Ritenuto in fatto
1. - Un cittadino italiano di lingua slovena, Samo Pahor, ha
proposto opposizione nei confronti di un'ordinanza-ingiunzione di
pagamento, emessa dal Prefetto di Trieste per un'infrazione stradale
di divieto di sosta, presentando un ricorso ai sensi degli artt. 22 e
23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema
penale), ma redigendolo in lingua slovena. Nel ricorso l'opponente
lamentava, fra l'altro, che il verbale di accertamento
dell'infrazione gli era stato recapitato in lingua italiana, in
contrasto, a suo dire, con i trattati internazionali vigenti in
materia e, in particolare, con quello di Osimo. Il Pretore di
Trieste, riservata ogni decisione in ordine all'ammissibilità del
ricorso, ha disposto la traduzione di quest'ultimo in lingua italiana
e, dopo che la parte opponente, inizialmente comparsa di persona, ha
ulteriormente contestato l'uso esclusivo della lingua italiana nelle
fasi processuali successive, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale - in riferimento agli artt. 3 e 6 della Costituzione e
all'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia -
avverso gli artt. 22 e 23 della ricordata legge n. 689 del 1981,
nonché avverso l'art. 122 c.p.c., "nella parte in cui non prevedono
la facoltà, per i soggetti appartenenti a una minoranza linguistica
riconosciuta, di usare la propria lingua negli atti processuali
civili e ricevere da controparte la traduzione nella propria lingua
degli atti processuali di questa".
Il giudice a quo premette, in punto di rilevanza, che egli dovrebbe
dichiarare irricevibile il ricorso introduttivo, redatto in lingua
slovena, dal momento che l'art. 122 c.p.c., la cui applicazione si
estende al processo a quo, prescrive per i procedimenti civili l'uso
della lingua italiana (primo comma) e impone la nomina di un
interprete soltanto se deve esser sentita una persona che non conosce
la lingua italiana (secondo comma). Ma, poiché il giudice a quo
dubita della costituzionalità di tali norme e poiché l'eventuale
pronuncia di accoglimento di questa Corte farebbe superare l'ostacolo
dell'obbligo di rivolgersi all'autorità giudiziaria soltanto nella
lingua italiana, il Pretore di Trieste osserva che solo sollevando la
questione di costituzionalità potrebbe affrontare il merito della
causa sottopostagli.
In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il
giudice a quo rileva, innanzitutto, che la sentenza n. 28 del 1982 di
questa Corte, dopo aver ricordato che in Italia non è mai stata data
esecuzione al Memorandum di Londra del 1954 (il quale conferiva agli
sloveni estese facoltà di uso della lingua madre nei loro rapporti
con le autorità amministrative e con quelle giudiziarie), ha
affermato che quella slovena è una "minoranza riconosciuta", la
quale, tuttavia, non può giovarsi dell'uso della propria lingua nel
processo, sia perché fra le misure di attuazione del Memorandum di
Londra mantenute ferme dal Trattato di Osimo (reso esecutivo con la
legge 14 marzo 1977, n. 73) non v'è alcuna norma abrogatrice o
derogatrice dell'art. 122 c.p.c., sia perché dall'art. 6 della
Costituzione e dall'art. 3 dello Statuto per il Friuli-Venezia Giulia
deriva una tutela il cui oggetto diretto è la cultura della
minoranza slovena, non il diritto alla difesa del singolo
appartenente a quella minoranza. Ma, continua il giudice a quo, la
stessa sentenza n. 28 del 1982, che è una pronunzia interpretativa
di rigetto, afferma che c'è una "tutela minima" che consente "già
ora" agli appartenenti alla minoranza slovena di usare la lingua
materna anche con le locali autorità giurisdizionali e di ricevere
risposte da tali autorità nella stessa lingua. Non di meno questa
"tutela minima", conclude il giudice a quo, è rimasta lettera morta,
oltreché per il legislatore, anche per i giudici e gli
amministratori, sicché si renderebbe necessario passare da una
sentenza interpretativa di rigetto a una di accoglimento onde far
adattare la realtà giuridica ai dettami costituzionali.
