Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un giudizio promosso dalla Congregazione
cristiana dei Testimoni di Geova per l'annullamento del provvedimento
del 17 agosto 1995 con il quale il comune di Cremona aveva negato
alla ricorrente l'assegnazione di contributi previsti dalla legge
della Regione Lombardia 9 maggio 1992, n. 20 (Norme per la
realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a
servizi religiosi), il Tribunale amministrativo regionale della
Lombardia, con ordinanza depositata il 4 dicembre 2001 e pervenuta il
4 febbraio 2002, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 8, primo comma, e 19 della
Costituzione, dell'art. 1 della legge regionale indicata, nella parte
in cui subordina la corresponsione dei contributi per la
realizzazione di attrezzature destinate a servizi religiosi alla
condizione che la confessione interessata abbia chiesto ed ottenuto
la regolamentazione dei propri rapporti con lo Stato sulla base di
una intesa ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione.
Premette il giudice a quo che la Congregazione dei Testimoni di
Geova aveva avanzato l'istanza al comune di Cremona richiamando il
principio, affermato da questa Corte nella sentenza n. 195 del 1993 -
che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale di analoga norma
contenuta nella legge della Regione Abruzzo 16 marzo 1988, n. 29 -,
secondo il quale la corresponsione dei contributi in questione non
può essere subordinata dalle leggi regionali alla condizione che le
confessioni religiose che ne facciano richiesta abbiano regolato i
loro rapporti con lo Stato mediante intese, ai sensi dell'art. 8,
terzo comma, Cost. L'amministrazione comunale aveva però respinto la
domanda, escludendo che il principio affermato in quella sentenza,
resa in riferimento alla legge n. 29 del 1988 della Regione Abruzzo,
in difetto di espressa statuizione della Corte potesse applicarsi
alla legge della Regione Lombardia, rilevante nel caso in esame.
L'autorità remittente, dopo aver delineato i caratteri del
sistema di controllo di costituzionalità delle leggi definito dagli
artt. 134 e 138 (recte: 137) della Costituzione, 1 della legge
costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, nonché dall'art. 27 della
legge 11 marzo 1953, n. 87, ha escluso di poter essa stessa
disapplicare - come richiesto dalla ricorrente - per motivi di
giustizia sostanziale o di economia processuale, norme legislative
vigenti, ancorché palesemente in contrasto con precetti
costituzionali, contrasto emergente dalla già intervenuta
dichiarazione di illegittimità costituzionale di disposizioni
analoghe a quelle da applicare nel giudizio a quo, essendo riservata
a questa Corte la declaratoria di illegittimità costituzionale in
via consequenziale anche delle disposizioni analoghe, esecutive,
confermative, applicative o ripetitive.
La questione è rilevante, ad avviso del giudice a quo, in quanto
il giudizio in corso, avendo ad oggetto la sussistenza del diritto
soggettivo della ricorrente alla corresponsione dei contributi in
discorso, non può essere deciso indipendentemente dalla risoluzione
del dubbio di costituzionalità che investe l'art. 1 della legge
della Regione Lombardia n. 20 del 1992, direttamente applicabile alla
fattispecie.
Né rileverebbe la circostanza che la ricorrente invochi a
sostegno della propria pretesa il fatto che altri comuni della
Regione Lombardia abbiano riconosciuto i contributi alla
Congregazione dei Testimoni di Geova, disapplicando la disposizione
della legge regionale, dal momento che nella specie non potrebbe
configurarsi una illegittimità del provvedimento impugnato per
contrasto con precedenti provvedimenti, sia perché si tratta di atti
emanati da amministrazioni diverse, sia in quanto l'errore compiuto
in passato non potrebbe essere invocato per giustificare altri atti
illegittimi o per invocare una pretesa disparità di trattamento.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, secondo
il remittente essa si ricaverebbe ictu oculi da quanto affermato
dalla citata sentenza di questa Corte n. 195 del 1993. Il principio
costituzionale di eguaglianza e di libertà delle confessioni
religiose, introdotto dall'art. 8, primo comma, della Costituzione,
impedirebbe di emanare norme che escludano da contribuzioni le
confessioni religiose che non abbiano regolato i propri rapporti con
lo Stato mediante le intese di cui al successivo terzo comma. Si
richiamano, della predetta sentenza costituzionale, le affermazioni
secondo cui "tutte le confessioni religiose" di cui all'art. 8, primo
comma "sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro
appartenenti", e la circostanza dell'avvenuta stipulazione
dell'intesa con lo Stato "non può quindi costituire l'elemento di
discriminazione nell'applicazione di una disciplina, posta da una
legge comune, volta ad agevolare l'esercizio di un diritto di
libertà dei cittadini"; e, ancora, "gli interventi pubblici" in
questione "vengono ad incidere positivamente proprio sull'esercizio
in concreto del diritto fondamentale e inviolabile della libertà
religiosa ed in particolare sul diritto di professare la propria fede
religiosa" e di "esercitarne in privato o in pubblico il culto",
conseguendone che "qualsiasi discriminazione in danno dell'una o
dell'altra fede religiosa è costituzionalmente inammissibile in
quanto contrasta con il diritto di libertà e con il principio di
uguaglianza"; "finalità ed effetto" della legge essendo quelli "di
facilitare l'esercizio del culto, l'agevolazione non può essere
subordinata alla condizione che il culto si riferisca ad una
confessione religiosa la quale abbia chiesto e ottenuto la
regolamentazione dei propri rapporti con lo Stato ai sensi
dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione".
