Ritenuto in fatto:
Con decreto 28 giugno 1962 del Presidente della Regione siciliana
veniva approvato il piano regolatore generale della città di Palermo.
Il piano contiene l'indicazione del caratteri e dei vincoli di zona da
osservare nell'edificazione nonché l'indicazione delle aree destinate
a formare spazi di uso pubblico e di quelle riservate a verde pubblico,
a verde privato, a verde agricolo o ad edificazione di interesse
pubblico (edilizia scolastica, conservazione di edifici storico -
monumentali, eccetera). Il tutto a termine dell'art. 7, nn. 2, 3, 4,
della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150.
Cinque gruppi di proprietari di zone di terreno comprese nel
perimetro del piano regolatore generale predetto e soggette, in vario
modo e misura, ai vincoli sopradetti, hanno impugnato davanti al
Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e nei
confronti della Regione e del Comune, il decreto del Presidente,
chiedendone l'annullamento per illegittimità dell'art. 7 della legge
urbanistica in base al quale il piano è stato predisposto, sia per
l'indeterminatezza legislativa del vincoli, sia per trattarsi di
vincoli imposti senza la garanzia di corrispondere indennità.
Con cinque ordinanze emesse in data diversa nel primo semestre
1964, il Consiglio di giustizia adito sollevava questione di
legittimità costituzionale del citato art. 7 della legge urbanistica
con riferimento all'art. 42, commi secondo e terzo, della Costituzione.
Il Consiglio, circa la non manifesta infondatezza ha considerato:
a) che, mentre l'art. 42, comma secondo, della Costituzione prescrive
che i limiti alla proprietà privata, per assicurarne la funzione
sociale, devono essere determinati per legge, viceversa nell'art. 7, n.
2, della legge urbanistica, questa determinazione circa le
caratteristiche e l'ampiezza del vincoli, manca: mancanza tanto più
rilevante, in quanto l'art. 40 della stessa legge esclude
l'indennizzabilità per i vincoli di zona e per gli oneri relativi
all'allineamento edilizio delle nuove costruzioni; b) che, mentre
l'art. 42, comma terzo, della Costituzione, consente l'espropriazione
della proprietà privata, ma fa salvo l'indennizzo, viceversa, nel
sistema della legge urbanistica, si ha che con l'approvazione del piano
regolatore generale, questo ha vigore immediato ed a tempo
indeterminato ed i beni restano assoggettati subito a vincoli e
limitazioni che ne sopprimono l'utilizzazione ed il godimento, con
effetto uguale a quello del futuro procedimento formale di
espropriazione conseguente alla formazione di piani particolareggiati:
ciò senza che sia previsto alcun indennizzo per l'immobilizzazione del
bene anche nel periodo intermedio. In proposito, il Consiglio di
giustizia rilevava anche che, dai precetti dell'art. 42 della
Costituzione, emerge implicita l'esigenza in linea generale, che non
indennizzabili sono soltanto quelle limitazioni che non incidono
radicalmente sul contenuto del diritto di proprietà; c) in
particolare, ed in relazione a fattispecie in esame, l'imposizione -
sine die - di vincoli a verde pubblico, a verde privato, a verde
agricolo su aree di natura pacificamente edificatoria, per effetto del
solo piano regolatore generale, in attesa della espropriazione,
sembrava dover importare il verificarsi del principio di
indennizzabilità.
Questa Corte, riunite tutte le cause provenienti dalle cinque
ordinanze di rinvio, con sentenza 3 maggio 1966, n. 38, dichiarava non
fondata la questione sollevata contro l'art. 7, n. 2, citato, sotto il
dedotto profilo della violazione della riserva di legge di cui all'art.
42, secondo comma, della Costituzione, questione comune a tutte le
parti interessate, ritenendo che alla garanzia di questa riserva si
era, nel caso, ottemperato dal legislatore mediante norme
sufficientemente individuatrici del vincoli di zona e di quelli
riguardanti la costruzione del fabbricati, la loro natura ed i
controlli a tutela della proprietà privata. Per quanto riguarda
l'altra questione sollevata contro i nn. 3 e 4 dell'art. 7 stesso, con
ordinanza n. 39 emessa in pari data, questa Corte, considerato che non
risultava chiara la rilevanza "in relazione all'asserita mancata
indennizzabilità del vincoli" previsti dalle norme suddette (nel caso,
è detto nell'ordinanza, vincoli di terreni a verde pubblico, verde
privato, verde agricolo ed impianti pubblici) e ravvisando
conseguentemente necessario "un esame più approfondito, sotto
l'aspetto ora indicato, della questione sollevata", ordinava la
restituzione degli atti al Consiglio regionale di giustizia
amministrativa.
Con ordinanza emessa il 27 ottobre 1966 il Consiglio (decidendo su
tutti i ricorsi riuniti) ha precisato che, risolta la questione
relativa alla violazione dell'art. 42, secondo comma, della
Costituzione, di portata generale, sulla riserva di legge, occorreva
procedere ad un esame della rilevanza delle altre questioni concernenti
la violazione dell'art. 42, terzo comma, della Costituzione da parte
dell'art. 7, nn. 2, 3 e 4, della legge urbanistica, in relazione ai
singoli ricorsi avanti ad esso Consiglio pendenti, tenendo conto non
soltanto della natura della lesione patita da ciascuno dei ricorrenti,
ma anche dei motivi di impugnazione. Perciò, il Consiglio ha dapprima
effettuato uno stralcio di quei ricorsi nei quali si era proposta
unicamente la questione della riserva di legge in relazione a
fattispecie riguardanti dimensioni di edificabilità, allineamento di
edifici e simili, trattenendo detti ricorsi a sé per l'esame di
merito.