Il Pretore di Trieste ritiene che le norme impugnate violino anche
l'art. 3 della Costituzione. A suo avviso, infatti, l'adozione del
nuovo art. 109 c.p.p., che permette al cittadino appartenente a una
minoranza linguistica di esprimersi nella propria lingua nel processo
penale, crea una disparità rispetto all'impugnato art. 122 c.p.c.,
che quella possibilità non prevede per il processo civile, sicché
si produrrebbe un'irragionevole rottura del parallelismo che la
dottrina individua tra i due processi e si conferirebbe una tutela
diseguale allo sviluppo della persona umana nei due tipi di giudizio.
Tutto ciò, conclude il giudice a quo, vale in modo particolare per i
giudizi nascenti dall'opposizione alle ordinanze-ingiunzioni
amministrative, nel cui procedimento, pur disciplinato da alcune
norme del codice di procedura civile (fra le quali, sicuramente,
l'art. 122), il cittadino può stare in giudizio di persona (art. 23,
quarto comma, della legge n. 689 del 1981), come avviene nel processo
penale.
2. - È intervenuta nel processo di costituzionalità la parte
privata ricorrente nel giudizio a quo, svolgendo per lo più
argomentazioni adesive rispetto all'ordinanza di rimessione e
sottolineando l'ulteriore incongruenza per la quale il cittadino
italiano appartenente alla minoranza linguistica slovena può usare
la propria madrelingua nell'esercizio dell'azione civile nel processo
penale. Su tali basi, la parte privata chiede che la questione sia
accolta.
3. - Si è costituito in giudizio anche il Presidente del
Consiglio dei ministri per chiedere che la questione sia dichiarata
inammissibile e, comunque, non fondata.
Secondo l'Avvocatura dello Stato, l'ordinanza di rimessione non
motiva adeguatamente su alcuni punti decisivi ai fini della rilevanza
della questione. Innanzitutto, essa non precisa se il ricorrente del
giudizio a quo fosse cittadino italiano alla data del 10 giugno 1940
(come esige l'art. 3 del Trattato di Osimo) e se, quando e perché
abbia acquistato la cittadinanza italiana e sia, quindi,
classificabile come "cittadino appartenente a una minoranza
linguistica riconosciuta" (cosa probabile, peraltro, essendo stato lo
stesso Pahor parte nel processo penale in relazione al quale è stata
resa la sentenza n. 28 del 1982 di questa Corte). La stessa
ordinanza, poi, non motiva anche sul punto se le norme in favore
delle minoranze possano operare anche per gli immigrati che
acquistano la cittadinanza italiana, oltreché per coloro da tempo
insediati nel territorio nazionale.
In secondo luogo, un ulteriore profilo di inammissibilità, legato
alla non necessaria influenza del giudizio di costituzionalità
rispetto al processo a quo, è ravvisato dall'Avvocatura dello Stato
nel fatto che, mentre nel ricorso per opposizione alla ordinanza-ingiunzione prefettizia si lamentava l'illegittimità della predetta
ordinanza soltanto perché redatta "esclusivamente in lingua
italiana" senza "traduzione in lingua slovena", nel corso della
successiva udienza del 25 ottobre 1989 lo stesso opponente ha
dichiarato di "aver ricevuto in lingua slovena l'ordinanza-ingiunzione ma non anche la contestazione dell'illecito", ammettendo
così la non sussistenza in fatto dell'asserito vizio e,
conseguentemente, la mancanza della materia del contendere di fronte
al giudice a quo. È perciò che, probabilmente, il Pretore di
Trieste non ha esteso la questione di costituzionalità all'uso della
lingua slovena nei rapporti con la pubblica amministrazione, ma l'ha
limitata all'uso della stessa lingua nel rivolgersi all'autorità
giudiziaria (e, quindi, in relazione al solo atto introduttivo della
controversia civile).
Un terzo motivo di inammissibilità è poi individuato
dall'Avvocatura dello Stato nel fatto che il giudice a quo sarebbe
stato vittima di una aberratio ictus, nel senso che avrebbe
identificato come suscettibili di manipolazione additiva
disposizioni, come quelle contenute negli artt. 22 e 23 della legge
n. 689 del 1981, le quali non concernono affatto la lingua dei
processi, neppure per quella parte (art. 23, quarto comma) che
permette al ricorrente e al resistente di stare in giudizio
personalmente.
