Ritenuto in fatto:
1. - Chiamata a pronunciarsi sull'estradizione del cittadino
francese Cuillier Guy Georges, imputato di un reato commesso in
Francia per cui l'ordinamento dello Stato richiedente prevede la pena
capitale, la sezione istruttoria della Corte d'appello di Trieste - con
ordinanza del 17 febbraio 1977 - ha sollevato questione di
legittimità costituzionale del r.d. 30 giugno 1870, n. 5726. Secondo
l'ordinanza di rinvio tale decreto, nella parte in cui rende esecutivi
gli artt. 1, 2 e 7 della relativa convenzione italo-francese, anche
quando consentono l'estradizione per reati puniti con la morte,
contrasterebbe con gli artt. 3, 10, primo comma, e 27 della
Costituzione.
Il giudice a quo premette che l'Italia e la Francia hanno
sottoscritto la convenzione europea di estradizione; ed aggiunge che
in quell'occasione il rappresentante italiano ha formulato un'espressa
riserva (poi ribadita all'atto del deposito dello strumento di
ratifica, operato sulla base della legge 30 gennaio 1963, n. 300), nel
senso che in nessun caso il nostro Stato avrebbe accordato
l'estradizione per reati puniti dalla legge dello Stato richiedente con
la pena di morte. Mancando però la ratifica dello Stato francese, nei
confronti di esso sarebbe tuttora in vigore la convenzione bilaterale
del 1870.
Nella parte in questione, tuttavia, il decreto esecutivo della
convenzione stessa sarebbe anzitutto incompatibile con l'art. 27,
quarto comma, Cost.: dal momento che non potrebbe porsi in dubbio "la
volontà del legislatore costituente non solo di vietare la pena di
morte in Italia, ma altresì di non consentire che organi dello Stato
italiano" concorrano "ad un'eventuale condanna capitale all'estero
attraverso l'estradizione".
D'altro canto il principio di eguaglianza, sia pure in forme
diverse ed attenuate, dovrebbe essere esteso anche ai non-cittadini,
quanto ai diritti ed alle libertà fondamentali: il che confermerebbe
- in particolar modo - che l'abolizione della pena di morte vada
concepita "come principio di validità universale", almeno per ciò che
riguarda le decisioni imputabili allo Stato italiano.
Inoltre la convenzione europea sull'estradizione, essendo stata
ratificata dalla maggior parte degli Stati d'Europa (ed essendo aperta
all'adesione di tutti gli altri Stati) conterrebbe principi ormai
generalmente riconosciuti nel diritto internazionale; sicché il r.d.
n. 5726 del 1870, contrastando con l'art. 11 della convenzione (sulle
condizioni cui l'estradizione può esser sottoposta per i reati puniti
con la pena capitale da parte del solo Stato richiedente), verrebbe a
contraddire lo stesso art. 10, primo comma, della Costituzione.
2. - Nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituito
l'imputato estradando, per sostenere l'illegittimità dell'atto
impugnato, con motivazioni analoghe a quelle del giudice a quo.
Per contro, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, concludendo per l'infondatezza della questione sollevata.
Secondo l'Avvocatura dello Stato, il giudice a quo non avrebbe
considerato che il problema è risolto in partenza, proprio in vista
dell'avvenuta codificazione del principio di diritto internazionale
consuetudinario, per cui l'estradizione può esser rifiutata ogni
qualvolta lo Stato richiedente non si impegni a non eseguire - in caso
di condanna - la pena capitale non prevista dallo Stato richiesto: la
consuetudine recepita dalla convenzione europea di estradizione
avrebbe infatti operato l'automatico adattamento dell'originario atto
di ratifica della convenzione italo-francese del 1870, rendendolo
conforme al vigente ordinamento costituzionale.