Ha osservato poi il Consiglio, procedendo all'esame degli altri
ricorsi riguardanti destinazioni a verde, ad edificio scolastico, a
conservazione di fabbricato monumentale, che l'indennizzabilità dei
vincoli di zona alla proprietà privata di cui all'art. 7, n. 2, della
legge urbanistica risulta testualmente esclusa dall'art. 40 della
stessa legge, mentre l'indennizzabilità espropriativa, nei casi di cui
ai nn. 3 e 4 dell'art. 7 sarebbe dovuta soltanto quando la destinazione
prevista dal piano regolatore generale venga in seguito di tempo,
attraverso piani regolatori particolareggiati, attuata dal Comune, che
peraltro non sarebbe vincolato al riguardo a termini di sorta. Onde,
anche in questo caso, dall'approvazione del piano regolatore generale
deriverebbe immediatamente una compressione del diritto di proprietà,
concretantesi nella impossibilità di rilascio di licenze edilizie in
contrasto con le destinazioni sancite dal piano generale ai sensi delle
dette disposizioni. Il che porterebbe a ritenete non infondatamente che
le disposizioni stesse siano in contrasto con il terzo comma dell'art.
42 della Costituzione.
Il Consiglio quindi, dopo aver precisato essersi sostenuto dai
ricorrenti che il piano regolatore de quo è viziato per avere,
conformandosi alla legge urbanistica, imposto forme di sostanziale
espropriazione senza indennizzo, ha rinviato gli atti a questa Corte,
investendola espressamente della questione di legittimità
costituzionale dell'art. 7, nn. 2, 3, 4, e dell'art. 40 della legge
prodotta, in relazione all'art. 42, terzo comma, della Costituzione.
L'ordinanza, notificata alle parti private il 6, 7 e 13 dicembre
1966 al Comune di Palermo e alla Regione siciliana lo stesso 6
dicembre, ed il 9 dicembre successivo al Presidente del Consiglio dei
Ministri, è stata comunicata ai Presidenti del due rami del Parlamento
come per legge e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 25 del 28 gennaio 1967.
Avanti alla Corte costituzionale, si sono costituiti, delle
Società Raytheon - Elsi, Compagnia Italiana Jolly Hotels, già parti
private, gli eredi Ajroldi, Lucio Mastrogiovanni Tasca, CIATSA, Banca
Commerciale, Cassa di Risparmio V. E., Banco di Sicilia, tutte
interessate alla questione riguardante, secondo i casi, sia la
destinazione di terreni a verde, pubblico, privato, agricolo, sia la
destinazione ad edificio scolastico, sia la conservazione di un
edificio di interesse monumentale.
Si sono anche costituiti la Regione siciliana, il Comune di Palermo
e il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Le difese delle parti private, facendo proprie le ragioni esposte
nell'ordinanza di rinvio, chiedono dichiararsi la illegittimità
costituzionale degli articoli denunciati, cioè l'art. 7, nn. 2, 3, 4 e
l'art. 10. In particolare, osservano che l'ordinanza ha esattamente
dimostrato la rilevanza della questione sollevata, in quanto ogni
vincolo alla proprietà privata che ne assorba o riduca sensibilmente
il contenuto economico, incidendo sulla facoltà di disposizione e
godimento del bene, costituisce, sostanzialmente, espropriazione,
obbligatoriamente indennizzabile ai sensi dell'art. 42 della
Costituzione, mentre le norme denunziate, su cui si è basato il piano
generale urbanistico, nel caso, escludendo l'indennizzo, sarebbero
viziate di illegittimità.
Dalle parti pubbliche, particolarmente dall'Avvocatura dello Stato,
si è dedotto quanto segue.
In linea preliminare, si è eccepito che il Consiglio di giustizia
amministrativa non ha compiuto quell'approfondito esame delle questioni
di legittimità, richiesto da questa Corte con la precedente ordinanza,
in quanto non solo non ha precisato, in relazione ai singoli ricorsi
giurisdizionali vertenti, di quali vincoli si tratti né in che
consista, in relazione a ciascun tipo di vincolo, l'asserita
soppressione del diritto di proprietà, ma per di più non ha dato
ragione della rilevanza della questione nei ricorsi pendenti, oggetto
dei quali è soltanto la tutela dell'interesse dei ricorrenti alla
legittimità del decreto di approvazione del piano regolatore generale
e non già la tutela di un diritto soggettivo alla percezione della
indennità di espropriazione. In base a questa argomentazione si
prospetta la necessità che la Corte rimetta di nuovo gli atti al
Consiglio di giustizia amministrativa per un riesame della rilevanza
della questione.
In secondo luogo, e sempre in via preliminare, l'Avvocatura
sottopone alla Corte la valutazione dell'ammissibilità in questa fase
di giudizio dell'estensione della censura di illegittimità al n. 2
dell'art. 7 in relazione all'art. 40 della legge urbanistica, sul quale
n. 2 dell'art. 7 questa Corte si è già pronunciata con la precedente
sentenza, negandone l'incostituzionalità.