Il fatto che una confessione religiosa non abbia concluso con lo
Stato una siffatta intesa, pertanto, non potrebbe costituire motivo
di discriminazione, dal momento che la differenziazione violerebbe il
principio della parità di trattamento e della eguale libertà di
culto sancito dallo stesso art. 8 della Costituzione, recando
pregiudizio all'esercizio del diritto fondamentale e inviolabile a
professare la propria fede religiosa, stabilito dall'art. 19 della
Costituzione.
2. - Non vi è stata costituzione di parti né intervento del
Presidente della giunta regionale.
Considerato in diritto
1. - La questione sollevata dal Tribunale amministrativo
regionale della Lombardia investe l'art. 1 della legge regionale
della Lombardia 9 maggio 1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di
edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi). La
disposizione in esame indica come finalità della legge la promozione
della "realizzazione di attrezzature di interesse comune destinati
[rectius: destinate] a servizi religiosi, da effettuarsi da parte
degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della
Chiesa cattolica, e delle altre confessioni religiose, i cui rapporti
con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell'articolo 8, terzo
comma, della Costituzione" - vale a dire da leggi sulla base di
intese con le relative rappresentanze - "e che già abbiano una
presenza organizzata nell'ambito dei comuni ove potranno essere
realizzati gli interventi" previsti. I successivi articoli precisano
quali attrezzature di interesse comune per servizi religiosi possono
essere finanziate (immobili destinati al culto o all'abitazione dei
ministri del culto e del personale di servizio, o ad attività di
formazione religiosa; immobili adibiti, nell'esercizio del ministero
pastorale, ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e
di ristoro, che non abbiano fini di lucro: art. 2); prevedono che gli
strumenti urbanistici generali individuino le aree destinate ad
attrezzature religiose, riservando ad esse una dotazione di aree pari
almeno al 25 per cento di quella complessiva destinata ad
attrezzature di interesse comune (art. 3); disciplinano l'erogazione
di contributi, a valere su un apposito fondo alimentato da una quota,
pari almeno all'8 per cento, delle somme riscosse per oneri di
urbanizzazione secondaria, contributi che sono ripartiti fra le
confessioni religiose che ne facciano richiesta "e che abbiano le
caratteristiche di cui al precedente articolo 1" (art. 4).
La disposizione impugnata è censurata invocando le ragioni che
condussero questa Corte a dichiarare, con la sentenza n. 195 del
1993, la illegittimità costituzionale parziale di un'analoga legge
della Regione Abruzzo (sentenza che, correttamente, il Tribunale
amministrativo regionale esclude possa estendere i suoi effetti alla
legge lombarda): il condizionare l'erogazione dei contributi a favore
delle confessioni religiose al requisito dell'avere queste stipulato
un'intesa con lo Stato ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della
Costituzione è in contrasto, secondo il remittente, con i principi
di eguale libertà delle confessioni (art. 8, primo comma, Cost.) e
di libertà di esercizio del culto (art. 19 Cost.), libertà sulla
quale gli interventi pubblici in questione incidono positivamente.
La censura investe dunque, più precisamente, quella parte
dell'art. 1 della legge impugnata che pone come requisito, che
debbono possedere le confessioni religiose per ottenere i contributi,
l'essere i loro rapporti con lo Stato "disciplinati ai sensi
dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione".
2. - La questione è fondata.
Già nella sentenza n. 195 del 1993 questa Corte, giudicando
sulla legittimità costituzionale di una legge della Regione Abruzzo,
dichiarò che "un intervento generale ed autonomo dei pubblici poteri
che trova la sua ragione e giustificazione - propria della materia
urbanistica - nell'esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed
armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di
interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende
perciò anche i servizi religiosi", ed ha l'effetto di facilitare "le
attività di culto, che rappresentano un'estrinsecazione del diritto
fondamentale ed inviolabile della libertà religiosa", non può
introdurre come elemento di discriminazione fra le confessioni
religiose che aspirano ad usufruirne, avendone gli altri requisiti,
l'esistenza di un'intesa per la regolazione dei rapporti della
confessione con lo Stato.
