Titolo
SENT. 175/71 A. COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA - GERARCHIA TRA LE SUE NORME - INTERPRETAZIONE DELL'ART. 79 (CONCESSIONE DI AMNISTIA E INDULTO) IN RELAZIONE AL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA - LIMITI CONSEGUENTI PER LA DISCREZIONALITA' DEL LEGISLATORE - SINDACATO DA PARTE DELLA CORTE - ESCLUSIONE - AUSPICIO DI UN PIU' CAUTO E MENO FREQUENTE ESERCIZIO DELLA POTESTA' EX ART. 79. AMNISTIA E INDULTO - LEGGE 21 MAGGIO 1970, N. 282, ART. 1, E D.P.R. 22 MAGGIO 1970, N. 283, ART. 1 - NON VIOLANO GLI ARTT. 1, 3, 4, 35, 39 E 42 DELLA COSTITUZIONE - ART. 1 DEL DECRETO - NON VIOLA GLI ARTT. 3, 27 E 79 - ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.
Testo
Poiche' anche tra le norme contenute nella Costituzione (come in ogni corpo di disposizioni concordate in sistema) sussiste una gerarchia, e' prospettabile l'esigenza di interpretare l'art. 79 della Costituzione, che prevede il potere di concessione dell'amnistia e dell'indulto, in modo tale da renderlo compatibile con il supremo principio di eguaglianza e l'armonizzazione dei due precetti si otterrebbe quando all'amnistia si facesse luogo solo in confronto a reati commessi in situazioni eccezionali e limitate nel tempo, ed essa sopravvenisse dopo la loro cessazione (poiche', in tali ipotesi, verrebbe a porsi in contrasto con il detto principio la persecuzione penale di fatti che ormai la coscienza comune ritiene non piu' sanzionabili), mentre al contrario tale contrasto presenterebbero le amnistie c.d. "celebratrici" relative a situazioni sempre aperte nel tempo (rispetto alle quali il trattamento differenziato, derivante dal solo fatto che siano stati compiuti prima o dopo un certo termine, appare del tutto arbitrario ed altresi' lesivo dell'altro principio costituzionale che attribuisce alla pena una funzione rieducativa della personalita' del colpevole). Tuttavia, un'indagine volta a sindacare l'ampiezza dell'uso fatto dal Parlamento della sua discrezionalita' in materia eccederebbe i limiti entro cui deve rimanere racchiuso il sindacato della mera legittimita' della legge assegnato alla competenza della Corte costituzionale, il quale non potrebbe in tal caso effettuarsi se non con il ricorso ad accertamenti assai piu' penetranti di quelli consentiti, da riferire, sia all'entita' dei reati considerati degni di oblio, sia alle valutazioni di opportunita' in ordine alla situazione politica ritenuta tale da consigliare il ricorso all'amnistia, nonche' all'individuazione del momento da cui debba farsi validamente decorrere. Di conseguenza, pur formulando voti per un piu' cauto e meno frequente esercizio della potesta' conferita dall'art. 79 della Costituzione, devono dichiararsi infondate, sia la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5 del decreto presidenziale 22 maggio 1970, n. 283, che prevede la amnistia "generale", in riferimento agli artt. 3, 27 e 39 della Costituzione, sia la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge 21 maggio 1970, n. 282, dell'art. 1 del decreto presidenziale, che prevedono l'amnistia "sindacale", in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 35, 39 e 42 della Costituzione. Cfr.: 171/1963.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
Costituzione
art. 27
Costituzione
art. 39
Costituzione
art. 1
Costituzione
art. 4
Costituzione
art. 35
Costituzione
art. 42
Riferimenti normativi
decreto del Presidente della Repubblica
22/05/1970
n. 283
art. 5
co. 0
decreto del Presidente della Repubblica
22/05/1970
n. 283
art. 1
co. 0
legge
21/05/1970
n. 282
art. 1
co. 0
Titolo
SENT. 175/71 B. GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE - CONCESSIONE DI AMNISTIA - D.P.R. 22 MAGGIO 1970, N. 283, ART. 5, PENULTIMO COMMA - ESCLUSIONE DEL REATO PER CUI SI PROCEDE - DIVERSITA' DI TRATTAMENTO NEI CONFRONTI DI ALTRO REATO PIU' GRAVEMENTE SANZIONATO - RILEVANZA DELLA QUESTIONE - SUSSISTENZA - AMMISSIBILITA'. (COSTITUZIONE, ART. 3, PRIMO COMMA).
Testo
E' ammissibile, sotto il profilo della rilevanza rispetto al giudizio a quo, la questione di legittimita' costituzionale di una norma contenuta in un decreto presidenziale di amnistia la quale escluda dall'ambito di operativita' del provvedimento il reato per cui si procede e che sia proposta in riferimento all'art. 3 della Costituzione in base al confronto con il trattamento usato nei confronti di altro reato piu' gravemente sanzionato (questione concernente l'art. 5, penultimo comma, D.P.R. 22 maggio 1970, n. 283, che esclude dall'amnistia il reato di frode in commercio ma non quello di truffa, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione).
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
co. 1
Riferimenti normativi
decreto del Presidente della Repubblica
22/05/1970
n. 283
art. 5
co. 0
Titolo
SENT. 175/71 C. AMNISTIA E INDULTO - REATI AMMESSI O ESCLUSI DALLA CONCESSIONE - SCELTA DEL CRITERIO DI DISCRIMINAZIONE - RIFERIMENTO ALL'ENTITA' DELLA PENA EDITTALE - NON NECESSARIETA' - D.P.R. 22 MAGGIO 1970, N. 283, ART. 5, PENULTIMO COMMA - AMNISTIA PER IL REATO DI TRUFFA E SUA ESCLUSIONE PER IL REATO MENO GRAVE DI FRODE IN COMMERCIO - VIOLAZIONE DELL'ART. 3, PRIMO COMMA, DELLA COSTITUZIONE - INSUSSISTENZA - ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.
Testo
La scelta del criterio di discriminazione fra reati amnistiabili e non, non e' necessariamente legata all'entita' della pena edittale prevista rispettivamente per gli uni e per gli altri, ma puo' farsi discendere da considerazioni di diverso ordine, come ad esempio la maggior diffusione di alcuni in un certo momento ed il conseguente maggior allarme sociale, tale da sconsigliare per essi l'adozione di un atto di clemenza (una irrazionalita' potrebbe, se mai, prospettarsi, sotto il rispetto messo in rilievo, quando la differente disciplina riguardasse reati lesivi dello stesso bene voluto proteggere, cio' che non si verifica nella specie). Di conseguenza, deve dichiararsi infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5, penultimo comma, del decreto presidenziale 22 maggio 1970, n. 283, nella parte in cui consentono l'amnistia per il reato di truffa e l'escludono invece per quello meno grave di frode in commercio (quando non ricorra l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, codice penale), in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
co. 1
Riferimenti normativi
decreto del Presidente della Repubblica
22/05/1970
n. 283
art. 5
co. 0
Titolo
SENT. 175/71 D. AMNISTIA E INDULTO - INAPPLICABILITA' AI REATI COMMESSI SUCCESSIVAMENTE ALLA PROPOSTA DI DELEGAZIONE - COSTITUZIONE, ART. 79, SECONDO COMMA - INTERPRETAZIONE - FATTISPECIE - LEGGE 21 MAGGIO 1970, N. 282, ART. 11, E D.P.R. 22 MAGGIO 1970, N. 283, ART. 11 - TERMINE FINALE DI APPLICABILITA' DELL'AMNISTIA - ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.
Testo
Il secondo comma dell'art. 79 della Costituzione, modificando per quanto riguarda il termine l'art. 151, terzo comma, del codice penale nello stabilire che l'amnistia e l'indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla "proposta" di delegazione, ha inteso designare con questa espressione quella fra le varie possibili iniziative da cui e' direttamente derivato l'atto di clemenza. Di conseguenza, e' infondata la questione di legittimita' costituzionale sollevata, in riferimento al suddetto precetto, nei confronti dell'art. 11 della legge 21 maggio 1970, n. 282, e dell'art. 11 del decreto presidenziale 22 maggio 1970, n. 283, i quali fissano il termine finale dell'ambito di applicabilita' dell'amnistia al 6 aprile dello stesso anno (successivamente quindi alla presentazione del relativo disegno di legge di delegazione) nonostante che una precedente proposta d'iniziativa parlamentare, di analogo contenuto per quanto riguarda i reati commessi in occasione di agitazioni popolari, fosse stata presentata fin dal 3 febbraio precedente, dato che il progetto d'iniziativa parlamentare stabiliva il diverso termine del 31 dicembre 1969 e fu ritirato dai proponenti, senza essere stato riunito all'altro ne' mai posto in discussione, sicche' rimase del tutto estraneo al procedimento da cui ha tratto vita la legge di delegazione. Cfr.: sent. 171/63, 51/68.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 79
Riferimenti normativi
legge
21/05/1970
n. 282
art. 11
co. 0
decreto del Presidente della Repubblica
22/05/1970
n. 283
art. 11
co. 0
codice penale
n. 0
art. 151
co. 0
Titolo
SENT. 175/71 E. PROCESSO PENALE - COD. PROC. PEN., ART. 152 CPV. - SUSSISTENZA DI CAUSA DI ESTINZIONE DEL REATO E DI PROVE LE QUALI RENDONO EVIDENTE CHE IL FATTO NON E' PREVEDUTO DALLA LEGGE COME REATO - PRONUNCIA DEL GIUDICE DI MERITO - INTERPRETAZIONE DELLA DISPOSIZIONE DA PARTE DELLA CORTE - VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 3, PRIMO COMMA, E 27, SECONDO COMMA, DELLA COSTITUZIONE - INSUSSISTENZA - ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.
Testo
Alla formula usata dall'art. 152, capoverso, del codice di procedura penale, laddove stabilisce che quando risulta una causa di estinzione del reato, ma gia' esistono prove le quali rendono evidente - tra l'altro - che "il fatto non e' preveduto dalla legge come reato", il giudice pronuncia in merito, e' da attribuire un significato generico, comprensivo non solo delle ipotesi del difetto di una qualsiasi norma penale cui possa ricondursi il fatto imputato, ma anche di quelle di mancanza delle condizioni di imputabilita' o di punibilita', rispetto per cui il fatto, pur se astrattamente previsto dalla legge penale, risulta giuridicamente irrilevante al fine dell'applicabilita' di questa, e quindi del tutto equivalente a quello della formula, usata in altri articoli del codice, secondo cui "il fatto non costituisce reato". Di conseguenza, e' infondata, sulla base di tale interpretazione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 152, capoverso, del codice di procedura penale, in parte qua, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
co. 1
Costituzione
art. 27
co. 2
Riferimenti normativi
codice di procedura penale 1930
n. 0
art. 152
co. 0
Titolo
SENT. 175/71 F. GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE - AMNISTIA - PROVA DELLA VERITA' DEL FATTO DIFFAMATORIO E APPLICABILITA' DELL'AMNISTIA AI REATI DI DIFFAMAZIONE - COD. PEN., ART. 596, E D.P.R. 22 MAGGIO 1970, N. 283, ART. 5 - ASSUNTA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 3 E 21 DELLA COSTITUZIONE - RILEVANZA DELLA QUESTIONE - SUSSISTENZA - AMMISSIBILITA'.