Nel merito, l'Avvocatura, insistendo nella tesi già svolta, rileva
che i limiti allo ius aedificandi, predeterminati come categorie e come
tipi, sono stabiliti con carattere di generalità, e definiscono la
proprietà urbana al fine di soddisfare il pubblico interesse alla
disciplina dell'assetto del centri abitati.
I piani regolatori rappresenterebbero una regolamentazione
preventiva e generale dell'attività edilizia, dettata in via concreta
dalla Pubblica Amministrazione in attuazione delle norme legislative in
materia. Pertanto, come ritenuto per il passato anche dal Consiglio di
Stato in armonia col principio dottrinario della diversità del regime
di appartenenza dei beni in funzione dei pubblici interessi, dovrebbe
escludersi l'indennizzabilità del vincoli in esame, perché inerenti
al contenuto del diritto di proprietà delle aree urbane, e tale
esclusione non sarebbe in contrasto con la garanzia costituzionale
dell'indennizzo, trattandosi appunto di limiti rientranti nelle
previsioni del secondo comma dell'art. 42 della Costituzione, e non di
espropriazioni.
Tali concetti del resto sarebbero stati anche accolti dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 6 del 1966, la quale avrebbe
precisato in via generale che il problema della indennizzabilità
sorgerebbe soltanto in relazione a quei limiti che non sono connaturati
alla particolare categoria dei beni, ma sono imposti come sacrificio
particolare a carico di singoli soggetti o gruppi di soggetti.
In subordine, l'Avvocatura sostiene poi che i vincoli di cui
all'art. 7 n. 2 della legge urbanistica non importerebbero, di per sé,
un'espropriazione intesa nel senso delineato dalla ripetuta sentenza n.
6 del 1966 della Corte, cioè non importerebbero alcuna limitazione
apprezzabile del contenuto della proprietà privata, poiché la loro
attuazione attraverso il piano regolatore, non farebbe che specificare
un limite connaturato allo status giuridico del bene. E ciò sarebbe
confermato dalle disposizioni dell'art. 11 della legge urbanistica, che
prevede l'efficacia immediata delle "linee e prescrizioni di zona" e
solo per queste e non per altri vincoli di destinazione e dell'art. 40
impugnato, ne esclude l'indennizzabilità.
D'altra parte l'imposizione in sede di piano regolatore generale
dei vincoli di cui ai nn. 3 e 4 dell'art. 7 (spazi di uso pubblico,
aree riservate a edifici e impianti di interesse pubblico generale),
avrebbe la funzione di non disporre ma di "preannunciare"
l'espropriazione, che si concreterebbe solo in un secondo tempo, con
l'adozione del piano particolareggiato.
Né il fatto che, in realtà, l'esproprio, con la conseguente
corresponsione dell'indennità, venga fatto in concreto a notevole
distanza di tempo dall'approvazione del piano, potrebbe indurre,
secondo l'Avvocatura, a ravvisare, relativamente al detto periodo
intermedio, una forma di esproprio sostanziale senza indennizzo.
Invero, anzitutto l'indeterminatezza temporale sarebbe di natura non
assoluta, giacché ben potrebbe il privato avvalersi delle normali
garanzie giurisdizionali in caso di ingiustificata inerzia
dell'Amministrazione; e, d'altra parte, il lamentato nocumento
collegato alla inutilizzabilità dell'area nel periodo intercorrente
fra l'approvazione del piano regolatore generale e l'esproprio
effettivo, dovrebbe essere considerato in relazione alla possibile
utilizzazione edilizia del bene nel periodo medesimo, che sarebbe
peraltro sempre condizionata dal rilascio della licenza, concessa di
regola non in presenza della semplice inclusione dell'area nel
perimetro urbano, ma subordinatamente alla esistenza quanto meno di un
sufficiente grado di urbanizzazione e del servizi pubblici essenziali.
L'Avvocatura conclude pertanto che la Corte, ove non ritenga di
rimettere nuovamente gli atti al giudice a quo, dichiari infondata la
questione sollevata.
Per le parti private costituite, è stata presentata in termini una
memoria illustrativa congiunta.
In essa si ribadiscono le deduzioni già svolte e, in particolare,
si precisa che secondo quanto stabilito con la sentenza n. 6 del 1966
della Corte, l'obbligo di indennizzo sussisterebbe tutte le volte che
l'imposizione del vincoli urbanistici non abbia carattere generale ed
obbiettivo, comportando un sacrificio per singoli soggetti o gruppi di
soggetti, e concreti d'altra parte una compressione del contenuto
economico del diritto di proprietà. Pertanto, mentre potrebbe anche
escludersi l'obbligo di indennizzo per quei vincoli che stabiliscono,
ad esempio, in determinate zone, limiti di altezza, di cubatura ecc.
nella costruzione, in quanto diretti ad una generalità di soggetti, lo
stesso obbligo dovrebbe invece riconoscersi in relazione ai vincoli a
verde pubblico o privato, che colpirebbero i singoli proprietari del
terreni contemplati nei provvedimenti, creando una precisa differenza
fra loro e la generalità degli altri proprietari limitrofi.
Osserva inoltre la difesa che i vincoli urbanistici a verde
pubblico o privato o agricolo porrebbero in essere una espropriazione
non soltanto sostanziale, ma anche formale, giacché, attraverso la
loro imposizione, si concreterebbe una situazione giuridica che,
attraverso la costituzione di un diritto di godimento pubblico, incide
sul diritto privato di proprietà e lo limita anche sul piano formale.
