Titolo
SENT. 265/94 A. GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE - IMPUGNAZIONE CONGIUNTA DI DUE DISPOSIZIONI DI LEGGE DI CUI SOLO UNA PUO' RICONOSCERSI COME OGGETTO EFFETTIVO DELLA QUESTIONE - AMMISSIBILITA' DELLA QUESTIONE ANCHE NEI CONFRONTI DELL'ALTRA - CONDIZIONI - FATTISPECIE.
Testo
Nel giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale va ritenuta ammissibile la impugnativa di una disposizione di legge che, anche se ad essa non sono direttamente riferibili i motivi della dedotta incostituzionalita', si coordina tuttavia con quella che e' oggetto diretto della censura. (Fattispecie in cui il giudice 'a quo', nel censurare la preclusione, ex art. 516 cod. proc. pen., in caso di "tardiva" contestazione, nel dibattimento, di "fatto diverso", sia del patteggiamento sia del giudizio abbreviato, ha coinvolto nell'impugnativa anche l'art. 520 cod. proc. pen., trattandosi di un procedimento in contumacia dell'imputato). red.: F.S. rev.: S.P.
Titolo
SENT. 265/94 B. PROCESSO PENALE - DIBATTIMENTO - NUOVE CONTESTAZIONI - FACOLTA' DELL'IMPUTATO DI AVANZARE RICHIESTA DI GIUDIZIO ABBREVIATO O DI APPLICAZIONE DELLA PENA - LIMITI - FONDAMENTO.
Testo
La Corte ha gia' affermato, in materia di nuove contestazioni dibattimentali nel processo penale in rapporto all'aspettativa dell'imputato di accedere ai riti speciali, l'interesse dell'imputato a beneficiare di detti riti speciali puo' trovare tutela solo in quanto la sua condotta consenta l'effettiva adozione di una sequenza procedimentale, che, evitando il dibattimento e contraendo la possibilita' di appello, permette di raggiungere quell'obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire con l'introduzione del giudizio abbreviato e piu' in generale dei riti speciali. D'altra parte la evenienza della modificazione dell'imputazione a seguito dell'istruttoria dibattimentale, non infrequente nell'attuale sistema processuale penale, il quale riserva al dibattimento la formazione della prova (mentre nella fase preliminare si raccolgono solo gli elementi sufficienti per la formulazione dell'accusa e del rinvio a giudizio), rientra nelle valutazioni che lo stesso imputato deve compiere ai fini della determinazione della scelta del rito, assumendo su di se', pertanto, il rischio delle conseguenze della propria scelta. - V. S. n. 593/1990; 316/1992 e 129/1993, nonche' O. nn. 213/1992 e 107/1993. red.: F.S. rev.: S.P.
Titolo
SENT. 265/94 C. PROCESSO PENALE - DIBATTIMENTO - NUOVE CONTESTAZIONI PER FATTO DIVERSO O PER REATO CONCORRENTE - RICHIESTA, DA PARTE DELL'IMPUTATO, DI APPLICAZIONE DELLA PENA ('PATTEGGIAMENTO') - INAMMISSIBILITA' ANCHE NELL'IPOTESI DI ERRONEITA' DELL'IMPUTAZIONE DA PARTE DEL PUBBLICO MINISTERO OVVERO NEL CASO IN CUI L'IMPUTATO ABBIA, PRIMA DEL DIBATTIMENTO, AVANZATO TALE RICHIESTA, NON ACCOLTA PER DISSENSO DEL PUBBLICO MINISTERO - VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA E DEL DIRITTO DI DIFESA - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PARZIALE.
Testo
Poiche' le valutazioni dell'imputato circa la convenienza del rito speciale - giudizio abbreviato e di applicazione della pena ("patteggiamento") - vengono indissolubilmente a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero e cioe' dalla natura dell'addebito, quando non possa rinvenirsi alcun profilo di inerzia dell'imputato e quindi di addebitabilita' al medesimo delle conseguenze della mancata instaurazione del rito differenziato come nel caso di errore, sulla individuazione del fatto e del titolo del reato, in cui e' incorso il pubblico ministero, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all'imputato l'accesso ai riti speciali a seguito di nuove contestazioni per fatto diverso o per reato concorrente nel corso del dibattimento, cosi' subendo l'imputazione una variazione sostanziale; e cio' anche nel caso in cui il procedimento richiesto dall'imputato sia stato ingiustificatamente o erroneamente negato, con la conseguente inapplicabilita', relativamente al 'patteggiamento', del primo comma dell'art. 448 cod. proc. pen. con riguardo alla nuova contestazione, risultando inevitabimente incongrua la pena richiesta in quanto formulata con riferimento ad imputazione modificata nel corso dibattimento. Tale preclusione risulta inoltre censurabile in riferimento all'art. 3 Cost., venendo l'imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell'accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero. Conseguentemente, con riguardo al procedimento di applicazione della pena su richiesta, avendo la Corte gia' affermato che e' possibile fare applicazione dell'istituto della restituzione nel termine, e quindi non sussistendo ostacoli di carattere logico-sistematico, devono dichiararsi incostituzionali, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. - restando assorbita la censura formulata in riferimento all'art. 111 Cost. -, gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la facolta' dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione della pena a norma dell'art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che gia' risultava dagli atti di indagine preliminare al momento dell'esercizio dell'azione penale ovvero quando l'imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni. - Sull'accesso ai riti speciali quale espressione del diritto di difesa: S. nn. 76/1993, 214/1993, 313/1990, 101/1993; O. n. 116/1992; sull'art. 448, primo comma, cod. proc. pen.: S. nn. 66/1990, 183/1990, 81/1991, 23/1992; sull'applicabilita' dell'istituto della restituzione nel termine nel procedimento di applicazione della pena su richiesta: S. n. 101/1993. red.: F.S. rev.: S.P.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
Costituzione
art. 24
Riferimenti normativi
codice di procedura penale
n. 0
art. 516
co. 0
codice di procedura penale
n. 0
art. 517
co. 0
Titolo
SENT. 265/94 D. PROCESSO PENALE - DIBATTIMENTO - NUOVE CONTESTAZIONI PER FATTO DIVERSO O PER REATO CONCORRENTE - RICHIESTA, DA PARTE DELL'IMPUTATO, DI GIUDIZIO ABBREVIATO - INAMMISSIBILITA' ANCHE NELL'IPOTESI DI ERRORE DEL PUBBLICO MINISTERO OVVERO NEL CASO IN CUI L'IMPUTATO ABBIA, PRIMA DEL DIBATTIMENTO, AVANZATO TALE RICHIESTA, NON ACCOLTA PER DISSENSO DEL PUBBLICO MINISTERO - LAMENTATA VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA E DEL DIRITTO DI DIFESA - PLURALITA' DI POSSIBILI SOLUZIONI - INAMMISSIBILITA' DELLA QUESTIONE.
