Ritenuto in fatto:
In un giudizio davanti al Conciliatore di Milano l'avvocato
Flaminio Costa sosteneva di non essere tenuto a corrispondere
all'E.N.E.L., succeduto alla Società "Edisonvolta" in virtù della
legge 6 dicembre 1962, n. 1643, la somma dovuta per la somministrazione
di energia elettrica. L'attore deduceva: di non essere tenuto a pagare
all'E.N.E.L., in quanto l'Ente non aveva adempiuto a quanto prescritto
dall'art. 1406 del Codice civile; quale cittadino italiano e nella
dichiarata veste di azionista della Società "Edisonvolta", egli era
interessato a che l'introito dei corrispettivi per fornitura di energia
elettrica andasse ad arricchire tale Società; non intendeva, poi,
pagare all'E.N.E.L., la cui legge istitutiva ed i conseguenti
provvedimenti legislativi delegati per il trasferimento delle società
elettriche al nuovo Ente erano costituzionalmente illegittimi.
Il Conciliatore, con ordinanza del 10 settembre 1963, dichiarata la
contumacia della "Edisonvolta" e premesso che le uniche questioni di
legittimità costituzionale che potessero avere influenza nella causa
erano quelle riguardanti la legittima costituzione dell'E.N.E.L.,
dichiarava rilevanti e non manifestamente infondate cinque sulle
tredici eccezioni sollevate dall'attore e riassunte nel testo
dell'ordinanza stessa. Le questioni rimesse dal Conciliatore riguardano
soltanto la legge 6 dicembre 1962, la quale sarebbe in contrasto con la
Costituzione per i motivi seguenti:
a) violazione dell'art. 67 della Costituzione, essendo stata,
quella legge, approvata da parlamentari, i quali avevano dichiarato di
dare voto favorevole soltanto in obbedienza alle direttive del loro
rispettivo partito politico;
b) violazione dell'art. 43 della Costituzione per mancanza dei
requisiti di utilità generale che potrebbero giustificare una legge di
espropriazione: motivi non indicati nel testo della legge ed esclusi
dalla stessa relazione di maggioranza al disegno di legge. Tale
esclusione è confermata dal fatto che il numero delle imprese esentate
è di gran lunga superiore al numero delle imprese espropriate;
c) violazione degli artt. 4 e 41 della Costituzione. L'art. 1
della legge denunziata, stabilendo una riserva generale a favore di un
soggetto per l'esercizio di una determinata attività, vieta per il
futuro a tutti la scelta di tale attività;
d) violazione dell'art. 3 della Costituzione. Gli artt. 1 e 4, n.
8, della legge, esentando tutte le imprese che non raggiungono la
produzione di 15 milioni di chilowattore annui di energia, danno luogo
ad una disparità di trattamento arbitraria ed irragionevole;
e) violazione dell'art. 11 della Costituzione. L'intera legge è in
contrasto con le seguenti disposizioni del Trattato istitutivo della
Comunità economica europea: con l'art. 102, in quanto la legge, prima
di essere adottata, avrebbe dovuto essere sottoposta all'esame della
Commissione della C.E.E.; con l'art. 93, n. 3, perché la stessa legge
consente aiuti vietati dal Trattato ed in particolare perché nell'art.
4, comma 11, prevede un trattamento di favore per la Società per
azioni Acciaierie di Terni; con l'art. 53, il quale vieta
l'introduzione di nuove restrizioni al principio della libertà di
stabilimento; con l'art. 37, n. 2, per aver creato un nuovo monopolio
nazionale.
L'ordinanza, notificata e comunicata alle parti, al Presidente del
Consiglio dei Ministri ed ai Presidenti delle Camere legislative in
varie date dal 23 settembre al 3 ottobre 1963, è stata pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica il 2 novembre successivo.
Davanti a questa Corte si sono costituiti l'attore e le altre parti
nel giudizio presso il Conciliatore ed è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei Ministri. Tutti hanno presentato deduzioni e memorie,
depositate rispettivamente: per l'avv. Costa l'11 ottobre 1963 e il 20
gennaio 1964, per l'"Edisonvolta" il 22 novembre 1963 e il 23 gennaio
1964, per l'E.N.E.L., il 31 ottobre 1963 e il 22 gennaio 1964, per il
Presidente del Consiglio dei Ministri il 14 ottobre 1963 e il 23
gennaio 1964.
Preliminarmente, l'Avvocatura dello Stato, pur non facendone
oggetto di formale eccezione, ha sottoposto all'attenzione della Corte
il dubbio se potesse riconoscersi all'attore il potere di eccepire
l'illegittimità costituzionale della legge, dal momento che il
pagamento effettuato all'E.N.E.L. doveva considerarsi del tutto
legittimo in costanza di vigore di una legge ordinaria non colpita, al
momento del pagamento, da dichiarazione di illegittimità
costituzionale. Altri dubbi, secondo l'Avvocatura, potrebbero sorgere
per quanto attiene al modo con cui le questioni di legittimità sono
state sollevate con l'ordinanza, che ha denunziato in blocco tutta la
legge istitutiva dell'E.N.E.L. senza precisare gli articoli di essa che
sarebbero in contrasto con i numerosi precetti della Costituzione
invocati.
La difesa della Società "Edisonvolta", la quale nelle deduzioni
aveva concluso per la dichiarazione di illegittimità della legge, ha,
con la memoria, chiesto, in via preliminare, il rinvio degli atti al
giudice a quo per un riesame della rilevanza delle dedotte questioni.
Osserva che, esclusa dalla stessa ordinanza di rinvio la legittimazione
dell'attore nella sua veste di cittadino italiano e nella sua qualità
di azionista della Società "Edisonvolta", quel giudice ha ritenuto
rilevante l'accertamento della legittimità costituzionale della legge,
considerando che l'attore, utente di energia elettrica, avesse diritto
di sapere a chi fosse tenuto a pagare, se all'E.N.E.L. o
all'"Edisonvolta". Dopo avere notato che l'importo della bolletta, di
lire 1925, si riferiva ai soli diritti fissi del bimestre marzo-aprile
(per avere l'utente consumato l'energia prodotta e fornita
dall'E.N.E.L., ma impedito la lettura del contatore e la fatturazione
del consumo), la difesa Edisonvolta afferma che il vero intendimento
dell'attore era quello di proporre principali per una questione di
legittimità costituzionale. Difatti, la domanda era palesemente
inammissibile, in quanto il consumatore di energia elettrica (a parte
l'esiguità della somma) può avere interesse a non pagare affatto o a
pagare una somma minore, ma, non contestato il debito (come non lo era
nella fattispecie), egli non ha interesse a pagare ad un soggetto
invece che ad un altro. Il pagamento all'E.N.E.L. avrebbe liberato
l'attore dalle sue obbligazioni, in quanto, a norma dell'art. 1189 del
Codice civile, egli avrebbe pagato in buona fede a chi appariva
legittimato a ricevere il pagamento in base a circostanze univoche: il
che non era dubbio di fronte ad una legge formale che aveva trasferito
all'E.N.E.L. l'azienda elettrica della "Edisonvolta". E ciò tanto più
che, da un lato, la stessa assenta creditrice effettiva, mantenendosi
contumace, non aveva affatto rivendicato la titolarità del credito e,
dall'altro, la bolletta si riferiva a diritti fissi maturati
successivamente al trasferimento dell'azienda all'Ente nazionale per
l'energia elettrica.
Nel merito, le deduzioni delle parti possono così essere esposte
in riferimento alle singole questioni sollevate con l'ordinanza di
rimessione.