Tale fattispecie, verificandosi d'imperio della pubblica autorità,
assumerebbe il valore formale di una espropriazione, ed anche sotto
questo profilo pertanto, la questione sollevata sarebbe fondata.
Anche la difesa degli eredi Ajroldi ha presentato una memoria con
cui ribadisce, spiega e illustra le considerazioni già esposte a
sostegno della rilevanza della questione.
L'Avvocatura dello Stato ha pure depositato una memoria
illustrativa, svolgendo le tesi difensive pregiudiziali e di merito
già proposte ed insistendo quindi nel chiedere che la Corte voglia
dichiarare infondate le questioni proposte, ove non ritenga di
rimettere nuovamente gli atti al giudice a quo.
Anche la difesa del Comune di Palermo ha depositato una memoria con
cui nega la rilevanza della questione con argomenti analoghi a quelli
svolti dall'Avvocatura dello Stato e, nel merito, illustra i motivi che
sosterrebbero il riconoscimento della legittimità delle norme
impugnate.
Nel corso del procedimento penale a carico dell'imprenditore edile
Riccitelli Francesco imputato della contravvenzione di cui all'art. 41,
lett. b, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, per avere proseguito i
lavori nonostante gli ordini di sospensione intimatigli dal sindaco a
causa della violazione da parte di esso Riccitelli delle prescrizioni
dettate nella licenza edilizia in conformità del piano regolatore
generale comunale (lavori consistenti in costruzione di edificio con
piani in più del quattro previsti nel progetto approvato con licenza
edilizia, il pretore di Campobasso ha sollevato d'ufficio questione di
legittimità costituzionale dell'art. 7, nn. 2, 3 e 4, della legge
urbanistica sotto il profilo della violazione della riserva di legge di
cui all'art. 42, secondo comma, della Costituzione e della violazione
della garanzia all'indennizzo di cui al terzo comma dello stesso art.
42 in termini analoghi a quelli già svolti nelle ordinanze di rinvio
del Consiglio di giustizia amministrativa sopra menzionate.
Il pretore ha altresì rilevato che le disposizioni di cui ai nn. 3
e 4 del ripetuto art. 7 pongono limiti che, pur essendo immediatamente
efficaci, non sono soggetti ad un termine finale di operatività, onde
la proprietà privata verrebbe sottoposta a vincoli per un periodo di
tempo la cui durata sarebbe rimessa alla incensurabile discrezionalità
della Pubblica Amministrazione, il che concreterebbe una violazione
della garanzia costituzionale del rispetto della proprietà privata di
cui all'art. 42, secondo comma, della Costituzione.
Quanto alla rilevanza, il pretore afferma che dalla eventuale
illegittimità delle norme impugnate discenderebbe la illegittimità
delle disposizioni amministrative violate dall'imputato, il che
inciderebbe sulla configurabilità del reato ascrittogli.
Il giudice a quo pertanto ha sospeso il giudizio principale, e
rimesso gli atti a questa Corte per la decisione delle questioni
sollevate.
L'ordinanza, emessa in udienza alla presenza dell'imputato, è
stata notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri il 6 maggio
1966, comunicata ai Presidenti del due rami del Parlamento e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 182 del 23 luglio 1966.
Non vi è stata costituzione di parti avanti questa Corte.
Considerato in diritto:
Le due cause, che derivano rispettivamente dalle ordinanze di
rinvio del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione
siciliana e del pretore di Campobasso, riguardando le stesse questioni
di principio, possono essere riunite e decise con unica sentenza.
1. - L'Avvocatura generale dello Stato, intervenuta per il
Presidente del Consiglio dei Ministri nella causa conseguente alla
ordinanza di rinvio del Consiglio di giustizia amministrativa,
eccepisce in linea preliminare che il giudizio di rilevanza, nuovamente
espresso dal Consiglio, non risponde né alla esigenza di
approfondimento già sollecitata da questa Corte nella precedente fase
in relazione alla presunta illegittimità di ciascun tipo di vincolo in
concreto: né, soprattutto, risponde alla esigenza primaria di
dimostrare la rilevanza del giudizio di legittimità costituzionale ai
fini concreti della risoluzione delle questioni di merito: rilevanza
che qui sarebbe senz'altro da escludersi, discutendosi davanti al
Consiglio soltanto della legittimità degli atti amministrativi di
imposizione dei vincoli in sé considerati, a tutela degli interessi
dei singoli e non già della corresponsione di indennizzi a
soddisfacimento di pretesi diritti soggettivi.
L'eccezione non è fondata.
L'ordinanza di rinvio ha, nel caso, sufficientemente posto in
evidenza il contenuto ed i limiti del giudizio di rilevanza, così come
dedotto. Pur senza scendere a dettagli, l'ordinanza non ha trascurato
di rapportare gli effetti di questo giudizio a quanto forma oggetto del
singoli giudizi di impugnazione pendenti davanti al Consiglio, per
dedurne la pregiudizialità; ed ha, poi, chiaramente delineato la
questione di legittimità costituzionale che si è inteso proporre, in
relazione a quelle norme della legge urbanistica sui piani regolatori
generali comportanti compressioni del diritto di proprietà senza
corrispondente indennizzo. Nell'ambito del giudizio volto ad impugnare
un piano regolatore generale (quello di Palermo) formato sulla base
della legge urbanistica e con espresso richiamo alla stessa, si è,
pertanto, ritenuto di inserire la proposizione della questione di
legittimità costituzionale di quelle norme dalle quali il piano deriva
e sulle quali si regge.