Testo
E' ammissibile, sotto il profilo della rilevanza rispetto al giudizio a quo, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 596, codice procedura penale, e dell'art. 5, decreto presidenziale 22 maggio 1970, n. 283, sulla prova della verita' del fatto diffamatorio attribuito alla persona offesa e sull'applicabilita' dell'amnistia ai reati di diffamazione, in riferimento agli artt. 3 e 21 della Costituzione, sollevata in considerazione della violazione del diritto di cronaca che da questa disciplina deriverebbe, dal momento che alcuni almeno degli imputati, cui si addebita la paternita' delle pubblicazioni incriminate, rivestono la qualita' di giornalista ed hanno commesso il fatto nell'esercizio della loro attivita' professionale.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
Costituzione
art. 21
Riferimenti normativi
codice penale
n. 0
art. 596
co. 0
decreto del Presidente della Repubblica
22/05/1970
n. 283
art. 5
co. 0
Titolo
SENT. 175/71 G. REATI E PENE - DIFFAMAZIONE - COD. PEN., ART. 596, PRIMO COMMA - ESCLUSIONE DELLA PROVA LIBERATORIA - INAPPLICABILITA' QUANDO IL COLPEVOLE PUO' INVOCARE L'ESIMENTE DI CUI ALL'ART. 51 DELLO STESSO CODICE (ESERCIZIO DI UN DIRITTO) - FATTISPECIE - DIRITTO DI CRONACA GIORNALISTICA E SUOI LIMITI - INTERPRETAZIONE DELLA DISPOSIZIONE DA PARTE DELLA CORTE - VIOLAZIONE DELL'ART. 21 DELLA COSTITUZIONE - INSUSSISTENZA - LEGGE 21 MAGGIO 1970, N. 282, ART. 5, LETT. D - NON VIOLA L'ART. 3, PRIMO COMMA, DELLA COSTITUZIONE - ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.
Testo
L'art. 596, primo comma, del codice penale, che non ammette il colpevole del delitto di diffamazione a provare a propria discolpa la verita' o notorieta' del fatto attribuito alla persona offesa, non puo' trovare applicazione allorche' il colpevole stesso e' in grado di invocare l'esimente, prevista dall'art. 51 dello stesso codice, che esclude la punibilita' in quanto il fatto imputato costituisca esercizio di un diritto, come nel caso del giornalista il quale, nell'esplicazione del compito di informazione ad esso garantito dall'art. 21 della Costituzione, divulghi col mezzo della stampa notizie, fatti o circostanze che siano ritenute lesive dell'onore o della reputazione altrui, sempreche' la divulgazione rimanga contenuta nel rispetto dei limiti che circoscrivono l'esplicazione dell'attivita' informativa derivabili dalla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti. Ove si adotti questa interpretazione, risulta infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 596, primo comma, codice penale, in riferimento all'art. 21 della Costituzione, nonche' l'altra relativa all'art. 5, lett. d, legge 21 maggio 1970, n. 282, per il quale il delitto di diffamazione commesso col mezzo della stampa e mediante attribuzione di un fatto determinato e' escluso dall'amnistia quando il querelante abbia proposto, prima del decreto stesso, formale domanda di prova della verita' del fatto diffamatorio, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione (restando cosi' assimilate le imputazioni riferibili alla cronaca a quelle per cui l'amnistia e' applicabile).
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 21
Costituzione
art. 3
co. 1
Riferimenti normativi
codice penale
n. 0
art. 596
co. 1
legge
21/05/1970
n. 282
art. 5
lett.d)
co. 0
codice penale
n. 0
art. 51
co. 0
Titolo
SENT. 175/71 H. DIRITTO DI DIFESA - CONTENUTO - COMPRENDE LA PRETESA DI OTTENERE IL RICONOSCIMENTO DELLA COMPLETA INNOCENZA - PREMINENZA RISPETTO ALLA PRETESA STRUMENTALE AL GIUSTO PROCEDIMENTO - AMNISTIA - ESTINGUE IL REATO MA COMPROMETTE L'INTERESSE AD OTTENERE UNA SENTENZA DI MERITO - COD. PEN., ART. 151, PRIMO COMMA; LEGGE 21 MAGGIO 1970, N. 282, ARTT. 1, 2 E 5; D.P.R. 22 MAGGIO 1970, N. 283, ARTT. 1, 2 E 5 - ESCLUDONO LA RINUNCIA ALL'APPLICAZIONE DELL'AMNISTIA - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PARZIALE.
Testo
Posto che la facolta' di rinuncia all'amnistia, non solo non contraddice al diritto di difesa, ma anzi ne costituisce esplicazione e che l'esercizio della facolta' stessa rende inoperante l'amnistia, e conseguentemente consente l'applicabilita' della sanzione penale a carico del rinunziante che risulti colpevole in seguito alla prosecuzione e definizione del giudizio, deve affermarsi che nell'esercizio del diritto di difesa e' inclusa non solo la pretesa al regolare svolgimento di un giudizio che consenta liberta' di dedurre ogni prova a discolpa e garantisca piena esplicazione del contraddittorio, ma anche quella di ottenere il riconoscimento della completa innocenza, da considerare il bene della vita costituente l'ultimo e vero oggetto della difesa, rispetto al quale le altre pretese al giusto procedimento assumono funzione strumentale. Poiche', d'altronde, l'amnistia non elimina l'astratta previsione punitiva relativa a determinati comportamenti, ma si limita ad arrestare la procedibilita' dei giudizi relativamente a dati reati con riferimento al tempo in cui sono stati commessi, con l'obbligo fatto al giudice di dichiarare in tutti i giudizi in corso al momento del sopravvenire di un procedimento di amnistia l'estinzione del reato, viene compromessa irreparabilmente la soddisfazione dell'interesse ad ottenere una sentenza di merito, vincolando invece l'imputato a soggiacere ad una pronuncia di proscioglimento la quale, appunto perche' non scende ad accertare e neppure solo a deliberare la fondatezza dell'accusa, se anche sottrae ad ogni pena, non conferisce alcuna certezza circa l'effettiva estraneita' dell'imputato all'accusa contro di lui promossa, e quindi lascia senza protezione il diritto alla piena integrita' dell'onore e della reputazione. Di conseguenza va dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 151, primo comma, Cod. pen., nonche' degli artt. 1, 2 e 5 della legge 21 maggio 1970, n. 282, e degli artt. 1, 2 e 5 del D.P.R. 22 maggio 1970, n. 283, nella parte in cui escludono, con le conseguenze suddette, la rinunciabilita' dell'amnistia. Cfr.: sent. n. 171/63, 52/68.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 24
Riferimenti normativi
codice penale
n. 0
art. 151
co. 1
legge
21/05/1970
n. 282
art. 1
co. 0
legge
21/05/1970
n. 282
art. 2
co. 0
legge
21/05/1970
n. 282
art. 5
co. 0
decreto del Presidente della Repubblica
22/05/1970
n. 283
art. 1
co. 0
decreto del Presidente della Repubblica
22/05/1970
n. 283
art. 2
co. 0
decreto del Presidente della Repubblica
22/05/1970
n. 283
art. 5
co. 0
Titolo
SENT. 175/71 I. DIRITTO DI DIFESA - INTERESSE DELL'IMPUTATO AD OTTENERE UNA SENTENZA DI MERITO IN LUOGO DI UNA DICHIARATIVA DELL'ESTINZIONE PER AMNISTIA - RINUNZIA ALL'AMNISTIA - DIVERSITA' DELLA SITUAZIONE PROCESSUALE AL MOMENTO DELLA SOPRAVVENIENZA DEL PROVVEDIMENTO DI CLEMENZA - IRRILEVANZA - COD. PROC. PEN., ARTT. 152, 591 E 592 - INTERPRETAZIONE ALLA LUCE DELLA RICONOSCIUTA FACOLTA' DI RINUNZIA - ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.
Testo
Contrastano con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, nel quale deve ritenersi incluso l'interesse dell'imputato ad ottenere una sentenza di merito in luogo di una dichiarativa dell'estinzione per amnistia, le disposizioni che precludono al giudice di assumere prove o di completare quelle in corso (art. 152, 591 e 592, cod. proc. pen.). Tuttavia, poiche', una volta ancorata la pretesa ad ottenere una sentenza di merito in luogo di quella dichiarativa di amnistia alla soddisfazione dell'interesse dell'imputato prevalente su quello posto a base del provvedimento di clemenza, lo strumento piu' idoneo al conseguimento di tale risultato deve ritenersi la rinunzia, senza che occorra aver riguardo al fatto, del tutto accidentale, della situazione processuale, e quindi alla fase dell'iter istruttorio in corso al momento della sopravvenienza, la dichiarazione d'illegittimita' costituzionale per l'omessa previsione del diritto alla rinunzia puo' ritenersi assorbente le altre censure, nel senso di rendere superflua ogni pronuncia in ordine alla differenza di trattamento tra il caso che al momento del sopravvenire dell'amnistia siano o no acquisite prove evidenti, dovendosi gli artt. 152 e 592, cod. proc. penale, interpretare nel senso che l'obbligo ivi sancito dell'immediata declaratoria dell'amnistia non sia da far valere quando risulti l'avvenuta rinuncia a voler beneficiare del provvedimento di clemenza. Di conseguenza va dichiarata infondata, ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 152, 591 e 592, codice procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Cfr.: sent. 171/1963, 52/1968.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 24
Costituzione
art. 3
Riferimenti normativi
codice di procedura penale 1930
n. 0
art. 152
co. 0
codice di procedura penale 1930
n. 0
art. 591
co. 0
codice di procedura penale 1930
n. 0
art. 592
co. 0
N. 175
SENTENZA 5 LUGLIO 1971
Deposito in cancelleria: 14 luglio 1971.
Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 184 del 21 luglio 1971.
Pres. BRANCA - Rel. MORTATI
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Prof. GIUSEPPE BRANCA, Presidente - Prof.
MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO MORTATI - Prof. GIUSEPPE CHIARELLI -
Dott. GIUSEPPE VERZÌ - Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - Dott. LUIGI OGGIONI - Dott. ANGELO DE MARCO
- Avv. ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI - Prof. VEZIO CRISAFULLI - Dott. NICOLA REALE - Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 151
e 596 del codice penale, 152, 591 e 592 del codice di procedura penale,
nonché della legge di delegazione 21 maggio 1970, n. 282, e del
relativo d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283 (concessione di amnistia e di
indulto), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 26 maggio 1970 dal pretore di Chieri nel
procedimento penale a carico di Ferrati Aldo ed altro, iscritta al n.