3. - La stessa questione già sollevata dalla sezione istruttoria
della Corte d'appello di Trieste è stata, per altro, riproposta dalla
sezione istruttoria della Corte d'appello di Torino - con ordinanza
del 6 luglio 1977 - nel procedimento di estradizione del cittadino
francese Ciamborrani Paul Antoine. La ordinanza stessa riproduce
sinteticamente le medesime argomentazioni svolte dal primo giudice a
quo, con riferimento ai medesimi articoli della Costituzione. Anche
per questo giudizio è intervenuto, concludendo nel senso
dell'infondatezza, il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.
4. - Da ultimo, il r.d. 30 giugno 1870, n. 5726, è stato impugnato
dalla sezione istruttoria della Corte d'appello di Genova - con
ordinanza del 16 gennaio 1978 - nel corso del procedimento di
estradizione del cittadino francese Vallon Daniel, imputato in Francia
di un reato passibile della pena di morte. In questo caso, però, la
questione è stata sollevata con riferimento al solo art. 27, ultimo
comma, della Costituzione.
È intervenuto qui pure il Presidente del Consiglio dei ministri,
riproponendo le medesime tesi già sostenute nei due precedenti
giudizi.
5. - Con memoria depositata il 19 aprile 1979, la Presidenza del
Consiglio dei ministri ha però comunicato che, a seguito d'intesa con
le autorità francesi, si è provveduto alla formulazione del testo di
una nuova convenzione sull'estradizione fra l'Italia e la Francia,
attualmente all'esame dei rispettivi governi "per la definitiva
sottoscrizione". In particolare, nell'art. 11 del testo in questione
si consente il rifiuto della estradizione quando "il reato sia punito
con la pena di morte soltanto da parte di uno degli Stati contraenti";
ma in tale ipotesi lo Stato richiesto "è tenuto a sottoporre il caso
alla propria autorità giudiziaria per l'esercizio penale".
Si aggiunge nella memoria che il Governo italiano, con nota del 13
gennaio 1978, ha comunicato al Governo francese che l'art. 11 del
progetto di convenzione "può trovare immediata applicazione". Da ciò
si evincerebbe in modo inequivocabile la volontà di non estradare
imputati suscettibili di condanna capitale da parte della Francia.
Ferma restando la tesi dell'infondatezza della questione sollevata,
l'Avvocatura dello Stato suggerisce pertanto - in via subordinata - il
rinvio degli atti ai giudici a quibus perché riconsiderino la
rilevanza della questione stessa.
Considerato in diritto:
1. - I tre giudizi si prestano ad essere riuniti e decisi con unica
sentenza, poiché comportano tutti che si risolva la questione di
legittimità costituzionale del r.d. 30 giugno 1870, n. 5726,
sull'estradizione fra l'Italia e la Francia, nella parte in cui
consente che vengano estradate persone imputate di reati sanzionati
dall'ordinamento dello Stato richiedente con la pena edittale della
morte.
2. - Nelle ordinanze di rinvio si ritiene sottinteso, pur senza
offrirne la dimostrazione, che l'atto con il quale è stata data
"piena ed intiera esecuzione... alla Convenzione per la reciproca
estradizione dei malfattori tra l'Italia e la Francia, sottoscritta a
Parigi il 12 maggio 1870", sia sindacabile da questa Corte, in quanto
dotato della forza e del valore propri delle leggi.
A prima vista, l'implicita premessa delle argomentazioni svolte dai
giudici a quibus parrebbe smentita dalla circostanza che si tratti di
un regio decreto, cioè di una fonte che durante la vigenza dello
Statuto albertino veniva utilizzata - in linea di massima - per
l'esercizio di potestà regolamentari e non di potestà legislative.
Ma l'ostacolo formale dev'esser superato, in vista della prassi che
allora si seguiva nell'adeguamento del diritto interno alle convenzioni
sull'estradizione, della funzione assolta dalle convenzioni stesse e
dai rispettivi ordini di esecuzione, del rango riconosciuto a tali
fonti da parte delle disposizioni generali che erano e sono dettate dai
codici penali e di procedura penale per regolare l'estradizione
passiva.
In effetti, non solo nei primi decenni del Regno d'Italia, nel
corso dei quali si considerava che quelli pertinenti all'estradizione
fossero affari amministrativi (in quanto riservati alle deliberazioni
del Governo), ma anche in seguito all'entrata in vigore del codice
penale del 1889 (che introdusse in tal campo la garanzia
giurisdizionale), numerose convenzioni hanno ricevuto esecuzione nel
nostro ordinamento per mezzo di regi decreti, anziché nella forma
della legge. Ciò è costantemente avvenuto fino a quando la legge 11
agosto 1897, n. 379, ha reso operante la convenzione fra l'Italia e
San Marino; ed ha continuato a verificarsi in vari casi (come risulta
- ad esempio - dal r.d. 13 dicembre 1923, n. 3181, sull'estradizione
fra l'Italia e l'Austria, o dal r.d. 19 luglio 1924, n. 1559,
relativo alla Cecoslovacchia), allorché in dottrina si era già
diffusa l'opinione che i trattati dovessero eseguirsi mediante leggi
formali, ogni qualvolta richiedessero un adattamento consistente
nell'emanazione, nell'abrogazione o nella modificazione di norme
legislative.
Ora, poco importa fissare in questa sede la ricostruzione dogmatica
di tali fenomeni: verificando se i decreti esecutivi di convenzioni
sull'estradizione trovassero diretto fondamento nell'art. 5 dello
Statuto albertino, al quale fa esplicito riferimento anche l'atto di
cui presentemente si discute; oppure se tali decreti non intendessero
effettuare altro che la promulgazione o la pubblicazione di convenzioni
aventi per se stesse forza e valore di legge, come si tendeva a
ritenere nel secolo scorso. È significativo, in ogni caso, che sin
d'allora le norme pattizie sull'estradizione incidessero in una
materia altrimenti regolata da norme interne di rango legislativo:
rispetto alle quali i corrispondenti decreti esecutivi non potevano,
dunque, non porsi come fonti equiparate alle leggi formali, a pena di
vedersi privati di qualunque effetto. Ed ancora più probante è il
dato - sottolineato dalla dottrina dell'epoca - che l'art. 6 del
codice penale del 1889 e l'art. 635 del codice di procedura penale del
1913 (specificando il disposto dell'art. 855 del codice di procedura
penale del 1865) rinviassero esplicitamente, al pari dell'art. 13 del
codice penale oggi in vigore, ai trattati di estradizione:
considerandoli atti a derogare al comune ordinamento legislativo,
senza affatto distinguere secondo che l'ordine di esecuzione dei
trattati stessi fosse contenuto in leggi formali oppure in regi
decreti.
3. - L'ammissibilità delle questioni sollevate dai giudici a
quibus è stata però messa variamente in dubbio, sotto altri profili,
nell'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e
nella successiva memoria dell'Avvocatura dello Stato.
In primo luogo, si assume che l'art. 11 della convenzione europea,
prevedendo che l'estradizione possa essere negata quando si tratti di
reati puniti con la pena capitale dall'ordinamento dello Stato
richiedente e questo non offra allo Stato richiesto adeguate garanzie
che la pena medesima non verrà eseguita, avrebbe semplicemente
recepito e codificato una preesistente consuetudine internazionale:
cui l'atto esecutivo della convenzione italo-francese del 1870 si
sarebbe conformato, in forza del dispositivo di adattamento automatico
alle "norme del diritto internazionale generalmente riconosciute",
stabilito dal primo comma dell'art. 10 Cost. Da questo assunto
deriverebbe non tanto l'infondatezza delle questioni in esame, come è
stato sostenuto dall'Avvocatura dello Stato; bensì, prima ancora, ne
discenderebbe appunto che tali questioni si sottraggono al giudizio
della Corte, in quanto concernenti norme caducate - ad un tempo -
nell'ordinamento internazionale come nell'ordinamento interno.
