Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza del 30 marzo 1994 (r.o. n. 442 del 1994) la
Commissione tributaria di primo grado di Roma - nel corso di un
giudizio proposto da Giacomo Cea nei confronti dell'Amministrazione
finanziaria per il rimborso della ritenuta fiscale del 6 per mille,
operata, dalla Banca d'America e d'Italia, sul saldo contabile dei
suoi conti correnti alla data del 9 luglio 1992 - ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 47 e 53 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell'art. 7 del decreto-legge 11 luglio
1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza
pubblica) come sostituito dalla legge di conversione 8 agosto 1992,
n. 359.
L'ordinanza, rilevato che il tributo previsto dalla norma in esame
presenta le caratteristiche di un'imposta sul patrimonio finanziario
e non su un effettivo reddito, ritiene che il prelievo abbia inciso
in maniera diffusa su situazioni differenziate, discriminando le
posizioni dei soggetti colpiti e ispirandosi, così, al principio di
proporzionalità piuttosto che a quello di progressività. Lo stesso,
inoltre, avrebbe colpito risparmi in gran misura di minima entità,
lasciando inalterati patrimoni più cospicui investiti in utilizzi
maggiormente remunerativi dei semplici depositi, gravando talora
sopra disponibilità finanziarie contingenti e, perciò, non
sull'effettiva ricchezza, ma su temporanee liquidità, spesso da
sottoporre ad ulteriori tassazioni. Infine la norma impugnata
consentirebbe solo ai possessori di scritture contabili di provare
l'ammontare effettivo del saldo disponibile alla data del 9 luglio
1992.
La norma denunciata si porrebbe, pertanto, in contrasto con:
1) l'art. 3 della Costituzione, "per aver colpito in maniera
eguale situazioni differenziate";
2) l'art. 53 della Costituzione, per avere "inciso su saldi
contabili astratti che non possono essere considerati espressione di
capacità contributiva", in violazione del principio di
progressività;
3) l'art. 47 della Costituzione, per "non aver tutelato né
incoraggiato il risparmio", "inducendo i risparmiatori a maggiori
cautele" con sottrazione di ricchezza dal circuito economico.
2. - Si è costituito in giudizio il Cea, rappresentato e difeso
dall'avv. Emmanuele Emanuele, il quale ha depositato una memoria
nella quale chiede la declaratoria di illegittimità costituzionale
delle disposizioni in parola. Secondo la difesa della parte privata,
la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l'art. 3 della
Costituzione, in quanto l'imposta colpirebbe esclusivamente alcune
forme d'impiego del risparmio nei confronti di altre, penalizzando i
titolari di redditi medio bassi, privi della possibilità di
utilizzare impieghi che presuppongono maggiori disponibilità (BOT,
"pronti contro termine"). Si assume, altresì, che il principio di
eguaglianza avrebbe consentito al legislatore di emanare norme
differenziate riguardo a situazioni obiettivamente diverse, sicché
il presupposto dell'imposta sarebbe stato scelto in modo irrazionale
ed arbitrario, in base soltanto alle somme in deposito. Sarebbe
violato anche l'art. 47 della Costituzione, dal momento che il
"prelievo forzoso", soprattutto a carico dei risparmiatori
tradizionali che non disponevano di altre forme di impiego, avrebbe
provocato sfiducia nel sistema, flessione della raccolta, e
sottrazione della ricchezza dal suo circuito tradizionale. L'imposta,
inoltre, colliderebbe con l'art. 53 della Costituzione, in quanto
graverebbe su "un valore astratto" e cioè, in moltissimi casi, su
disponibilità finanziarie contingenti, momentaneamente in transito
sul conto o non appartenenti all'intestatario, incidendo, pertanto,
non sull'effettiva ricchezza ma su temporanee liquidità, spesso
soggette ad altre tassazioni. Ulteriormente discriminatoria
risulterebbe la facoltà di provare l'ammontare effettivo del saldo
disponibile alla data del 9 luglio 1992, concessa solo ai possessori
di scritture contabili e non alla generalità dei soggetti d'imposta.