Testo
Pur essendo censurabile, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la preclusione per l'imputato all'accesso ai riti speciali a seguito di nuove contestazioni per fatto diverso o per reato concorrente nel corso del dibattimento nel caso di errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui e' incorso il pubblico ministero, con riferimento al giudizio abbreviato la questione va tuttavia dichiarata inammissibile poiche' -come gia' rilevato dalla Corte in giudizio su analoga questione- la scelta di un meccanismo di trasformazione del rito, come auspicato dal giudice rimettente, oltre che opinabile da un punto di vista tecnico-sistematico data l'inconciliabilita' di tale procedura del giudizio abbreviato con quella dibattimentale, non puo' ritenersi scelta costituzionalmente obbligata, ponendosi in termini alternativi ad altre possibili opzioni attinenti alla sfera della discrezionalita' legislativa (quali la possibilita' di applicazione della riduzione della pena di un terzo da parte del giudice all'esito del dibattimento verificati i presupposti suddetti ovvero la preclusione, in tali casi, della nuova contestazione, con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero relativamente ad essa). (Inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale in riferimento agli artt. 3, 24, 111 Cost., degli artt. 520 e 516 cod. proc. pen.). - S. n. 129/1993. V. anche la precedente massima C. red.: F.S. rev.: S.P.
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
Costituzione
art. 24
Costituzione
art. 111
Riferimenti normativi
codice di procedura penale
n. 0
art. 516
co. 0
codice di procedura penale
n. 0
art. 520
co. 0
N. 265
SENTENZA 22-30 GIUGNO 1994
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: prof. Gabriele PESCATORE;
Giudici: avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro
FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 446, primo
comma, 516, 517, 519 e 520 del codice di procedura penale, promossi
con ordinanze emesse il 23 ottobre 1992 dal Pretore di Paola, sezione
distaccata di Scalea, il 17 novembre 1992 dal Pretore di Venezia,
sezione distaccata di Chioggia, il 18 maggio 1993 dal Pretore di
Napoli, sezione distaccata di Sorrento, l'11 giugno 1993 dal Pretore
di Caltanissetta ed il 23 settembre 1993 dal Pretore di Urbino,
rispettivamente iscritte ai nn. 37, 81, 435, 576 e 719 del registro
ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 7, 10, 35, 41 e 50, prima serie speciale, dell'anno 1993;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Uditi nella camera di consiglio dell'8 giugno 1994 i Giudici
relatori Ugo Spagnoli per le cause di cui ai nn. 81, 576 e 719 del
registro ordinanze 1993 e Mauro Ferri per le cause di cui ai nn. 37 e
435 del registro ordinanze 1993;
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza emessa il 23 ottobre 1992 (r.o. n. 37 del
1993), il Pretore di Paola, sezione distaccata di Scalea, ha
sollevato, su eccezione della difesa, questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione,
degli artt. 446, primo comma, e 517 del codice di procedura penale.
Il giudice a quo premette in fatto che gli imputati, prima
dell'apertura del dibattimento, avevano chiesto il "patteggiamento"
in ordine ai due reati contestati, ma il pubblico ministero aveva
negato il consenso non risultando "allo stato degli atti ( ..) la
violazione di cui all'art. 20, lett. c), della legge n. 47/85". Nel
corso del dibattimento, il pubblico ministero contestava ad uno degli
imputati tale reato concorrente ai sensi dell'art. 517 del codice di
procedura penale e, di fronte ad una nuova richiesta di applicazione
di pena per i tre reati unificati nella continuazione, il pubblico
ministero medesimo, pur concordando sulla determinazione della pena,
negava il consenso rilevando l'inammissibilità della richiesta per
tardività.
Ciò posto, il remittente, rilevato che l'art. 446, primo comma,
del codice di procedura penale, nel fissare il limite dell'apertura
del dibattimento per la formulazione della richiesta di applicazione
della pena, non ammette deroghe né lascia spazi interpretativi in
senso diverso, osserva che i principi affermati nella giurisprudenza
costituzionale, che ha riconosciuto la legittimità della preclusione
all'adozione dei riti speciali nelle ipotesi di contestazioni
suppletive (sentenze nn. 593 del 1990 e 316 del 1992; ordinanza n.
213 del 1992) non appaiono applicabili al caso di specie. Sottolinea
in proposito il giudice a quo che la richiesta di applicazione della
pena ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale era stata
tempestivamente avanzata, ma il pubblico ministero aveva dissentito,
non contestando la determinazione della pena, ma l'imputazione da
egli stesso formulata, che non intendeva modificare in limine litis.