200 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 170 dell'8 luglio 1970;
2) ordinanza emessa il 27 maggio 1970 dal tribunale di Milano nel
procedimento penale a carico di Buttafava Vittorio ed altri, iscritta
al n. 235 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 235 del 16 settembre 1970;
3) ordinanze emesse il 29 luglio 1970 dal pretore di Padova e il 26
giugno 1970 dal tribunale di Milano nei procedimenti penali
rispettivamente a carico di Mengato Paolo e di Bizzi Ives ed altro,
iscritte ai nn. 254 e 271 del registro ordinanze 1970 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 254 del 7 ottobre 1970;
4) ordinanze emesse il 25 giugno 1970 dal tribunale di Milano e il
27 maggio 1970 dal pretore di Civitanova Marche nei procedimenti penali
rispettivamente a carico di Zanetti Gualtiero e di Perticara' Vincenzo,
iscritte ai nn. 282 e 286 del registro ordinanze 1970 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 267 del 21 ottobre 1970;
5) ordinanza emessa il 23 luglio 1970 dal pretore di Pietrasanta
nel procedimento penale a carico di Lombardi Enzo, iscritta al n. 327
del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 299 del 25 novembre 1970;
6) ordinanze emesse il 16 giugno 1970 dal pretore di Roma e il 30
luglio 1970 dal pretore di Modena nei procedimenti penali
rispettivamente a carico di Cavicchioli Luigi e di Conte Salvatore,
iscritte ai nn. 337 e 342 del registro ordinanze 1970 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 311 del 9 dicembre 1970;
7) ordinanza emessa il 15 ottobre 1970 dal pretore di Napoli nel
procedimento penale a carico di Parco Ada e Saracco Cesare, iscritta al
n. 355 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 324 del 23 dicembre 1970;
8) ordinanze emesse il 3 ottobre 1970 dal tribunale di Velletri e
il 1 giugno 1970 dal tribunale di Milano nei procedimenti penali
rispettivamente a carico di Atzeni Antonio, di Allegri Renzo ed altro e
di Caviglione Giacomo, iscritte ai nn. 360, 362 e 363 del registro
ordinanze 1970 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 329 del 30 dicembre 1970;
9) ordinanza emessa il 25 giugno 1970 dal pretore di Chieri nel
procedimento penale a carico di Mosso Anna, iscritta al n. 361 del
registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 22 del 27 gennaio 1971;
10) ordinanza emessa il 30 ottobre 1970 dal pretore di Pietrasanta
nel procedimento penale a carico di Guidoni Giovanni ed altri, iscritta
al n. 374 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 35 del 10 febbraio 1971;
11) ordinanza emessa il 27 giugno 1970 dal pretore di Torino nel
procedimento penale a carico di Sette Nicola, iscritta al n. 7 del
registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 49 del 24 febbraio 1971;
12) ordinanza emessa il 29 ottobre 1970 dal pretore di Roma nel
procedimento penale a carico di Malucelli Dario, iscritta al n. 44 del
registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 74 del 24 marzo 1971.
Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri e di costituzione di Greco Elena, Ergas Moris, Parco Ada,
Saracco Cesare, Mancini Giacomo - parte civile nel procedimento penale
a carico di Buttafava Vittorio ed altri - e società Pezziol - parte
civile nel procedimento penale a carico di Mosso Anna;
udito nell'udienza pubblica del 16 giugno 1971 il Giudice relatore
Costantino Mortati;
uditi gli avvocati Giuliano Vassalli e Renzo Provinciali, per Greco
Elena, l'avv. Augusto Addamiano, per Moris Ergas, l'avv. Luigi De Luca,
per la società Pezziol, ed i sostituti avvocati generali dello Stato
Franco Casamassima e Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio
dei ministri.
Ritenuto in fatto:
1. - Nel corso del procedimento penale contro Ferrati Aldo e
Tollardo Bortolo, imputati di omissione di referto, compreso, tanto per
i riferimenti temporali quanto per quelli obiettivi e subiettivi,
nell'ambito di operatività dell'amnistia concessa col decreto
presidenziale 22 maggio 1970, n. 283, il pretore di Chieri, con
ordinanza in data 26 maggio 1970, ha sollevato d'ufficio questione di
legittimità costituzionale dell'art. 5 del decreto stesso e dell'art.
5 della legge di delegazione 21 maggio 1970, n. 282, in riferimento
agli artt. 3 e 79 della Costituzione.
Nel provvedimento egli osserva che, seppure l'art. 79 della
Costituzione esplicitamente legittima la decorrenza degli effetti
dell'amnistia da una data determinata dal legislatore e la conseguente
deroga al principio di eguaglianza, tale deroga sembra riguardare
soltanto le amnistie ricollegate a situazioni eccezionali (quali quelle
determinate dallo stato di guerra, da gravi conflitti sociali, da crisi
economiche, da calamità naturali) e non anche le amnistie
"celebrative" applicabili ad una generalità di reati. Di conseguenza,
con riferimento alle disposizioni impugnate, mentre deve ritenersi
legittima l'amnistia "particolare e sindacale" di cui all'art. 1,
appare invece incostituzionale l'amnistia "generale" di cui all'art. 5,
la quale determina una ingiustificata disparità di trattamento fra i
responsabili dei reati commessi prima o dopo il 6 aprile 1970.
Il vincolo della rilevanza impone al pretore di limitare la sua
denuncia all'art. 5 suddetto, ma egli esplicitamente invita la Corte
costituzionale ad estendere l'eventuale dichiarazione d'illegittimità
costituzionale alle altre norme della legge di delegazione e del
decreto presidenziale in tema di amnistia generale e di indulto, ai
sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
Avanti la Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato come per legge dall'Avvocatura
generale dello Stato, che nel suo atto d'intervento ha concluso per
l'infondatezza della questione.
A sostegno del suo assunto l'Avvocatura sottolinea - richiamandosi
anche alla sentenza di questa Corte n. 171 del 1963 - come il fatto che
un reato sia stato commesso in un momento anziché in un altro è già
un elemento differenziale che può giustificare, ai fini del rispetto
dell'art. 3 della Costituzione, l'applicabilità all'uno e non
all'altro del provvedimento di clemenza.
L'interpretazione dell'art. 79, Cost., proposta dal pretore,
secondo la quale l'amnistia sarebbe riservata a circostanze eccezionali
con esclusione di ogni funzione meramente celebrativa, sarebbe inoltre
inaccettabile poiché si fonderebbe esclusivamente su valutazioni di
carattere politico sottratte a qualunque sindacato della Corte.
2. - Nel corso del procedimento penale per diffamazione a mezzo
della stampa contro Buttafava Vittorio e altri il tribunale di Milano,
con ordinanza 27 maggio 1970, dopo avere respinto l'eccezione di
incostituzionalità sollevata dal patrono della parte civile Greco,
dell'art. 5, lettera d, del d.P.R. n. 282 del 1970 per violazione
dell'art. 3 della Costituzione nella parte in cui discrimina i
querelanti per diffamazione a seconda che abbiano effettuato la
concessione della facoltà di prova prima o dopo l'intervento del
decreto di amnistia, nella considerazione che ogni concessione di
amnistia importa di necessità distinzioni di ordine temporale fra i
fatti che ne sono oggetto, ha sollevato d'ufficio questione di
legittimità dell'art. 596, primo comma, del codice penale, in
relazione all'art. 21 Cost., nonché del citato art. 5 per violazione
dell'art. 3, perché opera un'ingiustificata diversità di trattamento
secondo che vi sia stata o non la formale domanda del querelante, di
cui all'art. 596, n. 3, del codice penale. E dal momento che il
diritto di provare la verità dei fatti trova la sua base nella
garanzia costituzionale del diritto di cronaca e non nella richiesta
della parte offesa, osserva in ordine alla rilevanza della questione
sollevata, come tutte le imputazioni ad esso sottoposte riguardano
articoli giornalistici che potrebbero eventualmente ritenersi esercizio
del diritto di cronaca e che per alcuni di essi sia stata ab initio
concessa facoltà di prova, mentre per altri essa sia stata concessa
tardivamente.
Nel procedimento avanti la Corte costituzionale è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha concluso per
l'infondatezza della questione, e si sono costituiti il signor Moris
Ergas, col patrocinio degli avvocati Addamiano, Promontorio e Sarno, il
quale ha concluso per l'inammissibilità della questione e, in
subordine, per la sua infondatezza; ed altresì la signora Elena Greco
in De Lollis, col patrocinio degli avv. prof. Pisapia, Provinciali e
Vassalli, la quale ha concluso invece per l'incostituzionalità della
norma impugnata o in subordine, per la pronuncia di una sentenza
interpretativa di rigetto; ed infine l'on. Giacomo Mancini, col
patrocinio degli avvocati Gullo e Striano, il quale si è riservato di
dedurre oralmente.
Nell'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri si
ricorda innanzi tutto come la Corte di cassazione abbia affermato in
numerose pronunce il principio che il diritto di cronaca costituisce
espressione del fondamentale diritto dei cittadini alla libera
manifestazione del pensiero, per cui la cronaca giornalistica è sempre
lecita, e quindi causa di esclusione della punibilità ai sensi
dell'art. 51 del codice penale, alle sole condizioni che la notizia sia
vera o quanto meno seriamente accertata, che sussista un interesse
pubblico alla sua diffusione e che la cronaca sia mantenuta nei limiti
di continenza delle notizie pubblicate rispetto al tema della
pubblicazione. Perciò l'imputato di diffamazione a mezzo stampa può
sempre dimostrare la sussistenza di tali condizioni anche se il
querelante non abbia esplicitamente chiesto la prova della verità dei
fatti addebitatigli.
Sulla base di questa ormai consolidata interpretazione, la
questione di costituzionalità dell'art. 596 del codice penale, in
riferimento all'art. 21 Cost., risulta infondata, ed infondata appare
altresì la questione proposta nei confronti dell'art. 5, lett. d,
della legge di delegazione in riferimento all'art. 3 Cost., dal momento
che questa norma giustificatamente tutela l'interesse delle parti
offese a vedere accertata la falsità delle accuse loro rivolte.
La difesa del signor Moris Ergas invece, pur muovendo da analoghi
presupposti, perviene alla conclusione che la questione è
inammissibile per irrilevanza rispetto al giudizio a quo. Infatti,
soltanto ove gli imputati dichiarassero di aver agito nell'esercizio
del diritto di cronaca diverrebbe necessario stabilire se l'art. 596
del codice penale sia o meno incostituzionale, mentre l'ordinanza del
tribunale prospetta tale ipotesi come solo eventuale. D'altronde, ove
in definitiva gli imputati risultassero in grado di reclamare
l'applicazione dell'esimente, tutti potrebbero provare la verità dei
fatti e la questione di costituzionalità sarebbe anche in questo caso
irrilevante.
La difesa della signora Elena Greco motiva invece le suindicate
conclusioni sottolineando come siano insostenibili tanto il sistema di
rimettere alla volontà del querelante l'exceptio veritatis anche nei
casi in cui dalla prova della verità discenda l'affermazione
dell'esistenza di un diritto costituzionalmente garantito, quanto il
sistema di interdire con un decreto di amnistia la concessione di tale
prova liberatoria concedendola o vietandola a seconda dei momenti
temporali in cui sia effettuata, che pure in via generale sono tutti
validi a fondare l'esercizio del diritto relativo, dando così luogo a
grave e ingiustificata discriminazione.