Per queste ragioni l'imposta si potrebbe oggettivamente definire
patrimoniale su un patrimonio finanziario a volte inesistente, in
contrasto con la regola costituzionale per cui il nostro sistema è
improntato ai criteri della progressività e non certo, come nel
caso, della proporzionalità.
3. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha chiesto che la questione venga dichiarata non fondata.
Premesso che la norma denunciata persegue un "interesse di
straordinario rilievo", in relazione ad "una situazione di drammatica
emergenza della finanza pubblica", si osserva che l'imposta in
discussione:
a) non è, come del resto anche l'imposta straordinaria sugli
immobili contestualmente introdotta, un'imposta sul reddito, ma che
comunque le imposte patrimoniali non sono necessariamente estranee al
sistema costituzionale;
b) non è un'imposta progressiva, fermo comunque che la
progressività deve informare il sistema nel suo complesso e non ogni
singola imposta, specie se straordinaria;
c) dirigendosi sulla gran massa della ricchezza mobiliare,
tende a colpire un ampio spettro del patrimonio mobiliare e
immobiliare.
Rilevato, altresì, che non si può dire che l'esistenza di
depositi o saldi attivi di conti correnti non sia una manifestazione
di capacità contributiva, anche nel raro caso di disponibilità
finanziaria momentaneamente o accidentalmente in transito, l'atto di
intervento osserva come non si comprenda il rilievo relativo alla
prova contraria, che si asserisce concessa solo ai possessori di
scritture contabili, atteso che il presupposto del tributo è
particolarmente semplice e di facile accertamento, senza necessità
di presunzioni o prove contrarie. Si rileva, infine, che non può
invocarsi l'art. 47 della Costituzione per mettere la ricchezza
mobiliare al riparo da qualunque prelievo tributario.
Considerato in diritto
1. - Con l'ordinanza in epigrafe, viene sollevata questione di
legittimità costituzionale dell'art. 7 del decreto-legge 11 luglio
1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza
pubblica), come sostituito dalla legge di conversione 8 agosto 1992,
n. 359, che, al comma 6, istituisce, per l'anno 1992, un'imposta
straordinaria sui depositi bancari e postali, prevedendo una ritenuta
del 6 per mille sull'ammontare dei medesimi, quale risulta dalle
scritture contabili alla data del 9 luglio 1992.
2. - Secondo il giudice remittente, il tributo, al quale
andrebbero riconosciute le caratteristiche di un'imposta sul
patrimonio finanziario e non su un effettivo reddito, sarebbe
incostituzionale, perché:
a) inciderebbe "in maniera diffusa su situazioni differenziate,
discriminando le posizioni dei soggetti colpiti" e risultando così
ispirato "al principio di proporzionalità piuttosto che a quello di
progressività";
b) colpirebbe risparmi "in gran misura di minima entità,
lasciando inalterati patrimoni più cospicui" investiti in utilizzi
maggiormente remunerativi dei semplici depositi;
c) graverebbe talora sopra "disponibilità finanziarie
contingenti" e, perciò, non "sull'effettiva ricchezza, ma su
temporanee liquidità" spesso "da sottoporre ad ulteriori
tassazioni";
d) consentirebbe "solo ai possessori di scritture contabili di
provare l'ammontare effettivo del saldo disponibile alla data del 9
luglio 1992", escludendo dalla prova contraria la generalità dei
soggetti d'imposta.
Sulla scorta di siffatte premesse, l'ordinanza assume che la
disposizione denunciata sarebbe in contrasto con:
- l'art. 3 della Costituzione, in quanto colpirebbe "in maniera
eguale situazioni differenziate";
- l'art. 53, perché inciderebbe "su saldi contabili astratti
che non possono essere considerati espressione di capacità
contributiva, così da risultare violato il principio di
progressività";
- l'art. 47 della Costituzione, in quanto non tutelerebbe né
incoraggerebbe il risparmio, generando "sfiducia" nei risparmiatori e
"sottraendo ricchezza dal sistema economico".
3. - La questione non è fondata.
Va precisato, anzitutto, che non possono essere presi in
considerazione profili della questione stessa prospettati solo nella
memoria della parte privata, dovendo l'esame di questa Corte essere
circoscritto a quelli dedotti dal giudice a quo .