Infine, un ultimo motivo di inammissibilità addotto
dall'Avvocatura dello Stato è costituito dal rilievo che, come si
può desumere dalla disciplina vigente nel Trentino-Alto Adige per le
minoranze etniche di quella Regione, la garanzia dell'uso nel
processo di una lingua diversa da quella ufficiale dello Stato
comporta l'adozione di una disciplina normativa complessa e onerosa,
con molteplici gradazioni di soluzioni, sicché mancherebbe il
presupposto logico-giuridico per una pronuncia additiva, vale a dire
la possibilità di individuare una sola soluzione in grado di
assicurare la conformità a Costituzione della disposizione
contenente l'omissione di cui si lamenta l'illegittimità.
Sotto il profilo del merito costituzionale, l'Avvocatura dello
Stato ritiene, comunque, che la questione sia palesemente infondata
per svariate ragioni.
In primo luogo, non sembrerebbero risolutivi i parametri invocati,
poiché, anziché richiamare la X Disposizione transitoria della
Costituzione, il giudice a quo fa appello agli artt. 3 e 6 della
Costituzione e all'art. 3 dello Statuto per il Friuli-Venezia Giulia.
Ma, in contrario si deve osservare che, innanzitutto, il primo di
tali articoli non impone un obbligo positivo di creare istituzioni a
favore di cittadini di lingua diversa da quella italiana e fa
riferimento all'eguaglianza fra cittadini, e non fra processi.
Inoltre, l'art. 6 è già stato definito da questa Corte come "norma
direttiva ad efficacia differita", richiedente la necessaria
interposizione di disposizioni attuative. Infine, l'art. 3 dello
Statuto, per la parte che non ripete il principio costituzionale di
eguaglianza, impone la salvaguardia delle caratteristiche etniche e
culturali, salvaguardia che non si concreta nell'obbligo di porre in
essere una complessa disciplina derogatoria all'art. 122 c.p.c..
In secondo luogo, non risolutivo sembra anche il riferimento
all'art. 109 c.p.p. Quest'ultimo, infatti, pone una deroga al
principio dell'uso della lingua italiana che è circoscritta al caso
di un cittadino italiano che deve essere interrogato o esaminato
oralmente, al quale viene riconosciuta la facoltà, previa richiesta
espressa, di parlare nella madrelingua (e non già di poter scrivere
gli atti ufficiali del processo nella propria lingua) e di avere
tanto il verbale anche nella propria lingua, quanto la traduzione
nella stessa lingua degli atti a lui indirizzati. In breve, l'art.
109 non comporta che la richiesta dell'alloglotto determini la lingua
nel processo, sicché per tale profilo la questione potrebbe esser
ritenuta anche inammissibile, oltreché infondata. Né va trascurato,
continua l'Avvocatura dello Stato, che l'art. 109 concerne il
processo penale, vale a dire un processo che, a differenza di quello
civile, coinvolge problemi di libertà personale, e non già solo
interessi patrimoniali. Per di più, aggiunge l'Avvocatura, non si
può fare confusione tra gli atti del processo e le dichiarazioni
probatorie che si raccolgono nel processo, poiché le seconde, anche
se poi vengono raccolte e documentate in atti processuali, non
partecipano della natura di questi ultimi e, perciò, possono essere
espresse in altre lingue o anche in nessuna lingua, come nel caso del
sordomuto.
Da ultimo, l'Avvocatura dello Stato osserva che la clausola
contenuta nell'art. 8 del Trattato di Osimo, relativa alla salvezza
delle misure interne adottate in applicazione del Memorandum di
Londra del 5 ottobre 1954, non rileva riguardo all'uso della lingua
slovena negli atti amministrativi e in quelli giurisdizionali, per la
semplice ragione che in materia non sussistono "misure interne già
adottate".
Considerato in diritto
1. - Nel corso di un giudizio di opposizione a un'ordinanza-ingiunzioneprefettizia, instaurato ai sensi degli artt. 22 e 23
della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale),
il cui ricorso introduttivo è stato redatto in lingua slovena, il
Pretore di Trieste, dopo essersi riservata ogni decisione
sull'ammissibilità del ricorso stesso e dopo aver fatto tradurre
quest'ultimo in lingua italiana, di fronte alle contestazioni della
parte opponente, comparsa personalmente in giudizio, riguardo alla
prescrizione dell'uso esclusivo della lingua italiana in tutto il
processo pendente, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dei predetti artt. 22 e 23, nonché dell'art. 122
c.p.c. (ritenuto applicabile nel processo a quo per il rinvio delle
disposizioni regolatrici di quest'ultimo alle norme del codice di
procedura civile), "nella parte in cui non prevedono la facoltà, per
i soggetti appartenenti a una minoranza linguistica riconosciuta, di
usare la propria lingua negli atti processuali civili e ricevere da
controparte la traduzione nella propria lingua degli atti processuali
di questa".