Di conseguenza, la Corte, riscontrato che un giudizio di rilevanza,
di pertinenza del giudice a quo è stato compiuto ed in modo
sufficientemente motivato, deve ritenere ammissibile, sotto il profilo
in esame, il giudizio qui instaurato.
La stessa Avvocatura generale dello Stato, sempre in linea
preliminare, ma senza farne oggetto di formale eccezione, sottopone
alla Corte il quesito se sia ammissibile la rimessione, operata con
l'ordinanza di rinvio, del giudizio di legittimità costituzionale
sull'art. 7, n. 2, della legge urbanistica in relazione all'art. 40
stessa legge, dopo che sulla legittimità di detto numero
dell'articolo, questa Corte si è pronunciata con la precedente
sentenza. Si aggiunge che il giudizio dovrebbe ora mantenersi
circoscritto ai numeri 3 e 4 dell'art. 7, in ordine ai quali la
precedente ordinanza ha indirizzato il riesame della rilevanza.
La Corte osserva che, in questa seconda fase, la prospettazione, da
parte del Consiglio di giustizia amministrativa, della legittimità
costituzionale dell'art. 7, n. 2, è stata compiuta in base a motivi
che sono essenzialmente nuovi e diversi da quelli già in precedenza
dedotti e decisi e riguardano ora il sistema organico sul punto, della
legge nelle sue varie articolazioni, l'una all'altra connesse. Ed in
caso di restituzione degli atti al giudice a quo, questi ha potestà
piena di riesaminare tutte le questioni non decise (sentenza n. 56 del
1960).
Non sussiste, quindi, la lamentata preclusione.
D'altra parte, anche con l'ordinanza del pretore di Campobasso, che
ha dato luogo alla riunione delle cause, si è denunciata
l'illegittimità costituzionale dell'art. 7 in ordine a tutti i tre
numeri suindicati.
Il contenuto e l'ampiezza del giudizi restano, pertanto,
chiaramente definiti.
2. - L'ordinanza del pretore di Campobasso prospetta, come primo
motivo di incostituzionalità, l'indeterminatezza dei criteri e delle
modalità della disciplina urbanistica di cui all'art. 7, per cui non
potrebbe ritenersi osservato l'art. 42, commi secondo e terzo, della
Costituzione, che riserva alla legge di regolare compiutamente
l'esercizio di detto potere di disciplina.
La stessa questione, già proposta negli stessi termini con la
prima ordinanza del Consiglio di giustizia amministrativa, è stata
esaminata da questa Corte con la sentenza n. 38 del 1966 e dichiarata
non fondata, in base a molteplici argomenti che dimostrano la
sufficiente individuazione, da parte del legislatore, dei vincoli posti
sulla proprietà privata a fini urbanistici e dei relativi controlli
posti a garanzia della proprietà stessa.
L'ordinanza non contiene alcun nuovo argomento, valido a condurre,
sul punto, a decisione della questione, diversa da quella della già
riconosciuta infondatezza, che qui va, conseguentemente, confermata.
3. - Entrambe le ordinanze devolvono alla Corte altra questione
così puntualizzata: se la mancanza di previsione nella legge
urbanistica, di un termine finale di effettiva operatività del vincoli
riconducibili nell'ambito delle disposizioni di un piano regolatore
generale e, nello stesso tempo, l'operatività immediata, senza il
riconoscimento di alcun compenso, dei vincoli imposti dal piano stesso
- taluni ordinati al mantenimento obbligatorio dell'attuale
utilizzazione privata o alla realizzazione obbligatoria di una diversa
utilizzazione privata, altri ordinati a future destinazioni concrete,
da realizzare attraverso interventi pubblici incerti an e quando -
siano conformi all'art. 42, terzo comma, della Costituzione che
condiziona l'assoggettamento a espropriazione della proprietà privata,
per motivi d'interesse generale, all'attribuzione di un corrispondente
indennizzo.
Così delineata la questione, la Corte rileva anzitutto che il
sistema, sul punto, della legge n. 1150 del 1942 corrisponde a quanto
accennato nelle ordinanze di rinvio.
Una volta approvato il piano regolatore generale, questo ha vigore
a tempo indeterminato (art. 11). E la giurisprudenza ha costantemente
affermato che non soltanto i vincoli indicati nel n. 2 dell'art. 7
(come si può ricavare dagli artt. 11 e 17) ma altresì quelli indicati
nei nn. 3 e 4 dell'art. 7 sono immediatamente operativi e validi a
tempo indeterminato.
In questo sistema (che la recente legge di modifica e integrazioni
n. 765 del 1967 ha conservato, ribadendo anche l'intervento di misure
di salvaguardia nelle more di approvazione del piano e dichiarandole
anzi obbligatorie - art. 3, ultimo comma - ) viene a determinarsi -
salvo per quanto riguarda quei vincoli che sono ordinati al
mantenimento di destinazioni attuali della proprietà - un distacco tra
l'operatività immediata dei vincoli previsti dal piano regolatore
generale ed il conseguimento del risultato finale. Quest'ultimo,
quando presupponga trasferimenti di proprietà (e quindi per la
generalità delle aree da destinare a opere e usi pubblici), e inoltre
quando presupponga trasformazioni ad opera del proprietari, è infatti
dilazionato a data incerta e imprevista e imprevedibile nel suo
verificarsi (quella in cui potranno essere eventualmente approvati e
attuati i piani particolareggiati).
