ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 42 c.p.m.p.,
promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 18 marzo 1986 dal Tribunale militare di
Padova nel procedimento penale a carico di Tarlazzi Lucio, iscritta
al n. 512 del registro ordinanze 1986 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale dell'anno
1986;
2) ordinanza emessa il 27 febbraio 1986 dal Tribunale militare
di Padova nel procedimento penale a carico di Casaroli Claudio,
iscritta al n. 531 del registro ordinanze 1986 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale
dell'anno 1986;
Udito nella camera di consiglio del 6 maggio 1987 il giudice
relatore Ettore Gallo;
Ritenuto in fatto
Con due ordinanze datate 27 febbraio e 18 marzo 1986 il Tribunale
militare di Padova sollevava questione di legittimità costituzionale
dell'art. 42 c.p.m.p. con riferimento agli art.li 2 e 3 Cost.
Nel presupposto che nelle specie sottoposte al suo giudizio
fossero prospettabili gli estremi di legittima difesa, quanto meno
putativa, secondo i criteri del codice penale ordinario, a causa di
atteggiamenti ed espressioni intensamente aggressivi di commilitoni,
osserva il Tribunale, però, che nell'ordinamento penale militare
l'istituto della legittima difesa, per la sua particolare
configurazione, sembrerebbe escludere la possibilità di applicare la
scriminante ai fatti di causa.
A parte, infatti, il limite dei diritti difendibili, nella specie
non rilevante, l'art. 42 citato delinea la legittima difesa come
necessità di respingere una "violenza attuale ed ingiusta" e non di
reagire al "pericolo attuale di un'offesa ingiusta" come, invece,
consente l'ordinamento penale comune. Ma - secondo l'ordinanza questo
ritardo nel giustificare l'azione di difesa interferisce
sull'autotutela di diritti inviolabili dell'uomo, in contrasto con
l'art. 2 Cost., e contemporaneamente condiziona negativamente la
posizione del militare rispetto a quella della generalità dei
cittadini, violando l'art. 3 Cost.
Tutto ciò senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione,
non potendosi accettare come plausibile quella della Relazione che
sembra intendere il valore della scriminante nel profilo di tutela
del superiore, quando in realtà la situazione di legittima difesa
ben può aversi nei confronti di pari grado o anche di inferiore.
Considerato in diritto
1. - Le due ordinanze prospettano la medesima questione e,
perciò, gli incidenti possono essere riuniti e decisi con unica
sentenza.
2. - In realtà, deve dirsi che, nonostante l'opinione del Relatore
della legge, giustamente criticata dall'ordinanza, la ratio della
disposizione è probabilmente da ravvisarsi nel particolare status
del militare che si vorrebbe esposto al pericolo per dovere di
istituto, in guisa da non ritenere giustificabile la reazione se
prima non si profili l'attualità della violenza ingiusta. Ratio, per
verità, non accettabile, sopratutto in un codice penale militare di
pace, giacché la doverosa esposizione al pericolo del militare
riguarda il comportamento in guerra, o in altre situazioni di grave
contingenza, ma non può giustificare la sua esclusione da una
ragionevole difesa della sua incolumità nelle quotidiane vicende
dell'esistenza. È molto più probabile, perciò, che il legislatore
militare, ritenendo eccessiva la formula adottata per il codice
penale comune dal legislatore del '30, abbia semplicemente preferito
attenersi a quella precedentemente vigente nel codice Zanardelli, che
nell'art. 49, co. primo, ammetteva la scriminante esclusivamente
appunto in relazione alla "necessità di respingere da sé o da altri
una violenza attuale ed ingiusta".
E tuttavia è possibile, restando sul piano interpetrativo,
rendere la disposizione meno riduttiva e compatibile con i principi
costituzionali richiamati dall'ordinanza, anche tenendo conto
dell'elaborazione che l'espressione aveva ricevuto nella
giurisprudenza del codice penale del 1889.
3. - Già il codice stesso offre nell'art. 43 una prima chiave di
lettura, quando comprende nella nozione di violenza anche il
tentativo di omicidio e quello di offesa con le armi. Qualunque fosse
il concetto che del delitto tentato avesse il legislatore dell'epoca,
è certo che oggi il dibattito scientifico attorno all'elemento
dell'idoneità degli atti e della loro univocità ha fissato nella
fase esecutiva dell'iter la configurabilità del tentativo, e perciò
proprio nel momento in cui il bene tutelato è messo in pericolo: e
la giurisprudenza si è da tempo mostrata concorde. Dunque, nella
nozione di violenza propria dell'ordinamento penale militare c'è
l'elemento normativo del pericolo: chi respinge una violenza attuale
(ed ingiusta) diretta ad uccidere o a recare offesa con le armi,
respinge in realtà il pericolo dell'offesa alla propria vita, o alla
propria incolumità portata mediante le armi.