Quanto a questi ultimi si rileva che, nello svolgimento
argomentativo dell'ordinanza di rimessione, i motivi di censura, sia
pure con qualche sovrapposizione e disorganicità espositiva, trovano
il loro fulcro negli artt. 3 e 53 della Costituzione, sì da
risolversi, in sostanza, in tre ordini di prospettazioni, in
corrispondenza con i principi desumibili dagli articoli dei quali si
assume la violazione; vale a dire quello della capacità contributiva
e quelli, strettamente correlati al primo, della parità di
trattamento nell'imposizione fiscale e della progressività del
sistema tributario. Su un diverso e distinto piano si colloca poi la
specifica doglianza concernente la presunta violazione dell'art. 47
della Costituzione.
4. - Seguendo perciò l'ordine espositivo che, in relazione ai
parametri invocati dal remittente, è consentito dare alle censure
che vengono proposte, va esaminata, anzitutto, quella concernente il
principio di capacità contributiva che si assume violato, in quanto
il prelievo presenterebbe, da un canto, le caratteristiche di
un'imposta sul patrimonio finanziario e non su un effettivo reddito,
ed inciderebbe, dall'altro, su saldi contabili astratti, tanto da
gravare, talora, secondo l'ordinanza, non sull'effettiva ricchezza ma
su temporanee liquidità.
In proposito occorre ricordare che, secondo la consolidata
giurisprudenza di questa Corte, la capacità contributiva, quale
idoneità alla obbligazione di imposta, desumibile dal presupposto
economico al quale l'imposizione è collegata, va, in linea di
principio, ravvisata in qualsiasi indice rivelatore di ricchezza,
secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di
costituzionalità sotto il profilo della arbitrarietà ed
irrazionalità (sentenza n. 42 del 1992).
Orbene, si deve considerare che il tributo in esame è un'imposta
straordinaria connotata da modalità eccezionali ed inserita in un
contesto di misure finanziarie di carattere generale, nell'ambito del
quale il prelievo sui depositi, nel colpire un peculiare indice di
capacità contributiva, incide sui depositi stessi con un'aliquota
invero di contenuta entità, tale da non potersi ragionevolmente
considerare ablativa del patrimonio del soggetto. In relazione a
siffatte caratteristiche non può, pertanto, dirsi che il legislatore
abbia travalicato i limiti del discrezionale apprezzamento al
medesimo spettante in materia, mentre, ad ulteriore sostegno di un
giudizio di non incostituzionalità della norma denunciata, sta la
circostanza che trattasi di un'imposizione una tantum e, quindi, tale
da non alterare, secondo un canone valutativo altra volta fatto
proprio dalla Corte, il sistema tributario considerato in tutte le
sue componenti (sentenza n. 159 del 1985).
Sotto l'altro aspetto della dedotta incidenza dell'imposta su
saldi contabili astratti, occorre considerare che la peculiare
configurazione dell'imposta, che incide sui depositi esistenti alla
data del 9 luglio 1992, rinviene la sua ragion d'essere, secondo gli
elementi ricostruttivi delle finalità della legge, desumibili anche
dagli atti parlamentari, nell'esigenza di individuare un meccanismo
di immediato accertamento e di agevole riscossione dell'imposta
medesima.
Nel necessario bilanciamento di interessi fra esigenze finanziarie
della collettività e tutela delle ragioni del contribuente (cfr.
sentenza n. 574 del 1988), la norma denunciata assume i saldi
contabili, alla data stabilita dal legislatore, come normalmente
rappresentativi di mezzi patrimoniali propri del titolare del conto,
ed espressivi, perciò, di quella ricchezza che, in sé, può ben
essere reputata indice di capacità contributiva. Ma anche a
considerare altri casi - desumibili, invero, più dalle ipotesi
formulate nella memoria di parte privata che nell'ordinanza di
rimessione che si limita ad una astratta doglianza e comunque non
denuncia in concreto alcuna specifica situazione - e cioè quelli
della eventuale non coincidenza fra titolare del deposito ed
effettivo titolare dei mezzi finanziari depositati, non per questo
può dirsi venir meno il detto presupposto della capacità
contributiva.