L'imputato, pertanto, si vede privato della possibilità di accedere
al rito speciale, con riferimento al reato oggetto della
contestazione suppletiva, non dalla propria libera determinazione in
ordine al rito da adottare, ma dall'anomala condotta dell'organo di
accusa, che, se può essere sindacata dal giudice all'esito del
dibattimento ex art. 448, primo comma, del codice di procedura penale
ai fini della eventuale applicazione della pena richiesta in ordine
alle primitive imputazioni, determina ineluttabilmente l'effetto
preclusivo della procedura pattizia relativamente al reato
concorrente scaturito dalla nuova contestazione. Di qui, ad avviso
del giudice a quo, la violazione sia del principio di uguaglianza,
essendo una valutazione discrezionale ed insindacabile del pubblico
ministero a condizionare il rito da applicare ed a privare
l'interessato dei benefici connessi ai procedimenti speciali, sia del
diritto di difesa, in quanto tale determinazione unilaterale
dell'organo dell'accusa espropria l'imputato di una delle possibili
opzioni processuali.
1.1. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, che ha concluso per l'infondatezza della questione.
L'Avvocatura richiama a tal fine le pronunce della Corte
costituzionale già citate nell'ordinanza di rimessione ed osserva
che la peculiarità del caso in esame non ha alcuna incidenza sulle
argomentazioni svolte in dette decisioni, in quanto gli interessi che
sollecitano le parti ad effettuare le scelte processuali ritenute
più opportune rappresentano un fenomeno normativamente indifferente,
inidoneo dunque ad incidere sui rispettivi diritti o poteri
processuali. Non si vede, in conclusione, osserva la difesa del
Governo, come le norme denunciate possano violare il diritto di
difesa, che resta inalterato sia nel caso in cui venga adottato un
rito alternativo sia nell'ipotesi in cui occorra procedere con il
rito ordinario.
2. - A seguito di modifica dibattimentale della imputazione,
operata dal pubblico ministero ex art. 516 del codice di procedura
penale, il Pretore di Venezia, sezione distaccata di Chioggia, con
ordinanza del 17 novembre 1992 (r.o. n. 81 del 1993), considerato
che, mancando nel processo pretorile il filtro giurisdizionale
rappresentato dall'udienza preliminare e non avendo d'altro canto il
giudice del dibattimento accesso agli atti delle indagini preliminari
in base ai quali il pubblico ministero ha emesso il decreto di
citazione a giudizio, il medesimo giudice non ha la possibilità di
apprezzare se da tali atti emergano già gli elementi per una diversa
imputazione, essendo così rimessa alla incontrollabile
determinazione del pubblico ministero la scelta di quando operare la
nuova contestazione, ha ravvisato, su eccezione della difesa, il
possibile contrasto degli artt. 520 e 516 del codice di procedura
penale con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. Rileva il
giudice a quo che il pubblico ministero potrebbe, per errore o anche
volutamente, tralasciare di adeguare l'imputazione alle risultanze
delle indagini nel momento in cui esercita l'azione penale, tanto
che, una volta modificata l'imputazione in sede dibattimentale,
l'imputato si vede preclusa in ordine alla nuova contestazione la via
dei procedimenti speciali, attivabili solo entro le perentorie
cadenze stabilite dal codice (entro quindici giorni dalla notifica
del decreto di citazione a giudizio, quanto al rito abbreviato; non
oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento, quanto al
patteggiamento). Ne deriverebbe, quindi, una irragionevole disparità
di trattamento, in relazione all'esercizio del diritto di difesa, e,
stante l'impossibilità per il giudice di verificare i presupposti
per la modifica della imputazione, la vanificazione del precetto
costituzionale di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.
2.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che le
censure mosse all'art. 516 cod. proc. pen. siano dichiarate
infondate. La preclusione temporale posta dall'art. 560 cod. proc.
pen. all'instaurazione del giudizio abbreviato - osserva
l'Avvocatura - dipende dalla peculiarità di questo, che consiste
nella utilizzabilità degli atti di indagine già compiuti e nella
riduzione di un terzo di pena quale corrispettivo della rinuncia alla
formazione della prova in dibattimento. D'altra parte, l'evenienza
che, in ragione delle risultanze dell'istruzione dibattimentale,
l'imputazione debba essere modificata è del tutto fisiologica e
riconducibile ad un sistema processuale che riserva alla fase
dibattimentale la formazione della prova: onde essa non può essere
considerata imprevedibile e non suscettibile di valutazione ai fini
della individuazione delle strategie di difesa. Il richiamo, poi,
all'art. 111 Cost., non sarebbe pertinente perché la doglianza verte
sull'impossibilità di controllo e non sulla mancata motivazione di
un provvedimento. Quanto alla censura mossa all'art. 520 cod. proc.
pen., essa sarebbe inammissibile, perché la norma riguarda ipotesi
(nuove contestazioni ad imputato contumace od assente) del tutto
diversa da quella che deve applicare il giudice remittente.
3. - Con ordinanza emessa il 18 maggio 1993 (r.o. n. 435 del
1993), il Pretore di Napoli, sezione distaccata di Sorrento, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 519
del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede,
quanto al rito pretorile, che nel caso di contestazione suppletiva ai
sensi dell'art. 517 del codice di procedura penale, "l'imputato possa
essere rimesso in termini per proporre richiesta di pena patteggiata
quando la contestazione suppletiva abbia ad oggetto fatti integranti
reato e circostanze già noti al Pubblico Ministero, ma per errore di
questi non contestati nel decreto di citazione a giudizio".