Certo, il tentativo non è, però, espressamente richiamato a
proposito dei maltrattamenti, delle percosse e delle lesioni, vale a
dire delle residue offese all'incolumità individuale che integrano
il concetto penalistico militare della violenza. Ma, intanto, si
dovrebbe considerare che l'atto diretto a percuotere o a ledere può
comunque cagionare la morte, e la norma richiama appunto, nel
concetto di violenza, anche l'omicidio preterintenzionale.
La dottrina specialistica sottovaluta questo richiamo, ritenendolo
fuori luogo e falso, perché solo a delitto compiuto sarebbe
possibile valutare la preterintenzione: il che è esatto se ci si
riferisce al procedimento mentale del giudice. Ma la norma ha
riguardo all'aggredito quando utilizza il concetto di violenza
nell'ambito dell'art. 42: e l'aggredito non ha certo, nel frangente
della necessità, né il tempo né la serenità per valutare se il
colpo di mano o la bastonata che gli possono essere assestati
dall'aggressore abbiano intensità o possano colpire punti vitali
tali da cagionare la sua morte, sia pure non voluta. Se su ciò si
riflette, il richiamo all'omicidio preterintenzionale non appare più
così superfluo, perché quanto meno esonera l'aggredito dal valutare
il reale obbiettivo del dolo, e lo faculta a difendersi anche "da
atti diretti a percuotere o a ledere" perché da essi potrebbe
oggettivamente derivare la morte contro la stessa volontà
dell'aggressore.
Ma "gli atti diretti a..." sono quanto meno atti di tentativo e,
se ci si volesse attenere (ma non si dovrebbe) al vecchio concetto di
"attentato" della tradizione repressiva, sarebbero anche molto meno,
visto che si sosteneva per quella espressione la punibilità anche di
atti preparatori. Ne consegue che anche la nozione di legittima
difesa ex art. 42 c.p.m.p. richiama il concetto di "pericolo",
esplicitamente per l'omicidio volontario tentato e il tentativo di
offesa con le armi, implicitamente per le percosse e le lesioni,
attraverso la nozione propria dell'omicidio preterintenzionale.
4. - Ma, anche se da tutto ciò si volesse prescindere, la
dottrina più recente ha indicato la teoria cosidetta dell'"azione
che si sta verificando", non potendo esservi "attualità" di una
violenza se l'azione si è già verificata: il requisito
dell'attualità, pertanto, aiuta a risolvere, caso per caso, le
situazioni in cui di fatto può manifestarsi l'effettività della
violenza.
La percossa - ad esempio - è spesso integrata in una frazione di
secondo, nel corso della quale la mano che s'è levata s'è già
abbattuta sul volto. Se l'aggredito deve attendere che l'azione di
percossa gli si presenti come chiara violenza in itinere, vuol dire
che gli è inibito di difendersi, se non è provetto in difficili
esercizi di difesa scientifica che lo abilitino a reazioni riflesse
ed istantanee.
Il giudice, perciò, secondo l'id quod plerumque accidit dovrà
tenere conto, nel contesto di un episodio litigioso, proprio di
quegli "atteggiamenti aggressivi" che rappresentano, in definitiva,
il momento scatenante dell'azione violenta e di cui si parla nelle
ordinanze: nell'ordinanza n. 531 del 27 febbraio 1986 si accenna,
anzi, a un "movimento brusco" del presunto aggressore che "aveva
allontanato il braccio dell'imputato e si era girato di scatto verso
di lui "in atteggiamento aggressivo". Nel secondo episodio c'è,
dunque, persino un'azione attuale vera e propria di maltratti che ben
può essere prudentemente apprezzata dal giudice di merito nella
libertà del suo convincimento.
In definitiva, e in attesa che il legislatore adotti il nuovo
codice penale militare di pace, ben può frattanto il giudice dare
alla norma un'interpetrazione adeguatrice al dettato costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi, dichiara non fondata, nei sensi di cui in
motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 42
c.p.m.p. (difesa legittima) sollevata dal Tribunale militare di
Padova, con le ordinanze 27 febbraio e 18 marzo 1986 (n. 512 e 531/86
Reg. ord.), in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 giugno 1987.
Il Presidente: ANDRIOLI
Il Redattore: GALLO
Depositata in cancelleria l'11 giugno 1987.
Il direttore della cancelleria: VITALE