Sulla prima questione (violazione dell'art. 67 della Costituzione)
l'avv. Costa, dopo avere, anche sulla base della giurisprudenza della
stessa Corte, premesso che la Corte costituzionale ha il potere di
sindacare il procedimento di formazione della legge sino al momento
della formazione della volontà dell'organo normativo, ricorda
atteggiamenti e dichiarazioni di vari componenti delle due Assemblee
legislative nel Parlamento e fuori, quali risultano dagli atti
parlamentari, ed in particolare dalle relazioni al disegno di legge, e
dalla stampa (di cui produce alcuni estratti), per affermare che dal
tutto risulterebbe come i parlamentari, in misura maggiore o minore per
la parte che compone la maggioranza e che quindi ha determinato la
formazione della volontà di ciascuna Assemblea, avrebbero determinato
la propria volontà e l'avrebbero espressa o in obbedienza al mandato
imperativo che li vincolava o nell'esercizio di una funzione di
rappresentanza di un soggetto particolare e non di tutta la Nazione o
di tutto il corpo elettorale. Da ciò l'illegittimità nella formazione
della legge per effetto della violazione dell'art. 67 della
Costituzione. Tale illegittimità investirebbe l'intero testo della
legge.
Nella memoria, l'avv. Costa, dopo avere riassunto e ribattuto le
obbiezioni mosse alle sue tesi, insiste, quanto alla denunziata
violazione dell'art. 67, nel rilevare che l'ordinanza pone il problema
dell'esistenza di un mandato imperativo, vietato dall'art. 67, e delle
conseguenze di questo mandato incostituzionale.
Mentre la "Edisonvolta" non si sofferma sopra la questione,
ritenendo pregiudiziale ed assorbente la censura di violazione
dell'art. 43 della Costituzione, la difesa dell'E.N.E.L. e l'Avvocatura
dello Stato rilevano che il sindacato di costituzionalità può
effettuarsi sul procedimento di formazione della legge e sulle norme
che la disciplinano. Poiché l'art. 67 invocato non rientra fra le
norme, neanche di carattere strumentale, concernenti il procedimento di
formazione della legge, ma attiene unicamente alla formazione dello
status di membro del Parlamento ed alla definizione della così detta
"rappresentanza politica", la sua violazione non costituirebbe vizio
afferente alla validità della legge così formata.
Né esisterebbe altra norma della Costituzione che possa essere
invocata a sostegno della censura con la quale si vorrebbe istituire un
sindacato sui motivi che hanno indotto il Parlamento a dare il voto in
un senso anziché nell'altro. I motivi non hanno rilevanza, e, perché
la legge sia valida, basta che essa sia approvata, in base ai
regolamenti parlamentari, con la procedura e la maggioranza prescritte.
E ciò, a prescindere dalla considerazione che, nella specie, le
deliberazioni della Camera e del Senato supererebbero agevolmente la
prova di resistenza.
Sul secondo motivo di incostituzionalità (violazione dell'art. 43
della Costituzione) l'avv. Costa sostiene che, a tenore di questa
norma, la possibilità di espropriare o di riservare allo Stato
determinate categorie di imprese sarebbe ammissibile nei seguenti casi:
1) quando l'espropriazione o la riserva siano fatte per fini di
utilità generale; 2) quando le imprese si riferiscano a servizi
pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio;
3) quando le imprese abbiano preminente interesse generale; 4) quando
la riserva od il trasferimento siano compiuti con legge formale; 5)
quando vi sia un indennizzo.
La Corte costituzionale ha il potere di controllare se tali
presupposti sussistano, come ha deciso la stessa Corte con le sentenze
nn. 11 e 59 del 1960.
L'istituzione dell'E.N.E.L. non risponderebbe ad un fine di
"utilità generale". La produzione e la distribuzione dell'energia
elettrica rappresentano un problema sorto già prima della legge del
1962 ed egregiamente risolto sia sul piano economico-industriale sia
sul piano giuridico, con un organico sistema di atti normativi ed
amministrativi, collaudato dal tempo. La nazionalizzazione del settore
elettrico non ha significato un miglioramento rispetto al sistema
precedente, come risulta dal dibattito parlamentare. Dalla riforma non
sembra possano sortire altri vantaggi: non per quanto concerne la
produzione, dato che già nel 1961 essa era superiore al consumo, non
per quanto si riferisce ai prezzi, dato che il prezzo medio
dell'energia elettrica, stabilito dal Comitato interministeriale dei
prezzi, è già più basso di quello praticato in Belgio, Olanda e
Germania, e comparabile con quelli della Francia e dell'Inghilterra,
dove vige la nazionalizzazione; è peggiorata la condizione dei singoli
utenti, i quali devono accettare ogni e qualsiasi condizione di
fornitura, che all'Ente piaccia, senza possibilità di ottenere
condizioni diverse e sotto pena di veder negato il servizio; peggiorata
è anche la situazione degli azionisti delle società espropriate,
perché ricevono il pagamento dell'indennità in dieci anni.
La produzione e la distribuzione dell'energia elettrica, pure
essendo un servizio di altissima utilità, non sarebbero poi un
servizio "essenziale" nel vero senso della parola. La nazionalizzazione
operata con la legge del 1962 non si riferisce a fonti di energia,
intese nel senso tecnico di "bene suscettibile di produrre energia", ma
all'energia stessa, ossia al risultato della utilizzazione di queste
fonti.
Inoltre non ricorrerebbe il presupposto del monopolio. Infine non
si tratta di imprese di preminente interesse generale, dato che
l'energia prodotta dalle imprese trasferite all'Ente di Stato
rappresenta solo il 27,7 per cento del bene stesso.
In conclusione, secondo l'avv. Costa, può dirsi che la legge del
1962 si propone fini o che non esistono, o che sono stati già
raggiunti, o che sono irrilevanti ai fini dell'utilità generale, o che
sono conseguiti o conseguibili con altri sistemi diversi dalla
espropriazione. Ne deriva quindi che la legge in esame non può far
raggiungere quei risultati di miglioramento, nei quali si concreta
l'utilità generale voluta dall'art. 43 della Costituzione. Del resto,
se la utilità che il legislatore si proponeva di realizzare attraverso
la nazionalizzazione del settore elettrico fosse stata veramente
generale, si sarebbe dovuto procedere all'espropriazione di tutte
indistintamente le imprese elettriche e non soltanto di quelle che
producono più di 15 milioni di chilowattore annui.
Ma la legge del 1962 violerebbe l'art. 43 della Costituzione anche
per quanto concerne il principio di riserva di legge. Questo infatti
deve essere inteso in un senso assoluto, per cui la legge deve
contenere tutte le disposizioni necessarie a trasferire determinate
attività, e non la sola istituzione del principio. Né, nella specie,
il ricorso alla legge delegata concreta il rispetto di tale riserva
perché, sia pure nell'ambito dei criteri direttivi, è pur sempre
l'esecutivo che riserva, espropria e stabilisce l'indennizzo, e cioè
compie quelle operazioni che la Costituzione ha riservato alla legge
formale, cioè ad un atto del Parlamento.
Da tali considerazioni discenderebbe la conseguenza che, nel caso
in esame, l'art. 43 della Costituzione è stato violato perché non
soltanto l'espropriazione delle imprese elettriche doveva essere
stabilita per legge formale, ma con legge formale dovevano essere
effettuati anche i trasferimenti.
La legge istitutiva dell'E.N.E.L., infine, violerebbe l'art. 43
della Costituzione anche per quanto concerne l'indennità, la quale,
secondo l'insegnamento della Corte, deve pur sempre rappresentare un
serio ristoro del pregiudizio economico risultante dall'espropriazione.
Ora, con la legge del 1962, l'indennità è stata ripartita per
categorie di imprese, in modo che quelle con azioni quotate in borsa
sono trattate come quelle con azioni non quotate in borsa; è
commisurata al valore delle azioni, il quale non corrisponde al valore
dei beni espropriati; per le altre imprese è commisurata al valore
delle imprese, sì che a beni uguali non corrisponde indennità uguale;
infine vi è una dissociazione tra il momento dell'espropriazione (1
gennaio 1963) e quello della corresponsione dell'indennità (1973), per
cui, dato il procedimento di svalutazione monetaria in atto, alla fine
del pagamento i beni espropriati verranno sostituiti con una somma di
denaro radicalmente diversa dal loro valore, che sarà certamente
niente altro che un simbolo.