Orbene, per nessuno dei riferiti vincoli in relazione alla
descritta situazione viene, nel sistema della legge, ipotizzato un
indennizzo. Vero che, in questo sistema, rientrano talune previsioni di
indennizzo. Ma, a parte i casi di trasferimento di proprietà, un
indennizzo non è previsto, fuorché, a titolo di assoluta eccezione,
nell'ipotesi considerata dall'art. 25. Quanto poi ai casi di
trasferimenti coattivi, la legge, mentre pel trasferimento non fissa
alcun termine decorrente dall'entrata in vigore del piano generale, non
contempla alcun indennizzo per il vincolo di immodificabilità cui il
proprietario è tenuto a sottostare per il tempo, illimitato, durante
il quale rimarrà in attesa del trasferimento. Per contro, quando il
trasferimento coattivo abbia poi luogo, la proprietà verrà
indennizzata "allo stato", e cioè con riferimento ai valori del
momento (ciò pel richiamo che l'art. 37 della legge fa alla legge
generale sulle espropriazioni).
L'ordinanza del pretore di Campobasso, quale argomento di rincalzo
per dimostrare la carenza del sistema, indica anche l'art. 30 della
legge, dove non è previsto per l'attuazione del piano generale alcun
corredo di piano finanziario, se non per l'ipotesi delle zone di
espansione di cui all'art. 18, destinate a essere espropriate prima
della formazione dei piani particolareggiati.
Il rilievo è esatto. Anzi il citato art. 30 è ora sostituito
dall'art. 9 della legge di modifica n. 765 del 1967 dove l'esigenza del
piano finanziario, già prevista per i soli piani particolareggiati e
per le zone di espansione, è sostituita con quella di una semplice
"relazione di previsione di massima delle spese occorrenti per
l'acquisizione delle aree". Tutto questo però nulla aggiunge di
decisivo al già detto; e anzi si inquadra perfettamente in esso.
4. - Per escludere il dubbio di illegittimità della legge
urbanistica nella parte dianzi descritta, prospettata dall'ordinanza
del Consiglio di giustizia amministrativa, in relazione all'art. 42,
comma terzo, della Costituzione, la difesa delle parti pubbliche
sostiene che detto articolo e comma si riferiscono esclusivamente
all'ipotesi di una espropriazione immediatamente traslativa, cui
soltanto corrisponderebbe la garanzia di un indennizzo.
Questa tesi ha già formato oggetto di esame della Corte con la
sentenza n. 6 del 1966.
Premesso che l'istituto della proprietà privata è garantito dalla
Costituzione e regolato dalla legge nei modi di acquisto, di godimento
e nei limiti, la Corte ha osservato che tale garanzia è menomata
qualcosa singoli diritti, che all'istituto si ricollegano (naturalmente
secondo il regime di appartenenza dei beni configurato dalle norme in
vigore), vengano compressi o soppressi senza indennizzo, mediante atti
di imposizione che, indipendentemente dalla loro forma, conducano tanto
ad una traslazione totale o parziale del diritto, quanto ad uno
svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo contenuto, pur
rimanendo intatta l'appartenenza del diritto e la sottoposizione a
tutti gli oneri, anche fiscali, riguardanti la proprietà fondiaria.
Anche tali atti vanno considerati di natura espropriativa.
La Corte ha, peraltro ritenuto che il principio della necessità
dell'indennizzo non opera nel caso di disposizioni le quali si
riferiscano a intere categorie di beni (e perciò interessino la
generalità dei soggetti), sottoponendo in tal modo tutti i beni della
categoria senza distinzione ad un particolare regime di appartenenza.
Successivamente alla citata sentenza e conformandosi ai principi
ivi affermati e direttamente o indirettamente richiamati, questa Corte
ha deciso altre particolari questioni con le sentenze n. 20 e n. 119
del 1967.
Questi motivati concetti di base vanno tenuti presenti e
considerati operanti per decidere sulla questione ora proposta.
Per superare la conseguenzialità derivante dalla interpretazione
come sopra data dalla Corte al comma terzo dell'art. 42 della
Costituzione, si vorrebbe ricondurre l'esame al comma precedente, sul
punto in cui è proclamata ed assicurata la funzione sociale della
proprietà, mediante limitazioni disposte per legge.
Senza dubbio la garanzia della proprietà privata è condizionata,
nel sistema della Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla
subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di
funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed
utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di quanto è
stabilito dagli artt. 832 e 845 del Codice civile, i quali, per il
contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare,
richiamano, rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti
"dall'ordinamento giuridico" e le regole particolari per scopi di
pubblico interesse.
Ma, per tutto ciò ammesso e riconosciuto, la questione in esame
non si risolve, circoscrivendola nell'ambito del secondo i comma
dell'art. 42.
Secondo i concetti, sempre più progredienti, di solidarietà
sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso
come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece
ritenerlo caratterizzato dall'attitudine di essere sottoposto nel suo
contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di
determinare. Nel determinare tale regime, il legislatore può persino
escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, come pure
può imporre, sempre per categorie di beni, talune limitazioni in via
generale, ovvero autorizzare imposizioni a titolo particolare, con
diversa gradazione e più o meno accentuata restrizione delle facoltà
di godimento e di disposizione. Ma tali imposizioni a titolo
particolare non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata,
al di là della quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene,
oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene
riconosciuto nell'attuale momento storico. Al di là di tale confine,
essa assume carattere espropriativo.
I commi secondo e terzo dell'art. 42 (e quest'ultimo come già
interpretato dalla Corte) vanno insieme considerati e coordinati, per
ricavarne, - alla stregua di quello che, in base all'ordinamento
giuridico attuale, rappresenta il vigente, concreto regime di
appartenenza dei beni (art. 42, secondo comma) - l'identificazione del
casi, nei quali, incidendo essi negativamente, a titolo individuale,
sulla proprietà riconosciuta secondo il regime stesso, occorre far
luogo all'indennizzo (art. 42, terzo comma).
5. - Secondo il regime di appartenenza, quale risulta dalla vigente
legislazione, e dalla stessa legislazione urbanistica, i beni immobili
che ricadono nella sfera d'applicazione di quest'ultima, continuano ad
essere considerati, in via di principio ed in conformità della
tradizione, di pertinenza del proprietario, con gli attributi inerenti
alla loro possibilità di utilizzazione. Come è stato posto in
evidenza al n. 3, è la stessa vigente legge urbanistica a considerare
inerente esclusivamente alla proprietà ogni attributo dell'immobile:
non altrimenti dai proprietari non assoggettati da quella legge ad un
vincolo, anche i proprietari che vengono a subire un trasferimento
coattivo conseguono il valore venale attuale dei beni (art. 37).
Per evitare lo sconfinato arbitrio del singolo e disciplinarne
l'esercizio del diritto, e per dare un ordine e un'armonia allo
sviluppo dei centri abitati, la proprietà in questione è tuttavia
sottoposta ad alcuni limiti, in relazione alla funzione sociale propria
di essa. Tra questi limiti vanno senz'altro ritenuti legittimi, prima
di tutto, perché compatibili con l'anzidetto sistema, quelli che
possono esser considerati connessi e connaturali a detta proprietà, in
quanto hanno per scopo una disciplina dell'edilizia urbana nei suoi
molteplici aspetti (inerenti all'intensità estensiva e volumetrica,
alla localizzazione, al decoro e simili), quali questa Corte ha già
avuto occasione di indicare con la sentenza n. 38 del 1966 emessa nella
prima fase di questo giudizio. In questo senso e con questo
significato, la Corte, fin dalla sentenza n. 64 del 1963, con
riferimento alla legge urbanistica ed all'art. 42, secondo comma, della
Costituzione, ha, appunto perciò, riconosciuta legittima
costituzionalmente l'imposizione di siffatti limiti.
Tra i limiti legittimi, in quanto connaturali alle anzidette
esigenze (e storicamente tramandati), deve farsi rientrare anche
l'assoggettamento a vincolo di immodificabilità per la limitata durata
(purché ragionevole) del piani particolareggiati, di quelle aree che i
piani stessi destinano al trasferimento in vista delle programmate
trasformazioni o diverse utilizzazioni. E ciò in considerazione della
particolare natura e funzione del piani stessi.
Peraltro, la questione che ora la Corte è chiamata a decidere è
di diversa portata: cioè, se sia costituzionalmente legittimo
sottrarre ad indennizzo, fin dal momento in cui intervenga,
l'imposizione, in sede di piano regolatore generale, di vincoli
urbanistici immediatamente operanti, quando, ben più che disciplinare
(come quei vincoli di cui or ora si è parlato) le modalità di
utilizzazione della proprietà, o limitarne l'impiego per il tempo
normalmente necessario a una prossima diversa utilizzazione previo
passaggio ad altre mani (come è proprio del piani particolareggiati),
comprimano a titolo particolare la proprietà in modo rilevante. In
altre parole, è da accertare se il sottrarre senza un indennizzo gli
immobili, quando essi siano da considerarsi edificabili in base
all'ordinamento vigente nel momento in cui il vincolo intervenga, alla
possibilità di utilizzazione rappresentata dalla destinazione (che
peraltro, a seconda del casi, può essere intensiva o meno intensiva,
od ' estensiva, o addirittura rada) a nuove costruzioni o comunque ad
altri proficui impieghi di ordine urbanistico, sia o meno
costituzionalmente legittimo.
Tale questione presenta due aspetti, l'uno all'altro connesso.
L'uno riguarda l'indennizzabilità, l'altro il tempo dell'indennizzo.
Sotto il primo aspetto, la questione, in via di principio, non può
essere risolta che in conformità della già richiamata giurisprudenza
di questa Corte, in base alla quale ogni incisione operata a titolo
individuale sul godimento del singolo bene, la quale penetri al di là
di quei limiti che la legislazione stessa abbia configurato in via
generale (ai sensi dell'art. 42, secondo comma, Costituzione) come
propri di tale godimento in relazione alla categoria dei beni di cui
trattisi, e annulli o diminuisca notevolmente il valore di scambio,
deve essere indennizzato. L'interesse del privato è subordinato
all'interesse generale della collettività per quanto riguarda la
sottoposizione a siffatti vincoli: non per quanto riguarda le più
gravi conseguenze economiche che ne derivano sul patrimonio, non di
tutti in egual modo e misura, ma di alcuni soltanto dei componenti la
collettività destinataria della legge. Se, come si è più sopra
ricordato, la legge urbanistica prevede l'indennizzo secondo il valore
venale per gli immobili dei quali viene imposto il trasferimento per
finalità urbanistica - con ciò stesso dando una certa configurazione
alla proprietà urbana del singoli - , è evidente il contrasto di ciò
col mancato indennizzo delle diminuzioni imposte per la medesima
finalità alla proprietà privata senza operare un trasferimento,
ovvero in attesa di operare un trasferimento incerto nel "se" e nel
"quando".