Secondo il giudice a quo, le norme impugnate violerebbero,
innanzitutto, l'art. 6 della Costituzione e l'art. 3 dello Statuto
speciale per il Friuli-Venezia Giulia, i quali esigono,
rispettivamente, la tutela con apposite norme delle minoranze
linguistiche e la parità di diritti e di trattamento fra i
cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico di appartenenza. Lo
stesso giudice ritiene che sia violato anche l'art. 3 della
Costituzione, a causa dell'irragionevole disparità che si sarebbe
creata tra il processo civile, nel quale ogni cittadino è tenuto a
usare soltanto la lingua italiana, e il processo penale, laddove
l'art. 109 c.p.p. permette al cittadino appartenente a una minoranza
linguistica riconosciuta di esprimersi nella lingua materna, di
ricevere gli atti processuali tradotti nella stessa lingua e di avere
la redazione dei verbali anche nella propria lingua.
L'Avvocatura dello Stato ha sollevato varie eccezioni di
inammissibilità, che occorre esaminare preliminarmente.
2. - Non può essere accolta l'eccezione di inammissibilità
sollevata sul presupposto che l'ordinanza di rimessione non sia
adeguatamente motivata in relazione al possesso, da parte del
ricorrente nel giudizio a quo, della cittadinanza italiana.
Per quanto la suddetta ordinanza non contenga alcuna espressa
affermazione sul punto, essa suppone chiaramente la sussistenza di
quel requisito nella persona del ricorrente nel momento stesso in cui
solleva la questione di costituzionalità sull'uso della lingua
slovena in relazione a "un appartenente a una minoranza linguistica"
riconosciuta. Del resto, che il dubbio sollevato dall'Avvocatura
dello Stato sia privo di fondamento ha ulteriore conferma nel fatto,
ricordato dalla stessa Avvocatura, che la medesima persona è già
stata parte di un processo penale che ha dato luogo a una precedente
pronunzia interpretativa di rigetto di questa Corte in merito a
questione analoga.
3. - Parimenti da respingere è l'ulteriore eccezione di
inammissibilità sollevata dall'Avvocatura dello Stato in relazione
al fatto che, essendo stata successivamente tradotta in sloveno
l'ordinanza-ingiunzione dalla cui opposizione è sorto il giudizio a
quo ed essendo quello della contestazione dell'uso esclusivo della
lingua italiana l'unico motivo di ricorso avverso la predetta
ordinanza-ingiunzione, il processo a quo dovrebbe considerarsi
cessato per il venir meno della materia del contendere.
Ove l'eccezione proposta non sia, in realtà, una prefigurazione
della soluzione di merito da dare al giudizio a quo e ove, quindi,
sia una vera e propria pregiudiziale d'inammissibilità, diretta a
ipotizzare che il processo a quo sia illegittimamente considerato
tuttora pendente, occorre ricordare che non rientra tra i poteri di
questa Corte quello di sindacare, in sede di ammissibilità, la
validità dei presupposti di esistenza del giudizio a quo, a meno che
questi non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti.
Poiché nel momento in cui è stata sollevata la questione di
legittimità costituzionale era pendente un giudizio di opposizione a
un'ordinanza-ingiunzione e poiché in quel momento non sussisteva
alcuna incontrovertibile ragione che potesse indurre a ritenere che
il giudizio a quo fosse instaurato in modo manifestamente
illegittimo, si deve escludere che ricorrano motivi
d'inammissibilità sotto l'accennato profilo.
4. - Così come è formulata dall'Avvocatura dello Stato, va pure
respinta l'ulteriore eccezione d'inammissibilità, secondo la quale
il giudice a quo avrebbe erroneamente individuato negli artt. 22 e 23
della legge n. 689 del 1981 le disposizioni di legge da sottoporre al
giudizio di legittimità costituzionale, considerato che nessuno dei
due citati articoli concerne il problema della lingua da usare nel
relativo processo.