Premesso in fatto che nel corso del dibattimento il pubblico
ministero aveva provveduto, ai sensi dell'art. 517 del codice di
procedura penale, a contestare all'imputato ulteriori reati (aventi
ad oggetto violazioni alla legge urbanistica e a quella di tutela
paesaggistica) connessi a quelli indicati nel decreto di citazione a
giudizio, e che il medesimo pubblico ministero si era poi opposto
alla richiesta di "patteggiamento" per la sua intempestività,
osserva il remittente che la giurisprudenza della Corte
costituzionale (sentenze nn. 593 del 1990 e 316 del 1992; ordinanza
n. 213 del 1992) non si attaglia al caso in esame, in cui ci si trova
di fronte non già alla evenienza di una contestazione suppletiva
originata dall'istruttoria dibattimentale, bensì ad una
contestazione originata da un errore dell'organo dell'accusa, ovvero
da una scelta del pubblico ministero circa la delimitazione dell'area
dei fatti per i quali ha inteso esercitare l'azione penale attraverso
l'emissione del decreto di citazione. Risulta, qui, pertanto,
esclusa la possibilità di addossare all'imputato il "rischio" della
scelta dibattimentale, in quanto tale scelta, lungi dall'essere
informata alla concreta situazione processuale, si rileva piuttosto
obbligata, o quantomeno modellata sulla iniziativa dell'organo
dell'accusa che ha manifestato, esercitando l'azione penale in
maniera incompleta, una situazione difforme da quella reale. Ciò
posto, il remittente osserva che appare irragionevole la
differenziazione che emerge rispetto al diverso governo che, sulla
scorta della denunciata normativa, pubblico ministero ed imputato
hanno circa la scelta del rito. Invero, attraverso la formulazione di
un capo di imputazione incompleto rispetto alle risultanze degli atti
raccolti nella fase delle indagini, il pubblico ministero influenza
la scelta del rito; tale potere unilaterale di influenzare l'opzione
del rito - senza alcuna possibilità di tempestivo recupero della
completezza della contestazione (mediante il meccanismo di cui
all'art. 423 cod. proc. pen.) trattandosi di imputazione gestita
autarchicamente, senza filtro giurisdizionale preliminare, assente
nel rito pretorile -, sia pure in buona fede, comporta il rischio di
un patologico aggiramento del diritto di difesa, inteso non solo come
interesse costituzionalmente assistito a contraddire l'ipotesi
accusatoria, ma come facoltà di scegliere il quomodo difensivo
previa valutazione informata e consapevole. Consentire la
contestazione suppletiva di fatti di reato già conosciuti dal
pubblico ministero ma non contestati con il decreto di citazione a
giudizio, equivarrebbe a legittimare la situazione in cui volutamente
l'organo dell'accusa lascia incomplete le indagini al fine di
impedire l'accesso al rito abbreviato, ipotesi di cui si è
interessata la Corte costituzionale nella sentenza n. 92 del 1992
escludendone la compatibilità con il sistema.
Del resto, conclude il remittente, alcune recentissime pronunce
della Corte costituzionale appaiono muoversi inequivocabilmente nella
direzione innanzi indicata (sentenze nn. 76 e 101 del 1993). In
particolare nella sentenza n. 101 del 1993 la Corte ha rinviato
all'istituto della restituzione in termini di cui all'art. 175 del
codice di procedura penale, norma generale e applicabile anche in
occasioni del tipo di quella qui in esame.
3.1. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile,
per difetto di motivazione sulla rilevanza, o, in subordine,
infondata sulla base delle argomentazioni svolte nelle sentenze della
Corte costituzionale richiamate dallo stesso remittente.
4. - In un giudizio dibattimentale nel quale, essendo emerso che
il fatto consisteva non nella contestata alterazione del contatore di
energia ma nell'allacciamento abusivo a linee elettriche esterne, il
pubblico ministero aveva modificato - ex art. 516 del codice di
procedura penale - l'originaria imputazione (da truffa aggravata a
furto aggravato), il Pretore di Caltanissetta, con ordinanza emessa
l'11 giugno 1993 (r.o. n. 576 del 1993), premesso che la modifica era
ascrivibile ad errore del pubblico ministero perché il fatto era fin
dall'origine definibile come furto, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3 e 24 della Costituzione, una questione di legittimità
costituzionale degli artt. 516 e 519 del codice di procedura penale
"nella parte in cui non prevedono tra i diritti dell'imputato, una
volta modificata l'imputazione, quello di essere ammesso ai riti
alternativi ed, in particolare, allo speciale procedimento previsto
dagli artt. 444 e segg. del c.p.p.". Malgrado che analoga questione
sia stata risolta negativamente dalla Corte costituzionale con
l'ordinanza n. 213 del 1992, il giudice a quo ritiene che essa possa
riproporsi alla luce delle argomentazioni contenute nella successiva
sentenza n. 76 del 1993, dato che nel caso di specie la modifica
dell'imputazione non potrebbe definirsi come "un'evenienza per così
dire fisiologica del procedimento", bensì come "una patologia
processuale che, proprio perché tale, non può risolversi in un
pregiudizio per l'imputato di essa non responsabile". A suo avviso,
infatti, poiché le valutazioni dell'imputato circa la convenienza
del rito speciale vengono a dipendere, anzitutto, dalla concreta
impostazione data al processo dal pubblico ministero, impedendo
all'imputato di modificare l'originaria scelta difensiva si viene non
solo a comprimere illegittimamente il diritto previsto dall'art. 24,
secondo comma, della Costituzione, ma anche a violare il principio
d'uguaglianza, giacché rispetto a situazioni omogenee vengono ad
avere un ruolo ingiustificato elementi esterni legati alla
scrupolosità con cui il pubblico ministero assume le proprie
determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale.
4.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che la
questione sia dichiarata infondata, richiamando integralmente le
deduzioni svolte nel giudizio definito con la predetta ordinanza n.
