Ritenuto in fatto
1. - Con ricorso depositato il 30 novembre 1992 (n. 70 del 1992)
la Regione Veneto ha impugnato, in riferimento agli artt. 97 e 117
della Costituzione, l'art. 2, primo comma, lett. b), della legge 23
ottobre 1992, n. 421, recante "Delega al Governo per la
razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di
sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza
territoriale". La norma impugnata ha, tra l'altro, autorizzato il
Governo a prevedere l'istituzione di un "organismo tecnico, dotato di
personalità giuridica", avente compiti di rappresentanza della parte
pubblica per la formazione degli accordi sindacali in sede di
contrattazione collettiva relativa ai comparti del pubblico impiego.
La medesima norma ha previsto anche che l'organismo in questione sia
sottoposto alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei
ministri, operando "in conformità alle direttive impartite dal
Presidente del Consiglio dei ministri". Questo vincolo, ad avviso
della Regione ricorrente, violerebbe sia la competenza legislativa
regionale in materia di ordinamento degli uffici, di cui all'art. 117
della Costituzione, sia i principi di buon andamento e imparzialità
dell'amministrazione, di cui all'art. 97 della Costituzione.
Nel ricorso si espone che la Corte costituzionale, nella sentenza
n. 219 del 1984, aveva affrontato il problema dell'incompatibilità
con l'autonomia regionale dell'art. 10, ultimo comma, della legge
quadro sul pubblico impiego (L. 29 marzo 1983, n. 93) nella parte in
cui imponeva alle Regioni una perfetta corrispondenza delle leggi
regionali di recepimento dell'accordo sindacale al contenuto dello
stesso, dichiarando l'illegittimità di questa disposizione. A
seguito di tale declaratoria di incostituzionalità l'art. 10 della
legge n. 93 del 1983 veniva novellato dalla legge 8 agosto 1985, n.
426, che consentiva che il provvedimento regionale di approvazione
dell'accordo provvedesse all'adeguamento dello stesso alle
peculiarità dell'ordinamento degli uffici regionali. La ricorrente
osserva altresì che nella legge n. 93 del 1983 "la necessità di
realizzare sia il principio di contrattazione collettiva sia il
principio dell'autonomia legislativa delle Regioni ha portato ad una
procedura in cui ciascuna Regione è legittimata dalla legge a
partecipare, in piena autonomia, ad ambedue le fasi fondamentali del
procedimento: sia alla fase contrattuale, mediante la presenza di un
proprio rappresentante nella delegazione di parte pubblica costituita
per la stipula degli accordi, sia alla fase normativa, mediante
l'approvazione con provvedimento regionale degli accordi stipulati".
La sottoposizione dell'organismo tecnico di cui alla norma impugnata
alle direttive impartite dal Presidente del Consiglio dei ministri in
sede di contrattazione collettiva riproporrebbe, invece, secondo la
ricorrente, una illegittima ingerenza nell'autonomia regionale e
condizionerebbe la legge regionale di recepimento ad un previo
procedimento "che non è di per sé né contrattuale né
legislativo".
2. - Con ricorso depositato in data 8 marzo 1993 (n. 20 del 1993)
la stessa Regione Veneto ha impugnato, sempre in riferimento agli
artt. 97 e 117 della Costituzione, anche le norme delegate, relative
all'organismo tecnico di cui all'art. 2, primo comma, lett. b), della
legge di delega n. 421 del 1992, contenute negli artt. 50, 51 e 52
del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante
"Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni
pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico
impiego". La Regione si riporta integralmente al ricorso precedente,
con il quale è stata impugnata la norma di delegazione, e osserva
che l'art. 50 della normativa delegata si limita a regolare i
rapporti tra l'organismo tecnico cui è demandata la rappresentanza
negoziale della parte pubblica (Agenzia per le relazioni sindacali) e
la Presidenza del Consiglio dei ministri, senza prevedere forme di
collegamento tra tale organismo ed il sistema delle Regioni per la
contrattazione relativa ai rapporti di impiego regionale.
Con riferimento poi all'art. 51 del decreto impugnato si rileva
che tale norma, riservando al Governo la decisione finale circa
l'approvazione dei contratti stipulati dall'Agenzia anche per le
Regioni, è anch'essa incostituzionale per le medesime ragioni poste
alla base delle censure rivolte nei confronti della norma di
delegazione.
Infine, nell'art. 52, quarto comma, si ravvisa la violazione dei
principi in tema di autonomia finanziaria regionale enunciati nella
sentenza di questa Corte n. 369 del 1992.
3. - Con ricorso depositato il 13 marzo 1993 (n. 19 del 1993) la
Regione Lombardia ha impugnato, per violazione degli artt. 39, 76,
117, 118, 119 e 124 della Costituzione, varie disposizioni del
decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (artt. 1, terzo comma, 13,
15, secondo comma, 18, primo comma, 26, 27, secondo e quarto comma,
28, 30, secondo comma, 31, 32, 33, 34, 35, 41, primo e terzo comma,
42, secondo comma, 43, 45, 47, 49, secondo comma, 50, 51, 52, 54, 60,
61, secondo comma, 63, secondo comma, 64, 65, 67, 70, secondo comma).
Una prima censura investe l'art. 1, terzo comma, dove si prevede
che le disposizioni contenute nello stesso decreto n. 29 del 1993
"costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della
Costituzione" e che "le Regioni a statuto ordinario si attengono ad
esse tenendo conto della peculiarità dei rispettivi ordinamenti".
Nel ricorso si dubita della possibilità che "principi fondamentali"
suscettibili di vincolare le Regioni ai sensi dell'art. 117 della
Costituzione possano essere enunciati in una legge delegata e si
rileva che il contenuto di estremo dettaglio della normativa posta
dal decreto n. 29 sarebbe comunque tale da eccedere l'ambito e i
limiti propri dei "principi fondamentali": di conseguenza, la pretesa
di vincolare le Regioni all'osservanza di tutte le disposizioni del
decreto legislativo risulterebbe lesiva dell'autonomia regionale.
Con riferimento alla qualifica dirigenziale - regolata dal capo II
del titolo II del decreto impugnato - la ricorrente censura, oltre
l'art. 13 sui destinatari della nuova disciplina, la disposizione
espressa nell'art. 15, secondo comma (dove si stabilisce che la
dirigenza si esprime attraverso la qualifica di "dirigente" da
intendersi come unica, mentre solo nelle amministrazioni statali può
essere prevista l'ulteriore qualifica di "dirigente generale"),
nonché quella contenuta nell'art. 27, secondo comma, seconda parte
(dove si prevede che "per le Regioni, il dirigente cui sono conferite
funzioni di coordinamento è sovraordinato, limitatamente alla durata
dell'incarico, al restante personale dirigenziale"). In proposito la
ricorrente rileva che in base all'attuale disciplina la carriera
dirigenziale nelle Regioni è articolata su due qualifiche diverse e
che l'applicazione delle disposizioni richiamate verrebbe a ledere
l'autonomia regionale, costringendo le stesse Regioni a modificare il
proprio ordinamento, con la riduzione delle qualifiche dirigenziali e
con la disciplina delle funzioni di coordinamento nel modo specifico
richiesto dal decreto impugnato.
Sono poi impugnati l'art. 18, primo comma, che attribuisce a un
organismo interamente statale il compito di definire, sulla base
delle indicazioni del Ministero del Tesoro, "i criteri e le procedure
per l'analisi e la valutazione dei costi dei singoli uffici" e l'art.
28, che disciplina l'accesso alla qualifica di dirigente con
disposizioni di dettaglio e attribuisce al Presidente del Consiglio
dei ministri il compito di definire con proprio decreto le modalità
dei concorsi e delle selezioni dei dirigenti. Anche di queste norme,
ove ritenute applicabili ai dirigenti della Regione, si censura il
carattere invasivo della competenza e dell'autonomia regionale.