In realtà, il giudice a quo, dovendo identificare la questione
dell'uso della lingua riguardo al particolare processo di cognizione
nascente dall'opposizione a un'ordinanza- ingiunzione applicativa di
sanzioni amministrative, non aveva altra scelta che impugnare gli
articoli di legge disciplinanti quel processo in congiunzione con
l'art. 122 c.p.c., relativo all'uso della lingua nel processo civile,
cui gli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981 fanno implicito
rinvio in ordine al procedimento da essi regolato. È, infatti, dal
complesso delle disposizioni impugnate, assunto in combinato
disposto, che deriva la prescrizione di usare la lingua italiana nel
procedimento speciale costituente il giudizio a quo, sia con riguardo
al ricorso (regolato dall'art. 22), sia con riguardo agli atti
processuali successivi (regolati dall'art. 23).
5. - Inammissibile per irrilevanza dev'essere, invece, dichiarata
l'estensione della questione sollevata al processo civile come tale.
Come è stato precisato nel punto precedente della motivazione, il
giudice a quo ha impugnato il combinato disposto formato dagli artt.
22 e 23 della legge n. 689 del 1981 e dall'art. 122 c.p.c. al fine di
prospettare il dubbio di legittimità costituzionale riguardo alla
prescrizione dell'uso esclusivo della lingua italiana negli atti
processuali riguardanti il giudizio di opposizione regolato dai due
articoli citati per primi. Tuttavia, numerosi passi dell'ordinanza di
rimessione e, in modo specifico, quelli relativi al profilo di
costituzionalità sollevato in riferimento all'art. 3 della
Costituzione, propongono alla Corte un oggetto di giudizio più
ampio, esteso al processo civile come tale.
Per quest'ultima parte, che esorbita dall'obbligo di usare la
lingua italiana nel particolare processo regolato dai ricordati artt.
22 e 23, la questione è inammissibile, poiché il procedimento da
ultimo menzionato, nel quale consiste il giudizio a quo, è un
processo speciale di cognizione, nel senso che, pur essendo un
giudizio ordinario a cognizione piena ed esauriente, consta di un
rito avente ampi tratti di specialità, dovuti alla natura
particolare della controversia (opposizione a provvedimenti
applicativi di sanzioni amministrative a carattere punitivo).
Sicché, essendo logicamente assurdo ritenere che la species
ricomprenda il genus, un vincolo formale riferentesi a un
procedimento "speciale", se pure a seguito di un rinvio implicito
alla disciplina generale, non può essere esteso in via
interpretativa al modello generale costituito dal processo civile
come tale, a meno di non eccedere dai limiti della rilevanza posti
dal giudizio a quo.
6. - La questione è fondata soltanto in parte.
Questa Corte, nella sentenza n. 28 del 1982, ha affermato che la
popolazione slovena residente in parte del territorio della Regione
Friuli-Venezia Giulia va qualificata, in base a varie norme vigenti,
come "minoranza linguistica riconosciuta" ai sensi dell'art. 6 e
della X Disposizione transitoria della Costituzione, nonché
dell'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia
(legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1). Tale qualificazione -
un tempo parzialmente legata al Memorandum d'intesa fra i Governi
d'Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti e della Jugoslavia,
concernente il territorio libero di Trieste (siglato a Londra il 5
ottobre 1954), ormai decaduto e, peraltro, attuato in passato solo in
modo parziale e prevalentemente in via amministrativa - deriva,
innanzitutto, dal Trattato di Osimo (stipulato fra l'Italia e la
Jugoslavia il 10 novembre 1975 e reso esecutivo con legge 14 marzo
1977, n. 73), il quale fa esplicito riferimento all'impegno dello
Stato italiano di tutelare la "minoranza jugoslava" residente nel
proprio territorio parallelamente all'impegno dello Stato jugoslavo
verso la minoranza italiana residente nel territorio di quest'ultimo.
La stessa qualificazione deriva, inoltre, da vari atti legislativi
nazionali e regionali, in qualche modo connessi con gli impegni
assunti dallo Stato italiano sul piano internazionale, che hanno
riconosciuto alla minoranza slovena insediata in parte del territorio
della Regione Friuli-Venezia Giulia appositi "diritti" in relazione a
vari ambiti della vita civile, sociale e politica (v., ad esempio, le
leggi 14 aprile 1956, n. 308; 19 luglio 1961, n. 1012; 22 dicembre
1973, n. 932; 14 gennaio 1975, n. 1; 24 gennaio 1979, n. 18; il
d.P.R. 31 maggio 1974, n. 416; 9 gennaio 1991, n. 19; nonché, in
ambito regionale, le recenti leggi 24 luglio 1986, n. 30; 1 marzo
1988, n. 7; 9 marzo 1988, n. 10; 5 settembre 1991, n. 46).