Ricordato che l'affermazione del diritto di cronaca quale esimente
del reato di diffamazione a mezzo stampa non è cosi pacifica in
dottrina ed in giurisprudenza come dedotto ex adverso, la difesa della
Greco chiede in primo luogo che la Corte con sentenza interpretativa di
rigetto avalli l'orientamento della Cassazione nel senso di ritenere
inclusa nell'art. 596 una ulteriore espressa ipotesi di prova
liberatoria, o ne dichiari la parziale illegittimità in quanto non
concede tale prova pel caso di esercizio del diritto di cronaca. Chiede
inoltre che si dichiari fondata la questione dell'art. 5, lett. d,
della legge n. 282, per la preclusione che oppone alla non
applicabilità dell'amnistia quando la facoltà di prova sia concessa
dopo l'emanazione della legge citata, dato che l'esercizio della
facoltà stessa nasce da una norma costituzionale. Queste
argomentazioni sono ulteriormente svolte nella memoria 1 giugno 1971,
nella quale si mette in rilievo come il decreto d'amnistia
tassativamente fa salve solo le ipotesi del terzo comma dell'art. 596
c.p. e quindi, per effetto dell'art. 152 dello stesso codice, preclude
che si tenga conto della situazione dell'imputato pel quale non ricorre
nessuna di dette ipotesi, e ciò in contrasto con il diritto della
libertà di stampa e con il principio di eguaglianza, nella misura in
cui istituisce una disparità di trattamento tra imputati ai quali la
persona offesa conceda ed imputati ai quali la persona offesa non
conceda la facoltà di prova liberatoria.
Quanto alla rilevanza osserva che l'invocazione del diritto di
cronaca non corrisponde ad un'eventualità, dato che vi è certezza
della sua validità per quanto riguarda i giornalisti incriminati e
ciò è sufficiente per poter richiedere una pronuncia di merito sulla
questione, tanto più tenendo presente che, come risulta
dall'ordinanza, in tutti i procedimenti e da tutte le persone offese è
stata concessa la facoltà di prova. Insiste nelle conclusioni già
prese.
3. - Diversa è la questione sollevata dal pretore di Padova con
l'ordinanza in data 29 luglio 1970 nel corso del procedimento penale
contro Mengato Paolo, la quale impugna gli artt. 592 e 152, capoverso,
codice di procedura penale, "nella parte in cui impediscono, in
costanza di amnistia, al giudice, di assumere prove che rendano
evidente l'insussistenza del fatto e la non commissione del medesimo da
parte dell'imputato e di prosciogliere con la formula prescritta a
seguito del convincimento scaturito dalle prove posteriori al
provvedimento di clemenza, perché in presunto contrasto con gli artt.
3 e 24 della Costituzione".
In questo giudizio il difensore dell'imputato aveva proposto delle
prove a discarico che, a suo avviso, avrebbero potuto portare al
proscioglimento per insussistenza del fatto o almeno per mancata
partecipazione dell'imputato al fatto medesimo ed aveva chiesto che,
sulla base di una interpretazione liberale degli artt. 592 e 152,
secondo comma, del codice di procedura penale, si provvedesse
all'assunzione di tali prove, sollevando, per l'opposta eventualità,
questione di legittimità costituzionale di tali disposizioni, in
riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Il pretore ha ritenuto di non poter adottare l'interpretazione
richiesta ed ha sollevato la suddetta questione di legittimità
costituzionale.
Nessuno si è costituito, né è intervenuto in questo giudizio.
4. - L'ordinanza 26 giugno 1970, pronunciata dal tribunale di
Milano nel corso del procedimento penale contro Bizzi Ives e Caviglione
Giacomino, si richiama esplicitamente a quella dello stesso tribunale
precedentemente ricordata. Nella motivazione si precisa che con essa
"non si è inteso impugnare l'art. 596, n. 3, del codice penale, il
quale mantiene una sua indubbia operatività nelle materie estranee al
diritto di cronaca, bensì il richiamo allo stesso nel d.P.R. citato,
nella misura in cui ponga una discriminazione fra casi identici di
fronte al diritto di cronaca, secondo sia stata o meno proposta dal
querelante una formale domanda, che in quest'ambito sarebbe priva di
significato pratico e giuridico, avendo riguardo a una facoltà di
prova spettante comunque in base all'art. 21 della Costituzione".
Nel giudizio avanti la Corte costituzionale è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha svolto
argomentazioni identiche a quelle viste a proposito dell'altra
ordinanza.
5. - L'ordinanza in data 25 giugno 1970 del tribunale di Milano,
pronunciata nel corso del procedimento penale a carico del direttore
della "Gazzetta dello Sport", Gualtiero Zanetti, propone invece una
questione diversa da quelle sollevate con le altre ordinanze dello
stesso tribunale e sostanzialmente identica a quella introdotta dal
pretore di Padova col provvedimento sopra ricordato, anche se
formalmente l'impugnazione viene qui riferita agli artt. 591 e 592,
codice di procedura penale, e come norma di raffronto viene indicato il
solo art. 24 della Costituzione.
Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, il quale ha concluso per l'infondatezza della questione
affermando che l'amnistia propria costituisce una rinuncia dello Stato
alla pretesa punitiva ed ha natura di abolitio criminis che opera sul
fatto-reato sin dal momento della sua emanazione. Verificatesi le
condizioni di operatività dell'amnistia, si estingue la rilevanza
penale del fatto e quindi non vi è più luogo a parlare di diritto di
difesa, essendo questo concepibile solo in correlazione ad una pretesa
punitiva dello Stato che in questo caso più non sussiste.
Il divieto di ulteriori indagini discende pertanto dalla natura
stessa dell'istituto dell'amnistia e non può perciò violare le norme
della Costituzione che tale istituto ha recepito.
6. - Diversa dalle precedenti è anche la questione, sollevata dal
pretore di Civitanova Marche nel corso del procedimento penale contro
Perticara' Vincenzo, con l'ordinanza in data 27 maggio 1970. In essa si
impugnano "l'art. 151 del codice penale e la legge 21 maggio 1970, n.
282, e conseguente decreto del Presidente della Repubblica, nella parte
in cui privano l'imputato del potere di ricusare o di rifiutare
l'applicazione dell'amnistia propria, in relazione agli artt. 24, commi
primo e secondo, e 3 della Costituzione repubblicana".
Nella motivazione di questo provvedimento si segnala come
l'applicazione automatica del beneficio dell'amnistia determini una
situazione pregiudizievole per l'imputato perché lascia sussistere il
dubbio circa l'avvenuta commissione del reato e circa la colpevolezza
di lui, con conseguenze sul piano morale e giuridico (tra cui
l'impossibilità di ripetere dal querelante le spese del giudizio), che
si traduce in una violazione del diritto di difesa, inteso, non già
nel senso meramente formale di garanzia dell'assistenza di un
difensore, ma anche come diritto di ottenere una sentenza che
riconosca, se del caso, la propria innocenza. Il pretore sottolinea
quindi la disparità di trattamento che deriva dalla irrinunciabilità
dell'amnistia del 1970 rispetto ad altre precedenti, in relazione alle
quali la rinuncia era stata ammessa, e rispetto alla remissione della
querela che è operante soltanto se accettata dall'imputato.
Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, il quale ha concluso per l'infondatezza della questione.
Ricordate le sentenze di questa Corte n. 171 del 1963 e n. 52 del 1968,
l'Avvocatura osserva che l'art. 151, codice penale, ha carattere
assolutamente generale e sembra perciò fuori causa, mentre le norme
del decreto di amnistia non sono incostituzionali perché la previsione
costituzionale di questo istituto consente al legislatore di renderla,
a sua discrezione, rinunciabile o meno.
7. - La questione proposta dal pretore di Pietrasanta con
l'ordinanza 23 luglio 1970, pronunciata nel corso del procedimento
penale contro Lombardi Enzo, concerne esclusivamente la determinazione
del limite finale del periodo di tempo cui l'amnistia deve essere
applicata, fissato dall'art. 11 della legge n. 282 e del decreto
presidenziale n. 283, del 6 aprile 1970, nonostante che una proposta di
legge d'iniziativa parlamentare per la concessione di amnistia fosse
stata presentata il 3 febbraio 1970.
A conclusione di una dettagliata analisi delle due proposte di
legge e dei relativi lavori parlamentari, dalla quale trae il
convincimento che esse, seppur non identiche, erano quanto meno
analoghe, il pretore denuncia, in riferimento all'art. 79, secondo
comma, della Costituzione, l'art. 11 suddetto nella parte in cui
estende gli effetti dell'amnistia ai reati commessi successivamente al
3 febbraio 1970.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto avanti la
Corte costituzionale, ha concluso per l'infondatezza della questione
assumendo che l'eventuale coincidenza letterale dei due testi non può
valere come prova dell'avvenuta confluenza della proposta d'iniziativa
parlamentare depositata il 3 febbraio 1970 nel disegno di legge
presentato il 5 maggio successivo, dato che quest'ultimo aveva una
portata molto più ampia della prima.
Inoltre l'Avvocatura osserva che il termine del 6 aprile 1970
riguarda in pratica solo i reati comuni (quelli cioè cui si riferisce
la parte innovativa del disegno di legge governativo), poiché la
previsione dei reati sindacali, ecc. concerne i fatti dell'"autunno
caldo" che si erano già esauriti ben prima del 3 febbraio 1970.
8. - Simile a quella proposta con l'ordinanza del pretore di Padova
sopra ricordata è la prima delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate dal pretore di Roma con l'ordinanza 16 giugno
1970, pronunziata nel corso del procedimento penale a carico di
Cavicchioli Luigi. Richiamandosi, tra l'altro, alla motivazione della
sentenza n. 171 del 1963 della Corte costituzionale, questo giudice
impugna infatti gli artt. 152, capoverso, e 592, capoverso, del codice
di procedura penale, nelle parti in cui precludono al giudice
l'acquisizione di nuove prove, ai fini del proscioglimento nel merito
dell'imputato di un reato estinto per amnistia, in riferimento all'art.
24, capoverso, Cost.
In via subordinata a tale questione - dopo avere dichiarato
manifestamente infondata l'altra relativa al preteso contrasto tra
l'art. 592 del codice di procedura penale e l'art. 27, capoverso, della
Costituzione - il pretore impugna altresì, in riferimento allo stesso
precetto costituzionale, il decreto presidenziale n. 283, nella parte
in cui non prevede la rinuncia all'amnistia da parte dell'imputato (con
impostazione analoga a quella della ricordata ordinanza del pretore di
Civitanova Marche). Richiamata la sentenza di questa Corte n. 52 del
1968, il pretore discute intorno alla natura della rinuncia e conclude
che, in attuazione del diritto di difesa inteso in senso ampio, una
volta iniziata l'azione penale è doveroso lasciare al prevenuto la
possibilità di ottenere un accertamento completo della propria
innocenza (come del resto è previsto per il caso di remissione della
querela, la cui operatività è subordinata all'accettazione
dell'imputato).
Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri per chiedere che la questione sia dichiarata infondata
sulla base di argomentazioni simili a quelle viste in relazione
all'ordinanza del pretore di Civitanova Marche.