Da ultimo, il Costa rileva che con l'istituzione dell'E.N.E.L.
diminuisce anche il gettito fiscale, in quanto l'Ente paga la sola
imposta sull'energia elettrica, mentre le società espropriate
versavano all'erario l'imposta di ricchezza mobile, l'imposta sulle
industrie e quella sulle società: e tutto ciò si converte non in un
vantaggio, ma in un danno per la collettività, perché determina una
minore entrata per lo Stato.
La "Edisonvolta" dichiara che intende far valere le ragioni di
incostituzionalità della legge 6 dicembre 1962, n. 1643, e dei decreti
legislativi delegati 15 dicembre 1962, n. 1670, 4 febbraio 1963, n. 36,
25 febbraio 1963, n. 138, e 14 marzo 1963, n. 219, i quali - ad avviso
della parte - devono ritenersi implicitamente compresi
nell'impugnativa, malgrado che l'ordinanza di rinvio sembri limitarsi,
nel dispositivo, alla sola legge istitutiva dell'Ente nazionale per
l'energia elettrica.
Circa la dedotta violazione dell'art. 43 della Costituzione, anche
la "Edisonvolta" lamenta nella sua memoria che nella legge istitutiva
dell'E.N.E.L. manca qualsiasi accenno a quei motivi di utilità
generale, che soli possono giustificare la riserva o l'espropriazione
di determinate imprese. E su questo punto chiede che la Corte porti il
suo esame. Contesta l'asserzione dell'Avvocatura dello Stato, secondo
cui la sussistenza di fini di utilità generale scaturirebbe dai lavori
preparatori della legge del 1962, sia perché il ricorso ai lavori
preparatori è niente altro che un mezzo sussidiario di
interpretazione, sia perché non basta che in una relazione di
maggioranza si trovi semplicemente affermata - ma non dimostrata -
l'utilità generale di una legge. Che se poi si volesse dare un valore
determinante alle intenzioni dei proponenti e della maggioranza
parlamentare, di queste si dovrebbe tener conto anche ai fini della
difformità tra i voti espressi da molti parlamentari e le opinioni da
essi espresse in senso contrario alla effettiva utilità generale della
nazionalizzazione delle imprese elettriche.
Si osserva, poi, che mancano basi sicure per distinguere l'utilità
generale di cui all'art. 43 della Costituzione e l'utilità sociale
menzionata nell'art. 41, se si prescinde dal rilievo che l'utilità
generale è utilità di tutti, laddove l'utilità sociale può anche
essere settoriale. Può dirsi quindi che la formula dell'art. 43
esprime un criterio più rigoroso di quelli richiamati nell'art. 41, in
coerenza con la maggiore gravità degli interventi consentiti dall'art.
43, rispetto agli interventi autorizzati nell'art. 41, e con il loro
carattere di eccezionalità. Nella specie, l'utilità generale,
suscettibile di legittimare il provvedimento di nazionalizzazione, va
intesa come soddisfacimento del benessere materiale della
collettività.
Ora, se si guardi ai reali moventi che hanno portato alla
nazionalizzazione del settore elettrico, ci si accorge che si tratta di
motivi politici, ma non di alta politica. I motivi apparenti della
legge dovrebbero ricavarsi dall'art. 1, terzo comma, laddove si
precisano i compiti attribuiti all'E.N.E.L. Ma, a ben vedere, nessun
vantaggio di carattere generale conseguirebbe alla nazionalizzazione
del settore elettrico: non un migliore coordinamento del settore; non
un incremento della produzione; non la riduzione delle tariffe
elettriche; non la sicurezza delle forniture. Certamente l'unificazione
delle imprese in mano pubblica è un presupposto per la programmazione
del settore e la programmazione potrebbe costituire un perfezionamento
rilevante rispetto al coordinamento preesistente, ma tali obiettivi non
sono stati dal legislatore né enunciati né definiti in concreto:
nella legge, infatti, nulla si dispone circa la programmazione annuale
e pluriennale dell'Ente; nulla di concreto, sulla natura delle tariffe
e sulle condizioni delle forniture, con sostanziale regresso rispetto
all'ordinamento precedente; nulla, circa la determinazione della
politica tariffaria. Onde può ritenersi che, per la genericità della
disciplina e delle previsioni programmatiche stabilite dalla legge, non
era affatto necessario il trasferimento all'E.N.E.L. delle imprese
elettriche.
Il fine di utilità generale perciò nella specie non esisterebbe.
E ciò sarebbe confermato dal fatto che se scopo della istituzione
dell'E.N.E.L. fosse stato quello di coordinare l'intero settore
elettrico, tutte le imprese, nessuna eccettuata, dovevano essere
trasferite al nuovo ente. Se invece il coordinamento aveva ad oggetto
una parte soltanto del settore elettrico, non era necessario istituire
un monopolio legale delle attività di produzione, importazione ed
esportazione dell'energia elettrica; in un senso o nell'altro la nuova
disciplina del settore pecca per eccesso o per difetto. Né si dica che
l'esenzione dal trasferimento è una eccezione di carattere temporaneo,
perché nessun termine è prefissato: una riserva totale e parziale
insieme è contraddittoria, traducendosi in un vero "privilegio" per le
imprese oggi esonerate a tempo indeterminato, e, per di più, con
criteri assolutamente arbitrari ed ingiustificati.
Tutto il sistema risultante dalla legge sarebbe perciò intimamente
contraddittorio e ciò costituirebbe, in conformità della
giurisprudenza della Corte costituzionale, indizio di violazione del
principio di eguaglianza e di insussistenza od omessa ed arbitraria
valutazione dei fini di utilità generale di cui all'art. 43,
controllabile in sede di sindacato costituzionale senza sconfinare in
apprezzamenti di merito.
La difesa dell'E.N.E.L. contesta che nella legge in esame manchi il
requisito dell'utilità generale richiesto dall'art. 43 della
Costituzione: la sussistenza di tale requisito emergerebbe dalla
motivazione addotta dalla maggioranza parlamentare per sostenere che la
nuova disciplina risulta meglio idonea al conseguimento degli obiettivi
di una politica di sviluppo per quanto attiene al settore elettrico.
Questi obiettivi si possono così sintetizzare: eliminare investimenti
non necessari ed impieghi irrazionali di energia; incrementare la
produzione elettrica, mantenendo ampi margini di riserva; superare gli
squilibri di zona e settoriali e quindi assicurare il rapido sviluppo
economico e sociale del Mezzogiorno e delle altre zone arretrate del
Paese.
Vero è che buona parte delle ragioni che giustificano la legge si
proiettano nel futuro, in quanto presuppongono un determinato indirizzo
ed un certo ritmo dello sviluppo economico del Paese; ma ciò non
toglie che queste previsioni siano ragionevoli, documentate e
compatibili con l'utilità generale di interventi statali intesi a
predisporre il soddisfacimento di futuri bisogni della collettività.
Può anche darsi che il provvedimento danneggi alcuni interessi, ma
se utilità generale sta a significare utilità della collettività e
non già utilità dei singoli, il sacrificio degli interessi
individuali o anche fiscali trova, appunto, la sua giustificazione
nella necessità di soddisfare l'interesse generale. Il requisito
essenziale richiesto dall'art. 43 della Costituzione è quello della
utilità generale ed il legislatore del 1962 lo avrebbe tenuto presente
e rispettato.
La difesa dell'E.N.E.L. passa a contestare tutte le altre
considerazioni addotte dalle parti private. Così sarebbe arbitraria la
tesi secondo la quale il ricorso all'art. 43 è legittimo solo quando i
fini che si perseguono non possono essere conseguiti altrimenti;
altrettanto dicasi dell'enunciato collegamento e coordinamento tra
l'art. 41 e l'art. 43 della Costituzione, il quale ultimo segnerebbe
eccezionali deroghe alla libertà di iniziativa economica.
Del resto la valutazione del mezzo più opportuno per conseguire
fini di utilità generale resta affidata al legislatore e non è
suscettibile di sindacato costituzionale.