Sulla base delle norme costituzionali prima ricordate -
segnatamente l'art. 6 e la X Disposizione transitoria della
Costituzione, nonché l'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia - la lingua propria di ciascun gruppo etnico
rappresenta un connotato essenziale della nozione costituzionale di
minoranza etnica, al punto da indurre il Costituente a definire
quest'ultima quale "minoranza linguistica". Come elemento
fondamentale di identità culturale e come mezzo primario di
trasmissione dei relativi valori e, quindi, di garanzia
dell'esistenza e della continuità del patrimonio spirituale proprio
di ciascuna minoranza etnica, il diritto all'uso della lingua materna
nell'ambito della comunità di appartenenza è un aspetto essenziale
della tutela costituzionale delle minoranze etniche, che si collega
ai principi supremi della Costituzione (v. sentt. nn. 312 del 1983,
289 del 1987 e 768 del 1988): al principio pluralistico riconosciuto
dall'art. 2 ("La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell'uomo (...) nelle formazioni sociali"), al principio
di eguaglianza di fronte alla legge, garantito dall'art. 3, primo
comma ("Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
di fronte alla legge, senza distinzioni (...) di lingua (...)"), e al
principio di giustizia sociale e di pieno sviluppo della personalità
umana nella vita comunitaria, assicurato dall'art. 3, secondo comma
("È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
personalità umana (...)").
La garanzia del diritto all'uso della lingua materna come parte
essenziale della tutela delle minoranze etniche è, inoltre,
riconosciuta da atti di diritto internazionale. Fra questi
particolare rilievo ha l'art. 27 del patto internazionale per i
diritti civili e politici adottato il 16 dicembre 1966 dall'Assemblea
generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (O.N.U.) e
ratificato con legge 25 ottobre 1977, n. 881, secondo il quale ogni
persona appartenente a una minoranza linguistica non può essere
privata del diritto di usare la lingua materna nell'ambito dell'area
d'insediamento della propria comunità etnica. Sebbene tale patto non
sia ancora ratificato da un numero sufficiente di Stati per renderlo
operante come trattato multilaterale, tuttavia, consistendo pur
sempre in una deliberazione dell'Assemblea generale delle Nazioni
Unite, ad esso deve, quantomeno, riconoscersi il valore di criterio
d'interpretazione delle norme vigenti nell'ordinamento internazionale
e delle norme di diritto interno proprie degli Stati appartenenti
all'O.N.U., considerato che pone obiettivi ritenuti da questi ultimi
Stati meritevoli di essere perseguiti e realizzati.
7. - Sulla base dei principi costituzionali e di diritto
internazionale ora descritti, non vi può esser dubbio che la tutela
di una minoranza linguistica riconosciuta si realizza pienamente,
sotto il profilo dell'uso della lingua materna da parte di ciascun
appartenente a tale minoranza, quando si consenta a queste persone,
nell'ambito del territorio di insediamento della minoranza cui
appartengono, di non essere costrette ad adoperare una lingua diversa
da quella materna nei rapporti con le autorità pubbliche.
Questa affermazione assume un valore particolare in riferimento
all'uso della lingua materna di fronte all'autorità giudiziaria,
poiché in tali rapporti ricorre in ogni caso un'indubbia
interferenza di questa tutela con la garanzia costituzionale dei
diritti inviolabili della difesa e, più precisamente, con il diritto
a un regolare processo (art. 24 della Costituzione). Interferenza,
occorre sottolineare, e non coincidenza o sovrapposizione con la
tutela comportata dal riconoscimento dei diritti della difesa,
poiché, mentre quest'ultima è finalizzata, per il profilo ora
rilevante, alla adeguata comprensione degli aspetti processuali e
suppone che questa possa mancare quando l'interessato non abbia in
concreto una perfetta conoscenza della lingua ufficiale del processo
(come, ad esempio, nel caso dello straniero), al contrario la
garanzia dell'uso della lingua materna a favore dell'appartenente a
una minoranza linguistica riconosciuta è, in ogni caso, la
conseguenza di una speciale protezione costituzionale accordata al
patrimonio culturale di un particolare gruppo etnico e, pertanto,
prescinde dalla circostanza concreta che l'appartenente alla
minoranza stessa conosca o meno la lingua ufficiale (v. sent. n. 28
del 1982).