Infatti, quel che rileva è che si tratta di imposta che colpisce
il bene indice di ricchezza nella sua oggettività e che, pertanto,
non irragionevolmente, la legge pone a carico di colui che ne risulta
detentore indipendentemente da eventuali rapporti sottostanti con
altri soggetti, nell'ambito dei quali troverà definizione il
problema della ritenuta subita dal titolare del conto.
5. - Con le ulteriori censure, attinenti alla violazione del
principio di eguaglianza, il giudice remittente assume, da un canto,
che l'imposta avrebbe inciso "in maniera diffusa su situazioni
differenziate, discriminando le posizioni dei soggetti colpiti" e
risultando così ispirata al principio di proporzionalità piuttosto
che a quello di progressività; e, dall'altro, che verrebbero colpiti
risparmi "in gran parte di minima entità, lasciando inalterati
patrimoni più cospicui", investiti in utilizzi maggiormente
remunerativi dei semplici depositi.
In ordine al primo profilo, volto a lamentare, con evidente
riferimento alla misura fissa dell'aliquota, la mancanza di
progressività dell'imposta, non si nega che, secondo quanto da tempo
ritenuto dalla giurisprudenza costituzionale, il precetto sulla
capacità contributiva di cui all'art. 53, primo comma, della
Costituzione, esige, quale specificazione del generale principio di
eguaglianza, non solo che a situazioni eguali corrispondano eguali
regimi impositivi, ma anche che, a situazioni diverse, facciano
riscontro trattamenti tributari diseguali (sentenza n. 120 del 1972).
Ma, come ha avuto occasione di chiarire la stessa giurisprudenza
costituzionale, il principio di progressività è da rapportare al
complesso del sistema tributario e non invece a ciascun tributo,
venendo così, in definitiva, a governare le imposte personali
(sentenza n. 263 del 1994).
Quanto all'altro profilo di doglianza, e cioè quello secondo il
quale la norma avrebbe colpito risparmi in gran misura di minima
entità lasciando inalterati patrimoni più cospicui che
ragionevolmente non vengono immobilizzati in depositi scarsamente
fruttiferi, ma investiti in utilizzi più remunerativi, la censura,
per trovare ingresso in sede di giudizio di costituzionalità,
avrebbe dovuto precisare i termini della diversa disciplina che si
intende porre a comparazione con quella denunciata.
Data per scontata, nella specie, la capacità contributiva, come
idoneità alla obbligazione di imposta, deducibile dal collegamento
fra i soggetti e la situazione considerata dalla legge, la mancata
indicazione della norma o del principio dell'ordinamento rispetto ai
quali si verificherebbe la disparità di trattamento non consente né
di apprezzare di quali fattispecie si tratti, né di valutare quali
siano le ragioni per le quali esse siano rimaste al di fuori della
disciplina denunciata, né di verificare il rapporto che
eventualmente possa intercorrere fra le due normative in
comparazione, alla stregua, oltretutto, del principio secondo il
quale, nel giudizio di costituzionalità, il riequilibrio delle
situazioni avviene attraverso il ripristino della normativa generale
e non attraverso l'estensione delle discipline derogatorie.
Quanto, poi, alla asserita disparità che si verificherebbe in
ordine alla prova dell'entità del saldo, che sarebbe consentita ai
soli soggetti possessori di scritture contabili, si rileva che la
infondatezza della doglianza discende dall'errato presupposto
interpretativo dal quale il remittente muove, consistente nel
riferire la previsione normativa ai contribuenti, anziché alle
aziende di credito, tenute ad operare la ritenuta, per l'appunto, sui
saldi risultanti dalle loro scritture contabili.
6. - Venendo, infine, alla censura relativa alla presunta
violazione dell'art. 47 della Costituzione, per non aver tutelato e
incoraggiato il risparmio, è sufficiente rammentare che l'invocato
precetto costituzionale - come la Corte ha già avuto occasione di
rilevare - contiene soltanto un principio programmatico al quale deve
ispirarsi il legislatore ordinario, ma non può certo impedire al
medesimo di emanare, in materia finanziaria, quelle norme giuridiche
che siano volte a disciplinare il gettito delle entrate, con l'unico
limite della vera e propria contraddizione o compromissione
dell'anzidetto principio. Ciò che, invero, nella specie non è dato
riscontrare.