Gli altri presupposti dell'art. 43 della Costituzione, poi, sono,
secondo la difesa dell'E.N.E.L. tutti presenti nella legge impugnata.
Così dicasi del requisito che le imprese assoggettate a
nazionalizzazione si riferiscano, in via alternativa, a servizi
pubblici essenziali o a fonti di energia (intese nel senso ampio della
parola) o a situazioni di monopolio, o siano di "preminente interesse
generale": ciò emergerebbe dall'importanza che il settore elettrico ha
nella economia del Paese. Né avrebbe consistenza il rilievo che le
imprese elettriche producono soltanto il 27,7 per cento del fabbisogno
italiano di energia, perché l'interesse della collettività è un
requisito da valutare secondo un criterio qualitativo e non
quantitativo.
L'Avvocatura generale dello Stato concorda con la difesa
dell'E.N.E.L. nel sostenere che i fini di utilità generale che hanno
ispirato la nazionalizzazione del settore elettrico risultano
ampiamente e dal testo stesso della legge e dai lavori preparatori.
Essi sarebbero identificabili nella necessità di assicurare la
copertura di futuri crescenti fabbisogni di energia, con la
programmazione di nuovi impianti, la riduzione al minimo dei costi di
impianto e di gestione, l'applicazione di tariffe idonee a procurare un
equilibrato sviluppo regionale e settoriale; in una parola, nel
produrre, attraverso una generale programmazione, un sano sviluppo
economico e sociale.
Né il fine di utilità generale che la legge istitutiva
dell'E.N.E.L. ha inteso perseguire potrebbe dirsi contraddetto dalla
esclusione dall'espropriazione di un certo numero di imprese, perché,
a parte la insindacabilità, nel merito, di tale esclusione, ciò
starebbe a dimostrare che la legge ha contenuto il proprio intervento
nei termini strettamente necessari al raggiungimento dei fini
propostisi.
In conclusione, nella specie esisterebbero congiuntamente tutti i
presupposti richiesti dall'art. 43 della Costituzione, mentre per
alcuni di essi sarebbe bastata la sussistenza in via meramente
alternativa.
Quanto, infine, alla dedotta violazione del principio di riserva di
legge ex art. 43 della Costituzione, l'Avvocatura sostiene che tale
violazione non sussiste avendo il Governo, mediante decreti aventi
valore di legge ordinaria, esercitato la funzione legislativa
delegatagli dal Parlamento. Invero, la tesi che vorrebbe scorgere
nell'art. 43 una riserva limitata alle sole leggi formali, non
troverebbe alcuna conferma nel tenore della disposizione e
contrasterebbe con l'orientamento seguito in proposito dalla Corte
costituzionale.
Circa il terzo motivo di incostituzionalità (violazione degli
artt. 4 e 41 della Costituzione) l'avv. Costa osserva che l'art. 4
riconosce a ciascuno il diritto di svolgere un'attività secondo la
propria libera scelta. L'unica limitazione a tale diritto sarebbe
posta dall'art. 43 della Costituzione per motivi di utilità generale.
Questa utilità non deve essere presunta, ma deve essere dimostrata o,
quanto meno, deve scaturire con sufficiente evidenza dal testo
normativo; deve essere tale da non consentire eccezioni di sorta;
infine, deve essere tale che se l'attività fosse lasciata al singolo,
ne deriverebbe un danno o un pericolo per la collettività. È vero che
l'art. 43 della Costituzione introduce una eccezione al principio
generale, ma appunto perché eccezione, essa va considerata con
criterio restrittivo; e nel contrasto tra il principio
dell'espropriazione o della riserva ed il principio dell'attuazione di
un lavoro liberamente scelto, va data la prevalenza al principio della
libertà di lavoro e di iniziativa.
Ora, se la legge del 1962 ha ritenuto, nell'interesse generale, di
riservare allo Stato una certa attività, avrebbe dovuto logicamente
riservarla tutta e per intero, e non solo una parte di essa attività,
trasferendo all'ente pubblico soltanto le imprese di una certa
potenzialità produttiva, ed escludendo quelle di potenzialità minore.
Sul punto, la difesa dell'E.N.E.L. osserva che la libertà di
lavorare e di iniziativa economica incontra dei limiti di carattere
costituzionale, fra i quali rientra appunto la possibilità di
espropriazione e di riserva prevista dall'art. 43 della Costituzione.
La legge in esame deve essere valutata perciò in relazione ai limiti
fissati appunto dall'art. 43. E se supera questo vaglio, non può
considerarsi in contrasto con gli artt. 4 e 41 della Costituzione.
Dello stesso avviso è l'Avvocatura dello Stato.
Sulla violazione dell'art. 3 della Costituzione, l'avv. Costa
rileva che la legge, esentando dalla espropriazione una determinata
categoria di imprese e discriminando, ai fini dell'indennità, tra
imprese con azioni quotate in borsa ed imprese con azioni non quotate,
violerebbe il principio di eguaglianza. Vero è che il legislatore può
fare un trattamento differenziato per categorie di soggetti e per
situazioni che egli ritenga diverse, ma la valutazione dell'eguaglianza
o della differenziazione deve fondarsi su "ragionevoli motivi". Ed è
compito della Corte costituzionale accertare se tale eguaglianza o
diseguaglianza, in relazione al caso concreto, non siano per caso
fondate su motivi irragionevoli.
Ora, la distinzione che la legge del 1962 fa tra le varie imprese
sulla base della loro maggiore o minore produttività sarebbe
arbitraria e irragionevole: arbitraria perché a base di tale
distinzione pone un criterio meramente quantitativo, e non qualitativo;
irragionevole, perché se si vuole perseguire una politica economica di
piano si dovrebbero unificare tutte le imprese e non solo quelle
maggiori.
La distinzione poi non si giustificherebbe neanche sotto il profilo
della attività svolta, perché tutte le imprese del settore, anche
quelle non espropriate, esercitano l'attività di produzione e di
distribuzione dell'energia elettrica; né si giustificherebbe su una
diversità di organizzazione giuridica delle imprese o su una diversa
potenzialità patrimoniale o sul numero dei soggetti che godono del
servizio, perché tali criteri non sono enunciati dalla legge.
Dello stesso avviso è la "Edisonvolta". Per essa le esenzioni dal
trasferimento stabilite dalla legge, alla stregua di criteri arbitrari
e, per giunta, tra loro eterogenei, non solo costituiscono violazione
del principio di eguaglianza, ma contraddicono anche all'enunciato fine
di coordinamento che il legislatore del 1962 avrebbe inteso perseguire.
La difesa dell'E.N.E.L. e l'Avvocatura dello Stato sostengono
invece che la lamentata violazione dell'art. 3 della Costituzione non
esiste. Il legislatore può ben fare trattamenti diversi per situazioni
che esso, nel suo apprezzamento di merito, insindacabile in sede di
controllo costituzionale, ritenga oggettivamente diverse. Comunque,
nella specie, tale esclusione si armonizza perfettamente con i fini
della nazionalizzazione: le esclusioni riguardano imprese marginali, di
piccole dimensioni, la cui espropriazione mentre, da una parte,
aggraverebbe di molto gli oneri di indennizzo, non presenterebbe,
dall'altra, vantaggi sostanziali ai fini della riduzione delle spese di
gestione e dell'incremento della produzione di energia elettrica.
A ragioni in parte analoghe ed in parte dettate dalla loro
particolare posizione, si ispira poi l'esclusione delle imprese
autoproduttrici e di quelle municipalizzate.
La difesa dell'E.N.E.L. rileva anche che la censura mossa al
criterio di determinazione dell'indennizzo è infondata; in quanto la
discriminazione tra imprese con azioni quotate in borsa, imprese con
azioni non quotate ed imprese di altro genere, non riguarda l'ammontare
delle indennità di espropriazione, ma soltanto i criteri adottati per
determinarlo.