Un ulteriore profilo di illegittimità viene riferito all'art. 13,
nella parte in cui dispone che le norme sulla dirigenza previste dal
decreto impugnato si applichino al personale del Servizio sanitario
nazionale: una siffatta disciplina non sarebbe compatibile con
l'attuale configurazione delle Unità sanitarie locali come enti
strumentali della Regione (prevista dall'art. 3, primo comma, del
decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502) e lederebbe la
competenza regionale in materia di ordinamento degli enti dipendenti
dalla Regione. In particolare, sarebbero lesivi dell'autonomia
regionale l'art. 26 (che contiene norme transitorie sulla
conservazione di talune posizioni funzionali fino all'attribuzione
della qualifica di dirigente, sulla revoca dei concorsi e sul blocco
degli incrementi delle dotazioni di personale dirigenziale fino alla
ridefinizione delle piante organiche), l'art. 27, quarto comma (che
prevede il potere sostitutivo del Presidente del Consiglio dei
ministri in caso di inerzia della Regione nell'individuazione
dell'organo competente a effettuare la verifica dei risultati
dell'attività svolta dagli uffici, senza subordinare l'esercizio di
tale potere alle condizioni e alle modalità procedurali indicate
nella giurisprudenza di questa Corte), nonché l'art. 28, decimo
comma (che disciplina, dettagliatamente, l'accesso al livello
dirigenziale del ruolo professionale tecnico e amministrativo del
Servizio sanitario nazionale).
Passando all'esame del capo III del titolo II del decreto - che si
riferisce agli "uffici, piante organiche, mobilità e accesso" - la
ricorrente censura che l'art. 30, secondo comma, preveda direttive
del Dipartimento per la funzione pubblica, di concerto col Ministro
del Tesoro, ai fini della ridefinizione triennale delle piante
organiche, e che l'art. 31, nel disciplinare la rilevazione del
personale e le proposte di ridefinizione delle piante organiche,
imponga la riduzione per accorpamento degli uffici dirigenziali e
delle relative dotazioni organiche in misura non inferiore al 10%,
regolando la procedura per addivenire a tali riduzioni e prevedendo,
in caso di inerzia delle amministrazioni non statali, un potere
sostitutivo del Presidente del Consiglio dei ministri. Viene inoltre
censurato il divieto - previsto dal sesto comma dello stesso articolo
- di assunzione di personale fino a che non siano state approvate le
proposte relative alle nuove piante. La Regione impugna anche gli
artt. 32, 33, 34 e 35 del decreto in questione, che regolano la
procedura di mobilità tra diversi enti, anche appartenenti a
comparti diversi.
Ad avviso della ricorrente la disciplina centralizzata della
mobilità fissata in tali norme - non prevedendo alcun intervento
regionale in ordine ai movimenti di personale da o verso le Regioni -
risulterebbe palesemente in contrasto con i criteri affermati da
questa Corte con le sentt. nn. 407 e 410 del 1989.
Si osserva poi che l'art. 41 del decreto impugnato demanda ad un
regolamento del Governo la disciplina dei requisiti di accesso
all'impiego, delle procedure di reclutamento tramite liste di
collocamento, della composizione e degli adempimenti delle
commissioni giudicatrici: ove fosse applicabile anche alla Regione,
questa normativa violerebbe l'autonomia regionale, comportando tra
l'altro l'esercizio di una potestà regolamentare del Governo in
materia di competenza regionale e in assenza di sufficienti criteri
legislativamente fissati.
Anche l'art. 42, secondo comma, prevedendo direttive impartite dal
Dipartimento per la funzione pubblica sui programmi di assunzione
nelle amministrazioni pubbliche di portatori di handicap, sarebbe
invasivo della competenza regionale in tema di assunzioni negli
uffici della Regione. Inoltre, la natura di norme di stretto
dettaglio delle disposizioni contenute nell'art. 43 (relative alla
presentazione dei documenti da parte degli assunti ed all'obbligo di
permanenza nella prima sede per almeno sette anni) renderebbe
illegittima la loro estensione al personale regionale. La Regione
rileva poi come il titolo III del decreto impugnato - dedicato alla
contrattazione collettiva ed alla rappresentatività sindacale -
preveda profonde innovazioni rispetto alla legge quadro n. 93 del
1983. Le materie riservate alla legge risultano, nella nuova
disciplina, ridotte e per le altre si rinvia alla contrattazione
collettiva senza più prevedere una fase "normativa" di recepimento
degli accordi, dal momento che le amministrazioni pubbliche sono
tenute ad osservare gli obblighi assunti con i contratti collettivi
(artt. 45, nono comma, e 49, secondo comma). In merito a questo nuovo
assetto del settore, nel ricorso si dubita innanzitutto che gli enti
pubblici dotati di autonomia costituzionalmente garantita possano
essere assoggettati al vincolo di contratti collettivi "di
categoria", specie se efficaci erga omnes. In secondo luogo, si
rileva che il vincolo per il singolo ente in tanto si potrebbe
giustificare in quanto l'ente medesimo fosse rappresentato dalle
organizzazioni stipulanti. La normativa in questione prevede, invece,
che i contratti per il pubblico impiego siano stipulati non già da
organizzazioni rappresentative degli enti pubblici datori di lavoro,
o da delegazioni di parte pubblica (come nel sistema previsto dalla
legge n. 93 del 1983), ma dall'Agenzia per le relazioni sindacali
istituita dall'art. 50 del decreto impugnato cui spetta il compito di
rappresentare in sede di contrattazione collettiva nazionale le
pubbliche amministrazioni (art. 50, secondo comma).
Dopo aver sottolineato la natura "strettamente" statale di questo
organismo - posto sotto la vigilanza e soggetto alle direttive della
Presidenza del Consiglio; disciplinato da un regolamento governativo
e guidato da un direttore nominato dal Presidente del Consiglio - e i
poteri del Ministro del Tesoro di quantificazione e ripartizione
delle risorse destinate a ciascun comparto di contrattazione, la
Regione ricorrente afferma che il descritto sistema è tale "da
spogliare del tutto le Regioni della loro autonomia". Esse risultano,
infatti, escluse dalla fase contrattuale, dal momento che spetta al
Governo autorizzare la sottoscrizione dei contratti (art. 51), salvo
il solo parere della Conferenza dei Presidenti delle Regioni per gli
aspetti di interesse regionale, e dal momento che le semplici
"indicazioni" che la Conferenza dei Presidenti delle Regioni può
formulare (art. 50, quarto comma) nonché l'apporto dei
rappresentanti da questa designati nel previsto "comitato di
coordinamento" che coadiuva il direttore dell'Agenzia (art. 50,
decimo comma) non possono "sostituire la partecipazione della singola
Regione ad una contrattazione i cui esiti sono peraltro per essa
totalmente vincolanti". E questo tanto più ove si consideri che è
stata eliminata la fase "normativa" di recepimento degli accordi con
legge regionale, che consentiva alle Regioni di adeguarli "alle
peculiarità dell'ordinamento degli uffici ed alle disponibilità del
bilancio regionale" (v. sentt. nn. 219 del 1984 e 1001 del 1988). La
Regione - rileva ancora la ricorrente - risulta, pertanto, "da un
lato privata della sua potestà legislativa in ordine alla disciplina
del rapporto di lavoro dei dipendenti propri e degli enti
strumentali; dall'altro lato è privata della propria autonomia
contrattuale, poiché è vincolata dai contratti collettivi alla cui
stipulazione essa non può prendere parte in modo significativo e
determinante".
Una siffatta disciplina sarebbe, ad avviso della ricorrente, in
contrasto sia con i principi costituzionali in tema di autonomia
regionale sia con l'art. 39 della Costituzione, in quanto lesiva
dell'autonomia sindacale e contrattuale della Regione.
Nel ricorso si sottolinea anche che alcune materie specifiche,
nonché la durata dei contratti collettivi di comparto, possono
essere disciplinate da contratti collettivi quadro, in grado di
vincolare anche le Regioni, stipulati dall'Agenzia statale e dalle
Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, la
cui individuazione è demandata ad un accordo tra Presidente del
Consiglio dei ministri e Confederazioni sindacali, da recepire con
decreto presidenziale (v. artt. 45- 47). Anche in riferimento a
queste disposizioni si rileva come risulti sottratta alle Regioni
ogni autonomia nel determinare le controparti contrattuali e si
sollevano dubbi sulla conformità della disciplina in questione
all'art. 39 della Costituzione.
Ulteriore censura, sempre per violazione dell'autonomia regionale,
viene, infine, rivolta alla disposizione (art. 54) che rinvia ad un
apposito accordo stipulato tra Presidente del Consiglio e sindacati
la determinazione dei limiti massimi delle aspettative e dei permessi
sindacali e demanda al Dipartimento della funzione pubblica la
ripartizione di tali aspettative tra le organizzazioni sindacali.