Tale ragione di incostituzionalità trova applicazione anche nel
presente giudizio. Le intese di cui all'art. 8, terzo comma, sono
infatti lo strumento previsto dalla Costituzione per la regolazione
dei rapporti delle confessioni religiose con lo Stato per gli aspetti
che si collegano alle specificità delle singole confessioni o che
richiedono deroghe al diritto comune: non sono e non possono essere,
invece, una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni
per usufruire della libertà di organizzazione e di azione, loro
garantita dal primo e dal secondo comma dello stesso art. 8, né per
usufruire di norme di favore riguardanti le confessioni religiose.
Ciò è tanto più vero in una situazione normativa in cui la
stipulazione delle intese è rimessa non solo alla iniziativa delle
confessioni interessate (le quali potrebbero anche non voler
ricorrere ad esse, avvalendosi solo del generale regime di libertà e
delle regole comuni stabilite dalle leggi), ma anche, per altro
verso, al consenso prima del Governo - che non è vincolato oggi a
norme specifiche per quanto riguarda l'obbligo, su richiesta della
confessione, di negoziare e di stipulare l'intesa - e poi del
Parlamento, cui spetta deliberare le leggi che, sulla base delle
intese, regolano i rapporti delle confessioni religiose con lo Stato.
Vale dunque in proposito il divieto di discriminazione, sancito
in generale dall'art. 3 della Costituzione e ribadito, per quanto qui
interessa, dall'art. 8, primo comma. Ne risulterebbe, in caso
contrario, violata anche l'eguaglianza dei singoli nel godimento
effettivo della libertà di culto, di cui l'eguale libertà delle
confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione
necessaria sul piano comunitario, e sulla quale esercita una
evidente, ancorché indiretta influenza la possibilità delle diverse
confessioni di accedere a benefici economici come quelli previsti
dalla legge in esame.
3. - Nemmeno si potrebbe ritenere che - data l'assenza,
nell'ordinamento, di criteri legali precisi che definiscano le
"confessioni religiose" - il riferimento all'esistenza dell'intesa
possa valere come elemento oggettivo di qualificazione delle
organizzazioni richiedenti, atto a distinguere le confessioni
religiose da diversi fenomeni di organizzazione sociale che
pretendessero tuttavia di accedere ai benefici.
È bensì vero che siffatto problema di qualificazione si pone
sia in sede di applicazione dell'art. 8, terzo comma, della
Costituzione, ai fini di identificare i soggetti che possono chiedere
di stipulare le intese, sia in sede di applicazione, amministrativa o
giurisprudenziale, di ogni altra norma che abbia come destinatarie le
confessioni religiose. Ma ciò non significa che si possa confondere
tale problema qualificatorio - che può essere, in concreto, di più
o meno difficile soluzione - con un requisito, quello della
stipulazione di intese, che presuppone bensì la qualità di
confessione religiosa, ma non si identifica con essa.
Nella specie, da un lato, possono valere i diversi criteri, non
vincolati alla semplice autoqualificazione (cfr. sentenza n. 467 del
1992), che nell'esperienza giuridica vengono utilizzati per
distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni sociali
(ed è ben noto come vi siano confessioni, pur prive di intesa, che
hanno però ottenuto diverse forme di riconoscimento: cfr. sentenza
n. 195 del 1993 e ordinanza n. 379 del 2001); dall'altro lato, dal
punto di vista pratico, vale la considerazione che il beneficio
previsto riguarda comunque (e continuerà a riguardare anche dopo la
dichiarazione di parziale incostituzionalità derivante dalla
presente pronunzia) solo le confessioni che "abbiano una presenza
organizzata nell'ambito dei comuni ove potranno essere realizzati gli
interventi previsti" dalla legge stessa, e potrà essere concesso
solo in relazione alla realizzazione delle "attrezzature di interesse
comune per servizi religiosi", definite nell'art. 2 della legge.
4. - La norma impugnata, nella parte che introduce il requisito
della disciplina sulla base di intesa, ai sensi dell'art. 8, terzo
comma, della Costituzione, dei rapporti con lo Stato delle singole
confessioni religiose, ai fini di poter usufruire dei benefici
previsti, deve essere dunque dichiarata costituzionalmente
illegittima. Non è necessario invece estendere tale dichiarazione di
illegittimità al disposto dell'art. 4, comma 2, della legge, che,
facendo rinvio alle "caratteristiche di cui al precedente art. 1" per
identificare le confessioni richiedenti aventi titolo ai contributi,
si conforma automaticamente alla nuova portata dell'art. 1 medesimo
risultante dalla presente pronunzia.