È per le ragioni sopra indicate che questa Corte, con la sentenza
n. 28 del 1982 (i cui principi sono stati ribaditi anche dalla sent.
n. 312 del 1983 in relazione alle minoranze riconosciute dal
Trentino-Alto Adige), ha direttamente ricondotto all'art. 6 della
Costituzione e all'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia il "diritto" di ciascun appartenente a una minoranza
linguistica riconosciuta all'uso della lingua materna nei rapporti
con gli uffici giudiziari situati nei territori dove quella minoranza
è insediata. Più in particolare, nella sentenza ora citata questa
Corte ha espressamente affermato che dalle norme costituzionali
precedentemente ricordate discende un nucleo minimale di tutela per
gli appartenenti alla minoranza riconosciuta comprendente il
"diritto" di usare la lingua materna nei rapporti con le locali
autorità giurisdizionali e di ricevere risposte da quelle autorità
nella stessa lingua.
Ed è per le stesse ragioni sopra menzionate che la medesima
garanzia sull'uso della madrelingua è divenuta oggetto di un impegno
di diritto internazionale, assunto dallo Stato italiano nei confronti
di quello jugoslavo. Infatti, nel sancire la cessazione di efficacia
del Memorandum di Londra del 1954, il cui allegato "statuto speciale"
prevedeva, all'art. 5, il diritto degli appartenenti alla minoranza
slovena di usare la loro lingua nei rapporti con le autorità
giudiziarie e di ricevere da queste, direttamente o in traduzione,
risposte nella loro stessa lingua, il Trattato di Osimo del 1975,
oltre a confermare le misure interne già adottate in attuazione del
predetto "statuto", impegna le parti contraenti ad assicurare, nel
quadro del loro diritto interno, "la conservazione del livello di
protezione a favore dei membri dei gruppi etnici rispettivi (delle
minoranze rispettive), previsto dalle norme dello Statuto Speciale
decaduto" ("chaque Partie déclare ( ..) qu'elle assurera dans le
cadre de son droit interne le maintien de niveau de protection des
membres des groupes ethniques respectifs (des minorités respectives),
prévu par les normes du Statut Special échu"). E, poiché
tra le misure di protezione garantite rientra anche il ricordato art.
5, il contenuto di quest'ultimo diviene, in conseguenza della
disposizione appena citata del Trattato di Osimo, oggetto di uno
specifico impegno assunto dallo Stato italiano.
In altri termini, tanto la Costituzione (e lo Statuto speciale per
il Friuli-Venezia Giulia) quanto il Trattato di Osimo, nell'ambito
dei fini connessi alla tutela "positiva" delle minoranze
linguistiche, impongono al legislatore e alle altre autorità della
Repubblica l'impegno di perseguire l'obiettivo di assicurare agli
appartenenti alla minoranza slovena residente nel Friuli-Venezia
Giulia il diritto di usare la propria lingua materna nei rapporti con
gli uffici pubblici e, in particolare, nei rapporti con gli uffici
giudiziari. Nell'uno e nell'altro caso si tratta, comunque, di "norme
direttive ad efficacia differita" - per usare la terminologia ripresa
dalla sentenza n. 28 del 1982 con riguardo all'art. 6 della
Costituzione -, nel senso che si è di fronte a norme finalistiche o
di scopo la cui realizzazione è innanzitutto rimessa al legislatore,
il quale, usando della propria discrezionalità, è tenuto a graduare
i modi, le forme di tutela e i tempi connessi all'attuazione delle
predette finalità in riferimento alle condizioni sociali esistenti e
alla disponibilità, da parte dello Stato, delle risorse
organizzative e finanziarie necessarie alla relativa implementazione.