9. - Aspetti comuni rispetto al provvedimento del pretore di Chieri
ricordato al principio presenta invece l'ordinanza 30 luglio 1970 con
la quale il pretore di Modena ha denunciato l'art. 5 del decreto
presidenziale n. 283, concernente l'amnistia "generale",
differenziandosene tuttavia per il fatto di indicare come norme di
raffronto, anziché gli artt. 3 e 79, gli artt. 3 e 27 della
Costituzione.
Secondo il pretore di Modena, la funzione rieducativa della pena,
postulata dall'art. 27 Cost., dovrebbe potersi esplicare senza trovare
ostacoli in istituti quali l'amnistia e l'indulto che appaiono, anche
al comune sentire, gravemente iniqui nella latitudine amplissima di
operatività loro conferita dal legislatore ordinario. Di conseguenza
il principio desumibile dall'art. 27 dovrebbe indurre a circoscrivere i
concetti di amnistia e di indulto, rimasti imprecisati nell'articolo 79
Cost., nel senso di renderli applicabili soltanto ad ipotesi
particolari come, ad esempio, quella prevista dall'art. 1 del decreto
presidenziale n. 283, mentre varrebbe a rendere illegittime
applicazioni più ampie ed indeterminate come quella prevista appunto
dall'art. 5.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto anche in
questo giudizio, ha concluso per l'infondatezza della questione
ripetendo che l'amnistia rappresenta un istituto previsto dalla
Costituzione ed osservando che l'art. 27, terzo comma, Cost., è a
questo proposito inconferente.
10. - Nel corso del procedimento penale contro Parco Ada ed altri,
il pretore di Napoli ha sollevato d'ufficio con ordinanza 15 ottobre
1970 questione in confronto dell'art. 152 del codice di procedura
penale, "nella parte in cui non prevede, in presenza di causa estintiva
del reato quale l'amnistia, il proscioglimento nel merito, con la
formula "non punibile perché il fatto non costituisce reato", quando
già esistono prove che rendono evidente tale causa di proscioglimento,
in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 17, secondo comma, della
Costituzione".
Tale questione si differenzia da quelle proposte dalle ordinanze
del pretore di Padova, del tribunale di Milano (25 giugno 1970) e del
pretore di Roma (16 giugno 1970), in quanto non riguarda il divieto di
ulteriore istruttoria, ma il divieto di immediato proscioglimento con
la formula "perché il fatto non costituisce reato" in caso di
intervenuta amnistia.
Ricordato come l'art. 152, capoverso, richiamato dall'articolo 592,
codice di procedura penale, preveda l'obbligo di prosciogliere nel
merito, anche in presenza di amnistia, quando già esistono prove le
quali rendano evidente che "il fatto non sussiste", che "l'imputato non
lo ha commesso" o che "il fatto non è preveduto dalla legge come
reato", e come la dottrina distingua quest'ultima formula da quella
"perché il fatto non costituisce reato", usata in altri articoli del
codice, il pretore ravvisa nella diversità di trattamento che ne
consegue elementi d'irrazionalità tali da determinare una violazione
del principio di eguaglianza.
In questo giudizio si sono costituite le parti private Saracco
Cesare e Parco Ada, col patrocinio dell'avv. prof. Claudio Dal Piaz, le
quali hanno chiesto, in tesi, che la questione sia dichiarata
infondata, sul presupposto che l'art. 152 del codice di procedura
penale consente di prosciogliere anche nell'ipotesi di non punibilità
perché il fatto non costituisce reato, ritenuta equivalente a quella
secondo cui il fatto non è preveduto dalla legge come reato, e, in
ipotesi, che la questione sia riconosciuta fondata ove non si ammetta
l'equivalenza delle suddette formule.
Tali conclusioni sono state quindi succintamente svolte nella
memoria in data 1 giugno 1971.
11. - Diversa da tutte le precedenti è anche l'ordinanza
pronunciata il 3 ottobre 1970 dal tribunale di Velletri nel corso del
procedimento penale contro Atzeni Antonio, la quale, mediante un
argomentazione opposta a quella che sta alla base dei provvedimenti dei
pretori di Chieri e di Modena precedentemente esaminati, perviene a
denunciare, per violazione degli artt. 1, 3, 4, 35, 39 e 42 della
Costituzione, l'art. 1 della legge n. 282 e del d.P.R. n. 283, in
quanto rispettivamente delegano a concedere e concedono un'amnistia
"particolare" anziché "generale".
Anche di questa questione il Presidente del Consiglio dei ministri,
intervenuto in causa, chiede sia dichiarata l'infondatezza riaffermando
l'esistenza di un ampio ed insindacabile potere discrezionale del
legislatore nella determinazione dell'ambito dei provvedimenti di
clemenza.
12. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dal
pretore di Chieri con l'ordinanza in data 25 giugno 1970 nel corso del
procedimento penale contro Mosso Anna concerne, in riferimento all'art.
3 della Costituzione, l'art. 5, penultimo comma, del d.P.R. n. 283, che
esclude dall'ambito di applicazione dell'amnistia il reato di cui
all'art. 515 del codice penale (frode in commercio), fuori del caso in
cui sia riscontrabile l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4 (speciale
tenuità del danno). Il pretore osserva che, poiché rientra invece
nell'amnistia il più grave reato di truffa (art. 640, codice penale),
l'imputata avrebbe potuto beneficiare del provvedimento soltanto
qualora avesse posto in essere una condotta ben più antisociale di
quella da lei realizzata; e poiché tale conclusione gli appare affatto
illogica ed iniqua, e d'altronde non superabile se non mediante la
declaratoria d'illegittimità costituzionale, denuncia appunto l'art. 5
suddetto per violazione del principio di eguaglianza.
In questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri e si è costituita la parte civile s.p.a. Pezziol, col
patrocinio dell'avv. Luigi De Luca.
L'Avvocatura generale dello Stato solleva innanzitutto dubbi
intorno alla rilevanza della questione rispetto al giudizio a quo,
osservando che essa non concerne una norma che il pretore di Chieri
debba applicare. Dato infatti che l'art. 5, penultimo comma, del
decreto presidenziale esclude il reato di frode in commercio
dall'amnistia, il pretore doveva definire il procedimento applicando
l'art. 515 del codice penale, e non anche le norme sull'amnistia che
erano nella specie inoperanti.
Nel merito per l'Avvocatura la questione è infondata sussistendo
elementi strutturali che differenziano il reato di frode in commercio
da quello di truffa, a cominciare dall'esistenza di un valido accordo
delle parti, non carpito, come nella truffa, mediante artifici o
raggiri. Avendo essi diversa obbiettività non è possibile, altro che
sul piano della politica legislativa, procedere al raffronto del
trattamento che essi ricevono da parte del legislatore, sia in sede di
determinazione della pena, sia in sede di applicazione del
provvedimento di clemenza.
Anche la società Pezziol conclude per l'infondatezza della
questione, ravvisando nella denuncia d'incostituzionalità in esame una
inammissibile censura all'uso del potere discrezionale del Parlamento e
negando che l'esclusione dall'amnistia di alcuni reati più o meno
gravi di altri cui essa è dichiarata applicabile possa ricondursi ad
una violazione del principio di eguaglianza.
13. - Le due ordinanze identiche pronunciate il 1 giugno 1970 dal
tribunale di Milano nel corso dei procedimenti penali contro Allegri
Renzo e Caviglione Giacomo propongono la stessa questione sollevata con
gli altri provvedimenti dello stesso organo giudiziario in data 27
maggio e 26 giugno 1970 precedentemente ricordati, con la sola
differenza che esse indicano come norma violata da tutte le
disposizioni impugnate anche in quelle altre sedi il solo art. 3, primo
comma, della Costituzione.
Nessuno si è costituito, né è intervenuto in questi giudizi.
14. - La stessa questione proposta con le ordinanze del pretore di
Padova, del tribunale di Milano (25 giugno 1970) e del pretore di Roma
(16 giugno 1970) è stata sollevata, con amplissima motivazione, anche
con l'ordinanza pronunciata il 30 ottobre 1970 dal pretore di
Pietrasanta nel corso del procedimento penale contro Guidoni Giovanni
ed altri.
In essa il pretore si sofferma particolarmente a segnalare il
rapporto che sussiste fra l'esercizio del diritto di difesa nel
processo penale ed in altre sedi per dedurne che, poiché la difesa in
ordine al fatto-reato avviene nel modo più efficace nel processo
penale, la tutela del diritto di difesa implica altresì la tutela
dell'interesse dell'imputato a veder riconosciuta la propria innocenza,
anche a prescindere dalla concreta applicabilità di una sanzione.
Tale conclusione trova fondamento nel diritto positivo dal momento
che questo riconosce in vari casi all'imputato il potere di impugnare
sentenze di proscioglimento, condiziona alla sua accettazione
l'operatività della remissione di querela ed impone al giudice, a
determinate condizioni, di preferire il proscioglimento nel merito a
quello per estinzione del reato.
In questo ordine di idee, la regola che vieta al giudice, in
presenza di amnistia, ogni ulteriore attività istruttoria risulta
chiaramente in contrasto con la garanzia del diritto di difesa e
poiché, d'altronde, non rappresenta una conseguenza necessaria della
concessione dell'amnistia, sembra equo che debba cadere di fronte alla
tutela costituzionale che a quel diritto è stata riconosciuta
dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione.
Conseguenza questa che è confermata dall'esame della norma che, in
apparente deroga a tale disciplina, prescrive l'interrogatorio
dell'imputato o comunque la contestazione del reato come condizione del
proscioglimento per amnistia. Non si vede infatti come l'imputato possa
avvalersi dell'opportunità di difendersi che in questo modo gli sembra
offerta, se il giudice non può poi controllare mediante ulteriori atti
istruttori le sue affermazioni difensive.
Nell'ulteriore svolgimento della motivazione il pretore di
Pietrasanta si sofferma ad analizzare tutta una serie di ingiustificate
disparità di trattamento che derivano dalla disposizione che vieta al
giudice di iniziare o proseguire l'istruttoria dopo l'avvento
dell'amnistia. Tali elementi d'incostituzionalità, a suo giudizio, non
sarebbero stati del tutto eliminati neppure se il decreto di amnistia
avesse previsto la possibilità per l'imputato di rinunciare al
beneficio, poiché ciò avrebbe portato ad una ulteriore ingiustificata
discriminazione tra coloro che per effetto di particolari vicende
processuali si fossero trovati già in condizione di poter dimostrare
con sicurezza la propria innocenza e coloro che, in ipotesi egualmente
innocenti, non fruissero però di un'analoga situazione probatoria. Ma,
a parte tale aspetto, la previsione della possibilità di rinuncia
all'amnistia avrebbe sufficientemente riequilibrato il sistema
processuale, salvaguardando in pratica in modo abbastanza adeguato il
diritto di difesa; poiché tuttavia ciò non si è verificato, solo una
sentenza della Corte può attualmente porre rimedio alla rilevata
illegittimità.
Nemmeno in questo giudizio vi è stato intervento o costituzione di
parti.
15. - L'ordinanza pronunciata dal pretore di Torino il 27 giugno
1970 nel corso del procedimento penale contro Sette Nicola è in tutto
e per tutto corrispondente a quella del pretore di Chieri in data 25
giugno 1970. Corrispondente è altresì il tenore dell'intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri.
16. - L'ordinanza pronunciata dal pretore di Roma il 29 ottobre
1970 nel corso del procedimento penale contro Malucelli Dario propone
infine una questione sostanzialmente analoga a quella sollevata dal
pretore di Padova, dal tribunale di Milano (25 giugno 1970), dal
pretore di Roma (16 giugno 1970) e dal pretore di Pietrasanta (30
ottobre 1970).
Nessuno è intervenuto, né si è costituito nel relativo giudizio.
Considerato in diritto:
1. - Le diciassette ordinanze riguardano tutte, pur con diversità
di prospettazioni e di conclusioni, l'istituto dell'amnistia, sicché
si rende opportuna la loro riunione e la decisione con unica sentenza.
2. - All'esame delle questioni dovrà procedersi secondo un ordine
che conduce a dare la precedenza a quelle le quali investono l'amnistia
nel suo fondamento e riguardano il suo più generale ambito di
applicazione. Sotto questo riguardo vengono prima in considerazione le
ordinanze dei pretori di Chieri del 26 maggio 1970 e di Modena del 30
luglio successivo, le quali denunciano l'art. 5 del d.P.R. 22 maggio
1970, n. 283, per violazione degli artt. 3 e 79 e la seconda di esse,
anche dell'art. 27 della Costituzione. Muovendo dal rilievo della
sussistenza di una gerarchia fra norme e norme della stessa
Costituzione, si sostiene la necessità di interpretare l'art. 79 in
modo da armonizzarne l'applicazione con il rispetto del supremo
principio di eguaglianza: il che si otterrebbe quando all'amnistia si
faccia luogo solo in confronto a reati commessi in situazioni
eccezionali e limitate nel tempo, ed essa sopravvenga dopo la loro
cessazione, poiché, in tali ipotesi, verrebbe a porsi in contrasto con
il detto principio la persecuzione penale di fatti che ormai la
coscienza comune ritiene non più sanzionabili. Mentre al contrario,
tale contrasto presenterebbero le amnistie c.d. "celebrative" relative
a situazioni sempre aperte nel tempo. Infatti rispetto a queste il
trattamento differenziato di reati, per il solo fatto che siano stati
compiuti prima o dopo un certo termine, appare del tutto arbitrario, ed
altresì lesivo dell'altro principio costituzionale che attribuisce
alla pena una funzione rieducativa della personalità del colpevole.
Funzione alla quale (nei casi in cui la particolarità delle
circostanze faccia apparire incongrua la espiazione effettiva della
pena o la sua perduranza per l'intero periodo stabilito nelle sentenze
di condanna) ben più opportunamente dell'amnistia si adeguano altri
istituti, come per esempio il perdono giudiziale o la grazia.
I rilievi riferiti, che del resto rispecchiano quelli
autorevolmente formulati anche in Parlamento in sede di discussione del
provvedimento in esame, appaiono degni di attenta considerazione,
riuscendo di indubbia fondatezza la premessa da cui si fanno derivare
della sussistenza (del resto valevole per ogni corpo di disposizioni
coordinate in sistema) di un ordine che conduce a conferire preminenza
ad alcune di esse rispetto ad altre.
L'esigenza prospettata di contenere l'esercizio del potere di
amnistia nei limiti più ristretti, così da armonizzarlo con la
concezione personalista cui si ispirava la nuova Costituzione fu bene
presente nei costituenti che, nel prevederne la possibilità
(nonostante che autorevoli opposizioni, in accordo con una antica e
diffusa opinione, attribuissero all'istituto carattere di mero "relitto
storico"), ne riaffermarono in modo esplicito il carattere del tutto
eccezionale così da farla ritenere validamente consentita solo nel
caso della sopravvenienza di circostanze siffatte da condurre a
considerare i reati precedentemente commessi, in quanto legati ad un
momento storico ormai superato, non più offensivi della coscienza
sociale. Appunto in corrispondenza a tale orientamento, si formulò
espressa condanna della anteriore prassi caratterizzata da una
eccessiva frequenza delle concessioni di amnistia.
Pur tenendo presenti le precedenti considerazioni, e pur constatato
che i nobili propositi del costituente non hanno trovato attuazione,
sicché i provvedimenti di clemenza dopo il 1946 si sono moltiplicati
con un ritmo assai superiore a quello dell'antecedente regime, tuttavia
la Corte ritiene che una indagine volta a sindacare l'ampiezza dell'uso
fatto dal Parlamento della sua discrezionalità in materia eccederebbe
i limiti entro cui deve rimanere racchiuso il sindacato della mera
legittimità della legge ad essa assegnato. Infatti tale sindacato non
potrebbe altrimenti effettuarsi se non con il ricorso ad accertamenti
assai più penetranti di quelli consentiti, da riferire sia alla
entità dei reati considerati degni di oblio, sia alle valutazioni di
opportunità in ordine alla situazione politica ritenuta tale da
consigliare il ricorso alla amnistia, nonché alla individuazione del
momento da cui debba farsi validamente decorrere.
3. - Una riprova della difficoltà ora prospettata può venire
desunta dall'esame dell'altra ordinanza del tribunale di Velletri del 3
ottobre 1970, che, muovendo da un punto di vista opposto a quello
assunto dalle altre prima richiamate, rinviene una lesione del
principio di eguaglianza (ed altresì di quelli proclamati negli artt.
1, 4, 35, 39 e 42 Cost.) nella amnistia "particolare", concessa con
l'art. 1 del decreto presidenziale citato, lesione che si realizzerebbe
non solo nei confronti degli imputati, ma altresì delle persone offese
e dei beni danneggiati, facendo venir meno le garanzie costituzionali
previste, senza discriminazioni, per alcune di queste, quali quelle che
hanno recato offesa alla libertà del lavoro, alla proprietà privata,
ecc. Chiaro appare dai rilievi così prospettati come, anche se si
potesse in ipotesi consentire nella opinione enunciata secondo cui
ammissibili siano solo le amnistie celebrative, non si sfuggirebbe alla
necessità di apprezzamenti che trascendono il campo della legittimità
per sconfinare nell'altro diverso dell'opportunità.
Sicché la Corte, pur formulando voti per un più cauto e meno
frequente esercizio della potestà conferita dall'art. 79, deve
dichiarare non fondate le questioni finora esaminate.
4. - A non diversa conclusione deve giungersi anche in ordine alla
questione prospettata con le ordinanze del pretore di Chieri del 25
giugno 1970 e di quello di Torino del 27 stesso mese, le quali
denunciano l'art. 5, penultimo comma, del d.P.R. n. 283 perché,
consentendo l'amnistia per il reato di truffa ed escludendola invece
per quello meno grave di frode in commercio (quando non ricorra
l'attenuante dell'art. 62 n. 4), sarebbe incorsa in violazione
dell'art. 3, comma primo, della Costituzione.
Mentre è da respingere l'eccezione di inammissibilità sollevata
dall'Avvocatura dello Stato poiché, contrariamente a quanto da questa
ritenuto, il dubbio sollevato sulla costituzionalità dell'esclusione
dell'amnistia pel caso del reato oggetto del giudizio, desunto dal
confronto con il trattamento usato per altro reato più gravemente
sanzionato, rendeva la questione indubbiamente rilevante, deve
ritenersi infondata la censura prospettata. Infatti la scelta del
criterio di discriminazione fra reati amnistiabili o non, non è
necessariamente legata all'entità della pena edittale prevista
rispettivamente per gli uni e per gli altri, ma può farsi discendere
da considerazioni di diverso ordine, come per esempio la maggiore
diffusione di alcuni in un certo momento e il conseguente maggiore
allarme sociale, tale da sconsigliare per essi l'adozione di un atto di
clemenza. Una irrazionalità potrebbe, se mai, prospettarsi, sotto il
rispetto messo in rilievo, quando la differente disciplina riguardasse
reati lesivi dello stesso bene voluto proteggere: ciò che non si
verifica nella specie dato che la frode in commercio rientra fra i
delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio, mentre
la truffa appartiene alla categoria dei delitti contro il patrimonio;
riguardano cioè interessi suscettibili di diversa valutazione
politico-sociale, e quindi di differente trattamento ai fini
dell'amnistia.
5. - Ad un diverso ordine di problemi è rivolta l'ordinanza del
pretore di Pietrasanta del 23 luglio 1970 riguardante il dubbio di
costituzionalità dell'art. 11 della legge n. 282 e del pedissequo art.
11 del d.P.R. n. 283, per violazione dell'art. 79, secondo comma, della
Costituzione. Ciò nella considerazione secondo cui, se è vero che la
proposta di delegazione approvata dal Parlamento reca la data del 5
maggio 1970, sicché di fronte ad essa non appare criticabile il
termine del 6 aprile da cui si è fatto decorrere il beneficio, è vero
altresì che una precedente proposta di iniziativa parlamentare, di
analogo contenuto per quanto riguarda i reati commessi in occasione di
agitazioni popolari, era stata presentata fin dal 3 febbraio
precedente, sicché il prolungamento del termine oltre tale data può
avere agito come vero e proprio incentivo a delinquere, in contrasto
con la ratio ispiratrice del secondo comma dell'art. 79.
La Corte ha avuto occasione di pronunciarsi sulla questione, una
volta con la sentenza n. 171 del 1963, ed un'altra con la n. 51 del
1968. Con la prima venne ritenuto che, pur essendo buona parte dei
reati allora amnistiati già previsti da proposte presentate
anteriormente, tuttavia tali proposte erano da considerare irrilevanti,
non essendo state né riunite al disegno governativo per procedere ad
un loro esame unitario né in alcun modo considerate, e non mai poste
in discussione. Sostanzialmente conforme è la seconda che, pur notate
le differenze fra le disposizioni delle prime proposte rispetto a
quella poi approvata, fonda la statuizione di rigetto sulla
constatazione della mancata presa in considerazione delle proposte
anteriori, che pertanto restarono completamente fuori dall'iter
dell'approvazione della legge.
Tale orientamento dev'essere confermato anche in presenza della
fattispecie in esame, data la sua somiglianza con quelle che furono
oggetto delle precedenti decisioni. Risulta infatti che la proposta di
iniziativa parlamentare del 3 febbraio (che rendeva efficace l'amnistia
particolare prevista per i reati commessi fino al 31 dicembre 1969) non
venne sottoposta a discussione ed anzi fu ritirata dai proponenti il 16
maggio successivo, sicché è rimasta del tutto estranea al
procedimento da cui ha tratto vita la legge di delegazione. Il secondo
comma dell'art. 79, modificando, per quanto riguarda il termine, l'art.
151, terzo comma, cod. pen., ha fatto riferimento alla "proposta" di
delegazione, termine con il quale si è inteso designare quella fra le
varie possibili iniziative da cui è direttamente derivato l'atto di
clemenza.
Non può ritenersi con l'ordinanza di rinvio che l'esistenza di
tale proposta, identica alla parte del progetto governativo relativa
all'amnistia particolare, si sia potuta risolvere in "incentivo a
delinquere", dato il termine del 31 dicembre con essa stabilito,
termine conservato poi dal progetto governativo che aggiungeva alla
prima un'amnistia generale, mentre il prolungamento al 6 aprile avvenne
per opera della commissione deliberante, che, applicando anch'essa
esattamente il precetto del secondo comma dell'art. 79, rese efficace
il provvedimento limitatamente ai reati commessi prima del 6 aprile,
data nella quale il Governo aveva, per la prima volta, manifestato
l'intenzione di estenderne la portata.
6. - Altre ordinanze denunciano disposizioni diverse da quelle
concessive dell'amnistia del 1970, o da sole o in unione a queste
ultime. Il pretore di Napoli ha, in data 15 ottobre 1970, sollevato la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 152, capoverso, del
codice di procedura penale, per violazione degli artt. 3, primo comma,
e 27, secondo comma, Cost., nella considerazione che, limitando esso la
possibilità della non applicazione dell'amnistia per statuire invece
l'assoluzione in merito solo ai tre casi ivi considerati, esclude che
lo stesso trattamento il giudice possa applicare nell'ipotesi, pur del
tutto analoga, dell'esistenza di prove così evidenti da far ritenere
che il "fatto non costituisce reato".
La censura apparirebbe certamente fondata ove le ipotesi previste
dal citato art. 152 dovessero ritenersi rigidamente tassative, il che
è escluso dalla giurisprudenza e da larga parte della più autorevole
dottrina. In realtà alla formula, ivi considerata, della non
previsione da parte della legge di un fatto come reato si deve
attribuire un significato generico, comprensivo non solo delle ipotesi
del difetto di una qualsiasi norma penale cui possa ricondursi il fatto
imputato, ma anche di quelle di mancanza delle condizioni di
imputabilità o di punibilità, rispetto a cui il fatto, pur se
astrattamente previsto dalla legge penale, risulta giuridicamente
irrilevante al fine dell'applicabilità di questa, e quindi del tutto
equivalente all'altra.
Conducono a far adottare tale interpretazione motivi desunti dalla
ratio dell'art. 152, capov., che è quella di evitare, di fronte
all'evidenza delle prove, l'adozione della formula di proscioglimento
per cause di estinzione del reato, che presuppone o può far
presupporre l'esistenza, o per lo meno l'astratta possibilità, di
fatti in sé suscettibili di sanzione penale. E sarebbe assurdo far
valere siffatta esigenza solo in confronto di alcune delle ipotesi
prospettate e non di altre delle quali non può contestarsi
l'equivalenza.
Ad avviso contrario si potrebbe pervenire solo se il linguaggio
legislativo in materia presentasse carattere di univocità, il che non
avviene, come risulta dal confronto che si faccia, da una parte, fra le
dizioni degli artt. 1 e 2 del codice penale, e dall'altra quella
dell'art. 152 del codice di procedura penale e delle altre degli artt.
378 e 479 dello stesso codice, nei quali ultimi non appare la dizione
"fatto che la legge non prevede come reato", ed invece ne è adoperata
una diversa: "persona non punibile perché il fatto non costituisce
reato".
Quanto si è detto, se porta ad escludere ogni rilievo alla
differenziazione fra le due formule considerate, al fine della
sussistenza dell'obbligo del giudice di pronunciare il proscioglimento
in merito, in luogo di quello fondato sulla causa di estinzione, non
incide invece sull'altro aspetto attinente alla gerarchia delle formule
medesime: gerarchia da determinare in considerazione dell'interesse
dell'imputato a venire assolto con l'impiego di quella fra esse che
risulti produttiva degli effetti per lui meno pregiudizievoli, e che
conduce, com'è ovvio, a dare la preminenza alla non previsione del
fatto quale reato.
In conclusione l'interpretazione da assumere dell'art. 152 del
codice di procedura penale conduce a far ritenere infondata l'eccezione
sollevata in ordine ad essa.
7. - Con quattro ordinanze in data 27 maggio, 1 e 26 giugno 1970 il
tribunale di Milano ha sollevato d'ufficio questione di legittimità
costituzionale, sia dell'art. 596, primo comma, c.p., in relazione
all'art. 21 Cost., nella parte in cui escluderebbe la rilevanza e la
prova della verità del fatto diffamatorio attribuito alla persona
offesa, nel caso che la pubblicità data al fatto stesso costituisca
esercizio del diritto di cronaca, e sia conseguentemente dell'art. 5
del d.P.R. n. 283, che, mentre comprende nell'amnistia i delitti di
diffamazione a mezzo della stampa, esclude solo le ipotesi previste dal
terzo comma dell'art. 596 nn. 1, 2 e 3 del codice penale. Il che
contrasterebbe con l'art. 3, primo comma, Cost., perché si opererebbe
una diversità di trattamento secondo che il querelante per
diffamazione abbia o no concesso formalmente la facoltà di provare il
fatto attribuito; diversità difettante di ogni ragionevole fondamento
quando si tratti di esercizio della libertà di cronaca, poiché in
ordine ad essa l'interesse del querelante alla tutela dell'"onore
reale" conduce ad escludere che l'omissione della concessione formale
di prova sia da interpretare quale rinunzia alla tutela stessa.
La difesa di una delle parti private ha opposto un'eccezione di
inammissibilità per difetto di rilevanza, nella considerazione che il
tribunale ha ammesso tale rilevanza in quanto ha ritenuto che le
imputazioni di cui alla causa potrebbero "eventualmente" ritenersi
esercizio del diritto di cronaca, sicché la rilevanza potrebbe venire
validamente affermata solo dopo l'accertamento dell'effettivo
realizzarsi di tale circostanza. Si può opporre che, almeno nei
confronti di alcuni degli imputati che rivestono la qualità di
giornalista, cui si addebita la paternità delle pubblicazioni
incriminate, non appare dubbio che queste siano esplicazione di
attività professionale, e ciò è sufficiente a conferire rilevanza
alla questione.
Nel merito l'eccezione non può ritenersi fondata quando si tengano
presenti i principi ai quali è da risalire nella materia dei reati di
diffamazione a mezzo della stampa, alla stregua dei quali devono
interpretarsi gli articoli denunciati. Sembra infatti evidente che
l'art. 596, primo comma, quando non ammette il colpevole del delitto di
diffamazione a provare a propria discolpa la verità o notorietà del
fatto attribuito alla persona offesa, non possa trovare applicazione
allorché il colpevole stesso sia in grado di invocare l'esimente,
prevista dall'art. 51 c.p., che esclude la punibilità in quanto il
fatto imputato costituisca esercizio di un diritto. E non appar dubbio
che tale sia il caso del giornalista che, nell'esplicazione del compito
di informazione ad esso garantito dall'art. 21 Cost., divulghi col
mezzo della stampa notizie, fatti o circostanze che siano ritenute
lesive dell'onore o della reputazione altrui, sempreché la
divulgazione rimanga contenuta nel rispetto dei limiti che
circoscrivono l'esplicazione dell'attività informativa derivabili
dalla tutela di altri interessi costituzionali protetti. Discende da
tali premesse che nei confronti di imputazioni riconducibili
all'ipotesi ora prospettata non può venire in considerazione la
volontà del querelante rivolta a consentire o meno la facoltà di
provare il fatto addebitato, poiché tale facoltà, discendente
direttamente dai principi richiamati, costituisce mezzo necessario
affinché l'imputato si sottragga all'accusa a lui rivolta. Allo stesso
modo non incorre in censure di incostituzionalità l'art. 5, lett. d,
del d.P.R. n. 283, poiché deve ritenersi che l'amnistia non possa
trovare applicazione per le imputazioni riferibili alla cronaca, dato
che tale ipotesi è da assimilare in tutto a quelle per le quali la
stessa lett. d nega la concessione di amnistia.
Dall'assunto che l'interpretazione sistematica conduce ad estendere
la non applicabilità dell'amnistia anche al caso della cronaca
diffamatoria, ed a far ritenere che al diritto del cronista di fornire
la prova della verità (o verosimiglianza) dei fatti denunciati, al
fine di sottrarsi alla sanzione, corrisponde quello della persona
offesa di pretendere che tale prova venga effettuata anche senza che ne
abbia fatto espressa richiesta, segue che analoga estensione debba
farsi valere in confronto all'art. 5, lett. d, del decreto
presidenziale in esame, in cui è da ritenersi sottintesa, accanto alle
tre ipotesi del terzo comma dell'art. 596 del codice penale, anche
quella riguardante la cronaca.
Non si riscontra pertanto alcuna differenza di trattamento fra il
caso di formale concessione dell'exceptio veritatis e quello in cui
essa manchi, data la notata irrilevanza di tale dichiarazione di
volontà.
Alla conclusione cui si deve giungere dell'infondatezza, alla
stregua del criterio interpretativo adottato, dell'eccezione sollevata
nulla può fondatamente opporsi muovendo, come fa la difesa di una
delle parti private, dal richiamo all'articolo 152 del codice di
procedura penale. Infatti, quest'articolo trova applicazione solo
quando sia sopravvenuta una causa di estinzione del reato e pertanto
appare chiaro che ad esso non possa farsi riferimento allorché, come
accade nella specie, si debba escludere l'estensione del provvedimento
di clemenza.
8. - Il pretore di Civitanova Marche, in data 27 maggio 1970, ha
eccepito la incostituzionalità dell'art. 151 c.p., nonché della legge
n. 282 e pedissequo decreto presidenziale, sotto l'aspetto della
violazione dell'art. 24, commi primo e secondo Cost., nella
considerazione della lesione che dall'applicazione automatica
dell'amnistia sancita da dette norme deriva alla tutela giudiziale
degli interessi, ed al diritto di difesa; nonché dell'art. 3 Cost.
per la diversità di trattamento, quale può desumersi sia dalla
disposizione del codice penale in ordine all'analogo caso della
remissione della querela, la cui efficacia è condizionata
all'accettazione da parte del querelato, e sia dalle precedenti leggi
di amnistia le quali tutte prevedevano la possibilità della rinuncia.
Il punto relativo alla compatibilità dell'amnistia con il diritto
di difesa spettante all'imputato di reato ad essa soggetto è stato
prospettato una prima volta alla Corte nel 1963, ma non è stato preso
in considerazione, in quanto come statuito con la sentenza n. 171 del
1963, non risultavano allora impugnate le disposizioni di carattere
generale alle quali i provvedimenti di amnistia si uniformavano.
Successivamente con la sentenza n. 52 del 1968 la Corte (di fronte ad
una censura in senso opposto a quella di cui al presente giudizio,
rivolta cioè contro un decreto di amnistia che invece consentiva la
facoltà di rinunzia, per contrasto, oltre che con l'articolo 79 Cost.
che non prevede l'amnistia rinunciabile, anche con gli artt. 24 e 25
Cost. per le conseguenze che se ne devono far derivare nel caso che il
rinunciante all'amnistia non riesca a raggiungere la prova della
propria innocenza), dopo aver dichiarato infondate le censure che si
facevano discendere dalle presunte violazioni del diritto di difesa
garantito dall'art. 24 e del principio nullum crimen sine lege di cui
all'articolo 25, ha statuito che l'istituto dell'amnistia quale risulta
regolato dall'art. 79 non è legato né alla concessione della facoltà
di rinunciarvi, né al divieto di esercitarla, riuscendo indifferente
ad essa l'accoglimento dell'una o dell'altra ipotesi.
Prendendo a base e confermando quanto stabilito con quest'ultima
decisione, e precisamente: a) che la facoltà di rinuncia all'amnistia
non solo non contraddice al diritto di difesa, ma anzi ne costituisce
esplicazione; b) che l'esercizio della facoltà stessa rende inoperante
l'amnistia, e conseguentemente consente l'applicabilità della sanzione
penale a carico del rinunziante che risulti colpevole in seguito alla
prosecuzione e definizione del giudizio, la Corte deve riesaminare il
problema sotto l'aspetto ora sottopostole, se cioè appartenga
effettivamente alla discrezionalità del legislatore concedere o meno
la facoltà di rinunzia.
La risposta negativa sembra discendere logicamente da quanto si è
già ritenuto, che cioè la rinunzia all'amnistia costituisce
esplicazione del diritto di difesa, sembrando chiaro discendere da tale
affermazione come in quest'ultimo sia da considerare inclusa non solo
la pretesa al regolare svolgimento di un giudizio che consenta libertà
di dedurre ogni prova a discolpa e garantisca piena esplicazione del
contraddittorio, ma anche quella di ottenere il riconoscimento della
completa innocenza, da considerare il bene della vita costituente
l'ultimo e vero oggetto della difesa, rispetto al quale le altre
pretese al giusto procedimento assumono funzione strumentale.
Ora, non è contestabile che, a differenza di quanto avviene nel
caso di abrogazione di una norma penale, l'amnistia non elimina
l'astratta previsione punitiva relativa a determinati comportamenti, ma
si limita ad arrestare la procedibilità dei giudizi relativamente a
dati reati, con riferimento al tempo in cui sono stati commessi.
Pertanto, con l'obbligo fatto al giudice di dichiarare in tutti i
giudizi in corso al momento del sopravvenire di un procedimento di
amnistia, l'estinzione del reato (salve le tre eccezioni prima
ricordate) viene compromessa irreparabilmente la soddisfazione
dell'interesse ad ottenere una sentenza di merito, vincolando invece
l'imputato a soggiacere ad una pronuncia di proscioglimento, la quale,
appunto perché non scende ad accertare e neppure solo a delibare la
fondatezza dell'accusa, se anche sottrae ad ogni pena, non conferisce
alcuna certezza circa l'effettiva estraneità dell'imputato all'accusa
contro di lui promossa, e quindi lascia senza protezione il diritto
alla piena integrità dell'onore e della reputazione.
A riprova della rilevanza costituzionalmente protetta
dell'interesse di chi sia perseguito penalmente ad ottenere non già
solo una qualsiasi sentenza che lo sottragga alla irrogazione di una
pena, ma precisamente quella sentenza che nella sua formulazione
documenti la non colpevolezza, possono richiamarsi le considerazioni
prima dedicate alla gerarchia che è da porre fra le formule di
proscioglimento, quale risulta anche dallo stesso primo comma dell'art.
152 c.p.p. in cui le cause di estinzione occupano l'ultimo posto;
gerarchia che è stata esattamente considerata applicazione del favor
innocentiae, come particolare aspetto del principio generale del favor
rei.
Non varrebbe, per giungere a diversa conclusione, richiamarsi alla
funzione che si attribuisca all'amnistia, di tutela degli interessi
della vita sociale, poiché tale funzione deve essere coordinata con
quelli inalienabili della personalità morale, fra i quali rientra la
pretesa dell'imputato di addurre e far valutare le prove da cui crede
potersi argomentare la propria irresponsabilità penale.
Si aggiunga poi che all'interesse morale ad una sentenza di
assoluzione con formula piena si affianca anche quello patrimoniale,
dato che l'assoluzione da amnistia lascia integra (a tacere delle
eventuali connesse responsabilità amministrative) l'azione civile per
risarcimento del danno, mentre corrisponde all'interesse dell'imputato
di ottenere dal giudice penale una pronuncia che, ai sensi dell'art. 25
cod. proc. pen., e ricorrendone i presupposti, renda improponibile
l'azione civile.
Una volta accertata la violazione dell'art. 24 Cost. può ritenersi
ultroneo esaminare l'altra denunzia fondata sul contrasto con l'art. 3
della Costituzione.
9. - Un ultimo gruppo di ordinanze denuncia le norme le quali, nel
caso di sopravvenienza di una amnistia, mentre impongono al giudice di
non darvi applicazione, pronunciando in merito, allorché vi siano
prove "evidenti" che il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha
commesso o che il fatto non è previsto come reato dalla legge penale,
inibiscono poi la prosecuzione dell'istruttoria e quindi l'acquisizione
delle prove già richieste ma non ancora iniziate o delle altre in
corso di acquisizione. In questo senso sono l'ordinanza in data 16
giugno 1970 del pretore di Roma (secondo cui gli artt. 152 e 592 cod.
proc. pen. contrastano con l'art. 24, secondo comma, Cost.); quelle in
data 25 giugno 1970 del tribunale di Milano (che denuncia gli artt. 591
e 592 c.p.p. per violazione dell'art. 24 Cost.); quella del pretore di
Padova del 29 luglio 1970 (che impugna gli artt. 152 e 592 c.p.p. per
violazione degli artt. 3 e 24 Cost.); l'altra del pretore di Roma del
29 ottobre 1970 (che allega il contrasto dell'art. 152, secondo comma,
c.p.p. con l'art. 24, secondo comma, Cost.); ed infine quella del
pretore di Pietrasanta del 30 ottobre 1970 anch'essa rivolta a
denunciare, per violazione degli artt. 24, secondo comma, e 3, primo
comma, della Costituzione, gli artt. 152 e 592 del codice di procedura
penale.
Le considerazioni esposte in precedenza in ordine alla rilevanza
costituzionale dell'interesse dell'imputato ad ottenere una sentenza di
merito in luogo di una dichiarativa dell'estinzione per amnistia
conducono a far ritenere fondate le eccezioni proposte. L'incongruenza
delle disposizioni che precludono al giudice di assumere prove o di
completare quelle in corso appare tanto più grave quando si tengano
presenti gli artt. 376 e 398, ultimo comma, c.p.p., che sanciscono, a
pena di nullità, il divieto di dichiarare non doversi procedere per
amnistia con sentenza istruttoria senza il previo interrogatorio
dell'imputato sul fatto costituente l'oggetto dell'imputazione.
Infatti se, come è stato messo in rilievo con la sentenza della Corte
n. 151 del 1967, funzione dell'interrogatorio è quella di consentire
all'imputato, in conformità dell'art. 24 Cost., di opporre le proprie
difese allo scopo di evitare il tipo di sentenze, come quelle di
amnistia e le altre previste nello stesso art. 376, che analogamente
non forniscono la prova della sua non colpevolezza lasciandolo sotto il
peso di accuse relative a "fatti che, pur non costituendo reato,
possono essere giudicate sfavorevolmente dalla opinione pubblica o
dalla coscienza sociale", appare chiaro che tale funzione risulterebbe
elusa se non fosse consentito l'esperimento delle prove a discolpa
dedotte nell'interrogatorio stesso.
Accertata la fondatezza delle censure rivolte agli artt. 152 e 592
c.p.p. sorge il quesito circa l'influenza che sulla formulazione della
conseguente pronuncia di incostituzionalità debba essere assegnata
alla conclusione cui prima si è giunti relativamente all'obbligo
gravante sul legislatore di consentire in ogni caso il diritto di
rinunciare all'amnistia.
Sembra infatti che, una volta ancorata la pretesa ad ottenere una
sentenza di merito, in luogo di quella dichiarativa di amnistia, alla
soddisfazione dell'interesse dell'imputato prevalente su quello posto a
base del provvedimento di clemenza, lo strumento più idoneo al
conseguimento di tale risultato debba ritenersi la rinunzia, senza che
occorra aver riguardo al fatto, del tutto accidentale, della situazione
processuale, e quindi alla fase dell'iter istruttorio in corso al
momento della sopravvenienza.
Di conseguenza, la dichiarazione di illegittimità costituzionale
per l'omessa previsione del diritto alla rinunzia può ritenersi
assorbente le altre censure, nel senso di rendere superflua ogni
pronuncia in ordine alla differenza di trattamento fra il caso che al
momento del sopravvenire dell'amnistia siano o no acquisite prove
evidenti, dovendosi gli articoli denunciati 152 e 592 c.p.p.
interpretare nel senso che l'obbligo ivi sancito dell'immediata
declaratoria dell'amnistia non sia da far valere quando risulti
l'avvenuta rinunzia a voler beneficiare del provvedimento di clemenza.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 151, primo
comma, del codice penale, nonché degli artt. 1, 2 e 5 della legge 21
maggio 1970, n. 282, e degli artt. 1, 2 e 5 del d.P.R. 22 maggio 1970,
n. 283, nella parte in cui escludono la rinunzia, con le conseguenze
indicate in motivazione, all'applicazione dell'amnistia;
b) dichiara non fondate, ai sensi di cui in motivazione, le
questioni di legittimità costituzionale relative agli artt. 152, 591 e
592 del codice di procedura penale, sollevate, con le ordinanze 25
giugno 1970 del tribunale di Milano, 29 luglio 1970 del pretore di
Padova, 16 giugno e 29 ottobre 1970 del pretore di Roma e 30 ottobre
1970 del pretore di Pietrasanta, in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione;
c) dichiara non fondata, ai sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 152, primo comma,
del codice di procedura penale, sollevata, con l'ordinanza 15 ottobre
1970 del pretore di Napoli, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e
27, secondo comma, della Costituzione;
d) dichiara non fondata, ai sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 596, primo comma,
del codice penale, e 5, lett. d, della legge 21 maggio 1970, n. 282,
sollevata, con quattro ordinanze del tribunale di Milano in data 27
maggio, 1 e 26 giugno 1970, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e
21, primo comma, della Costituzione;
e) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 1 e 5 della legge n. 282 del 1970, ed 1 e 5 del d.P.R. 22
maggio 1970, n. 283, sollevata, con le ordinanze 26 maggio 1970 del
pretore di Chieri, 30 luglio 1970 del pretore di Modena e 3 ottobre
1970 del tribunale di Velletri, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 27,
35, 39, 42 e 79 della Costituzione;
f) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 11 della legge 21 maggio 1970, n. 282, sollevata con
ordinanza 23 luglio 1970 del pretore di Pietrasanta, in riferimento
all'art. 79, secondo comma, della Costituzione;
g) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 5, penultimo comma, del d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283,
sollevata con le ordinanze 25 giugno 1970 del pretore di Chieri e 27
giugno 1970 del pretore di Torino, in riferimento all'art. 3, primo
comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 luglio 1971.
GIUSEPPE BRANCA - MICHELE FRAGALI -
COSTANTINO MORTATI - GIUSEPPE
CHIARELLI - GIUSEPPE VERZÌ -
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI -
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - LUIGI
OGGIONI - ANGELO DE MARCO - ERCOLE
ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA - VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI - VEZIO CRISAFULLI
- NICOLA REALE - PAOLO ROSSI.