213 del 1992.
5. - Con ordinanza emessa il 23 settembre 1993 (r.o. n. 719 del
1993), il Pretore di Urbino ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24,
secondo comma, della Costituzione, degli artt. 446, primo comma, 516
e 519 del codice di procedura penale, come richiamati per il
procedimento pretorile dagli artt. 549, 563, primo comma, e 567,
primo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui non
prevedono, per l'imputato che abbia, prima dell'apertura del
dibattimento di primo grado, formulato richiesta d'applicazione pena
a norma degli artt. 444 e seguenti c.p.p., sulla quale il Pubblico
Ministero non abbia espresso il proprio consenso, la possibilità di
richiedere, in caso di modifica dell'imputazione nel corso
dell'istruttoria dibattimentale, l'applicazione della pena per il
reato risultante dalla nuova contestazione del Pubblico Ministero".
Il giudice a quo riferisce che l'imputato, prima della dichiarazione
di apertura del dibattimento, aveva fatto richiesta di applicazione
di pena in ordine al contestato reato di cui all'art. 726 del codice
penale, sulla quale il pubblico ministero non aveva espresso il
proprio consenso, dichiarando che all'esito del dibattimento il reato
avrebbe potuto essere qualificato diversamente (art. 527 del codice
penale). Nel corso del dibattimento, all'esito di un esame
testimoniale, il pubblico ministero procedeva effettivamente alla
nuova contestazione, modificando l'imputazione a norma dell'art. 516
del codice di procedura penale nei termini sopra indicati. L'imputato
reiterava a tal punto la richiesta di applicazione di pena in ordine
alla imputazione così modificata, ricevendo il consenso del pubblico
ministero. Osservato che il combinato disposto degli artt. 446, 516
e 519 del codice di procedura penale, richiamati nel rito pretorile
dal primo comma dell'art. 567, non consentono nel caso di specie
l'accoglimento della richiesta di applicazione di pena, atteso il
superamento del termine della dichiarazione di apertura del
dibattimento, il Pretore ha ritenuto che tali disposizioni possano
considerarsi in contrasto con i precetti costituzionali sopra
indicati.
Rileva al riguardo il giudice a quo che non risolve il dubbio di
costituzionalità l'ordinanza n. 213 del 1992, con la quale la Corte
aveva dichiarato manifestamente infondata una questione di
costituzionalità delle medesime disposizioni, poiché, nel caso in
esame, diversamente da quello considerato dalla citata decisione,
l'imputato aveva già presentato tempestiva richiesta di applicazione
di pena, alla quale il pubblico ministero non aveva aderito.
Tale circostanza, secondo il Pretore, rende irragionevole una
disciplina che, impedendo all'imputato di formulare nuova richiesta
di applicazione di pena per il reato contestatogli a norma dell'art.
516 del codice di procedura penale, addossa al medesimo il rischio
della nuova contestazione, atteso che la celebrazione del
dibattimento non è dipesa dalle scelte processuali dell'imputato, ma
dal mancato consenso del pubblico ministero.
Inoltre detto sistema normativo regolerebbe "in modo
arbitrariamente diverso situazioni del tutto omogenee, imponendo di
diversificare il trattamento di imputati per i quali non sia stato
aperto il dibattimento, e di imputati che chiedano il
"patteggiamento" per il reato risultante dalla modifica
dell'imputazione fatta a norma dell'art. 516 c.p.p., qualora in
precedenza, prima dell'apertura del dibattimento, il Pubblico
Ministero non abbia consentito all'applicazione di pena per il reato
originariamente contestato".
Infine, conclude il Pretore, le norme impugnate possono ritenersi
contrastanti anche con l'art. 24 della Costituzione, ponendo
ingiustificati limiti al diritto di difesa, "di cui costituisce
esplicazione diretta quella di potersi avvalere dei benefici connessi
al rito disciplinato dagli artt. 444 e seguenti c.p.p.".
5.1. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, che ha concluso per l'infondatezza della questione,
riportandosi integralmente all'atto di intervento relativo ad altro
giudizio di legittimità costituzionale (r.o. n. 37 del 1993).
Considerato in diritto
1. - Pur nella diversità delle vicende processuali e, in parte,
delle disposizioni impugnate, le ordinanze attengono tutte al tema
del diritto dell'imputato ai riti speciali in relazione alla
evenienza di nuove contestazioni dibattimentali. Richiedendo,
pertanto, una valutazione congiunta, i relativi giudizi vanno riuniti
per essere decisi con un'unica sentenza.