Quanto all'ultimo motivo di incostituzionalità (violazione
dell'art. 11 della Costituzione) l'avv. Costa rileva che lo Stato
italiano, che aveva acconsentito alla limitazione della propria
sovranità aderendo al Trattato di Roma del 25 marzo 1957, istitutivo
della Comunità economica europea, ratificato e recepito nel nostro
ordinamento con la legge 14 ottobre 1957, n. 1203, con l'emanazione
della legge sulla nazionalizzazione delle industrie elettriche avrebbe
praticamente revocato tale autolimitazione e, violando alcune norme del
Trattato, avrebbe violato anche l'art. 11 della Costituzione.
Ora, poiché il giudizio sulla eventuale violazione del Trattato da
parte degli Stati membri della Comunità presuppone l'interpretazione
autentica delle norme del Trattato stesso, e poiché tale compito è di
esclusiva competenza della Corte di giustizia delle Comunità europee,
la Corte costituzionale dovrebbe sospendere il giudizio e provocare
l'interpretazione della Corte di giustizia.
Nel merito la difesa Costa precisa che l'art. 102 del Trattato di
Roma dispone che qualora uno Stato, membro della Comunità, voglia
procedere alla emanazione di norme che possono provocare una
"distorsione" al regime comunitario di concorrenza, deve consultare
l'apposita Commissione istituita presso le Comunità. Nella specie, lo
Stato italiano, prima di procedere alla nazionalizzazione dell'energia
elettrica, avrebbe dovuto consultare la citata Commissione: cosa che
non è stata fatta, in violazione del Trattato.
Lo stesso dicasi per quanto riguarda la violazione dell'art. 93, n.
3, del Trattato stesso, il quale stabilisce che alla medesima
Commissione devono essere comunicati in tempo utile i progetti diretti
ad istituire o modificare aiuti. Neanche tale comunicazione è stata
data dallo Stato italiano ed il fatto che la Commissione, benché
interpellata, non si sia ancora pronunciata e non abbia preso alcuna
iniziativa, non significa che l'art. 93 sia stato rispettato o che il
comportamento dello Stato italiano sia conforme al disposto del
Trattato.
Vi sarebbe poi violazione dell'art. 53 del Trattato, il quale
stabilisce il divieto di porre nuove restrizioni al diritto di
stabilimento: restrizioni che, invece, sono state create nel territorio
italiano con l'istituzione dell'E.N.E.L., per quanto riguarda la
produzione e la distribuzione di energia elettrica.
Infine, la legge del 1962, consentendo aiuti ad alcune imprese
nazionali, avrebbe violato il disposto degli artt. 92 e 93 del
Trattato di Roma, che vietano appunto tali aiuti. E la dimostrazione di
tale violazione sarebbe fornita dall'art. 4, n. 65, della stessa legge,
con il quale si stabilisce che alla Società "Terni" verrà fornita
l'energia elettrica ad un prezzo che terrà conto delle condizioni
applicate mediamente nel triennio 1959-61. Ciò significherebbe che la
"Terni" - società siderurgica - avrà l'energia elettrica non al
prezzo reale o al prezzo praticato ad altre imprese del medesimo ramo,
bensì ad un prezzo particolare, stabilito per essa soltanto,
necessariamente più favorevole, sulla base del costo di produzione in
quel triennio e non del prezzo di vendita.
La difesa Costa conclude chiedendo, in via pregiudiziale, che sia
rimessa all'esame della Corte di giustizia delle Comunità europee la
questione relativa all'interpretazione degli artt. 102, 93, n. 3, 92,
53 e 37, n. 2, del Trattato di Roma ed alla loro eventuale violazione
da parte dello Stato italiano; nel merito, che sia dichiarata
costituzionalmente illegittima la legge del 1962, n. 1643, per
violazione degli artt. 67, 43, 4, 41, 3 e 11 della Costituzione.
Le argomentazioni e le conclusioni sopra riportate trovano in
sostanza consenziente anche la difesa della "Edisonvolta", anche se da
parte di questa si lamenta che l'ordinanza di rinvio non avrebbe
sufficientemente motivato sulla dedotta violazione ed avrebbe omesso di
trattare la questione anche in riferimento all'art. 10 della
Costituzione, oltre che in relazione all'art. 11.
Dopo un particolareggiato esame della questione la difesa della
"Edisonvolta" rileva, in particolare, sotto questo aspetto, che la
legge istitutiva dell'E.N.E.L.: avrebbe istituito un nuovo monopolio;
avrebbe usato un trattamento fiscale di particolare favore per
l'E.N.E.L., facendo così temere il sorgere di una "distorsione" al
regime comunitario di concorrenza; avrebbe fornito ad imprese nazionali
aiuti non consentiti; non avrebbe comunicato alla Comunità il disegno
di legge istitutivo dell'E.N.E.L. e non avrebbe richiesto il parere
dell'apposita Commissione della Comunità.
Il contrasto tra legge nazionale e Trattato europeo sarebbe dunque
indiscutibile. Come pure sarebbe indiscutibile che la violazione del
Trattato di Roma, con il quale l'Italia ha, ai sensi dell'art. 11 della
Costituzione, acconsentito a limitare la propria sovranità nazionale,
comporta la incostituzionalità della legge che tale violazione ha
concretato, e per il contenuto e sul piano procedurale.
L'incostituzionalità però presuppone che la violazione sussista,
e l'accertamento di tale violazione presenta carattere pregiudiziale.
Ma a provocare tale accertamento, che, a norma dell'art. 177 del
Trattato, è di competenza della Corte di giustizia delle Comunità
europee, non può essere la Corte costituzionale, la quale, data la sua
posizione di supremazia, non è da considerarsi come una di quelle
giurisdizioni di diritto interno contemplate dall'art. 177 del Trattato
di Roma. Dovrebbe essere (o dovrebbe essere stato) il giudice a quo,
se necessario, ad investire della questione la Corte di giustizia delle
Comunità europee.
Con atto depositato il 3 febbraio 1964 la "Edisonvolta", che ne
aveva fatto cenno nelle sue difese, ha prodotto copia di una nuova
ordinanza emessa dal Conciliatore di Milano in un'altra causa promossa
dallo stesso avv. Costa, con la quale ordinanza, mentre si ordina la
trasmissione degli atti a questa Corte per il giudizio di legittimità
costituzionale, si dispone altresì la trasmissione di copia autentica
degli atti alla Corte di giustizia della Comunità economica europea.
La difesa dell'E.N.E.L. sostiene invece che la dedotta violazione
dell'art. 11 non sussisterebbe.
Anzitutto questa norma prevede limitazioni alla sovranità solo
quando esse siano necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e
la giustizia fra i popoli: tali non possono dirsi le limitazioni
introdotte dal Trattato della Comunità europea.
In secondo luogo, non tutte le norme del Trattato limitano la
sovranità degli Stati membri, ma solo alcune di esse, e tra queste non
possono farsi rientrare le norme invocate dalla parte privata. Difatti,
gli artt. 102 e 93 del Trattato pongono a carico degli Stati membri
solo un onere di informazione, senza in alcun modo limitare la loro
sovranità; e gli artt. 37 e 53 impongono agli Stati aderenti alla
Comunità solo l'obbligo negativo di non operare in determinate
direttive. L'unica norma che impone effettivamente una limitazione di
sovranità potrebbe essere l'articolo 177 del Trattato che riserva alla
Corte di giustizia delle Comunità europee la competenza esclusiva a
pronunziarsi, in via pregiudiziale, sulla interpretazione del Trattato.
In terzo luogo l'efficacia delle norme del Trattato trova un limite
naturale nella loro compatibilità con i precetti della Costituzione,
per cui non potrebbero trovare applicazione norme del Trattato che
fossero, eventualmente, in contrasto con l'art. 43 della Costituzione.
Comunque l'asserito contrasto non sussisterebbe. Lo Stato italiano
con la legge di nazionalizzazione dell'industria elettrica si è
avvalso del diritto, espressamente previsto dall'art. 222 del Trattato,
di modificare il regime della proprietà in un settore della propria
economia. La legge del 1962, poi, più che contrastare con l'art. 37
del Trattato, rappresenta un primo importante passo ai fini del
riordinamento della situazione di monopolio esistente in Italia nel
settore dell'energia elettrica. E non contrasterebbe neanche con l'art.