Ma la tesi non regge, poiché non risulta - e non ha ricevuto
dimostrazioni di sorta da parte dell'Avvocatura dello Stato - che la
clausola contenuta nell'art. 11 della convenzione europea corrisponda
ad una norma internazionale generalmente riconosciuta: né cogente per
tutti gli Stati richiedenti o richiesti, né facoltizzante per i soli
Stati che abbiano abolito la pena di morte. In contrasto con siffatte
concezioni universalistiche dell'estradizione, sta invece una realtà
rappresentata da convinzioni e da comportamenti diversi secondo i
singoli Stati interessati. Del resto, lo stesso Stato italiano ha
concorso a smentire quelle concezioni, dal momento che ha invece
sentito - anche e soprattutto negli anni più recenti (art. 17 della
convenzione Italia-Libano del 10 luglio 1970; art. 31 della convenzione
Italia-Marocco del 12 febbraio 1971; art. 35 della convenzione Italia-Romania dell'11 novembre 1972; art. 8 della convenzione Italia-U.S.A.
del 18 gennaio 1973; art. 30 della convenzione Italia-Spagna del 22
maggio 1973; art. 3 della convenzione Italia-Australia del 28 novembre
1973) - l'esigenza di concludere appositi accordi bilaterali con gli
Stati nei quali si commina la pena capitale, per poterne ottenere l'uno
o l'altro tipo di garanzie preventive a vantaggio degli imputati o dei
condannati estradandi.
4. - In secondo luogo, l'Avvocatura dello Stato ha prospettato
l'ipotesi che i giudici a quibus debbano considerare nuovamente la
rilevanza delle questioni sollevate, dato l'atteggiamento tenuto dalla
delegazione italiana nei confronti di quella francese - con una nota
datata 13 gennaio 1978 - al termine della stesura di un nuovo
progetto di convenzione, destinato a sostituire il precedente accordo.
In quell'occasione, da parte italiana s'è infatti comunicato ai
rappresentanti della Francia che le competenti autorità del nostro
Stato potrebbero applicare fin d'ora l'art. 11 del progetto stesso,
esercitando senz'altro l'azione penale contro coloro la cui
estradizione sia stata negata, in quanto imputati o condannati per
delitti puniti con la morte dall'ordinamento dello Stato richiedente;
sicché ne verrebbe confermato che il nostro Governo ritiene ormai
superata, sotto questi aspetti, la convenzione italo- francese del
1870.
Sta di fatto, però, che la delegazione francese ha replicato di
non poter ammettere l'applicazione provvisoria del progetto di accordo
sull'estradizione, senza il preventivo compimento delle procedure
costituzionalmente necessarie. Ciò che più conta, al di là delle
comunicazioni intercorse fra i rappresentanti dello Stato italiano e
dello Stato francese, nessuna modificazione si è prodotta
nell'ordinamento interno, per cui l'originaria rilevanza delle
questioni proposte dai giudici a quibus sia venuta meno.
Al contrario, la tesi che il regio decreto 30 giugno 1870, n. 5726,
non possa più ricevere applicazione, nella parte in cui consente
l'estradizione per delitti che l'ordinamento dello Stato richiedente
sanzioni con la pena di morte, collide con una recentissima
giurisprudenza della Corte di cassazione: la quale ha più volte
affermato che l'estradizione dev'essere concessa nelle stesse ipotesi
in esame, in quanto tuttora regolate dalla convenzione italo- francese
del secolo scorso.
D'altronde, anche ad ammettere che fin dall'entrata in vigore della
Costituzione repubblicana fosse intervenuta l'abrogazione dell'atto
impugnato, sotto i profili denunciati dalle ordinanze di rinvio, ciò
non varrebbe a precludere il sindacato spettante a questa Corte. A
partire dalla sentenza n. 1 del 1956, la Corte ha costantemente
ritenuto - infatti - la propria competenza a giudicare sulla
compatibilità fra la Costituzione e le leggi anteriori, astraendo
dagli eventuali effetti abrogativi che i giudici a quibus non abbiano
autonomamente accertato.
5. - Nel merito, è vero che la condizione giuridica dello
straniero - secondo il capoverso dell'art. 10 Cost. - "è regolata
dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali";
ma ciò non significa che si debba presumere la legittimità
costituzionale di tutte le leggi ordinarie emanate in esecuzione dei
trattati stessi. Né la prevalenza della Costituzione può essere
affermata limitatamente a quei soli disposti che si riferiscono
esplicitamente agli stranieri in genere ed all'estradizione in specie:
come nel caso dell'art. 26, secondo comma, Cost., che esclude
l'estradizione "per reati politici". Anche in questo campo invece,
qualora non vengano in considerazione "norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute", s'impone la comune esigenza di verificare
la conformità delle leggi e delle fonti equiparate rispetto ad ogni
norma o principio costituzionale: con particolare riguardo agli atti
esecutivi di accordi sull'estradizione così remoti nel tempo, da far
supporre che la fondamentale corrispondenza delle concezioni punitive,
già proprie degli ordinamenti dello Stato richiedente e dello Stato
richiesto, sia stata in qualche punto compromessa con l'entrata in
vigore della nuova Costituzione.
Effettivamente, poteva esser logico che la convenzione
italo-francese del 1870 non contenesse nessuna riserva relativa alla
pena capitale, allorché questo tipo di sanzione era previsto dalle
legislazioni penali di entrambi gli Stati contraenti; mentre
l'equiparazione dei delitti sanzionati con la morte a tutti gli altri
reati per i quali si ammette l'estradizione non è più legittima allo
stato attuale del nostro ordinamento, da quando l'abolizione della pena
capitale è stata riaffermata nell'art. 27, quarto comma, della
Costituzione.
Malgrado l'evidente divario che separa il caso dei soggetti
punibili in Italia da quello dei soggetti per i quali sia stata
richiesta l'estradizione, non può consentirsi che in tema di beni e
di valori fondamentali per l'ordinamento interno le autorità italiane
attuino discriminazioni, sia pure cooperando con le autorità dello
Stato richiedente. Per conseguenza, deve considerarsi lesivo della
Costituzione che lo Stato italiano concorra all'esecuzione di pene che
in nessuna ipotesi, e per nessun tipo di reati, potrebbero essere
inflitte in Italia nel tempo di pace, se non sulla base di una
revisione costituzionale.
Non va trascurato, in questo senso, che la "garanzia
giurisdizionale" derivante dall'art. 662 cod. proc. pen. implica la
"previa deliberazione favorevole" della sezione istruttoria presso la
competente Corte d'appello: deliberazione favorevole che non rende
"obbligatoria l'estradizione", in base al terzo comma dell'articolo
stesso; ma indipendentemente dalla quale non sono esercitabili i
poteri ministeriali di concessione del soggetto estradando. Ai fini di
tale deliberazione occorre accertare - in particolar modo - la
compatibilità dell'estradizione con i principi cui s'informano,
secondo Costituzione, reato e pena nell'ordinamento interno.
E questo aspetto essenziale della garanzia rimarrebbe svuotato, se
i giudici italiani potessero vedersi legittimamente obbligati - data
la generica formulazione dell'accordo italo-francese del 1870 - a
decidere che vengano estradati soggetti passibili della pena capitale,
in quanto condannati od imputati all'estero.