2. - I giudici a quibus ritengono che, in base ai princìpi
costituzionali richiamati, non possa non essere assicurata
all'imputato la facoltà di optare per i procedimenti speciali
(applicazione di pena su richiesta e giudizio abbreviato) per ogni
imputazione ascrittagli, a prescindere dai "tempi" di esercizio
dell'azione penale. La disciplina sottoposta a scrutinio di
costituzionalità, invece, stante la previsione di precisi e
invalicabili limiti temporali entro i quali è possibile
l'instaurazione di tali procedimenti, non soddisferebbe tale
esigenza: e ciò sia nei casi in cui l'imputazione è il prodotto di
nuove contestazioni dibattimentali che, in realtà, - risultando già
dall'attività di indagine preliminare - avrebbero dovuto formare
oggetto di enunciazione nel decreto di citazione a giudizio; sia nel
caso in cui l'imputato ha tempestivamente richiesto l'applicazione di
pena ex art. 444 cod. proc. pen. (preclusa dal dissenso del pubblico
ministero) in ordine a una imputazione superata dalla successiva
contestazione dibattimentale del fatto diverso ex art. 516 del
medesimo codice. Più precisamente, tre delle quattro ordinanze che
si fondano sulla "tardività" della contestazione dibattimentale,
come anche l'ordinanza che si fonda sulla tempestività della
richiesta di applicazione di pena, deducono unicamente la preclusione
all'instaurabilità del "patteggiamento": il Pretore di
Caltanissetta, in ordine alla contestazione del fatto diverso,
impugnando gli artt. 516 e 519 cod. proc. pen. in riferimento agli
artt. 24, secondo comma, e 3 Cost. (r.o. n. 576 del 1993); il Pretore
di Paola, in ordine alla contestazione del reato concorrente,
impugnando gli artt 446, primo comma, e 517 cod. proc. pen. in
riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. (r.o. n. 37 del 1993); il Pretore
di Napoli, sempre in ordine alla contestazione del reato concorrente,
impugnando l'art. 519 cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3 e
24, secondo comma, Cost. (r.o. n. 435 del 1993); il Pretore di
Urbino, in ordine alla contestazione del fatto diverso, impugnando
gli artt. 446, primo comma, 516 e 519 cod. proc. pen. in riferimento
agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, Cost. (r.o. n. 719
del 1993). Solo il Pretore di Venezia deduce espressamente, in ordine
alla "tardiva" contestazione del fatto diverso, la preclusione
all'instaurabilità sia del "patteggiamento" sia del giudizio
abbreviato, impugnando gli artt. 520 e 516 cod. proc. pen. in
riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. (r.o. n. 81 del 1993).
3. - Vanno preliminarmente rigettate le eccezioni di
inammissibilità sollevate dall'Avvocatura generale dello Stato;
quanto a quella che si fonda sulla inconferenza della impugnativa
dell'art. 520 cod. proc. pen., risultante dall'ordinanza del Pretore
di Venezia, perché tale riferimento normativo va coordinato con
quello, pure contenuto nell'ordinanza, all'art. 516 del medesimo
codice, ed è giustificato dalla peculiare situazione del
procedimento a quo, in cui la nuova contestazione, trattandosi di
imputato contumace, si è dovuta necessariamente effettuare con
l'osservanza della predetta disposizione; quanto a quella relativa
alla carenza di motivazione, che caratterizzerebbe l'ordinanza del
Pretore di Napoli, perché, ai fini della valutazione sulla rilevanza
della specifica questione sollevata, la vicenda processuale risulta
nell'ordinanza sufficientemente delineata.
4. - Passando al merito, va per prima esaminata la questione di
costituzionalità degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. sollevata, in
riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, da tutti i giudici
a quibus, sia pure con riguardo ora all'uno ora all'altro articolo in
relazione alla specifica fattispecie processuale. Ciò vale anche per
l'ordinanza del Pretore di Napoli, che ha formalmente impugnato
l'art. 519 del medesimo codice, ma riferendosi a un "caso di
contestazione suppletiva ai sensi dell'art. 517". Come è stato
ricordato in gran parte delle ordinanze, la Corte ha già avuto modo
di pronunciarsi sul tema delle nuove contestazioni dibattimentali
(artt. 516-522 cod. proc. pen.) in rapporto all'aspettativa
dell'imputato di accedere ai riti speciali. Con la sentenza n. 593
del 1990, è stato affermato che l'interesse dell'imputato a
beneficiare dei riti speciali può trovare tutela "solo in quanto la
sua condotta consenta l'effettiva adozione di una sequenza
procedimentale, che, evitando il dibattimento e contraendo la
possibilità di appello, permette di raggiungere quell'obiettivo di
rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso
perseguire con l'introduzione del giudizio abbreviato e più in
generale dei riti speciali". D'altra parte, ha osservato ancora la
Corte in successive pronunce, "rientra nelle valutazioni che lo
stesso imputato deve compiere ai fini della determinazione della
scelta del rito la evenienza della modificazione dell'imputazione a
seguito dell'istruttoria dibattimentale, non infrequente nell'attuale
sistema processuale penale il quale riserva al dibattimento la
formazione della prova, mentre nella fase preliminare si raccolgono
solo gli elementi sufficienti per la formulazione dell'accusa e il
rinvio a giudizio" (ordinanza n. 213 del 1992); di conseguenza, "il
relativo rischio rientra naturalmente nel calcolo in base al quale
l'imputato si determina a chiedere o meno tale rito, onde egli non ha
che da addebitare a se medesimo le conseguenze della propria scelta"
(sentenza n. 316 del 1992; cfr. anche ordinanza n. 107 e sentenza n.
129 del 1993). Tuttavia, come è stato precisato in altra occasione,
qualora non possa rinvenirsi "alcun profilo di inerzia dell'imputato
e quindi di "addebitabilità" al medesimo delle conseguenze della
mancata instaurazione del rito differenziato ( ..) sarebbe molto
difficile negare che la impossibilità di ottenere i relativi
benefici concreti una ingiustificata compressione del diritto di
difesa" (sentenza n. 101 del 1993). Ora, nelle situazioni
rappresentate dalle ordinanze che si fondano sulla "tardività" della
contestazione, la libera determinazione dell'imputato verso i riti
speciali risulta sviata da aspetti di "anomalia" caratterizzanti la
condotta processuale del pubblico ministero. Tale anomalia deriva o
dalla erroneità della imputazione (il fatto è diverso) o dalla sua
incompletezza (manca l'imputazione relativa a un reato connesso). La
erroneità o la incompletezza della imputazione non è qui un dato
emergente dall'attività dibattimentale: esso viene apprezzato sulla
base degli stessi atti di indagine (in un caso rivelato dallo stesso
pubblico ministero del predibattimento). In una ordinanza si adombra
addirittura, in via di ipotesi, la possibilità di comportamenti
maliziosi del pubblico ministero, tendenti ad impedire o comunque ad
ostacolare il ricorso ai riti speciali da parte dell'imputato. Non
può dunque parlarsi, in simili vicende, di una libera assunzione del
rischio del dibattimento da parte dell'imputato. Sia pure con
riferimento ad altro istituto, la Corte ha avuto modo di sottolineare
che "le valutazioni dell'imputato circa la convenienza del rito
speciale vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione
data al processo dal pubblico ministero", ditalché, quando, in
presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è
quella derivante dall'errore sulla individuazione del fatto e del
titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero,
l'imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del
diritto di difesa precludere all'imputato l'accesso ai riti speciali
(sentenza n. 76 del 1993; cfr. anche sentenza n. 214 del 1993). Tale
affermazione è in linea con la configurazione che i procedimenti
speciali hanno assunto a seguito dei noti interventi di questa Corte.