L'art. 60, nel disciplinare l'orario di servizio e l'orario di
lavoro con norme di estremo dettaglio, e l'art. 61, nel prevedere che
le amministrazioni adottino misure per attuare le direttive delle
Comunità europee in materia di "pari opportunità", sulla base di
quanto disposto dal Dipartimento per la funzione pubblica, sarebbero
anch'essi lesivi dell'autonomia regionale.
Gli artt. 63, 64 e 65, stabilendo disposizioni in materia di
controllo della spesa per il personale, e assoggettando la Regione a
poteri di direttiva, di determinazione e di controllo di organi
centrali contrasterebbero anch'essi con l'autonomia conferita alla
ricorrente. In particolare, l'art. 63, secondo comma, attribuisce al
Ministero del Tesoro e all'organismo statale previsto dall'art. 2
della legge n. 421 del 1992 poteri di definizione dei sistemi
informatici impiegati da tutte le amministrazioni pubbliche; gli
artt. 64 e 65 disciplinano procedure e tecniche di rilevazione dei
costi, attribuendo compiti specifici al Ministero del Tesoro ed alla
Presidenza del Consiglio e prescrivendo anche che questa adotti un
atto di indirizzo e coordinamento per la "omogeneizzazione delle procedure presso i soggetti pubblici diversi dalle amministrazioni
sottoposte alla vigilanza ministeriale". Questo potere di indirizzo,
ad avviso della ricorrente, contrasterebbe con il principio di
legalità sostanziale, in quanto esercitato con procedura anomala e
non vincolato a criteri di legge.
Anche l'art. 70, secondo comma, prevedendo verifiche del Ministero
del Tesoro e del Dipartimento della funzione pubblica
sull'applicazione dei contratti collettivi, se esteso alle Regioni,
violerebbe la loro autonomia.
Infine, viene impugnato l'art. 67, che stabilisce che il
Commissario del Governo rappresenta lo Stato nel territorio
regionale. La medesima norma attribuisce a questo organo la
responsabilità in ordine al flusso di informazioni indirizzate al
Governo dagli enti pubblici operanti nel territorio e prevede che
"ogni comunicazione del Governo alla Regione avviene tramite il
Commissario di Governo".
Secondo la Regione ricorrente questa configurazione estensiva del
ruolo e dei compiti del Commissario non corrisponderebbe a quanto
disposto dall'art. 124 della Costituzione, che attribuisce a
quest'organo solo il compito di soprintendere alle funzioni
amministrative esercitate in periferia dagli organi dello Stato
coordinando le stesse con quelle esercitate dalla Regione.
4. - In tutti i giudizi ha spiegato intervento il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
Generale dello Stato, per chiedere che le questioni sollevate siano
dichiarate infondate.
In riferimento ad entrambi i ricorsi proposti dalla Regione
Veneto, l'Avvocatura richiama i contenuti della legge quadro sul
pubblico impiego e dell'art. 2 della legge n. 426 del 1985 - dove si
prevede che la disciplina nascente dagli accordi è approvata con
provvedimento regionale, salvi i "necessari adeguamenti alle
peculiarità dell'ordinamento degli uffici regionali" - per osservare
che "non appare sostenibile la tesi della Regione ricorrente, in base
alla quale l'agire dell'organo di rappresentanza della parte pubblica
in sede di contrattazione, secondo le direttive impartite dal
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresenterebbe un'ingerenza
nella autonomia regionale, atteso che la responsabilità negoziale
appartiene al Governo, laddove le Regioni sono rappresentate nelle
trattative attinenti al loro comparto, cosicché esse possono
adattare la nuova disciplina alle eventuali peculiarità
dell'organizzazionedi ciascuna".
5. - In merito alle questioni sollevate dalla Regione Lombardia
l'Avvocatura premette che questa Corte ha riconosciuto la
legittimità di norme di indirizzo e coordinamento, adottate con atti
legislativi ed amministrativi, che al fine di assicurare la
salvaguardia dell'interesse nazionale hanno "avocato" allo Stato
settori di materie regionali.
Inoltre, l'Avvocatura osserva che le norme impugnate, inserendosi
nella manovra economico-finanziaria del Governo, sono state determinate dall'esigenza di provvedere ad una profonda revisione della
disciplina del pubblico impiego per rendere più efficace l'azione
amministrativa e più razionale l'utilizzazione delle risorse umane.
Dopo aver sottolineato che questa Corte, nella sentenza n. 219 del
1984, ha già riconosciuto la natura di legge di riforma economico-sociale anche alla legge quadro n. 93 del 1983, avente portata
innovativa inferiore al decreto legislativo impugnato, l'Avvocatura
afferma che tale decreto ha comunque previsto una serie di garanzie
idonee ad evitare la lesione dell'autonomia regionale. In tal senso
si richiama anche il documento approvato dalla Conferenza dei
Presidenti delle Regioni l'11 gennaio 1993, nel quale si riconosce
che il decreto adottato dal Governo ha prestato "una particolare
attenzione alle peculiarità dell'ordinamento regionale ed un
sufficiente rispetto delle autonomie costituzionalmente garantite".
6. - In prossimità dell'udienza hanno depositato memorie la
Regione Lombardia e il Presidente del Consiglio dei ministri.
Nella memoria della Regione Lombardia si richiama l'art. 45, nono
comma, del decreto impugnato, per rilevare come questa disposizione
precluda ogni possibilità di adeguamento del contenuto contrattuale
della disciplina del rapporto di lavoro alle peculiarità
dell'ordinamento regionale, con la conseguenza che tale disposizione
potrebbe essere considerata legittima solo ove ciascuna Regione fosse
messa nelle condizioni di partecipare direttamente alla trattativa in
vista della conclusione del contratto. Poiché ciò non accade, la
norma sarebbe incostituzionale, e la ricorrente richiede che la Corte
ribadisca il principio espresso nella sentenza n. 219 del 1984 dal
quale deriverebbe che spetta alle Regioni adeguare i contenuti dei
contratti collettivi all'ordinamento degli uffici ed alle
disponibilità del bilancio regionale.
Un ulteriore profilo evidenziato dal richiamato art. 45, nono
comma, e dall'art. 49, secondo comma, concerne la concorrenzialità
della nuova fonte introdotta dal decreto - i contratti collettivi -
con la fonte legislativa regionale prevista dall'art. 117 della
Costituzione.
Dal punto di vista delle Regioni, il contratto collettivo
opererebbe, infatti, come una vera e propria fonte normativa, munita
di efficacia vincolante nei confronti della legge regionale, pari a
quella che, nei limiti dell'art. 117 della Costituzione, spiega la
legge statale: ma tali effetti, riferiti al contratto collettivo, si
presentano in contrasto con la Costituzione e con i principi
affermati in tema di fonti primarie dalla giurisprudenza
costituzionale (sentt. nn. 26 del 1966 e 79 del 1970).
Se invece il contratto collettivo fosse considerato quale fonte
statale di livello subordinato alla legge, il carattere vincolante ad
esso attribuito nei confronti della legislazione regionale violerebbe
il principio ripetutamente affermato dalla Corte secondo il quale le
fonti statali secondarie non possono incidere su materie riservate
alla competenza regionale. Ma neppure la qualificazione dei contratti
quali atti di autonomia privata negoziale varrebbe a superare le
censure sollevate dal momento che, seguendo questa interpretazione,
occorrerebbe configurare la Regione come soggetto appartenente ad una
categoria di datori di lavoro, iscritto al sindacato che stipula il
contratto, ovvero obbligato dall'efficacia erga omnes del contratto
medesimo conseguita nei modi previsti dall'art. 39, quarto comma,
della Costituzione. In proposito si osserva che secondo la
giurisprudenza della Corte (sent. n. 106 del 1962) è da considerare
"palesemente illegittima" quella disciplina legislativa la quale
cerchi di conseguire l'estensione dell'efficacia obbligatoria di un
contratto collettivo a tutti gli appartenenti ad una determinata
categoria con strumenti diversi da quelli previsti dall'art. 39 della
Costituzione.
Sotto diverso profilo la disciplina impugnata violerebbe anche la
libertà sindacale della Regione, garantita dallo stesso art. 39
della Costituzione, dal momento che la neo-istituita Agenzia per le
relazioni sindacali "tiene addirittura luogo del sindacato ai fini
dalla stipulazione dei contratti collettivi" vincolanti per le
Regioni, senza che sia prevista per esse alcuna libertà di adesione
ovvero la partecipazione alla fase contrattuale.
7. - Nella memoria dell'Avvocatura dello Stato - presentata in
relazione al ricorso n. 20/1993 della Regione Veneto - si ribadisce
in primo luogo il carattere radicalmente innovativo della legge
delega n. 421 del 1992 e del decreto attuativo n. 29 del 1993 che,
realizzando la "privatizzazione" del rapporto di impiego pubblico,
avrebbero determinato una mutazione del complessivo quadro di
riferimento di tutta la materia e delle fonti normative che la
disciplinavano. A giudizio dell'Avvocatura tale mutamento delle fonti
relative al rapporto di impiego del personale delle pubbliche
amministrazioni non determinerebbe, peraltro, alcuna lesione delle
competenze regionali in materia di organizzazione degli uffici, posto
che, per espressa previsione dell'art. 2, lett. c), della legge n.
421, la materia dell'organizzazione è sottratta all'ambito
contrattuale e resta riservata alla legge, proprio al fine di
impedire la cogestione tra amministrazione e sindacato per quanto
attiene alla organizzazione del lavoro.
D'altro canto, l'oggetto delle direttive, impartite all'Agenzia
dal Presidente del Consiglio ai sensi dell'art. 50, terzo comma,
sarebbe limitato all'indicazione delle risorse complessivamente
disponibili per i comparti e dei criteri generali per la
distribuzione di tali risorse al personale. Fermo restando che
l'individuazione delle stesse risorse è rimessa a sede diversa da
quella negoziale e, precisamente, alla legge finanziaria, la cui
formazione è preceduta da momenti di consultazione nei quali le
Regioni sarebbero ampiamente rappresentate. Le direttive
assolverebbero, pertanto, alla duplice funzione di fissare criteri
minimali di uniformità - in ordine ai quali le Regioni potrebbero,
comunque, sviluppare una disciplina integrativa - e di stabilire il
tetto entro il quale ogni comparto può svolgere la contrattazione,
in relazione alle risorse.
In questo senso, gli artt. 50, 51 e 52 del decreto devono essere
valutati nel contesto sistematico della disciplina posta dal decreto
stesso, con particolare riferimento agli artt. da 63 a 67, in materia
di controllo della spesa, che assumono un particolare rilievo
rispetto al fine perseguito dal legislatore di realizzare un sistema
di efficace valutazione dei costi e di trasparenza dei meccanismi di
spesa.
In questo quadro, la partecipazione delle Regioni alla formazione
delle direttive, nella forma della consultazione preventiva della
Conferenza dei Presidenti regionali, così come prevista dall'art.
50, terzo comma, unitamente agli altri momenti partecipativi previsti
dal decreto a favore delle Regioni, sarebbe - secondo l'Avvocatura
dello Stato - idonea a garantire il ruolo regionale, in rapporto
all'oggetto delle direttive, come sopra precisato.
8. - L'Avvocatura dello Stato ha presentato, inoltre, una memoria
in relazione al ricorso n. 19/1993 della Regione Lombardia. In tale
memoria l'Avvocatura dello Stato si sofferma in particolare sugli
aspetti inerenti al personale del Servizio sanitario nazionale, per
rilevare che l'applicabilità della normativa delegata a tale
personale è stata esplicitamente prevista dall'art. 1, lett. q),
della legge di delega n. 421 del 1992. A giudizio dell'Avvocatura
dello Stato la nuova configurazione delle Unità sanitarie locali
quali "enti strumentali" delle Regioni, di cui al decreto legislativo
n. 502 del 1992, non avrebbe modificato il principio di omogeneità
della disciplina del personale, necessaria, tra l'altro, a consentire
le procedure di mobilità di cui all'art. 2, primo comma, lett. r),
della stessa legge n. 421. Tale preminente interesse di carattere
nazionale giustificherebbe, pertanto, il mantenimento allo Stato
della competenza in materia di personale sanitario, ferma restando,
per le Regioni, la facoltà, sancita dall'art. 1, terzo comma, del
decreto impugnato, di attuare le norme statali tenendo conto della
peculiarità dei rispettivi ordinamenti.
Considerato in diritto
1. - I due ricorsi avanzati dalla Regione Veneto ed il ricorso
promosso dalla Regione Lombardia sollevano questioni in parte
identiche ed in parte connesse: possono essere, pertanto, riuniti al
fine di essere decisi con un'unica pronuncia.
2. - Con il primo dei due ricorsi (n. 70 del 1992) la Regione
Veneto impugna l'art. 2, primo comma, lett. b), della legge 23
ottobre 1992, n. 421, recante "Delega al Governo per la
razionalizzazionee la revisione delle discipline in materia di
sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza
territoriale".
Secondo la ricorrente, la norma in questione, nel conferire al
Governo il potere di prevedere, mediante legge delegata, "strumenti
per la rappresentanza negoziale della parte pubblica, autonoma ed
obbligatoria, mediante un apposito organismo tecnico, dotato di
personalità giuridica, sottoposto alla vigilanza della Presidenza
del Consiglio dei ministri ed operante in conformità alle direttive
impartite dal Presidente del Consiglio", avrebbe violato l'art. 117
della Costituzione, con riferimento alla competenza regionale in tema
di ordinamento degli uffici, nonché l'art. 97 della Costituzione,
che assicura il buon andamento e l'imparzialità della
amministrazione.
La questione non è fondata.
La norma di delegazione in questione, nella generalità della sua
previsione, non è tale da apportare lesione alla sfera
dell'autonomia regionale né al principio di cui all'art. 97 della
Costituzione, dal momento che, pur prevedendo per la rappresentanza
della parte pubblica nella contrattazione collettiva un organismo
unitario sottoposto alla vigilanza e operante in conformità alle
direttive del Presidente del Consiglio, non esclude la possibilità
di una partecipazione adeguata delle Regioni alle attività di tale
organismo ed alle procedure della contrattazione, ove le stesse
vengano a investire, con carattere vincolante, la disciplina dei
rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle stesse Regioni
e degli enti regionali. Tale partecipazione regionale appare, anzi,
sottintesa negli stessi principi espressi dalla norma impugnata là
dove essa, nel suo primo inciso, conferisce al Governo il potere di
prevedere "criteri di rappresentatività" ai fini della tutela dei
diritti sindacali e delle procedure di contrattazione "compatibili
con le norme costituzionali".
La lesione della sfera dell'autonomia regionale, là dove essa -
come vedremo - si è verificata, è stata, pertanto, determinata, non
dalla norma di delegazione espressa dall'art. 2, primo comma, lett.
b), della legge n. 421 del 1992, bensì dal modo come questa
disposizione è stata, in concreto, attuata attraverso alcune delle
norme contenute nel decreto legislativo n. 29 del 1993: norme
anch'esse impugnate dalla Regione Veneto con il successivo ricorso n.
20 del 1993, oggetto dell'esame che verrà condotto, congiuntamente a
quello relativo al ricorso proposto dalla Regione Lombardia, nei
paragrafi che seguono.
3. - Formano oggetto delle impugnative proposte con il secondo
ricorso della Regione Veneto (n. 20 del 1993) e con il ricorso della
Regione Lombardia (n. 19 del 1993) numerose disposizioni contenute
nel decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante
"Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni
pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico
impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421".
Con tale decreto - emanato in attuazione della delega contenuta
nell'art. 2 della legge n. 421 del 1992 (Delega al Governo per la
razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di
sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza
territoriale) - è stata formulata una nuova disciplina organica
della materia dell'organizzazione degli uffici e dei rapporti di
lavoro e di impiego nell'ambito delle amministrazioni pubbliche,
disciplina ispirata alle finalità di "accrescere l'efficienza delle
amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e
servizi dei paesi della Comunità europea", di "razionalizzare il
costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il
personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza
pubblica", di "integrare gradualmente la disciplina del lavoro
pubblico con quella del lavoro privato" (v. art. 1).
La normazione espressa nel decreto n. 29 del 1993 ha profondamente
innovato la disciplina in precedenza posta dalla legge quadro sul
pubblico impiego (legge 29 marzo 1983, n. 93), ricostruendo l'intera
materia intorno ai nuovi principi della "privatizzazione" e della
"contrattualizzazione" enunciati nell'art. 2, primo comma, lett. a),
della legge n. 421 del 1992 e attuati, nel decreto n. 29 del 1993,
mediante l'inquadramento dei rapporti d'impiego pubblico nella
cornice del diritto civile e nella contrattazione collettiva e
individuale.
Le Regioni ricorrenti non contestano le linee di fondo di questa
riforma, ma ritengono che le sue modalità attuative, così come
articolate nel decreto legislativo n. 29, siano tali da incidere e
menomare, per vari aspetti, la sfera dell'autonomia regionale.
Più in particolare, la Regione Veneto contesta - per violazione
degli artt. 97 e 117 della Costituzione - la disciplina posta dal
decreto legislativo in tema di Agenzia per le relazioni sindacali, di
sottoscrizione dei contratti e di risorse destinate alla
contrattazione collettiva (artt. 50, 51 e 52).
A sua volta, la Regione Lombardia impugna - per violazione degli
artt. 39, 76, 117, 118, 119 e 124 della Costituzione - numerose
disposizioni concernenti: a) l'efficacia della nuova disciplina nei
confronti delle Regioni (art. 1, terzo comma); b) la dirigenza (artt.
13; 15, secondo comma; 18, primo comma; 26; 27, secondo e quarto
comma; 28); c) il personale delle Unità Sanitarie locali (artt. 26;
26, quarto comma; 28, decimo comma; d) gli uffici, le piante
organiche, la modalità e gli accessi (artt. 30, secondo comma; 31;
32; 33; 34; 35; 41, primo e terzo comma; 42, secondo comma; 43); e)
la contrattazione collettiva e la rappresentatività sindacale (artt.
45; 47; 49, secondo comma; 50, 51, 52 e 54); f) il rapporto di
lavoro, con riferimento all'orario di servizio e di lavoro ed alla
disciplina della pari opportunità tra uomini e donne (artt. 60 e 61,
secondo comma); g) il controllo della spesa (artt. 63, secondo comma;
64; 65 e 70, secondo comma); h) i poteri del Commissario del Governo
(art. 67).
4. - I ricorsi sono in parte fondati.
Per procedere ad un esame ordinato delle varie censure converrà,
in primo luogo, muovere dalla valutazione dei profili di
illegittimità che vengono a investire gli aspetti più generali
della nuova disciplina (art. 1, terzo comma, e disposizioni contenute
nel titolo III, in tema di contrattazione collettiva e
rappresentatività sindacale), per poi passare allo scrutinio delle
questioni più particolari, secondo l'ordine di collocazione nel
testo della legge delegata delle disposizioni impugnate.
5. - La prima censura che va esaminata è quella che la Regione
Lombardia ha formulato nei confronti del terzo comma dell'art. 1,
dove si stabilisce - in attuazione di quanto previsto dall'art. 2,
secondo comma, della legge n. 421 del 1992 - che le disposizioni
contenute nel decreto n. 29 del 1993 "costituiscono principi
fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione" e che le
Regioni ordinarie "si attengono ad esse tenendo conto delle
peculiarità dei rispettivi ordinamenti".
Ad avviso della ricorrente tale norma - anche a voler ammettere la
possibilità di formulare principi fondamentali di cui all'art. 117
della Costituzione, in una legge delegata - sarebbe incostituzionale,
dal momento che verrebbe a vincolare le Regioni al rispetto
indiscriminato di tutte le disposizioni enunciate nel decreto n. 29,
ivi comprese quelle contenenti discipline di estremo dettaglio.
La questione non è fondata.
Mentre non possono sussistere dubbi in ordine alla possibilità
che i "principi fondamentali" di cui all'art. 117 della Costituzione
possano essere enunciati anche in una legge delegata, stante la
diversa natura ed il diverso grado di generalità che detti principi
possono assumere rispetto ai "principi e criteri direttivi" previsti
in tema di legislazione delegata dall'art. 76 della Costituzione, va
in concreto rilevato che la norma impugnata, nella sua integrale e
corretta lettura, non è tale da produrre quegli effetti di vincolo
assoluto e generalizzato che la Regione lamenta. Le disposizioni formulate nel decreto legislativo vincolano, infatti, le Regioni a
statuto ordinario non tanto in relazione alla mera qualifica formale
di "principi fondamentali" riconosciuta dalla legge, quanto in
relazione alla natura oggettiva di normazione di principio che le
disposizioni stesse, in conformità alla loro qualifica formale,
vengono a manifestare (v., analogamente, con riferimento alle leggi
di riforma economico-sociale, sentt. nn. 219 del 1984; 192 del 1987;
85 del 1990; 349 del 1991): di talché le stesse Regioni saranno
tenute alla loro osservanza non indiscriminatamente, ma nella misura
in cui tali disposizioni siano suscettibili di esprimere, per il loro
contenuto e la loro formulazione, un principio fondamentale e non una
norma di dettaglio. Diversamente non sarebbe neppure possibile
spiegare la stessa formulazione della norma impugnata che vincola le
Regioni ad osservare le disposizioni del decreto legislativo come
espressione di "principi fondamentali", ma tenendo conto "delle
peculiarità dei rispettivi ordinamenti".
6. - Passando all'esame delle censure prospettate dalla Regione
Veneto e, con maggiore ampiezza, dalla Regione Lombardia nei
confronti delle norme formulate nel titolo III del decreto n. 29 del
1993 in tema di contrattazione collettiva e di rappresentatività
sindacale, conviene innanzi tutto richiamare i tratti essenziali
della nuova disciplina espressa nell'ambito di tale titolo.
Questa disciplina s'incentra sui punti seguenti:
a) tutte le materie relative ai rapporti di lavoro alle
dipendenze di amministrazioni pubbliche - ad eccezione di quelle
riservate alla legge, ai sensi dell'art. 2, primo comma, lett. e),
della legge n. 421 del 1992 - sono regolate mediante contratti
collettivi, nazionali e decentrati (cui si possono aggiungere
contratti collettivi quadro, destinati a disciplinare in modo
uniforme per tutte le aree di contrattazione collettiva la durata dei
contratti e specifiche materie) (artt. 45, primo, secondo e quinto
comma);
b) la contrattazione nazionale è attuata per comparti
comprendenti settori omogenei o affini, individuati, sulla base di
accordi sindacali, con decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri, sentita la Conferenza dei Presidenti delle Regioni per gli
aspetti di interesse regionale (art. 45, terzo comma). La
contrattazione decentrata si svolge sulle materie e nei limiti
stabiliti dai contratti nazionali (art. 45, quarto comma);
c) i contratti collettivi, una volta sottoscritti, vincolano
immediatamente le amministrazioni pubbliche, che sono tenute a
garantire ai propri dipendenti trattamenti non inferiori a quelli
previsti nei rispettivi contratti (artt. 45, nono comma, e 49,
secondo comma). Risulta, pertanto, eliminata la fase del
"recepimento" o della "approvazione" degli accordi collettivi
mediante atto normativo (statale o regionale), già prevista dalla
legge quadro sul pubblico impiego (artt. 6 e 10 L. n. 93 del 1983);
d) i contratti collettivi nazionali ed i contratti quadro sono
stipulati, per la parte pubblica, dalla Agenzia per le relazioni
sindacali, istituita dall'art. 50, e per la parte sindacale dalle
Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
L'Agenzia - cui spetta la rappresentanza di tutte le amministrazioni
pubbliche (ivi comprese le Regioni a statuto ordinario, mentre le
Regioni a statuto speciale e le Province autonome "possono" avvalersi
dell'attività dell'Agenzia) - è un organismo dotato di personalità
giuridica, sottoposto alla vigilanza del Presidente del Consiglio,
disciplinato da un regolamento governativo ed il cui direttore è
nominato con decreto del Presidente del Consiglio. L'Agenzia si
attiene, nella contrattazione, alle direttive impartite dal
Presidente del Consiglio, sentita la Conferenza dei Presidenti delle
Regioni per gli aspetti di interesse regionale. Ulteriori
indicazioni, per i contratti relativi al comparto regionale, possono
essere date all'Agenzia dalla Conferenza dei Presidenti delle
Regioni. L'Agenzia, per lo svolgimento dei suoi compiti, si avvale,
tra l'altro, di consulenti prescelti tenendo anche conto delle
indicazioni delle Regioni. Il direttore dell'Agenzia è coadiuvato,
per le questioni concernenti il personale degli enti locali, da un
comitato di coordinamento i cui membri sono in parte designati dalla
Conferenza dei Presidenti delle Regioni (art. 50);
e) per quanto concerne la parte sindacale la maggiore
rappresentatività sul piano nazionale viene definita in base ad un
apposito accordo tra Presidente del Consiglio e Confederazioni
sindacali (individuate ai sensi dell'art. 8 del d.P.R. 23 agosto
1988, n. 395), accordo recepito con decreto del Presidente della
Repubblica (art. 47);
f) i contratti decentrati vengono stipulati, per la parte
pubblica, da una delegazione composta dal titolare del potere di
rappresentanza delle singole amministrazioni e per la parte sindacale
da una rappresentanza composta secondo modalità da definire in sede
di contratto nazionale (art. 45, ottavo comma);
g) la sottoscrizione dei contratti nazionali è operata
dall'Agenzia in base ad autorizzazione del Governo sottoposta al
controllo della Corte dei conti e regolata da un'apposita procedura.
Il Governo assume il parere della Conferenza dei Presidenti delle
Regioni per gli aspetti di interesse regionale (art. 51);
h) la quantificazione degli oneri derivanti dalla contrattazione
collettiva è affidata, per tutte le amministrazioni pubbliche, al
Ministero del Tesoro e le risorse vengono ripartite tra le varie
amministrazioni con la particolare procedura fissata nell'art. 51. Al
Presidente del Consiglio spetta impartire direttive all'Agenzia per i
rinnovi contrattuali, indicando le riserve complessivamente
disponibili per i comparti ed i criteri generali di distribuzione
delle risorse (art. 51, secondo comma);
i) un apposito accordo tra Presidente del Consiglio e sindacati
maggiormente rappresentativi regola i limiti massimi delle
aspettative e dei permessi sindacali nel settore pubblico (art. 54).
7. - Larga parte di tale normazione viene impugnata dalle Regioni
ricorrenti, in quanto ritenuta lesiva delle competenze regionali,
anche in relazione alla disciplina in precedenza posta, per gli
accordi collettivi relativi al comparto regionale, dalla legge quadro
sul pubblico impiego (e, in particolare, dall'art. 10, ultimo comma),
nonché alla giurisprudenza di questa Corte elaborata in relazione a
tale legge (sentt. n. 219 del 1984; n. 217 del 1987; nn. 1001 e 1003
del 1988). Ad avviso della ricorrente, infatti, la nuova procedura di
contrattazione fissata dal decreto legislativo n. 29 sarebbe venuta a
spogliare le Regioni delle competenze costituzionali alle stesse
spettanti in tema di disciplina dei propri rapporti d'impiego sotto
un duplice profilo: da un lato, escludendo del tutto le Regioni dalla
fase contrattuale, affidata in esclusiva ad un organismo statale
qual'è l'Agenzia per le relazioni sindacali; dall'altro, sottraendo
alla sfera regionale il potere di approvazione (e di adeguamento)
degli accordi sindacali relativi al comparto regionale già previsto
dall'art. 10, ultimo comma, della legge n. 93 del 1983. La
vincolatività piena che il decreto legislativo n. 29 conferisce - ai
sensi degli artt. 45, nono comma, e 49, secondo comma - ai contratti
stipulati per il comparto regionale senza il concorso attivo delle
Regioni verrebbe, di conseguenza, a determinare una violazione sia
dell'art. 117 che dell'art. 39 della Costituzione.
8. - Tali doglianze si presentano in parte fondate, con
riferimento al loro nucleo centrale che investe la procedura prevista
per la contrattazione nazionale.
Non si può, infatti, negare che tale procedura - riducendo lo
spazio riservato alla legge regionale ed eliminando la fase normativa
di recepimento degli accordi già prevista dalla legge n. 93 del 1983
- sia venuta a limitare notevolmente l'ambito d'intervento consentito
alle Regioni a statuto ordinario dall'art. 117 della Costituzione in
tema di disciplina dei propri rapporti di lavoro e di impiego senza,
di contro, compensare tale limitazione attraverso una presenza
adeguata delle stesse Regioni nella fase della trattativa e della
sottoscrizione del contratto.
L'affidamento in esclusiva, con effetti vincolanti, di tale fase -
e della relativa rappresentanza della parte pubblica - ad un
organismo quale l'Agenzia - dotato di propria personalità, ma
sottoposto alla vigilanza della Presidenza del Consiglio - non può,
d'altro canto, non incidere nella sfera dell'autonomia connessa alla
contrattazione collettiva, che anche per quanto concerne le Regioni a
statuto ordinario viene a discendere dai principi di cui all'art. 39
della Costituzione: autonomia la cui limitazione risulta aggravata
dalla procedura di individuazione delle controparti contrattuali, da
cui le stesse Regioni si trovano, ai sensi dell'art. 47, primo e
secondo comma, del tutto escluse.
Né compensazioni adeguate alla sottrazione di potere normativo e
contrattuale operato nei confronti delle Regioni dalla disciplina in
esame possono essere individuate nelle funzioni consultive e
d'indirizzo attribuite alla Conferenza dei Presidenti delle Regioni
dall'art. 50, terzo e quarto comma, e dall'art. 51, primo comma, e
neppure negli apporti all'organizzazione dell'Agenzia consentiti alla
stessa Conferenza dall'art. 50, ottavo e decimo comma. E invero tali
funzioni e tali apporti vengono pur sempre a configurarsi come
secondari e marginali rispetto alla formazione della volontà
contrattuale, né sono tali da giustificare l'assenza della Regione
come parte sostanziale del rapporto.
9. - Le osservazioni che precedono conducono, dunque, ad affermare
l'illegittimità delle norme espresse nel titolo III del decreto
impugnato, suscettibili di riferirsi alla contrattazione nazionale
relativa ai rapporti di lavoro e d'impiego delle Regioni ordinarie e
degli enti amministrativi dipendenti dalle stesse. La dichiarazione
di illegittimità costituzionale colpisce, di conseguenza, gli artt.
45, settimo e nono comma; 47; 49, secondo comma; 50, secondo, terzo,
quarto, ottavo e decimo comma; 51, primo comma, del decreto
legislativo n. 29 del 1993, nella parte in cui tali disposizioni
risultino applicabili alle Regioni a statuto ordinario con
riferimento alla contrattazione nazionale relativa ai rapporti di
lavoro e di impiego alle dipendenze delle stesse Regioni e degli enti
regionali.
La pronuncia di illegittimità non colpisce, invece, le altre
norme del titolo III che formano oggetto d'impugnativa, dal momento
che le stesse o non incidono nella sfera di autonomia delle Regioni
ordinarie (art. 45, quinto e sesto comma) od offrono a tale autonomia
un riconoscimento adeguato (art. 45, terzo e ottavo comma; art. 51,
terzo comma) o sono tali da trovare la loro giustificazione in
esigenze primarie di rilievo nazionale ispiratrici della riforma,
quali quelle connesse allo sviluppo della produttività
dell'amministrazioneed al controllo della spesa pubblica relativa al
personale (artt. 51, quarto comma; 52; 54).
D'altro canto, è appena il caso di osservare che la pronuncia di
illegittimità delle norme sopra elencate, con riferimento ai profili
denunciati, non comporta che il legislatore, in sede di formulazione
della nuova disciplina che dovrà sostituire quella ora caducata, non
possa pur sempre ispirarsi ai principi enunciati nell'art. 2 della
legge n. 421 del 1992 - che più hanno innovato rispetto alla legge
n. 93 del 1983 - sia in tema di "contrattualizzazione" del rapporto
di impiego pubblico (con la relativa separazione della fase normativa
dalla fase contrattuale) che in tema di imputazione dell'attività di
contrattazione ad un unico organismo tecnico. Tale pronuncia
comporta, invece, che, nell'adottare la nuova disciplina della
contrattazione nazionale, lo stesso legislatore debba in ogni caso
adottare
soluzioni organizzative e procedurali in grado di garantire una
partecipazione effettiva dei soggetti regionali tanto alla fase della
formazione che a quella della sottoscrizione dei contratti collettivi
concernenti i rapporti di lavoro e di impiego imputabili alle Regioni
ordinarie.
10. - Passando ora all'esame dei profili più particolari
enunciati nel solo ricorso della Regione Lombardia, le prime
questioni che vanno affrontate sono quelle prospettate nei confronti
degli artt. 13; 15, secondo comma; 18, primo comma; 27, secondo
comma, e 28, concernenti la disciplina della dirigenza.
Ad avviso della ricorrente tali disposizioni - se applicabili alla
dirigenza regionale - dovrebbero ritenersi lesive delle competenze
costituzionali proprie delle Regioni in tema di pubblico impiego, in
quanto dirette a imporre l'unicità della qualifica dirigenziale
(art. 15, secondo comma) ed a regolare in dettaglio i poteri di
coordinamento dei dirigenti regionali (art. 27, secondo comma).