53 del Trattato, in quanto la libertà di stabilimento, in esso
prevista, non è assoluta, ma incontra gli stessi limiti posti dalla
legislazione del Paese di stabilimento nei confronti dei propri
cittadini. Infine, lo Stato italiano non era tenuto a comunicare il
progetto di nazionalizzazione alla Commissione della Comunità, non
essendovi motivo di ritenere che esso potesse determinare una
"distorsione" ai sensi dell'art. 101 del Trattato.
Alle stesse conclusioni, sebbene attraverso argomentazioni in parte
diverse, perviene l'Avvocatura dello Stato.
Premesso che l'art. 11 della Costituzione, impegnando lo Stato a
promuovere i mezzi di soluzione pacifica per le controversie
internazionali, sembra da interpretarsi nel senso di un limite posto
alla discrezionalità dello Stato nei rapporti internazionali,
l'Avvocatura sottolinea che il problema di costituzionalità potrebbe
sorgere, se mai, nei confronti di un singolo atto con il quale lo Stato
recepisca nel proprio ordinamento un Trattato internazionale che
importi limitazioni di sovranità, e della sua compatibilità con la
norma costituzionale. Ossia, per rimanere nel caso di specie, il
problema di costituzionalità dovrebbe essere posto, tutt'al più, tra
la legge ordinaria che ha dato esecuzione in Italia al Trattato di Roma
e l'art. 11 della Costituzione. Nel caso in esame, invece, il raffronto
si vorrebbe porre tra la legge istitutiva dell'E.N.E.L. e la legge con
la quale il Trattato di Roma è stato reso esecutivo in Italia:
raffronto questo inammissibile, in quanto la legge di ratifica del
Trattato europeo non ha valore di legge costituzionale e, d'altra
parte, l'art. 11 della Costituzione non ha alcun effetto circa la
costituzionalizzazione delle norme del Trattato stesso.
La dottrina formatasi sul Trattato di Roma di solito escluderebbe
il diretto inserimento delle norme del Trattato nel nostro ordinamento;
ma anche per le norme per le quali si ammette tale inserimento, si
precisa che si tratta di norme non dotate di particolare resistenza
sotto il profilo costituzionale, ossia di norme che possono essere
modificate, derogate o abrogate da successive leggi ordinarie degli
Stati membri.
Pertanto la richiesta di sottoporre la questione alla Corte di
giustizia delle Comunità europee sarebbe da respingere, sia perché
inammissibile e non pertinente ai fini del decidere, sia perché la
Corte costituzionale, non potendo essere inquadrata fra gli organi di
giurisdizione nazionale, non avrebbe veste per sottoporre il caso alla
Corte internazionale.
L'Avvocatura osserva inoltre che le eventuali violazioni degli
impegni assunti con il Trattato di Roma possono essere fatte valere,
dagli organi competenti e nelle forme prescritte, soltanto dagli Stati
a favore dei quali la limitazione di sovranità è avvenuta. Un
interesse del genere non può essere riconosciuto né allo Stato che si
è sottoposto alla limitazione di sovranità, né, tanto meno, ai
sudditi dello Stato stesso. Senza considerare poi, che se si ammettesse
una tale possibilità, se si consentisse ad un organo di uno degli
Stati membri di far valere una eventuale violazione degli accordi
internazionali, sia pure a seguito di interpretazione autentica della
Corte di giustizia, si potrebbe verificare, oltre tutto,
l'inconveniente di pronunzie discordanti dell'uno e dell'altro organo
in ordine ad una singola violazione del Trattato.
Nel merito, poi, l'Avvocatura rileva che i competenti organi della
Comunità europea hanno escluso che la legge istitutiva dell'E.N.E.L.
sia in contrasto con il Trattato della Comunità europea ed in effetti
il lamentato contrasto non esiste per le seguenti ragioni.
Anzitutto l'art. 37 del Trattato sarebbe stato erroneamente citato.
Questo vieta i monopoli nazionali che presentano carattere commerciale
privato, ma non si riferisce ai servizi pubblici essenziali, quali sono
invece la produzione e la distribuzione della energia elettrica. Di
questi servizi si occupa l'art. 90, n. 2, il quale esonera le imprese
dall'applicazione delle norme del Trattato e, in particolare, di quelle
sulla concorrenza, nei limiti in cui ciò sia necessario
all'adempimento della specifica missione affidata alle imprese stesse.
Pertanto l'E.N.E.L. non può considerarsi soggetto, nelle sue attività
istituzionali, alle norme del Trattato di Roma, e, in specie, a quelle
sulla concorrenza.
Di conseguenza l'E.N.E.L. non sarebbe soggetto neanche alla
disposizione dell'art. 53 del Trattato che fa divieto di introdurre
nuove restrizioni alla libertà di stabilimento.
E non esisterebbe neanche violazione dell'art. 102 del Trattato.
Infatti, dal momento che l'E.N.E.L. non è soggetto alle norme del
Trattato, non vi era alcuna necessità di sottoporre alla Commissione
consultiva provvedimenti dai quali potessero, in ipotesi, derivare
distorsioni al regime comunitario della concorrenza. In ogni caso si
tratterebbe di un semplice "onere" di consultazione, che non potrebbe
mai portare ad una violazione delle norme del Trattato. E di un onere,
per di più, da adempiere solo quando sorgesse il dubbio circa la
compatibilità o meno della progettata nazionalizzazione del settore
elettrico con le norme del Trattato. Ma nella specie la piena
compatibilità era fuori dubbio, tanto più se si considera che la
Commissione, che pure era a conoscenza del disegno di legge, non ha
ritenuto di muovere alcuna obiezione.
Le stesse considerazioni possono valere anche, secondo la
Avvocatura, per quanto riguarda gli aiuti concessi dalla legge del 1962
a favore della "Terni". Tali aiuti, dei quali la predetta Commissione
era pure al corrente, non sono vietati, ma anzi compatibili con le
norme del Trattato, in quanto la suddetta Società opera in una zona di
sottoccupazione e gli aiuti in questione sono appunto destinati a
promuovere, in armonia con lo spirito del Trattato, lo sviluppo delle
attività economiche della regione.
In conclusione, la difesa della "Edisonvolta", in via formale, e
l'Avvocatura dello Stato, in via dubitativa, chiedono preliminarmente
che gli atti siano rinviati al Conciliatore per un nuovo esame sulla
rilevanza, ed anche, secondo l'"Edisonvolta", per la trasmissione degli
atti, da parte del Conciliatore, alla Corte di giustizia delle
Comunità europee, in ordine alla questione relativa alla violazione
dell'art. 11 della Costituzione; in ordine alla stessa questione l'avv.
Costa chiede che gli atti siano rimessi da questa Corte alla predetta
Corte di giustizia; nel merito, mentre per l'avv. Costa e per
l'"Edisonvolta" si conclude per la illegittimità della legge
denunziata, per l'E.N.E.L. e per il Presidente del Consiglio dei
Ministri si chiede che sia dichiarata la non fondatezza della
questione.
Considerato in diritto:
1. - In ordine al giudizio di rilevanza è stato osservato che il
Conciliatore non avrebbe considerato che l'attore, promuovendo un
processo che non avrebbe avuto alcuna ragion d'essere, aveva provocato
il nascere di un giudizio di legittimità costituzionale principaliter.
Si è, poi, detto che con l'ordinanza è stata denunziata in blocco la
legge 6 dicembre 1962, mentre occorreva che venissero indicate le
singole disposizioni che si assumevano viziate in riferimento alle
invocate norme costituzionali.
Questi rilievi sono infondati.