In particolare, con la sentenza n. 92 del 1992, è stato ribadito in
termini generali, nel solco tracciato dalle precedenti decisioni
(sentenze nn. 66 e 183 del 1990, 81 del 1991, 23 del 1992), che
"l'introduzione, o meno, di un rito avente automatici effetti sulla
determinazione della pena non può farsi dipendere da scelte
discrezionali del pubblico ministero". Il principio, affermato
relativamente al giudizio abbreviato, non può non estendersi
all'altra procedura pattizia. Premesso che la richiesta di
applicazione di una pena da parte dell'imputato esprime una modalità
di esercizio del diritto di difesa, che si estrinseca nella
possibilità offerta a tale soggetto di acquisire, con libera scelta,
un trattamento sanzionatorio predefinito (cfr. sentenze nn. 313 del
1990 e 101 del 1993; ordinanza n. 116 del 1992), è di tutta evidenza
come in questo rito la valutazione dell'imputato sia
indissolubilmente legata, ancor più che nel giudizio abbreviato,
alla natura dell'addebito, trattandosi non solo di avviare una
procedura che permette di definire il merito del processo al di fuori
e prima del dibattimento, ma di determinare lo stesso contenuto della
decisione, il che non può avvenire se non in riferimento a una ben
individuata fattispecie penale.
La disciplina in esame risulta inoltre censurabile in riferimento
all'art. 3 della Costituzione, venendo l'imputato irragionevolmente
discriminato, ai fini dell'accesso ai procedimenti speciali, in
dipendenza dalla maggiore o minore esattezza o completezza della
discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari
operata dal pubblico ministero nell'esercitare l'azione penale alla
chiusura delle indagini stesse. È bene precisare che sul thema
decidendum non esplica influenza l'esistenza o meno di una fase di
controllo giurisdizionale predibattimentale (udienza preliminare)
sull'oggetto dell'azione penale. È vero che, se si dà ingresso a
tale controllo, è possibile utilizzare il meccanismo di adeguamento
delle imputazioni previsto dall'art. 423 cod. proc. pen.; ma se,
nonostante tale istituto, l'oggettiva erroneità o la incompletezza
del quadro accusatorio non viene sanata (perché l'art. 423 non è in
concreto applicato o perché nemmeno la nuova contestazione
risulterà poi aderente agli elementi che scaturiscono dagli atti di
indagine), la successiva "variazione" dibattimentale ex artt. 516 e
517 ripropone comunque, negli stessi termini, il vizio di
costituzionalità sopra evidenziato.
5. - Al di là delle ipotesi di contestazione "tardiva", analoghe
considerazioni valgono per il caso in cui l'imputato abbia formulato
tempestivamente e ritualmente la richiesta di procedimento speciale
in ordine alla originaria imputazione.
Di norma, in tale situazione, ove il procedimento richiesto sia
stato ingiustificatamente o erroneamente negato, all'imputato è
assicurato lo stesso trattamento penale che egli avrebbe conseguito
ove al rito si fosse addivenuti. Ciò deriva, quanto al
"patteggiamento", dal disposto dell'art. 448, primo comma, ultimo
periodo, cod. proc. pen., secondo cui, all'esito del dibattimento, il
giudice applica la pena richiesta dall'imputato, previa valutazione
della congruità di essa e dell'ingiustificatezza del dissenso del
pubblico ministero; e, quanto al giudizio abbreviato, dalle sentenze
di questa Corte nn. 66 e 183 del 1990, 81 del 1991 e 23 del 1992, con
le quali risulta affidata al giudice del dibattimento la verifica
della eventuale lesione delle aspettative dell'imputato in ordine a
tale rito, che, ove accertata, fa conseguire la diminuzione della
pena nel caso di condanna. Ma, relativamente al "patteggiamento",
non è considerata l'evenienza in cui la pena richiesta dall'imputato
risulti inevitabilmente incongrua, in quanto formulata con
riferimento a una imputazione poi modificatasi nel corso della
istruzione dibattimentale (come è il caso evidenziato nell'ordinanza
del Pretore di Urbino, ove si tratta di una contravvenzione tramutata
in delitto), con la conseguente inapplicabilità della regola
contenuta nel citato primo comma dell'art. 448; mentre, sia per il
"patteggiamento" che per il giudizio abbreviato, l'attuale disciplina
non consente all'imputato di esprimere l'opzione per i suddetti riti
speciali relativamente a imputazioni che, nel corso del dibattimento,
si vengono ad "aggiungere" ( ex art. 517 cod. proc. pen.) a quelle
originariamente contestate. Anche in tali situazioni, non dipendendo
la preclusione al rito da una consapevole scelta dell'imputato, che
anzi ha posto in essere tutto quello che la legge prevede per
favorire la definizione del procedimento in sede predibattimentale,
è da ravvisare una lesione dei princìpi costituzionali sopra
richiamati.