Sotto il secondo aspetto, la risoluzione della questione si collega
alla prima e ne dipende, nel senso che, una volta riconosciuto il
diritto ad un indennizzo, questo dev'essere razionalmente riferito a
punti cronologici di operatività, senza creare vuoti che disgiungano
illimitatamente la sottomissione immediata del bene dal compenso per la
sua perdita, effettiva o virtuale, dilazionando, solo per ciò che
riguarda l'onere cui l'Amministrazione è tenuta, l'efficacia dell'atto
impositivo.
Questa Corte, con sentenza n. 90 del 1966, con riferimento alla
legge regionale siciliana n. 20 del 1951 autorizzativa di
espropriazione di atee per consentire la costruzione del palazzo della
Regione, ne ha ravvisato l'illegittimità, appunto per non essersi
fissato alcun termine per il compimento della procedura espropriativa,
mentre (ha osservato testualmente la sentenza) i tempi delle
espropriazioni e realizzazioni rappresentano, nel sistema, una garanzia
essenziale.
6. - A questi principi di base va rapportato l'esame di
costituzionalità delle norme denunciate.
È, anzitutto, da rilevare, per trarne una prima conseguenza, che,
mentre i numeri 3, 4 dell'art. 7 contengono un riferimento a ben
determinate indicazioni essenziali che debbono essere contenute in un
piano regolatore generale, il numero 2, pur integrandosi nel sistema,
mantiene una certa latitudine di contorni per quanto riguarda l'ambito
della categoria del "vincoli di zona da osservare nell'edificazione",
specie se confrontato con l'art. 25 che parla di "destinazione di zona"
e con l'art. 40 che parla genericamente di "vincoli di zona"
distinguendoli dalle limitazioni relative all'allineamento edilizio.
Ai fini del giudizio di costituzionalità, non spetta, tuttavia,
alla Corte, in via interpretativa della norma dell'art. 7, n. 2,
verificarne, col contenuto, i precisi confini di operatività.
Rappresenta un punto fermo il concetto che non possono farsi rientrare
nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere di quelle
ammesse senza indennizzo dall'art. 42, secondo comma, della
Costituzione, e, quindi, tra l'altro, quelle che fissano gli indici di
fabbricabilità delle singole proprietà immobiliari, anche quando tali
indici possono assumere valori particolarmente bassi (come nel caso di
edilizia urbana estensiva e persino rada, del tipo di costruzioni
circondate da ampi e predominanti spazi verdi). Pur essendo imposte nei
confronti di singoli beni, tali limitazioni sono da considerare,
infatti, operate sulla base di quel carattere tradizionale e
connaturale delle aree urbane, basato su quelle esigenze di ordine ed
euritmia nell'edilizia di cui si è detto.
A parte l'anzidetto punto fermo, spetta però agli organi di
giurisdizione ordinaria desumere dalla casistica delle imposizioni,
riferite a fattispecie variabili con la variabilità dei casi concreti,
la rispettiva inserzione nella categoria del vincoli di zona
contemplati nell'anzidetto n. 2 ovvero in una delle altre categorie,
indicate nelle diverse numerazioni di cui l'art. 7 si compone.
Quello che è invece necessario e sufficiente qui rilevare è che
l'art. 7 contempla, nella sua articolata formulazione, un complesso di
imposizioni, immediatamente operative, tutte collegate dal fine della
legge (art. 1) di dare assetto ai centri abitati: tra le quali
imposizioni sono sicuramente comprese, sia ipotesi di vincoli
temporanei (ma di durata illimitata), preordinati al successivo (ma
incerto) trasferimento del bene per ragioni di interesse generale, sia
ipotesi di vincoli che, pur consentendo la conservazione della
titolarità del bene, sono tuttavia destinati a operare immediatamente
una definitiva incisione profonda, al di là del limiti connaturali,
sulla facoltà di utilizzabilità sussistenti al momento
dell'imposizione. Tutto ciò senza la previsione di indennizzo, ed
anzi, nel senso che si è detto, con una previsione del contrario (art.
40), tanto nel caso di vincoli di durata, predisposti in correlazione a
trasferimenti di proprietà differiti (ma incerti an e quando), quanto
nel caso di vincoli immediatamente definitivi inerenti a proprietà non
destinate a esser trasferite. E, una volta riconosciuta la carenza
della previsione legislativa, nemmeno spetta alla Corte procedere in
questa sede all'esame delle modalità con cui all'indennizzo dovrebbe e
potrebbe in simili casi provvedersi, in special modo con riguardo
all'ipotesi di vincoli temporanei preordinati a successivi
trasferimenti di proprietà. È certo però che la legislazione già
conosce in materia appropriati strumenti.
Da tutto ciò consegue la dichiarazione di illegittimità, per
contraddizione con l'art. 42, comma terzo, della Costituzione, delle
norme denunciate, limitatamente alla parte in cui consentono, senza
indennizzo, limitazioni temporanee o definitive a diritti reali, di
contenuto espropriativo e immediatamente operative.