Premesso che un giudizio riguardante la legittimità costituzionale
di una legge non sarebbe stato proponibile in via autonoma, il
Conciliatore ha rilevato che l'inefficacia della legge costitutiva
dell'E.N.E.L., conseguente alla sua eventuale illegittimità
costituzionale, avrebbe tolto all'Ente la qualità di vero e legittimo
creditore dell'attore. Perciò il Giudice riteneva necessario, ai fini
della definizione della causa di merito, la risoluzione della questione
di legittimità costituzionale di quella legge, dichiarando che la
questione stessa si deve esaminare solo per motivi che escludono la
legittima costituzione dell'Ente e non per quelli che a tale
costituzione sono estranei.
Questa motivazione è stata criticata nel suo punto centrale, dove
è detto che l'attore ha il diritto di accertarsi che il pagamento sia
effettuato al vero creditore per ottenere efficacia liberatoria. Ma è
da osservare che, anche se fosse vero che o per la natura (e non certo
per l'ammontare) del credito o per qualunque altra ragione il pagamento
fatto all'E.N.E.L. poteva essere liberatorio per l'attore, ciò
atterrebbe al merito del giudizio di rilevanza, la cui sindacabilità
è stata costantemente esclusa in questa sede, quando quel giudizio
esista e sia stato congruamente motivato: cose queste innegabili nella
specie. Vero è che si potrebbe dichiarare inammissibile la causa
incidentale quando la rilevanza sul giudizio di merito apparisse prima
facie insussistente; ma la Corte non crede che questo si verifichi nel
caso attuale.
Quanto alla mancata indicazione dei singoli articoli della legge
denunziata che sarebbero viziati di illegittimità, è da osservare che
tutti i motivi addotti, meno uno, si appuntano contro la legge nella
sua totalità e non contro determinate disposizioni.
Altre conclusioni, sottoposte in sede pregiudiziale, sono quella
dell'attore (nel giudizio a quo), il quale chiede che siano inviati gli
atti alla Corte di giustizia delle Comunità europee per un giudizio
sull'interpretazione del Trattato istitutivo della Comunità economica
europea, e quella della Società "Edisonvolta", la quale conclude per
il rinvio degli atti al Conciliatore perché provveda a rimetterli alla
Corte predetta.
Non è possibile esaminare in sede pregiudiziale queste richieste
senza avere prima vagliato la questione relativa al dedotto contrasto
con l'art. 11 della Costituzione. La Corte pertanto si riserva di
pronunciarsi su queste richieste dopo che avrà esaminato nel merito la
detta questione.
2. - Poiché le opposte difese hanno largamente oltrepassato i
termini delle questioni collegate con l'ordinanza di rimessione, la
Corte premette che, conformemente alla propria costante giurisprudenza,
le questioni saranno esaminate nella configurazione esposta nella
ordinanza senza amplificazioni che porterebbero il giudizio fuori dei
confini in cui esso deve restare.
La prima questione si riferisce alla violazione dell'art. 67 della
Costituzione.
Secondo l'ordinanza, il vizio deriverebbe dal fatto che la legge è
stata approvata da parlamentari i quali avevano dichiarato di dare il
loro voto favorevole soltanto in obbedienza alle direttive del loro
rispettivo partito politico. È da precisare che, come del resto la
difesa dell'attore ha messo esattamente in evidenza, la questione non
è stata posta in riferimento a vizi della volontà dei singoli
votanti. Difatti, l'ordinanza non denunzia l'invalidità delle
deliberazioni delle Camere legislative perché la volontà dei votanti
fosse viziata, ma perché la votazione era stata influenzata da
imposizioni dei partiti in dispregio della norma costituzionale che
proclama la libertà dell'eletto e pone il divieto del mandato
imperativo.
Ora, la Corte osserva che proprio da questa corretta impostazione
dell'ordinanza si trae la prova dell'infondatezza della questione.
L'art. 67 della Costituzione, collocato fra le norme che attengono
all'ordinamento delle Camere e non fra quelle che disciplinano la
formazione delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità
delle deliberazioni; ma è rivolto ad assicurare la libertà dei membri
del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il
parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito
ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe
legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del
parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del
partito.
Da quanto premesso appare chiaro che la discussione circa i
rapporti fra parlamentari e partiti, che si è svolta nel presente
giudizio, non ha rilevanza ai fini della questione proposta. La quale
deve essere risolta nel senso che nel caso in esame non sussiste
violazione dell'art. 67.
3. - L'avvertenza fatta a principio sulla necessità di attenersi
all'ordinanza di rimessione vale in particolar modo per le questioni
relative all'art. 43 della Costituzione.
Circa i diversi presupposti di legittimità per l'applicazione
dell'art. 43, le parti hanno esaminato e discusso in vario senso i
punti seguenti: se le imprese elettriche trasferite in mano pubblica si
riferiscano a servizi pubblici essenziali e a fonti di energia o a
situazioni di monopolio; se abbiano carattere di preminente interesse
generale; se la riserva e il trasferimento debbano essere compiuti con
legge formale; se l'indennizzo risponda alle previsioni della norma
costituzionale. Ma tutte le accennate questioni sono fuori
dell'ordinanza, la quale propone una sola indagine: quella relativa
all'esistenza dei fini di utilità generale. E unicamente questo è il
punto che la Corte deve prendere in esame.
Nell'ordinanza si afferma che i fini di utilità generale non
esisterebbero: essi, che non sono indicati nella legge, sarebbero
esclusi dal contenuto della relazione di maggioranza al disegno di
legge e sarebbero contraddetti nel seno dello stesso testo legislativo
per il fatto che la legge esenta un numero di imprese di gran lunga
superiore a quello delle imprese espropriate.
Prima di esaminare questi rilievi e gli altri che sono stati
esposti sulla questione, è uopo premettere che è stato ammesso
concordemente che spetta alla Corte il sindacato di legittimità
sull'esistenza dei fini di utilità generale. Non è il caso, quindi,
di spendere parole su questo punto, anche perché esso trova due
precedenti nelle sentenze della Corte n. 11 del 15 marzo 1960 e n. 59
del 6 luglio dello stesso anno.
Per potere affermare che la legge denunziata non risponda a fini di
utilità generale ai sensi dell'art. 43 della Costituzione,
bisognerebbe che risultasse: che l'organo legislativo non abbia
compiuto un apprezzamento di tali fini e dei mezzi per raggiungerli o
che questo apprezzamento sia stato inficiato da criteri illogici,
arbitrari o contraddittori ovvero che l'apprezzamento stesso si
manifesti in palese contrasto con i presupposti di fatto. Ci sarebbe
anche vizio di legittimità se si accertasse che la legge abbia
predisposto mezzi assolutamente inidonei o contrastanti con lo scopo
che essa doveva conseguire ovvero se risultasse che gli organi
legislativi si siano serviti della legge per realizzare una finalità
diversa da quella di utilità generale che la norma costituzionale
addita.
Innanzi tutto, è da osservare che non risponde alla realtà dei
fatti il dire che il legislatore non abbia compiuto un apprezzamento:
basterebbe ricordare la vivacità delle discussioni in Parlamento, per
escludere che la legge sia venuta fuori senza che il relativo disegno
sia stato sottoposto al vaglio di una scelta e senza che le ragioni pro
e contro siano state dibattute.
L'ordinanza parrebbe richiedere che la legge dovesse contenere una
motivazione in ordine all'utilità generale. Ora, di norma, non è
necessario che l'atto legislativo sia motivato, recando la legge in
sé, nel sistema che costituisce, nel contenuto e nel carattere dei
suoi comandi, la giustificazione e le ragioni della propria apparizione
nel mondo del diritto. Nel caso in esame, poi, la legge del 1962 mostra
chiaramente gli intendimenti e gli scopi, ai quali vuole rispondere, e
i mezzi che vuole adoperare.
L'art. 1 enuncia che, ai fini di utilità generale, l'E.N.E.L.
provvederà alla utilizzazione coordinata ed al potenziamento degli
impianti, allo scopo di assicurare con minimi costi di gestione una
disponibilità di energia elettrica adeguata per quantità e prezzo
alle esigenze di un equilibrato sviluppo economico del Paese. Le altre
norme della stessa legge e quelle adottate con i successivi decreti
legislativi hanno tenuto presenti queste esigenze di sviluppo, di
coordinamento, di equilibrio.