Vengono, inoltre, censurati l'art. 18, primo comma, per il fatto di
attribuire ad un organismo interamente statale il compito di
definire, in base alle indicazioni del Ministero del Tesoro, "i
criteri e le procedure per l'analisi e la valutazione dei costi dei
singoli uffici", nonché l'art. 28, per il fatto di regolare con
norme di estremo dettaglio l'accesso alla qualifica dirigenziale,
conferendo al Presidente del Consiglio dei ministri il compito di
definire le modalità dei concorsi e delle selezioni.
Tali questioni non sono fondate.
Va, infatti, escluso che gli artt. 15, secondo comma, e 27,
secondo comma, pongano norme suscettibili di qualificarsi come discipline di dettaglio, mentre va riconosciuto allo Stato il potere di
formulare - in sede di riassetto della funzione dirigenziale -
principi suscettibili di vincolare la sfera regionale sia in ordine
ai possibili livelli di tale funzione che al carattere temporalmente
limitato dell'attività di coordinamento affidata dalle Regioni ai
propri dirigenti: e questo tanto più ove si considerino quelle
esigenze di "armonizzazione" tra i diversi tipi di dirigenza, statale
e regionale, che, anche di recente, la Corte ha già avuto modo di
sottolineare (sent. n. 493 del 1991).
Infondata risulta anche la questione relativa al primo comma
dell'art. 18, dal momento che la definizione dei criteri e delle procedure per l'analisi e la valutazione dei costi degli uffici si
presenta strumentale ad un'attività conoscitiva che in tanto potrà
conseguire risultati utili, sul piano dell'economicità dell'azione
amministrativa e della verifica dei risultati, in quanto venga
attuata attraverso un organismo dotato di specifiche competenze
tecniche e in grado di operare sulla base di apporti informativi
omogenei e comparabili.
Infine, si presenta infondata anche la censura prospettata nei
confronti dell'art. 28, dal momento che tale disposizione riguarda
l'accesso alla dirigenza statale e agli enti pubblici non economici,
ma non detta alcuna disciplina in tema di accesso alla dirigenza
regionale.
11. - Sempre sul piano dei profili particolari prospettati nel
ricorso della Regione Lombardia, un secondo ordine di censure investe
gli artt. 13, 26, 27, quarto comma, e 28, decimo comma, in tema di
dirigenza del Servizio sanitario nazionale.
Secondo la Regione tali disposizioni sarebbero lesive della sfera
di autonomia regionale per il fatto di avere esteso tutte le norme
sulla dirigenza alle amministrazioni, enti ed aziende del Servizio
sanitario nazionale (art. 13); di aver dettato una disciplina di
dettaglio sia in via transitoria (art. 26) che di accesso alla
dirigenza sanitaria (art. 28, decimo comma); di aver previsto un
potere sostitutivo del Presidente del Consiglio non preceduto da
diffida (art. 27, quarto comma): censure tutte collegate alla
premessa che l'unità sanitaria locale - a seguito della riforma
introdotta con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 - è
stata configurata come "ente strumentale della Regione", con la
conseguenza che la disciplina del personale degli enti sanitari
dovrebbe oggi risultare affidata, ai sensi dell'art. 117, alla
Regione.
Tali questioni non sono fondate.
In primo luogo va rilevato che l'art. 13 del decreto n. 29,
nell'estendere la normazione sulla dirigenza anche al Servizio
sanitario nazionale, ha fatto espressamente salvo quanto stabilito
per il ruolo sanitario dal decreto legislativo n. 502 del 1992, dove,
all'art. 15, è stata formulata una disciplina speciale per la
dirigenza sanitaria. Le norme enunciate in tema di dirigenza dal
decreto n. 29 si estendono, dunque, al ruolo sanitario non
indistintamente, ma solo compatibilmente con tale disciplina
speciale.
In secondo luogo, va sottolineato che il nuovo inquadramento delle
Unità sanitarie locali disposto con l'art. 3 del decreto legislativo
n. 502 del 1992 non ha fatto venire meno quelle esigenze di
uniformità che hanno a suo tempo indotto il legislatore statale a
riservare alla propria sfera di competenza la disciplina del
personale sanitario (v. art. 47, terzo e quarto comma, L. 23 dicembre
1978, n. 833), esigenze ripetutamente convalidate anche dalla
giurisprudenza di questa Corte (v. sentt. nn. 294 del 1986; 112 e 308
del 1990). Dal che la conseguente infondatezza delle censure mosse
alle disposizioni di cui agli artt. 26 e 28, decimo comma, del
decreto n. 29, con riferimento al loro carattere di discipline di
dettaglio.
Infine, va riconosciuta infondata la censura relativa al potere
sostitutivo conferito dall'art. 27, quarto comma, al Presidente del
Consiglio. L'assenza della diffida, nel caso di specie, si può,
infatti, spiegare tenendo conto della particolarità del potere
d'intervento conferito allo stesso Presidente, in relazione al potere
regionale di individuazione dell'organo competente a nominare i
"nuclei di valutazione" (potere esercitato una tantum, nella fase di
avvio della nuova disciplina), nonché alla necessità di non creare
ritardi nella messa in atto di un istituto particolarmente rilevante
per gli scopi di efficienza e produttività perseguiti dalla riforma.
12. - Un terzo ordine di doglianze viene formulato nei confronti
degli artt. 30, secondo comma, e 31, in tema di uffici e piante
organiche.
In proposito, la ricorrente lamenta che, ai sensi dell'art. 30,
secondo comma, la ridefinizione triennale delle piante organiche sia
sottoposta alle direttive del Dipartimento della funzione pubblica,
di concerto con il Ministro del Tesoro e che, ai sensi dell'art. 31,
la Regione sia tenuta, in sede di prima applicazione della nuova
disciplina, a provvedere alla rilevazione di tutto il personale; alla
formulazione di una proposta di ridefinizione dei propri uffici e
delle piante organiche (con una riduzione per accorpamento degli
uffici dirigenziali in misura non inferiore al 10% e con la riserva
di un contingente di dirigenti all'esercizio delle funzioni di
direzione dei sistemi informatico-statistici); alla trasmissione al
Dipartimento della funzione pubblica della rilevazione e delle
proposte, con la previsione di un potere sostitutivo del Presidente
del Consiglio in caso di inerzia dell'amministrazione. Viene, infine,
censurato il blocco delle assunzioni disposto dal sesto comma
dell'art. 31 fino a quando non siano state approvate le proposte di
ridefinizione delle piante organiche.
Anche tali censure non sono fondate.
Innanzitutto va rilevato che l'art. 30, secondo comma, nel
richiamare la procedura di cui all'art. 6 del decreto legislativo,
limita chiaramente la sua operatività alle amministrazioni statali,
rispetto a cui la procedura stessa risulta specificamente
configurata. Inoltre, dai vari aspetti della disciplina posta
dall'art. 31 non viene a discendere alcuna lesione dell'autonomia
regionale, dal momento che alle Regioni, se da un lato viene imposto
un obbligo di rilevazione e di proposta, nonché di trasmissione
delle rilevazioni e delle proposte, dall'altro viene anche riservato
il potere di approvazione delle stesse proposte "con i provvedimenti
e nei tempi previsti dai rispettivi ordinamenti" (art. 31, quarto
comma). Mentre, d'altro canto, i vincoli più specifici imposti dallo
stesso articolo (riduzione delle dotazioni organiche del personale
dirigenziale; riserva di una quota di detto personale per attività
informatiche; blocco temporaneo delle assunzioni) possono - al pari
del potere sostitutivo riconosciuto al Presidente del Consiglio -
trovare la loro giustificazione nei fini stessi della riforma,
fondata, in prevalenza, sulla razionalizzazione degli uffici e sul
controllo della spesa connessa al personale, nonché nell'interesse
nazionale sotteso alla sua riuscita.
13. - Un quarto ordine di censure investe poi gli artt. 32, 33, 34
e 35, in tema di mobilità del personale. Tali disposizioni vengono
impugnate per il fatto di prevedere una disciplina minuziosa e
centralizzata della mobilità estesa anche al personale regionale, ma
senza alcun intervento delle Regioni.
La questione è in parte fondata.
Per quanto concerne la sfera delle competenze regionali, nessun
rilievo si può formulare in ordine alla disciplina posta dagli artt.
32 (in tema di ricognizione delle vacanze), 33 (in tema di competenze
dei comitati provinciali e metropolitani), 34 (in tema di messa in
disponibilità), nonché in ordine al procedimento per l'attuazione
della mobilità descritto nell'art. 35, primo, secondo, terzo,
quinto, sesto e settimo comma), dal momento che la disciplina in
questione realizza, con procedura appropriata, le finalità peculiari
dell'istituto della mobilità, così come lo stesso si è andato
configurando, in stretta connessione con esigenze di interesse
nazionale, dopo la legge quadro sul pubblico impiego del 1983.
Una lesione dell'autonomia regionale viene, invece, a manifestarsi
con riferimento all'art. 35, quarto comma, che affida ad un decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri i trasferimenti connessi
alla mobilità esterna alle singole amministrazioni, quand'anche gli
stessi comportino spostamenti di personale da e verso le Regioni.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, ove le procedure
di mobilità riguardino movimenti di personale da e verso le Regioni,
così da determinare una penetrante interferenza nell'autonomia
regionale, alle stesse Regioni, ai fini del rispetto del principio di
"leale collaborazione", debba essere assicurato "un momento
partecipativo, quanto meno nella forma della consultazione" (sent. n.
407 del 1989).
Tale principio va qui confermato e comporta, di conseguenza, la
dichiarazione di illegittimità della norma in esame, nella parte in
cui la stessa non prevede, per i processi di mobilità da e verso le
Regioni, una consultazione delle Regioni interessate.
14. - Un quinto ordine di censure concerne gli artt. 41, 42,
secondo comma, e 43, in tema di assunzioni.
La Regione lamenta, in particolare, che la disciplina dei
requisiti di accesso all'impiego e delle modalità concorsuali
risulti affidata ad un regolamento governativo, da adottare ai sensi
dell'art. 17 della legge n. 400 del 1988 (art. 41); che sulla
promozione e sulla proposta di programmi di assunzione per portatori
di handicap siano previste direttive del Dipartimento della funzione
pubblica (art. 42, secondo comma); che agli assunti all'impiego nelle
amministrazioni pubbliche vengano estese le norme di cui all'art. 7,
quinto e settimo comma, della legge n. 444 del 1985 (in tema di
presentazione dei documenti e di efficacia dei provvedimenti di
nomina) e venga imposto l'obbligo di permanenza nella sede di prima
destinazione per un periodo non inferiore a sette anni (art. 43).
Anche tali questioni non si presentano fondate.
Per quanto concerne l'art. 41, va rilevato che il regolamento
governativo ivi previsto al primo comma non può non attenere al solo
impiego statale, stante l'esplicito divieto, espresso nell'art. 17,
secondo comma, lett. b), della legge n. 400 del 1988, di interventi
regolamentari del Governo in materie riservate alla competenza
regionale. Resta, pertanto, inalterata, in ordine alla disciplina
dell'accesso e delle modalità concorsuali nell'impiego regionale, la
competenza normalmente affidata alle fonti regionali.
Per quanto concerne poi l'art. 42, secondo comma, il dato da
considerare è che le direttive ivi previste risultano fondate nella
legge né possono considerarsi lesive dell'autonomia regionale ove
vengano espresse, come dovuto, nelle forme appropriate dell'indirizzo
e del coordinamento.
Infine, con riferimento alle censure mosse nei confronti dell'art.
43, va rilevato che le norme espresse in tale articolo - nonostante
la specificità dei loro contenuti - assumono, nel quadro dei criteri
di omogeneità ispiratori della riforma, valore di norme di
principio, suscettibili di operare nei confronti di tutte le
amministrazioni pubbliche.
15. - Il ricorso formula poi censure nei confronti degli artt. 60
e 61, secondo comma, concernenti rispettivamente l'orario di servizio
e di lavoro e le direttive in tema di pari opportunità tra uomini e
donne. La Regione ritiene tali disposizioni lesive dell'autonomia
regionale, dal momento che la prima porrebbe norme di estremo
dettaglio e la seconda prevederebbe una funzione di indirizzo
contrastante con il principio di legalità sostanziale.
Anche tali questioni non sono fondate.
La disciplina dell'orario di servizio e di lavoro prevista
nell'art. 60 si riferisce a situazioni ordinarie ("di norma"): essa
consente, pertanto, alle Regioni di adattare i principi desumibili
dalla nuova disciplina "alle peculiarità dei rispettivi ordinamenti"
(art. 1, terzo comma).
Con riferimento all'art. 61, secondo comma, va, d'altro canto,
rilevato che la norma affida alle singole amministrazioni il potere
di attuare le direttive della Comunità europea in tema di pari
opportunità e che le "disposizioni" della Presidenza del Consiglio
richiamate da tale norma, ove rivolte alle Regioni, non potranno non
assumere le forme proprie della funzione d'indirizzo e coordinamento,
che, in questo caso, verrà a trovare la sua base legale nella stessa
direttiva comunitaria.
16. - Ulteriori censure vengono poi formulate nei confronti degli
artt. 63, secondo comma, 64, 65 e 70, secondo comma, in tema di
controllo della spesa per il personale. La ricorrente ritiene che le
norme espresse in tali articoli siano lesive dell'autonomia regionale
in quanto dirette ad assoggettare la Regione a poteri di direttiva,
di determinazione e di controllo di organi centrali.
La questione è priva di fondamento.
Le attività di rilevazione dei flussi finanziari delle varie
amministrazioni e dei costi imputabili alle stesse, di cui agli artt.
63 e 64, sono previste in funzione del controllo sulla spesa pubblica
e sul costo del personale tanto in sede nazionale che locale: esse,
per risultare efficaci, non potranno non svolgersi secondo criteri e
parametri omogenei e sottostare a indirizzi fissati in sede centrale.
Si spiega, pertanto, il potere d'indirizzo e coordinamento affidato
in materia alla Presidenza del Consiglio dei ministri dal quarto
comma dell'art. 64, potere che viene a trovare il suo fondamento
legale sia nel fine di "omogeneizzazione delle procedure" enunciato
dalla stessa norma, sia, più in generale, nel complesso della
disciplina posta dal titolo V del decreto legislativo.
Per quanto concerne, poi, il controllo del costo del lavoro di cui
all'art. 65 - controllo che comporta, tra l'altro, l'obbligo per la
Regione di presentare un conto annuale delle spese per il personale
rilevato secondo un modello elaborato dal Ministero del Tesoro -
nonché i poteri di verifica sulla applicazione dei contratti di cui
all'art. 70, secondo comma, affidati al Ministero del Tesoro ed al
Dipartimento della funzione pubblica, è sufficiente osservare che
tali istituti appaiono conformi alle finalità primarie della
riforma, che trova il suo fondamento nell'interesse nazionale al
riequilibrio della finanza pubblica ed alla migliore efficienza e
qualità delle prestazioni rese dalle amministrazioni pubbliche ai
cittadini.
17. - L'ultima censura proposta nel ricorso dalla Regione
Lombardia investe l'art. 67, che ha affidato al Commissario del
Governo la rappresentanza dello Stato nel territorio regionale,
nonché la responsabilità verso il Governo del flusso di
informazioni degli enti pubblici operanti nel territorio, conferendo
altresì allo stesso il compito di trasmettere tutte le comunicazioni
del Governo alla Regione.
Ad avviso della ricorrente tale configurazione del ruolo e dei
compiti del Commissario verrebbe a violare l'art. 124 della
Costituzione, che affida a tale organo solo il compito di
sovrintendere alle funzioni amministrative esercitate dallo Stato e
di coordinarle con quelle esercitate dalla Regione.
La questione non è fondata.
La norma, che ricalca in parte la disciplina già posta dall'art.
13 della legge n. 400 del 1988 - oltre a rispondere ad un principio
di autorganizzazione dello Stato di per se non lesivo della sfera
dell'autonomia regionale - non altera la fisionomia costituzionale
del Commissario, ma ne specifica la natura secondo linee implicite
nello stesso disegno costituzionale. E invero, sia i compiti di
rappresentanza dello Stato che i compiti di trasmissione delle
informazioni da e verso la Regione, che l'art. 67 affida al
Commissario, possono essere fatti derivare tanto dalle funzioni di
"sovraintendenza" che da quelle di "coordinamento" che la
Costituzione ha espressamente affidate a tale organo.