Ritenuto in fatto:
1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di esponenti
sindacali e politici, imputati del reato previsto e punito dagli artt.
503 e 511 del codice penale, il pretore di Monfalcone ha sollevato
d'ufficio, con ordinanza del 31 marzo 1972, la questione di
legittimità costituzionale del precitato art. 503 del codice penale,
in riferimento agli artt. 3 e 40 della Costituzione.
Vale precisare che gli esponenti politici e sindacali erano stati
incriminati per avere indetto e organizzato uno sciopero di protesta
per i fatti di Catanzaro del febbraio 1972 e in particolare contro "il
revanscismo fascista diretto ad annullare le conquiste dei lavoratori e
a bloccare le ulteriori avanzate popolari sulla via del progresso e
delle riforme civili; per la difesa e la integrale applicazione della
Costituzione; nonché per dare pubblica testimonianza di attaccamento
ai valori della resistenza e della democrazia contro ogni ritorno a
metodi e ideali che la storia e la coscienza civile del popolo italiano
hanno condannato". Tali finalità erano state precisate nei manifesti
di invito a partecipare allo sciopero e fatti affiggere dai promotori.
2. - Nella motivazione dell'ordinanza l'illegittimità
costituzionale della norma impugnata poggia su un duplice ordine di
considerazioni, le une di carattere generale e le altre di carattere
specifico.
3. - In via generale si osserva che appare difficile, se non
impossibile, distinguere tra sciopero per fini economici e sciopero per
fini politici, attesa la stretta connessione esistente tra le due
forme, tanto da doversi considerare sciopero economico anche quello che
sostanzialmente si risolve in una pressione politica nei riguardi dei
pubblici poteri al fine di stimolarli all'accoglimento di determinate
rivendicazioni di categoria o di classe, quali una più adeguata
normativa in materia di sicurezza del lavoro, provvedimenti più
congrui in materia di assistenza del lavoratore e della sua famiglia,
negli ambienti di lavoro, ecc. Il rilievo porterebbe, a parere del
giudice a quo, a dover concludere che, nel presente momento storico
della società italiana, al concetto di sciopero dovrebbe attribuirsi
un significato ed una portata molto più ampi di quella di semplice
astensione dal lavoro per fini contrattuali e tali da abbracciare non
solo il contesto degli articoli che precedono o seguono nello stesso
titolo della Costituzione l'art. 40, ma anche i principi fondamentali
della stessa Costituzione. In sostanza la tutela offerta dall'art. 40
oltre ad includere gli artt. 35, 38, 45, 46 della Costituzione, si
estenderebbe anche all'art. 3 della stessa. Non solo, ma tale articolo
rappresenterebbe addirittura la base di partenza per la interpretazione
dell'art. 40 e di tutte le altre norme ricordate nel titolo che lo
comprende.
In particolare l'ordinanza precisa che tra i fini di tutela
economico-sociale propri del diritto di sciopero, non potrebbero non
essere inclusi anche quelli a contenuto politico, dato che ad ogni
espressione politica corrisponde ineluttabilmente un determinato
indirizzo politico normativo che può tradursi in una condizione o di
progresso o di regresso della classe lavoratrice.
4. - Sulla base delle suesposte considerazioni generali l'ordinanza
rileva che l'art. 503 del codice penale, come quello che, nella sua
attuale formulazione, consentirebbe di colpire e di incriminare
penalmente ogni astensione collettiva dal lavoro che appena appena si
discostasse dalla rivendicazione diretta ed immediata di carattere
contrattuale-patrimoniale, offre il destro a soluzioni autoritarie
nella vasta materia dei delicati conflitti di lavoro. D'altra parte la
mancata regolamentazione del diritto di sciopero non potrebbe
senz'altro legittimare la sopravvivenza dell'art. 503 del codice penale
per il suo diretto ed esclusivo collegamento all'ordinamento
corporativo fascista, ispirato a principi rigidamente repressivi di
ogni forma di sciopero e di tutela unilaterale del lavoro.
Avendo la Costituzione repubblicana ripudiato tale ordinamento
corporativo e i principi autoritari che lo ispiravano, anacronistica,
oltretutto, si prospetterebbe una legittimazione della sopravvivenza
dell'art. 503 e della sua matrice antidemocratica. Spetterà
eventualmente al legislatore, sciogliendo la riserva di legge contenuta
nell'art. 40 della Costituzione, emanare norme di disciplina del
diritto di sciopero adeguate e corrispondenti a quei principi di
modernità, socialità e democrazia sui quali poggia la società
italiana contemporanea, nel quadro e nello spirito della Carta
costituzionale.
5. - Non vi è stata costituzione di parte né atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto:
1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe il pretore di Monfalcone
solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 503 del
codice penale - nella parte in cui punisce lo sciopero per fine
politico - , in riferimento agli artt. 3 e 40 della Costituzione.
Il primo motivo di illegittimità costituzionale poggia sulla
considerazione che la prevista sanzione penale per lo sciopero per fini
non contrattuali violerebbe l'art. 3 della Costituzione nella parte in
cui questo riconosce esplicitamente il diritto dei cittadini e in
particolare dei lavoratori a che la Repubblica rimuova "gli ostacoli di
ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l'eguaglianza... impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione
politica, economica e sociale del paese", disposizione ricollegabile
alla successiva norma dell'art. 40 della Costituzione, come quella
nella quale gli interessi di ordine economico e sociale dei lavoratori
sono particolarmente tutelati.
Al secondo motivo, partendo dal presupposto "essere difficile, se
non impossibile", operare una netta distinzione tra sciopero politico e
sciopero per fine economico, stante la loro stretta connessione, si
attribuisce all'art. 40 della Costituzione una portata che va al di là
della semplice astensione dal lavoro per scopi meramente retributivi
fino ad assorbire oltre agli articoli contemplati nel titolo terzo
della prima parte della Costituzione anche alcuni aspetti dei principi
fondamentali.
La questione è fondata nei limiti che saranno qui di seguito
specificati.
2. - Nel decidere l'attuale questione di legittimità
costituzionale non si può prescindere dalla premessa che nel codice
penale del 1930 - in piena coerenza con i principi propri dello stato
fascista e corporativo, quali già risultavano dalla legge 3 aprile
1926 sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro - il divieto
generale e assoluto dello sciopero, con le conseguenti sanzioni penali
a carico dei lavoratori, ancorché differenziate secondo la diversità
delle finalità di esso, risponde ad un'unica fondamentale ratio di
difesa del sistema politico, e segna, come si esprime drasticamente la
relazione ministeriale (vol. II, p. 289), "un netto trapasso tra due
regimi" e più precisamente "un energico disconoscimento del principio
democratico che, all'opposto, ammette la libertà di coalizione e di
sciopero". Ne deriva che, se il divieto di sciopero a fine
contrattuale può essere correlato al sistema di risoluzione
autoritaria dei conflitti di lavoro, ciò avviene non perché il
sistema stesso sia a fondamento di quel divieto, ma, più esattamente,
perché ne è conseguenza; mentre la punizione dello sciopero, quale
che sia la sua finalità, trova la sua più profonda, più vera
motivazione, nella logica di un assetto costituzionale repressivo di
ogni libertà e in una concezione del rapporto di lavoro non
conciliabile con quella che risulta da vari articoli della
Costituzione.
Né si può prescindere da una seconda, altrettanto non
controvertibile premessa. Infatti la Costituzione repubblicana,
rovesciando i principi di fondo di quella logica, ha dato ampio spazio
alla libertà dei singoli e dei gruppi, riconoscendola e tutelandola
con i soli limiti che risultino strettamente necessari a salvaguardare
altri interessi che concorrano a caratterizzare il nuovo assetto
democratico della società.
3. - Questa duplice premessa trova ampia e sicura verifica nella
constatazione che il codice penale Zanardelli, ispirato ai principi di
libertà, non puniva affatto lo sciopero politico. Ed è altamente
significativo che in ordinamenti di Stati democratici lo scopo politico
dell'astensione collettiva dal lavoro non acquisti, di per sé,
rilevanza penale.
L'art. 503 c.p. appare, perciò, un unicum nella storia della
nostra legislazione e nella comparazione di ordinamenti democratici: il
che conferma la sua matrice storica e politica, connaturata alla
struttura totalitaria del passato regime.
Già queste considerazioni inducono ad escludere che la punibilità
indiscriminata dello sciopero per il solo fatto che esso abbia fine
politico possa sopravvivere alla Costituzione, nella quale lo sciopero
- anche a prescindere dalla sua specifica configurazione come "diritto"
e dai limiti nei quali questa va contenuta - trova il suo primo titolo
di legittimità nei fondamentali principi di libertà che
caratterizzano il nuovo ordinamento, così come nella sentenza n. 29
del 1960 la Corte ebbe ad affermare a proposito della serrata,
ancorché nessuna norma costituzionale espressamente la consideri come
esercizio di un diritto.
Da ciò discende che l'area della illegittimità costituzionale di
norme incriminatrici dello sciopero non necessariamente coincide con
l'area entro la quale esso è protetto dall'art. 40 Cost. come
puntuale, specifico diritto. L'astensione collettiva dal lavoro, se
finalizzata a scopi economici, non può neppure essere assunta a
legittima causa giustificatrice di licenziamento o di altre misure
previste dalla disciplina del rapporto di lavoro (come affermato da
ultimo nella sentenza n. 1 del 1974); ma non ne discende che, se volta
ad altri scopi, essa astensione, pur conservando ogni rilevanza
nell'ambito della disciplina del rapporto di lavoro, debba o quantomeno
possa sempre essere qualificata illecito penale. Lo sciopero, invero,
acquista rilievo costituzionale in una duplice direzione: come
specifico strumento di tutela degli interessi che fanno capo ai
lavoratori, ed in tal caso il suo esercizio non può dar luogo ad
alcuna conseguenza svantaggiosa per coloro che vi partecipino; e come
manifestazione di una libertà che non può essere penalmente compressa
se non a tutela di interessi che abbiano rilievo costituzionale.
Quanto fin qui si è detto rivela di per sé l'illegittimità
costituzionale dell'art. 503 c.p., almeno nella sua attuale e generica
sfera di operatività. Ma ulteriori considerazione valgono a rafforzare
la validità di questa conclusione.
Approfondendo il discorso, una prima osservazione si impone. La
norma penale, nella sua formulazione omnicomprensiva di ogni sciopero
per fini non contrattuali, certamente abbraccia fattispecie nelle quali
l'astensione collettiva dal lavoro è esercizio di un vero e proprio
diritto ai sensi dell'art. 40 Cost. Con ciò si vuol dire che, secondo
la ormai costante e di recente (cfr. sent. n. 1 del 1974) ribadita
giurisprudenza di questa Corte, in quel diritto rientrano sicuramente
gli scioperi proclamati "in funzione di tutte le rivendicazioni
riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori, che trovano
disciplina nelle norme poste sotto il titolo terzo della parte prima
della Costituzione". Vi rientrano, dunque, anche gli scioperi che,
caratterizzati dal fine di tutelare interessi che possono essere
soddisfatti solo da atti di governo o da atti legislativi,
indubbiamente sarebbero "politici" ai sensi dell'art. 503 c.p. orbene,
se per questa parte sicura è l'illegittimità costituzionale della
norma, questo primo risultato illumina con chiarezza l'intera questione
in esame. Ed infatti, se fosse sostenibile la tesi che nel vigente
assetto costituzionale la punibilità dello sciopero in considerazione
del suo fine "politico" possa trovare fondamento nella necessità di
assicurare il rispetto delle competenze costituzionali (quasi che la
non punibilità si risolvesse col' dare ai lavoratori e per essi ai
sindacati attribuzioni costituzionali che ad essi non competono), ed
ulteriore ragion d'essere nell'esigenza di garantire l'eguaglianza dei
cittadini nella determinazione dell'indirizzo politico (i lavoratori
oltre agli strumenti istituzionali messi a disposizione di tutti,
potrebbero servirsi dello sciopero), la conseguenza dovrebbe esser
quella di rendere punibile ogni sciopero diretto a sollecitare i poteri
politici: conseguenza questa fin dal 1962 (cfr. sent. n. 123 di
quell'anno) respinta dalla Corte in base a considerazioni che,
confermate in successive decisioni, vanno qui ribadite. Ed invero
ammettere che lo sciopero possa avere il fine di richiedere
l'emanazione di atti politici non significa affatto incidere sulle
competenze costituzionali rendendone partecipi i sindacati, né
significa dare ai lavoratori una posizione privilegiata rispetto agli
altri cittadini. Significa soltanto ribadire quanto dalla Costituzione
già risulta: esser cioè lo sciopero un mezzo che, necessariamente
valutato nel quadro di tutti gli strumenti di pressione usati dai vari
gruppi sociali, è idoneo a favorire il perseguimento dei fini di cui
al secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.
5. - Dato che sono infondate e, ripetesi, già da tempo respinte le
ragioni assunte a giustificazione della indiscriminata punibilità
dello sciopero, occorre verificare se e in che misura l'art. 503 c.p.
possa essere considerato valido presidio di principi fondamentali della
nostra Costituzione.
È opportuno chiarire che non vengono qui in considerazione quelle
possibili lesioni a beni costituzionalmente protetti che possano
derivare dallo sciopero né la corrispondente esigenza di prevenirle e
punirle. La necessità di una scrupolosa osservanza della libertà di
lavoro di chi non aderisca allo sciopero; di non compromettere servizi
pubblici o funzioni essenziali aventi carattere di preminente interesse
generale costituzionalmente protetto; della rigorosa astensione da ogni
violenza e così via, pone problemi che attengono non già allo scopo
dello sciopero, contrattuale o politico che sia, ma allo sciopero come
tale: problemi che o sono già adeguatamente risolti dalle norme
vigenti ovvero vanno affrontati dal legislatore nell'esercizio del
potere che lo stesso art. 40 Cost. gli conferisce.
Ciò che, in base a quanto già si è detto, qui rileva è la
conclusione che dell'art. 503 c.p. - dettato a tutela del regime
dell'epoca - non può sopravvivere se non quella parte che possa essere
volta a difesa dell'assetto previsto dalla vigente Costituzione. In
questo quadro deve essere considerata legittima la punizione dello
sciopero ove questo sia diretto a sovvertire l'ordinamento
costituzionale, e proprio perché si deve riconoscere che in questo
caso il fine politico si scontra con la stessa Costituzione, la quale
non solo consente, ma impone quelle misure che siano indispensabili a
preservare, contro ogni sovvertimento, i principi fondamentali che la
caratterizzano. Ed altrettanto legittima è la punizione dello sciopero
che, per il suo modo di essere, oltrepassando i limiti di una legittima
forma di pressione, si converta in uno strumento diretto ad impedire od
ostacolare il libero esercizio di quei diritti e poteri nei quali si
esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare: non si
può infatti dubitare che uno sciopero siffatto sarebbe in contrasto
col fondamento stesso dell'attuale assetto costituzionale, che si basa,
appunto, su un funzionamento di tutte le libere istituzioni che, aperto
alla valutazione delle istanze che in varia guisa sono espresse dai
gruppi sociali, non trovi nel suo esercizio impedimenti od ostacoli che
compromettano la sovranità di cui quelle istituzioni sono, ad un
tempo, espressione e garanzia.