6. - Resta poi fermo che la disposizione dell'art. 27, quarto
comma, non dev'essere isolatamente concepita, ma va interpretata ed
applicata alla luce della complessiva disciplina costituzionale,
collegandola principalmente a quella indispensabile eguaglianza di
tutti i soggetti davanti alla legge, che le sezioni istruttorie delle
Corti d'appello di Trieste e di Torino hanno invocato mediante il
richiamo all'art. 3 Cost. Il testuale riferimento dell'art. 3, primo
comma, ai soli cittadini non esclude, in effetti, che l'eguaglianza
davanti alla legge sia garantita agli stessi stranieri, là dove si
tratti di assicurare la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo (come
questa Corte ha precisato, nelle sentenze n. 120 del 1967, n. 104 del
1969 e n. 144 del 1970); e tale è appunto il diritto alla vita,
specificamente protetto - in sede penale - dall'art. 27, quarto
comma. Entro questi limiti, valgono anche nel caso in esame gli
assunti della sentenza n. 25 del 1966, con cui la Corte ha definito
l'eguaglianza come un "principio generale che condiziona tutto
l'ordinamento nella sua obiettiva struttura": ossia come un divieto
"che la legge ponga in essere una disciplina che direttamente o
indirettamente dia vita ad una non giustificata disparità di
trattamento delle situazioni giuridiche, indipendentemente dalla
natura e dalla qualificazione dei soggetti ai quali queste vengano
imputate".
Ciò è tanto più vero, in quanto un'essenziale parità di
trattamento dev'esser mantenuta negli stessi rapporti fra stranieri e
stranieri, quand'anche appartenenti a Stati diversi. Sotto
quest'ultimo profilo, assumono una determinante importanza la ratifica
della convenzione europea di estradizione (autorizzata dalla legge 30
gennaio 1963, n. 300) e la contestuale riserva con cui l'Italia ha
manifestato la volontà di non concedere l'estradizione per delitti
puniti con la morte dall'ordinamento dello Stato richiedente. Mediante
quegli atti, lo Stato italiano ha assunto un impegno che
indirettamente garantisce i cittadini degli stessi Stati i quali non
abbiano ratificato la convenzione europea; giacché non troverebbero
una giustificazione di ordine costituzionale comportamenti diversi
delle nostre autorità, che in tal campo assoggettassero ad opposti
trattamenti gli uni rispetto agli altri soggetti interessati, secondo
le varie relazioni internazionali esistenti fra l'Italia e i rispettivi
Stati di provenienza.
Un tale impegno è stato d'altra parte rafforzato, per effetto
delle ricordate convenzioni bilaterali sull'estradizione, recentemente
concluse fra l'Italia ed altri Stati nei quali si prevede la pena
capitale. Sia pure in forme diverse - ora disponendo che l'estradizione
sia concessa per gli stessi reati puniti con la morte, sempre che lo
Stato richiedente offra "garanzie ritenute sufficienti", ora
affermando senz'altro che la pena in questione "non verrà applicata",
ora giungendo a stabilire che la pena medesima "sarà sostituita" da
quella prevista in suo luogo nell'ordinamento del Paese richiesto -
tutte queste convenzioni confermano l'esigenza che corrispondenti
garanzie vengano prestabilite ed offerte in ogni caso, per non ledere
l'eguaglianza fra i soggetti estradandi di qualunque condizione.
Non prevedendo in tal senso garanzie di sorta, che le autorità
giudiziarie e politiche del nostro ordinamento siano specificamente
vincolate ad applicare od esigere, il regio decreto che ha dato
esecuzione alla convenzione italo-francese del 1870 viola pertanto gli
artt. 3, primo comma, e 27, quarto comma, della Costituzione.
7. - Fino a quando non sarà stato concluso con la Francia il
nuovo accordo sull'estradizione, vale però il generale rimedio
predisposto dall'art. 10, secondo comma, n. 3, del codice penale, in
adempimento degli obblighi alternativi che tradizionalmente si suole
ritenere gravanti sugli Stati: o consegnare o punire. A richiesta del
Ministro della giustizia, sono infatti puniti "secondo la legge
italiana" i colpevoli di delitti commessi in territorio estero,
sanzionati con almeno tre anni di reclusione, allorché l'estradizione
non sia stata o non possa esser concessa.