Non è, poi, esatto che un segno di contraddittorietà sarebbe dato
dalla stessa legge per il fatto che essa ha escluso dal trasferimento
un numero di imprese di gran lunga superiore a quello delle imprese
espropriate.
Questo argomento sarebbe stato valido se si fosse potuto accertare
che tali esclusioni avevano l'effetto di rendere impossibile il
conseguimento dei fini di utilità generale. Ma questo accertamento non
trova sufficiente base negli atti.
Né si può dire che, astenendosi dal disporre il trasferimento di
tutte le imprese, la legge abbia contraddetto se stessa, giacché la
nazionalizzazione poteva utilmente effettuarsi mediante l'assorbimento
delle imprese maggiori e l'inserimento in un sistema generale delle
imprese minori e di quelle che hanno speciale struttura o destinazione.
Non può dirsi, quindi, che questo criterio - insindacabile sotto
l'aspetto della legittimità - sia in contraddizione con gli scopi
della legge.
La Corte ha esaminato i dati e le Osservazioni critiche, che le
difese del Costa e dell'"Edisonvolta" hanno esposto ai fini di una
ricerca tendente ad accertare l'efficienza delle imprese elettriche
prima della nazionalizzazione, la necessità di una riforma più o meno
radicale del settore, i mezzi da adoperarsi per tale riforma, i
risultati che da essa potevano attendersi. Ma l'esame non ha rivelato
un contrasto palese delle decisioni adottate dal legislatore con i
fatti e con le esigenze da considerare, né ha messo in luce che i
criteri sui quali quella decisione era fondata fossero illogici o
arbitrari.
La verità è che il legislatore ha fatto una scelta di fini e di
mezzi, rispetto a cui il controllo di legittimità deve arrestarsi
entro i limiti al di là dei quali il controllo stesso costituirebbe
una inammissibile ingerenza nella sfera di discrezionalità politica
spettante all'organo legislativo. Tale sarebbe la pretesa di accertare
se fosse stata preferibile la "irizzazione" delle imprese o altra forma
di coordinamento o se l'E.N.E.L. si dovesse organizzare in questo o in
quell'altro modo o se il sistema tariffario sia da considerarsi
regolato meglio prima che dopo la legge di nazionalizzazione o se le
esigenze degli utenti risultino tutelate più adeguatamente prima che
dopo tale legge, e così via.
La legge si è prefisso lo scopo di conseguire una migliore
soddisfazione degli interessi della collettività in un settore
economico di particolare rilievo. In questa soddisfazione degli
interessi della collettività sta l'utilità generale. E se codesta
utilità deve corrispondere al bene della collettività, considerata
non come somma di individui e di gruppi, ma come complesso unitario, il
fatto che la legge abbia imposto il sacrificio di particolari interessi
non comporta che l'utilità generale sia venuta a mancare.
La identificazione degli interessi da soddisfare e dei mezzi da
adoperare e dei sacrifici da imporre, ai fini dell'utilità generale,
spetta al Parlamento, alla cui sensibilità è affidato il compito di
determinare nei vari momenti della vita della collettività quali siano
le esigenze ed i mezzi nel quadro e nei limiti dei precetti
costituzionali.
Le leggi, al pari di ogni altra attività del Parlamento, non
mancano di movente politico; ed è naturale che una legge, come quella
in esame, fosse permeata in modo ancora più vigoroso di impulsi
politici. Ma ciò non significa che tali impulsi abbiano soverchiato e
travolto quei fini di utilità generale che il Parlamento, assumendone
la responsabilità di fronte alla Nazione, si è proposto di
raggiungere con l'approvazione della legge.
4. - Circa la denunziata violazione dell'art. 4 in relazione
all'art. 41 della Costituzione, basta notare che se la legge, con la
quale si è stabilita la riserva per un certo settore, non è viziata,
è ovvio che in quel settore la libertà di scelta è legittimamente
limitata, come è legittima la limitazione della libertà di iniziativa
economica nel settore stesso.
5. - Per quanto attiene alla violazione dell'art. 3 della
Costituzione, è da rilevare la innegabile diversità fra le imprese da
trasferire e quelle esentate: diversità di ampiezza, di capitali
investiti, di persone impiegate, di utenti serviti. Date queste
differenze, la esclusione dal trasferimento non appare priva di
giustificazione logica.
Un'altra violazione dell'art. 3 è stata denunziata dalla difesa
dell'attore: la ingiustificata disparità di trattamento, ai fini
dell'indennizzo, fra certe categorie di imprese e certe altre.
Ma di questa deduzione la Corte non deve tener conto, essendo essa
assolutamente fuori dell'ordinanza di rimessione.
6. - Resta da esaminare la questione della incostituzionalità
della legge istitutiva dell'E.N.E.L. sotto l'aspetto del suo contrasto
con l'art. 11 della Costituzione.
L'art. 11 viene qui in considerazione per la parte nella quale si
enuncia che l'Italia consente, in condizioni di parità con gli altri
Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e promuove e favorisce
le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
La norma significa che, quando ricorrano certi presupposti, è
possibile stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della
sovranità ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinana; ma
ciò non importa alcuna deviazione dalle regole vigenti in ordine alla
efficacia nel diritto interno degli obblighi assunti dallo Stato nei
rapporti con gli altri Stati, non avendo l'art. 11 conferito alla legge
ordinaria, che rende esecutivo il trattato, un'efficacia superiore a
quella propria di tale fonte di diritto.
Né si può accogliere la tesi secondo cui la legge che contenga
disposizioni difformi da quei patti sarebbe incostituzionale per
violazione indiretta dell'art. 11 attraverso il contrasto con la legge
esecutiva del trattato.
Il fenomeno del contrasto con una norma costituzionale attraverso
la violazione di una legge ordinaria non è singolare. Spesso la Corte
ha dichiarato illegittime le norme dei decreti legislativi per non
aderenza con la legge di delegazione, trovando la causa
dell'illegittimità nella violazione dell'art. 76 della Costituzione.
Ma rispetto a quella parte dell'art. 11 in cui è contenuta la
norma presa in esame ai fini di questa causa, la situazione è diversa.
L'art. 76 pone delle regole circa l'esercizio della funzione
legislativa delegata, e per questo la non conformità ai principi della
legge-delega importa violazione dell'art. 76. L'art. 11, invece,
considerato nel senso già detto di norma permissiva, non attribuisce
un particolare valore, nei confronti delle altre leggi, a quella
esecutiva del trattato.
Non vale, infine, l'altro argomento secondo cui lo Stato, una volta
che abbia fatto adesione a limitazioni della propria sovranità, ove
volesse riprendere la sua libertà d'azione, non potrebbe evitare che
la legge, con cui tale atteggiamento si concreta, incorra nel vizio di
incostituzionalità. Contro tale tesi stanno le considerazioni ora
esposte, le quali conducono a ritenere che la violazione del trattato,
se importa responsabilità dello Stato sul piano internazionale, non
toglie alla legge con esso in contrasto la sua piena efficacia.
Nessun dubbio che lo Stato debba fare onore agli impegni assunti e
nessun dubbio che il trattato spieghi l'efficacia ad esso conferita
dalla legge di esecuzione. Ma poiché deve rimanere saldo l'impero
delle leggi posteriori a quest'ultima, secondo i principi della
successione delle leggi nel tempo, ne consegue che ogni ipotesi di
conflitto fra l'una e le altre non può dar luogo a questioni di
costituzionalità.
Da tutto quanto precede si trae la conclusione che, ai fini del
decidere, non giova occuparsi del carattere della Comunità economica
europea e delle conseguenze che derivano dalla legge di esecuzione del
Trattato istitutivo di essa, né occorre indagare se con la legge
denunziata siano stati violati gli obblighi assunti con il Trattato
predetto. Con che resta anche assorbita la questione circa la
rimessione degli atti alla Corte di Giustizia delle Comunità europee e
circa la competenza a disporre tale rinvio;