensa perdeva in seguito l'onere della
motivazione, estendendosi il regime predisposto per i culti ammessi a
tutti gli studenti. L'art. 6 della legge 24 giugno 1929, n. 1159
(Disposizioni sull'esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul
matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi),
stabiliva: "I genitori o chi ne fa le veci possono chiedere la
dispensa per i proprii figli dal frequentare i corsi di istruzione
religiosa nelle scuole pubbliche". (cfr. anche l'art. 23 del regio
decreto 28 febbraio 1930, n. 289 (Norme per l'attuazione della legge
24 giugno 1929, n. 1159, sui culti ammessi nello Stato e per il
coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato)).
La legge 5 giugno 1930, n. 824 (Insegnamento religioso negli
istituti medi d'istruzione classica, scientifica, magistrale, tecnica
ed artistica), all'art. 2 disponeva, infine: "Sono dispensati
dall'obbligo di frequentare l'insegnamento religioso gli alunni, i
cui genitori, o chi ne fa le veci, ne facciano richiesta per iscritto
al capo dell'istituto all'inizio dell'anno scolastico".
È palese il passaggio da motivazioni proprie dell'età liberale
(essere la religione affare privato e l'istruzione religiosa compito
elettivamente paterno) a quelle dello Stato etico (essere la
religione un connotato dell'identità nazionale da farsi maturare
nella scuola di Stato).
Solo con l'Accordo del 18 febbraio 1984 emerge un carattere
peculiare dell'insegnamento di una religione positiva: il potere
suscitare, dinanzi a proposte di sostanziale adesione ad una
dottrina, problemi di coscienza personale e di educazione familiare,
per evitare i quali lo Stato laico chiede agli interessati un atto di
libera scelta.
Con la terza proposizione dell'art. 9, numero 2, dell'Accordo
("All'atto dell'iscrizione gli studenti o i loro genitori
eserciteranno tale diritto, su richiesta dell'autorità scolastica,
senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di
discriminazione") il principio di laicità è in ogni sua
implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la scelta
non dia luogo a forma alcuna di discriminazione.
Il punto 5, numero 2, del Protocollo addizionale, non contiene
disposizione immediata pertinente alla questione di causa e pertanto
la fonte della doglianza non è rinvenibile nella normativa
impugnata.
9. - La previsione come obbligatoria di altra materia per i non
avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro danno, perché
proposta in luogo dell'insegnamento di religione cattolica, quasi
corresse tra l'una e l'altro lo schema logico dell'obbligazione
alternativa, quando dinanzi all'insegnamento di religione cattolica
si è chiamati ad esercitare un diritto di libertà costituzionale
non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di coscienza, ad
opzione tra equivalenti discipline scolastiche.
Lo Stato è obbligato, in forza dell'Accordo con la Santa Sede, ad
assicurare l'insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e
per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l'esercizio del
diritto di avvalersene crea l'obbligo scolastico di frequentarlo.
Per quanti decidano di non avvalersene l'alternativa è uno stato
di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento
obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella
interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al
suo unico oggetto: l'esercizio della libertà costituzionale di
religione.