8. - Il diritto all'uso della lingua materna da parte degli
appartenenti a minoranze linguistiche nei loro rapporti con le
(locali) autorità giudiziarie, il quale trova riconoscimento,
peraltro, anche in norme costituzionali e legislative vigenti in
altri Stati europei e nordamericani dove sussistono etni'e diverse,
ha, dunque, una generale copertura costituzionale nell'art. 6 della
Costituzione e, per quanto riguarda la minoranza slovena, anche nella
X Disposizione transitoria della stessa Carta costituzionale e
nell'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia. Esso
è, in altri termini, un valore che - secondo il paradigma proprio
dei diritti condizionati, quanto all'attuazione,
dall'interposizionedel legislatore ordinario - può fondare, nei
singoli cittadini appartenenti a minoranze linguistiche riconosciute,
pretese soggettive effettive e azionabili soltanto nella misura in
cui siano state adottate adeguate norme di attuazione e siano state
predisposte le necessarie strutture organizzative o istituzionali.
Sotto quest'ultimo profilo, tuttavia, non è indispensabile che siano
state emanate norme di attuazione specifiche, ma è sufficiente che
sussistano istituti o strutture organizzative di generale
applicazione che possono essere utilizzati anche al fine di rendere
effettivo e concretamente fruibile il diritto garantito in via di
principio dalla Costituzione.
È proprio sulla base di questi ultimi presupposti che la Corte
costituzionale ha potuto affermare nella sentenza n. 28 del 1982 che
l'art. 6 della Costituzione e l'art. 3 dello Statuto speciale per il
Friuli-Venezia Giulia contengono una tutela "minima", la quale "anche
nei rapporti con le locali autorità giurisdizionali, consente già
ora agli appartenenti alla minoranza slovena di usare la lingua
materna e di ricever risposte dalle autorità in tale lingua: nelle
comunicazioni verbali, direttamente o per il tramite di un
interprete, nella corrispondenza, con il testo italiano accompagnato
da traduzione in lingua slovena". Infatti, prosegue subito dopo la
stessa sentenza, l'entrata in vigore della legge 19 luglio 1967, n.
568, contenente norme sul conferimento dell'incarico di traduttore e
di interprete presso gli uffici giudiziari situati nei distretti di
Corte d'appello dove le esigenze di servizio lo richiedano, rende
effettivo e azionabile, per la parte considerata, il diritto all'uso
della lingua materna da parte degli appartenenti alla minoranza
slovena nei loro rapporti con l'autorità giudiziaria.
Sicché, in applicazione di tali principi, come non può essere
tollerata qualsiasi sanzione che colpisca l'uso in giudizio della
lingua materna da parte degli appartenenti alla minoranza slovena,
così deve essere ammessa, in conseguenza della legge n. 568 del
1967, la facoltà di questi stessi soggetti, nei giudizi davanti
all'autorità giudiziaria avente competenza su un territorio dov'è
insediata la minoranza slovena, di usare, a loro richiesta, la lingua
materna nei propri atti, usufruendo per questi della traduzione nella
lingua ufficiale, oltreché di ricevere in traduzione nella propria
lingua gli atti dell'autorità giudiziaria e le risposte della
controparte.
Entro questi limiti la questione di costituzionalità proposta dal
Pretore di Trieste sull'uso della lingua slovena nel processo di
opposizione alle ordinanze-ingiunzioni applicative di sanzioni
amministrative, disciplinato dagli artt. 22 e 23 della legge n. 689
del 1981, deve essere accolta.
9. - La questione sollevata dal Pretore di Trieste, formulata
negli ampi termini di permettere ai cittadini appartenenti alla
minoranza slovena di usare in tutti gli atti del processo (regolato
dagli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981) la propria
madrelingua, ricomprende ulteriori profili. Complessivamente
considerati, questi comportano che sia riconosciuto il principio
della parificazione dello sloveno all'italiano come lingua ufficiale
del processo di cui trattasi in relazione ai giudizi di competenza
degli uffici giudiziari siti nei territori d'insediamento della
minoranza slovena. Per questo aspetto, la questione è inammissibile.
La parificazione della lingua slovena a quella italiana come
lingua ufficiale del processo di opposizione alle ordinanze-ingiunzioni applicative di sanzioni amministrative comporta, infatti,
una pluralità di soluzioni in ordine alle varianti da introdurre
nella organizzazione del processo, nei poteri spettanti alle parti e
al giudice, oltreché nei termini entro cui esercitare i suddetti
poteri, la quale è tale da precludere la possibilità di qualsiasi
legittimo intervento additivo da parte di questa Corte e da esigere
il necessario e auspicabile intervento del legislatore, così come è
avvenuto, per la minoranza di lingua tedesca residente nel Trentino-Alto Adige, con il d.P.R. 15 luglio 1988, n. 574.