6. - Per valutare quale sia la soluzione per ricondurre il sistema
delle nuove contestazioni in sintonia con i princìpi costituzionali
è necessario separare la tematica del "patteggiamento" da quella del
giudizio abbreviato. Il primo, più che essere un rito speciale, è
una forma di definizione pattizia del contenuto della sentenza che
non richiede particolari procedure e che pertanto, proprio per tali
sue caratteristiche, si presta ad essere adottata in qualsiasi fase
del procedimento, compreso il dibattimento. Con la sentenza n. 101
del 1993, la Corte ha affermato che nei casi in cui la inosservanza
del termine per formulare la richiesta di applicazione della pena
"sia stata determinata da un evento non evitabile dall'interessato"
è possibile fare applicazione dell'istituto della restituzione nel
termine; e che, in tale ipotesi, "nulla impedisce che il rito
speciale in esame ( ..) trovi collocazione nel corso del
dibattimento", subendo, tuttavia, "un inevitabile adattamento,
ricavabile dal sistema", nel senso che "sia il consenso delle parti,
sia il controllo del giudice ( ..) dovranno avvenire sulla base del
complesso degli atti fino allora compiuti", che restano pienamente
validi e utilizzabili. Ora, deve riconoscersi che anche nelle
situazioni qui considerate non sussistono ostacoli di carattere
logico-sistematico a che il giudice, eventualmente anche alla ripresa
del dibattimento dopo la sospensione connessa al termine per la
difesa previsto dall'art. 519 cod. proc. pen., accertati i
presupposti di cui si è detto, si pronunci, se del caso previa
separazione dei procedimenti, sulla eventuale richiesta di
applicazione di pena concordata che le parti abbiano avanzato
relativamente alla nuova contestazione.
Con riferimento alla ipotesi della contestazione "tardiva",
comportante una valutazione contenutistica degli atti del
procedimento, non è neppure di ostacolo, ai fini della verifica dei
presupposti di tale meccanismo, la limitata conoscenza degli atti di
indagine da parte del giudice del dibattimento. E ciò in quanto nel
vigente ordinamento processuale è in via ordinaria onere delle
parti, ove ne abbiano interesse, fornire elementi di conoscenza al
giudice, sia che la decisione riguardi il merito del processo ovvero
fatti dai quali dipende l'applicazione delle norme processuali (artt.
187 e 190 cod. proc. pen.).
7. - Va pertanto dichiarata, in riferimento agli artt. 3 e 24
Cost., l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod.
proc. pen., nella parte in cui non prevedono la facoltà
dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento
l'applicazione di pena a norma dell'art. 444 cod. proc. pen.,
relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in
dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che
già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio
dell'azione penale ovvero quando l'imputato ha tempestivamente e
ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine
alle originarie imputazioni.
Resta naturalmente salva, quanto alle originarie imputazioni,
l'applicabilità dell'art. 448, primo comma, ultimo periodo, cod.
proc. pen., alle condizioni e nei termini da esso previsti. Deve
peraltro essere avvertito che tale conclusione rimane rigorosamente
circoscritta alle specifiche situazioni dedotte dai giudici a quibus,
che riguardano, come precisato, le contestazioni dibattimentali del
fatto diverso e del reato concorrente (in quanto connesso ex art. 12,
primo comma, lettera b), cod. proc. pen.). In particolare, è ad essa
estranea la diversa evenienza della contestazione delle circostanze
aggravanti, non devoluta all'esame di questa Corte.
8. - Resta assorbito l'ulteriore profilo di illegittimità
prospettato dal Pretore di Venezia in riferimento all'art. 111 Cost.
Una volta dichiarata l'illegittimità costituzionale degli artt.
516 e 517 cod. proc. pen., nella parte sopra precisata, risultano
superate le questioni relative agli artt. 519, 520 e 446, primo
comma, del medesimo codice.
9. - Quanto al giudizio abbreviato, cui fa riferimento solo
l'ordinanza del Pretore di Venezia, esso si realizza attraverso una
vera e propria "procedura", inconciliabile con quella dibattimentale.
Non potrebbe, quindi, ritenersi scelta costituzionalmente obbligata,
allo stato dell'ordinamento processuale, un simile meccanismo di
trasformazione del rito. A parte l'opinabilità di tale soluzione da
un punto di vista tecnico-sistematico, essa si pone in termini
alternativi ad altre possibili opzioni, attinenti alla sfera della
discrezionalità legislativa, come ad esempio quella di attribuire al
giudice, all'esito del dibattimento, il compito di verificare
l'esistenza dei presupposti di cui si è detto al solo fine di
applicare, nel caso di condanna, la riduzione della pena di un terzo;
o quella di una preclusione, in tali casi, della nuova contestazione,
con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero
relativamente ad essa.
La questione, per la parte concernente la preclusione al giudizio
abbreviato, va pertanto dichiarata inammissibile, non diversamente da
quanto deciso da questa Corte con sentenza n. 129 del 1993,
riguardante un caso analogo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi:
dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517
del codice di procedura penale nella parte in cui non prevedono la
facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento
l'applicazione di pena a norma dell'art. 444 del codice di procedura
penale, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente
contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un
fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento
dell'esercizio dell'azione penale ovvero quando l'imputato ha
tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione
di pena in ordine alle originarie imputazioni;
dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 520 e 516 del codice di procedura penale,
relativamente alla preclusione al giudizio abbreviato in ordine alle
nuove contestazioni dibattimentali, sollevata, in riferimento agli
artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Pretore di Venezia -
sezione distaccata di Chioggia - con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1994.
Il Presidente: PESCATORE
I redattori: SPAGNOLI - FERRI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 30 giugno 1994.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA