Ritenuto in fatto:
1. - Nel corso di un procedimento penale davanti al Pretore di
Ferrara la difesa degli imputati sollevò la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 1, 2, 3, 5 e 8 della legge 14 luglio 1959,
n. 741, recante "norme transitorie per garantire minimi di trattamento
economico e normativo ai lavoratori", asserendo che fossero in
contrasto con le norme contenute negli att. 76, 39 e 3 della
Costituzione. Il Pretore ritenne la questione rilevante e non
manifestamente infondata e in conseguenza, con l'ordinanza 12 luglio
1961, sospese il giudizio e rinviò gli atti a questa Corte.
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale 20 gennaio 1962, n. 18.
2. - Degli articoli impugnati, l'art. 1 delega il Governo a emanare
norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi
"inderogabili di trattamento economico e normativo" nei confronti di
tutti gli appartenenti a una medesima categoria, con l'obbligo di
"uniformarsi", nell'esercizio della delega, a "tutte le clausole dei
singoli accordi economici e contratti collettivi ... stipulati dalle
associazioni sindacali anteriormente alla data di entrata in vigore
della ... legge". L'art. 2 specifica che le norme da emanare devono
riguardare tutte le categorie per le quali risultano stipulati accordi
economici e contratti collettivi "per la disciplina dei rapporti di
lavoro, dei rapporti di associazione agraria, di affitto a coltivatori
diretti e dei rapporti di collaborazione che si concretino in
prestazioni d'opera continuativa e coordinata". L'art. 3 precisa che
gli accordi e i contratti ai quali il Governo deve uniformarsi, sono
quelli "preventivamente depositati a cura di una delle associazioni
stipulanti presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale
che ne accerta l'autenticità". L'art. 5 dispone che le norme delegate
non possono essere in contrasto con norme imperative di legge. L'art.
8, infine, prevede a carico del datore di lavoro che non adempia gli
obblighi derivanti dalle norme delegate, un'ammenda da lire 5.000 a
lire 100.000 per ogni lavoratore al quale si riferisce la violazione.
3. - I motivi per i quali le norme ora ricordate sarebbero in
contrasto con la Costituzione, sono i seguenti:
1) gli artt. 1, 2 e 3 non conterrebbero i principi e i criteri
direttivi richiesti dall'art. 76 per una legittima delegazione di
potestà legislativa;
2) gli artt. 1 e 5 priverebbero il Governo, nell'esercizio della
delegazione, di ogni potere discrezionale;
3) la legge conferirebbe efficacia legislativa a contratti col
lettivi stipulati da sindacati privi dello status richiesto dall'art.
39 della Costituzione e, in conseguenza, violerebbe la libertà
sindacale, dato che sottrarrebbe ai sindacati, o a taluni sindacati, il
potere di stipulare contratti collettivi aventi efficacia per i
rispettivi aderenti e, insieme, priverebbe questo o quel sindacato di
concorrere alla stipulazione di contratti collettivi, nell'ipotesi che
il Governo si uniformi, nell'esercizio del potere di delega, agli
accordi stipulati soltanto da una o da alcune associazioni sindacali;
4) l'art. 8, prevedendo, in caso di inadempienza, sanzioni penali
soltanto per una delle parti contraenti, violerebbe il principio
dell'eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione.
4. - Nel presente giudizio si è costituito l'ing. Lorenzo Bruzzo,
rappresentato e difeso dagli avvocati Andrea d'Andrea, Gian Maria
Zignoni e Francesco Porreca. Le deduzioni sono state depositate il 31
luglio 1961.
Secondo la difesa dell'ing. Bruzzo, la legge impugnata violerebbe,
in primo luogo, l'art. 39, quarto comma, della Costituzione, giusta il
quale soltanto i contratti collettivi stipulati dai sindacati
registrati, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro
iscritti, possono conseguire efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce.
Codesta illegittimità non potrebbe essere superata con l'affermazione
che la fonte regolatrice dei rapporti di lavoro sia la legge delegata,
non già il contratto collettivo, giacché nella sostanza la volontà
che determina il regolamento di quei rapporti è quella dei singoli
sindacati non registrati. Il che è confermato dalle norme della legge
le quali:
a) impongono al Governo di uniformarsi a tutte le clausole dei
contratti collettivi (art. 1);
b) rendono l'emanazione delle norme non già una mera facoltà, ma
un obbligo del Governo, che diventa attuale in conseguenza del semplice
deposito del contratto collettivo da parte di uno dei sindacati
stipulanti, violandosi così anche l'art. 71 della Costituzione che
regola il potere di iniziativa delle leggi (artt. 2 e 3);
c) stabiliscono che le norme della legge delegata non potranno
essere in contrasto con norme imperative di legge (art. 5), conferendo
così alla clausola contrattuale una posizione prevalente e assorbente
rispetto alla norma.
- Né l'illegittimità costituzionale potrebbe essere sanata
facendo richiamo all'art. 36 della Costituzione, giusta il quale "il
lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e
alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a
sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa", perché questa
norma si riferirebbe esclusivamente alla retribuzione, laddove la legge
ha reso possibile l'estensione obbligatoria erga omnes di tutte le
clausole dei contratti collettivi, senza dire che la norma dell'art. 36
sarebbe una norma programmatica che il legislatore deve di volta in
volta attuare con un atto legislativo vero e proprio, valutando
autonomamente le ragioni che ne giustificano l'emanazione ed
assumendone la diretta responsabilità politica.
L'art. 36, prosegue la difesa, non può autorizzare un'elusione
dell'art. 39, che è l'articolo il quale regola, "direttamente ed
esplicitamente", la materia dei contratti collettivi di lavoro, i modi
della loro stipulazione e la loro efficacia.
5. - In secondo luogo, la legge in esame violerebbe il principio
della libertà sindacale (art. 39, primo comma, della Costituzione) che
comporta necessariamente "il potere contrattuale" dei sindacati: il
potere, cioè, di stipulare contratti collettivi a nome e per conto
degli associati. La legge, infatti, rendendo possibile che un contratto
collettivo stipulato da un singolo sindacato acquisti efficacia erga
omnes, toglie a tutti gli altri contratti collettivi ogni efficacia,
anche quella, cioè, nei confronti degli associati al sindacato
stipulante.
6. - In terzo luogo, la legge violerebbe il terzo comma dell'art.
39 anche in relazione all'art. 3 della Costituzione. Infatti, il
congegno costituzionale assicura a tutti i sindacati di partecipare, in
proporzione al numero dei propri iscritti, alla contrattazione
collettiva, ponendoli tutti in posizione di eguaglianza. È evidente
che il principio di eguaglianza viene violato quando si conferisca
efficacia erga omnes a un contratto collettivo non formato col concorso
di tutti i sindacati.
7. - In quarto luogo la legge violerebbe l'art. 76 della
Costituzione perché non determinerebbe i principi e i criteri
direttivi ai quali il legislatore delegato deve attenersi, non
potendosi ravvisare tale determinazione come implicita nel rinvio ai
contratti collettivi. La norma costituzionale, a detta della difesa,
imporrebbe che codesta determinazione sia contestuale alla delega e che
la legge di delega ne sia la fonte immediata e diretta. Di più,
l'indeterminatezza della delega, e di conseguenza la violazione
dell'art. 76 della Costituzione, risulterebbe anche dal fatto che non
è dato alcun criterio per stabilire a quale contratto collettivo,
nell'ipotesi di più contratti collettivi stipulati per la medesima
categoria, debba darsi la preferenza: nemmeno quello di un minimo di
rappresentatività, in contrasto con lo spirito dell'art. 39 e con gli
artt. 2 e 3 della Costituzione. Aggiunge la difesa che il fatto che sia
stato affidato ai sindacati l'impulso per "porre in essere il
potere-dovere del Governo di rendere obbligatori erga omnes i contratti
collettivi" violerebbe l'art. 71 della Costituzione e che il fatto che
l'efficacia delle norme delegate rimane subordinata alla validità
delle clausole del contratto collettivo ai sensi dell'art. 5 della
legge, sarebbe incompatibile con la natura della legge e col principio
dell'art. 77 della Costituzione, dal quale risulta che i decreti
emanati in forza di delega hanno valore di legge ordinaria.
8. - In quinto e ultimo luogo, l'art. 8 della legge, comminando
sanzioni penali soltanto per l'inadempienza ai patti da parte del
datore di lavoro e non già del lavoratore, violerebbe l'art. 3 della
Costituzione. Non nega la difesa che il legislatore possa valutare
diversamente, ai fini della gravità della pena da erogare, il fatto
commesso dal datore di lavoro; nega, invece, che il legislatore possa
assumere un diverso atteggiamento di fronte a fatti qualitativamente
eguali e aggiunge che l'art. 8 sfuggirebbe alla censura di
incostituzionalità soltanto se venisse interpretato nel senso che esso
contempli unicamente gli obblighi specifici del datore di lavoro, come
l'osservanza del minimo di retribuzione, non già gli altri che sono
suoi come del lavoratore, quale, ad esempio, l'osservanza del preavviso
nel caso di recesso unilaterale.
9. - Si è costituito in giudizio anche l'altro imputato, l'ing.
Cesare Bock, rappresentato e difeso dagli avvocati Riccardo Artelli e
Francesco Porreca, depositando l'11 luglio 1961 deduzioni identiche a
quelle ora riferite dell'ing. Bruzzo.
10 - Si è costituito anche il sig. Mario Massari, parte civile nel
giudizio a quo, rappresentato e difeso dall'avvocato Massimo Severo
Giannini, mediante deposito delle deduzioni il 23 luglio 1961.
La difesa del sig. Massari eccepisce preliminarmente che le norme
rilevanti nel giudizio a quo sarebbero non già quelle contenute
nell'articolo citato della legge di delegazione, ma quelle contenute
nell'art. 1 della legge delegata 28 agosto 1960, n. 1360, che
conferisce efficacia normativa al contratto collettivo 16 settembre
1958 per gli addetti all'industria saccarifera, e negli artt. 10 e 11
di questo stesso contratto collettivo, norme rispetto alle quali
l'ordinanza di rimessione non solleverebbe alcuna questione di
costituzionalità. Si verrebbe così a creare una situazione, dice la
difesa, "alquanto confusa per l'incompletezza della fattispecie
normativa ... portata al giudizio della Corte", stante il principio
secondo il quale i limiti della cognizione della Corte costituzionale,
nel giudizio incidentale di costituzionalità, sono segnati
dall'ordinanza di rimessione. La difesa su questo punto, peraltro,
conclude rimettendosi "a quanto vorrà la Corte ritenere".
11. - Nel merito, la difesa del Massari sostiene che l'ordinanza
sottoporrebbe alla Corte questioni già sollevate in relazione al
disegno di legge, ma non più significative oggi che la legge è stata
approvata in forma sostanzialmente diversa da quella del disegno.
Così non sarebbero fondate le censure mosse alla legge ex art. 76
della Costituzione, in quanto la legge delegata conferisce la delega
per un periodo di tempo limitato su un oggetto definito (il minimo di
trattamento economico e normativo per tutti i lavoratori) e con
principi e criteri direttivi (obbligo del Governo di uniformarsi a
tutte le clausole contenute nei contratti, di riferirsi anche ai
contratti e accordi intercategoriali, di assumere contratti stipulati
prima dell'entrata in vigore della legge, di esercitare la delega per
tutte le categorie per le quali risultino stipulati accordi e contratti
collettivi che abbiano un certo oggetto, di ispirarsi nella scelta al
fine di assicurare i minimi inderogabili di trattamento economico e
normativo). Né sarebbe esatto che la violazione dell'art. 76 si
avrebbe per il fatto che al legislatore delegato sia negato l'esercizio
di qualsiasi discrezionalità. Un giudizio di opportunità, che si
concreta in un potere di scelta tra più soluzioni possibili, si
avrebbe almeno in due ipotesi: a) quando esista per una stessa
categoria di lavoratori una pluralità di contratti col lettivi e di
accordi economici; b) quando si debba espungere da un contratto
collettivo o da un accordo economico una clausola che si ritenga in
contrasto con norme imperative di legge (art. 5).
12. - Non avrebbero nemmeno fondamento le censure mosse alla legge
ex art. 39 della Costituzione. Sostiene, infatti, la difesa del
Massari che quelle censure riposano tutte sull'errato concetto che la
legge impugnata sia la legge sindacale prevista dall'art. 39 della
Costituzione. La legge in esame, viceversa, vuole assicurare soltanto
un minimo inderogabile di trattamento economico e normativo ai
lavoratori delle varie categorie. I contratti collettivi e gli accordi
economici avrebbero, pertanto, nel sistema della legge, un valore
meramente strumentale. L'articolo della Costituzione nel quale si
iscrive la legge non è l'art. 39, bensì l'art. 36.
13. - Infine, non sarebbe fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 8 della legge; con la norma contenuta in
questo articolo il legislatore ha voluto tutelare la parte del rapporto
che si trova in posizione di particolare debolezza e proprio in omaggio
a un principio di giustizia distributiva.
14. - Si è costituito, altresì, mediante deposito delle deduzioni
il 23 agosto 1961, il sig. Fedoro Greghi, rappresentato e difeso dagli
avvocati Vincenzo Cavallari e Filippo Baraldi.
La difesa del Greghi sostiene che la legge non viola le norme che
regolano la delegazione legislativa, né sotto il profilo dei criteri e
dei principi direttivi, né sotto l'altro della discrezionalità del
legislatore delegato. Sostiene, inoltre, l'infondatezza delle censure
mosse alla legge sulla base dell'art. 39 della Costituzione:
1) perché la legge non ha voluto attuare questo art. 39, ma
stabilire transitoriamente trattamenti normativi ed economici in favore
dei lavoratori e in applicazione dell'art. 36;
2) perché i sindacati non sono stati privati del potere di
stipulare contratti collettivi con efficacia generale, perché essi di
tale potere sono privi fino a quando la norma dell'art. 39 della
Costituzione non sarà stata attuata;
3) perché nessuna disparità di trattamento è stata fatta ai
sindacati, in quanto il Governo si è impegnato, ed ha mantenuto
l'impegno, di non esercitare la delega in casi di pluralità di
contratti.
Non può dirsi, infine, violato il principio di eguaglianza in
relazione all'art. 8 della legge, essendo ovvio che una legge la quale
mira a tutelare i lavoratori, non avrebbe potuto introdurre "ipotesi di
punibilità penale a carico della parte protetta".
15. - Argomentazioni identiche o analoghe esibisce il sig. Renzo
Dallamagnana, rappresentato e difeso dall'avvocato Aurelio Becca, che
ha depositato le sue deduzioni il 23 agosto 1961.
16. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.
L'atto di intervento è stato depositato il 2 ottobre 1961.
L'Avvocatura sostiene che le censure mosse alla legge ex art. 76
della Costituzione sono infondate perché il legislatore delegato deve
osservare quanto meno due criteri direttivi: dettare norme uniformi
alle clausole dei contratti collettivi; escludere dalla ricezione le
clausole che porrebbero le norme di legge delegata in contrasto con
disposizioni di legge imperative.
In secondo luogo, il legislatore delegato non sarebbe privo di un
certo potere discrezionale, in quanto anche la relatio a un testo
preformato consente, quanto meno, di non esercitare la delega e di
risolvere le incertezze che possano sorgere nella sua attuazione, senza
dire che sarebbe pacifica la possibilità di una delegazione con
riferimento a un testo già precostituito ed altrettanto pacifico che
il legislatore delegato, nell'esercizio del suo potere, non incontri
altri limiti se non quelli del legislatore ordinario.
Quanto ai rilievi formulati contro la legge in relazione all'art.
39 della Costituzione, l'Avvocatura sostiene, in primo luogo, che le
leggi delegate non conferirebbero efficacia alle clausole di un
contratto collettivo, ma detterebbero un trattamento minimo salariale e
normativo utilizzando queste clausole sciolte così dal nesso che
allevano col potere autonomo del sindacato; in secondo luogo, che non
esisterebbe l'ipotesi di una scelta del contratto collettivo da
recepire, né il divieto di stipulare nuovi contratti, che
incontrerebbero l'unico limite nel rispetto del trattamento minimo
assicurato ai lavoratori dalla legge.
Aggiunge l'Avvocatura che, anche se si potesse ritenere stabilita
dall'art. 39 della Costituzione una riserva normativa in favore dei
sindacati, questa potrebbe divenire operante soltanto quando saranno
costituiti i soggetti dell'autonomia collettiva sindacale con efficacia
generale. Il che significa che codesta autonomia non potrà essere
esercitata fino a quando non esisteranno sindacati registrati.
Infine, l'art. 3 della Costituzione non sarebbe stato violato
dall'art. 8 della legge, perché sarebbe ovvio che la legge, la quale
stabilisce un minimo di trattamento in favore dei lavoratori, può
essere violata soltanto da chi si sottragga all'obbligo di
corrisponderlo.
17. - Hanno depositato deduzioni in cancelleria il 12 settembre
1961 la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (C.I.S.L.) e la
Federazione Italiana dei Liberi Lavoratori dello Zucchero e dell'Alcool
(F.I.L.L.Z.A.), rappresentate e difese dagli avvocati Francesco Santoro
Passarelli e Benedetto Bussi.
La difesa delle associazioni sindacali ora nominate sostiene che
non potrebbe essere negata l'ammissibilità dell'intervento dei
sindacati nel giudizio intorno a una legge che ha "a suo presupposto e
a matrice necessaria" un contratto collettivo, cioè uno strumento
"posto in essere dai sindacati per la realizzazione dell'interesse
collettivo professionale". Vero è che la legge in esame tutela un
interesse pubblico, quello di assicurare un trattamento minimo a tutti
i lavoratori appartenenti alle diverse categorie professionali, ma è
vero anche che tale minimo la legge desume dai contratti collettivi
esistenti: sicché dovrebbe essere consentito ai sindacati,
segnatamente a quelli che stipularono i contratti collettivi, di far
valere nel giudizio di costituzionalità la propria valutazione delle
conseguenze che derivano dalla legge all'interesse collettivo di
settori rappresentati non dallo Stato, ma dai sindacati. Le stesse
ragioni, insomma, che spiegano come la valutazione dell'interesse
pubblico nel giudizio è affidata alla Presidenza del Consiglio dei
Ministri, giustificano che quella dell'interesse collettivo implicato
nello speciale procedimento previsto dalla legge di delega sia affidata
all'organizzazione sindacale libera.
18. - La difesa dell'ing. Bruzzo ha depositato una memoria il 18 di
questo mese, nella quale, in primo luogo, si oppone alla domanda di
intervento delle sopra ricordate associazioni sindacali. L'intervento
del Presidente del Consiglio, al quale è stato fatto riferimento per
giustificare codesta domanda, è previsto dalla legge e ha carattere
obiettivo e autonomo rispetto all'interesse direttamente coinvolto
nella causa. Nessun parallelo perciò si può stabilire, a detta della
difesa, con l'intervento di associazioni o categorie sotto specie del
loro particolare collegamento con l'interesse tutelato dalla legge.
19. - In secondo luogo, la difesa dell'ing. Bruzzo respinge
l'eccezione di inammissibilità della questione di costituzionalità
della legge di delegazione, essendo evidente che un'eventuale
dichiarazione di illegittimità di questa si ripercuoterebbe, per un
rapporto di mera conseguenzialità, sulla legge delegata.
20. - Nel merito, la difesa sostiene che ho stesso iter di
formazione della legge mostrerebbe come l'originaria
incostituzionalità del disegno di legge sia stata superata soltanto
formalisticamente; insiste sulla mancanza di principi e criteri
direttivi e sulla inconcepibilità di una delega che non lasci alcun
margine alla libera determinazione del legislatore delegato; respinge
l'accusa di contraddittorietà di queste due censure, sottolineando che
esse, in definitiva, costituiscono aspetti di un medesimo vizio
sostanziale, la mancanza di criteri direttivi essendo conseguenza
necessaria della funzione affidata al legislatore delegato, che è
quella, in sostanza, di procedere alla registrazione dei contratti
collettivi e degli accordi economici. Al Governo non sarebbe stata
delegata la funzione legislativa né in senso formale né in senso
materiale, stante che verrebbe riconosciuta ai contratti collettivi
efficacia nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria, non
già forza vincolante di legge.
Ribadisce, poi, la tesi dell'incostituzionalità ex art. 39,
respingendo l'altra, che dichiara formalistica, che la legge avrebbe
come fine di garantire un trattamento minimo economico e normativo e
che l'estensione erga omnes dell'efficacia dei contratti collettivi
sarebbe soltanto un mezzo per raggiungere codesti fini. Nega che le
censure mosse alla legge possano essere ricondotte sotto la figura
dell'eccesso di potere legislativo, stante che, viceversa, esse
configurerebbero una precisa violazione di precetti costituzionali;
ritiene, comunque, che, anche se si trattasse di eccesso di potere, le
censure dovrebbero essere accolte e l'incostituzionalità dichiarata,
conformemente alla giurisprudenza di questa Corte.
- 21. - La difesa del sig. Fedoro Greghi ha depositato il 18
ottobre una memoria nella quale sono ribadite e svolte le tesi già
prospettate nelle deduzioni. La difesa insiste sul fatto che la legge
conterrebbe principi e criteri direttivi nella norma che impone al
legislatore delegato di uniformarsi alle clausole dei contratti ad
eccezione di quelle che contrastano con norme imperative di legge; che
un margine di attività non vincolante sarebbe assicurato al Governo
che deve procedere a una serie di giudizi accertativi e valutativi
relativamente all'autenticità e alla regolarità formale delle
contrattazioni collettive e relativamente all'esistenza o meno del
contrasto tra le singole clausole e le norme di legge imperative; e che
deve procedere a una scelta nell'ipotesi dell'esistenza di più
contratti collettivi per una medesima categoria.
L'infondatezza, poi, delle censure mosse alla legge ex art. 39
risulterebbe, in primo luogo, dal carattere stesso di legge transitoria
che è della legge impugnata, e dal fatto che essa non attribuisce
efficacia erga omnes ai contratti collettivi, ma utilizza i risultati
della contrattazione collettiva passata per raggiungere i fini
assegnati dal legislatore delegante e ciò senza violare la libertà
sindacale, perché i sindacati non possono essere stati privati di un
diritto - quello di concorrere alla stipulazione di contratti
collettivi con efficacia obbligatoria generale - che ad essi non
compete nell'attuale loro posizione giuridica.
22. - In una memoria depositata il 18 ottobre l'Avvocatura dello
Stato, chiariti i fini della legge e sottolineati i benefici che essa
avrebbe assicurato, respinge ancora una volta la tesi della violazione
o della elusione dell'art. 39 della Costituzione. La legge, a suo
avviso, avrebbe assicurato "un trattamento minimo cristallizzato" a
favore di tutti i lavoratori e avrebbe a oggetto l'interesse generale
dello Stato a che esistano queste garanzie minime inderogabili; laddove
i contratti collettivi avrebbero lo scopo di determinare un trattamento
contrattuale temporaneo e a oggetto "la volontà dei sindacati di
disciplinare l'interesse collettivo di categoria". Ripete che la legge
non conferisce efficacia ai contratti collettivi, ma ne utilizza le
clausole ai suoi fini, né viola la libertà sindacale che potrà
essere esercitata col solo rispetto dei minimi garantiti dalla legge.
Ribadisce la tesi dell'esistenza di principi e criteri direttivi,
nonché di un potere discrezionale del Governo nell'esercizio della
delega, e riconferma l'altra della legittimità della norma contenuta
nell'art. 8 della legge impugnata.
23. - Con l'ordinanza 24 novembre 1961, il Pretore di Pisciotta,
ritenuta non manifestamente infondata la questione, sollevata dalla
difesa dell'imputato sig. Giovanni Mautone, sulla legittimità
costituzionale dell'intera legge 14 luglio 1959, n. 741, ha sospeso il
giudizio e inviato gli atti a questa Corte. L'ordinanza è stata
ritualmente notificata e comunicata e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n. 18 del 20 gennaio 1962.
La parte privata non si è costituita.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. L'atto di
intervento è stato depositato il 23 dicembre 1961.
L'Avvocatura respinge le censure, articolate in dieci punti, che la
difesa del Mautone enunciò nel sollevare la questione di legittimità
costituzionale della legge davanti al Pretore e che danno luogo a
questioni di costituzionalità analoghe a quelle prospettate nel
giudizio promosso dal Pretore di Ferrara: mancanza, cioè, di principi
direttivi; in più del termine di tempo per l'esercizio della delega;
introduzione, con l'art. 5, di una fonte normativa sui generis, una
delegazione legislativa, cioè, fornita di minore efficacia
dell'ordinaria in quanto non conferisce il potere di modificare norme
di legge imperative preesistenti; violazione contrattuale della
disciplina dei rapporti di lavoro, stabilita dall'art. 39 della
Costituzione; violazione, con l'art. 8, dell'art. 3 della Costituzione
per il quale tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge.
24. - Il Pretore di Salerno ha ritenuto rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale,
sollevata nel corso di un procedimento civile vertente tra la signora
Rita Cappelli e l'impresa Alfredo Caiafa, della legge 14 luglio 1959,
n. 741, e della successiva legge di proroga lo ottobre 1960, n. 1027.
L'ordinanza, emessa il 14 dicembre 1961, è stata ritualmente
notificata e comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 51 del
24 febbraio 1962.
Secondo l'ordinanza i vizi di costituzionalità della legge
deriverebbero:
1) dal fatto che l'art. 39 potrebbe essere interpretato nel senso
che "la facoltà normativa" in materia di regolamentazione collettiva
dei rapporti di lavoro sarebbe sottratta al legislatore e riservata
esclusivamente ai sindacati con la conseguenza che la legge di
delegazione mirerebbe ad eludere "il procedimento costituzionalmente
delineato per il conferimento dell'obbligatorietà per tutti dei
contratti collettivi";
2) dalla mancanza di un oggetto definito e di principi e criteri
direttivi, come sarebbe confermato dalla vastità della materia che
può essere recepita nei decreti delegati; dalla indeterminatezza della
formula "assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e
normativo"; dall'impossibilità che i principi e i criteri possano
ritenersi fissati implicitamente col richiamo alle norme dei contratti
collettivi, non fosse altro per la circostanza che codesti contratti
possono essere stati stipulati anche nel periodo che corre tra
l'applicazione della legge e la sua entrata in vigore;
3) dal fatto infine, che l'emanazione della legge delegata sarebbe
subordinata all'arbitrio delle associazioni stipulanti che possono non
depositare il contratto collettivo.
25. - Nel giudizio si è costituita la signora Rita Cappelli,
rappresentata e difesa dagli avvocati Aurelio Becca, Massimo Severo
Giannini e Antonio Siniscalco. Le deduzioni sono state depositate il
14 marzo 1962.
Gli argomenti addotti per sostenere la tesi della non fondatezza
della sollevata questione di costituzionalità non sono diversi da
quelli fatti valere nel giudizio promosso con l'ordinanza del Pretore
di Ferrara e già riferiti. È, tuttavia, opportuno aggiungere che,
secondo la difesa, il fatto che la delega non possa essere esercitata
senza il previo deposito del contratto collettivo, non costituisce,
contrariamente a quanto si sostiene ex avverso, violazione degli artt.
70 e 71 della Costituzione, in quanto codesto deposito rappresenterebbe
"un presupposto all'esercizio della delega voluto e prescritto dal
legislatore quale onere a cui è subordinata l'emanazione del decreto
delegato relativo".
26. - È intervenuto, altresì, il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
che ha depositato l'atto di intervento il 19 gennaio 1962, nel quale
vengono brevemente ripresi gli argomenti fatti valere nel giudizio
promosso con l'ordinanza del Pretore di Ferrara.
27. - Il Pretore di Troina, con ordinanza 22 febbraio 1962, ha
ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale della ripetuta legge 14 luglio 1959, n.
741. L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 99 del 14 aprile 1962.
Anche per il Pretore di Troina la legge violerebbe l'art. 39 della
Costituzione, in quanto conferirebbe efficacia erga omnes a contratti
collettivi stipulati da enti e con procedura diversa da quella indicata
nel citato articolo della Costituzione; nonché l'art. 76, perché non
indicherebbe i principi e i criteri ai quali deve essere subordinato
l'esercizio della potestà delegata e non definirebbe nemmeno l'oggetto
della delega che sarebbe, secondo il Pretore, "il criterio di come
scegliere il contratto collettivo da convertire in norma obbligatoria".
28. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato
che, nell'atto di intervento depositato il 21 marzo 1962, ha fatto
riferimento alle tesi già svolte negli atti difensivi del giudizio
promosso con l'ordinanza del Pretore di Ferrara.
29. - Analogamente, il Pretore di Cervaro ha ritenuto rilevante e
non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale della legge 14 luglio 1959, n. 741, sollevata dalla
difesa del sig. Salvatore Monteforte e, con l'ordinanza 1 febbraio
1962, ha sospeso il giudizio e rinviato gli atti a questa Corte.
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 145 del 9 giugno 1962.
Secondo il Pretore di Cervaro le norme contenute negli artt. 1, 2 e
3 della legge non indicherebbero i principi e i criteri direttivi della
delegazione e gli artt. 1 e 5 priverebbero il legislatore delegato di
ogni potere discrezionale quanto al contenuto delle emanande norme
delegate, violando cosi l'art. 76 della Costituzione. La norma, poi,
dell'art. 8 della legge sarebbe in contrasto con l'art. 3 della
Costituzione in quanto prevede, in caso di inadempienza, sanzioni
penali solo per una delle parti contraenti.
30. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato
che, nell'atto di intervento depositato il 17 marzo 1962, ha ribadito
il punto di vista già espresso nel giudizio promosso dal Pretore di
Ferrara.
31. - All'udienza del 31 ottobre 1962, dove le cause sono state
discusse congiuntamente, le difese delle parti costituite nei giudizi
hanno brevemente riassunto le loro tesi e confermato le loro
conclusioni.
Considerato in diritto:
1. - Le cause, che hanno ad oggetto le medesime questioni di
legittimità costituzionale, vanno decise con un'unica sentenza.
2. - L'eccezione pregiudiziale di non rilevanza, sollevata dalla
difesa del sig. Massari nel giudizio promosso con l'ordinanza del
Pretore di Ferrara, deve essere respinta. Al fine è sufficiente
richiamare la giurisprudenza di questa Corte sulla competenza del
giudice a quo per quanto attiene alla rilevanza della questione di
legittimità costituzionale. Tuttavia, nel caso presente, si può
notare, anche perché ciò giova ad una migliore definizione delle
questioni sottoposte a questa Corte, che, in primo luogo, la legge di
delegazione viene direttamente in questione con l'art. 8, che contiene
la norma sanzionatrice per l'inosservanza delle clausole contenute nei
decreti delegati e che, in secondo luogo, il nesso, il quale lega la
legge di delegazione a quella delegata (e l'una e l'altra al precetto
contenuto nell'art. 76 della Costituzione) è tale che l'esame della
legittimità della legge di delegazione, della quale si assuma
l'incostituzionalità, è pregiudiziale a quello della legge delegata,
che, com'è evidente, non potrebbe trovare applicazione se la fonte, da
cui trae la sua efficacia normativa, fosse costituzionalmente
illegittima.
3. - La prima delle questioni sottoposte all'esame della Corte
sorge dal contrasto, che si asserisce esistente, tra la legge impugnata
e l'art. 39 della Costituzione, e, più specificamente, la norma
contenuta nel quarto comma di questo articolo, giusta la quale i
sindacati registrati, e forniti, pertanto, di personalità giuridica,
"possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti,
stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per
tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si
riferisce".
Occorre subito avvertire che la Corte non ritiene fondata la tesi,
richiamata da quasi tutte le ordinanze di rimessione e sostenuta dalla
difesa delle parti interessate, secondo la quale l'ora richiamato art.
39 contiene una riserva, normativa o contrattuale, in favore dei
sindacati, per il regolamento dei rapporti di lavoro. Una tesi
siffatta, segnatamente se enunciata in termini così ampi,
contrasterebbe con le norme contenute, ad esempio, nell'art. 3, secondo
comma, nell'art. 35, primo, secondo e terzo comma, nell'art. 36, e
nell'art. 37 della Costituzione, le quali - al fine di tutelare la
dignità personale del lavoratore e il lavoro in qualsiasi forma e da
chiunque prestato e di garantire al lavoratore una retribuzione
sufficiente ad assicurare una vita libera e dignitosa - non soltanto
consentono, ma insieme impongono al legislatore di emanare norme che,
direttamente o mediatamente, incidono nel campo dei rapporti di lavoro:
tanto più facilmente quanto più ampia è la nozione che la società
contemporanea si è costruita dei rapporti di lavoro e che la
Costituzione e la legislazione hanno accolta.
Tuttavia, in codesti suoi interventi il legislatore non può agire
senza l'osservanza di limiti che la Costituzione medesima ha fissato
per la tutela di altri interessi, assunti anch'essi nell'ambito della
legge fondamentale dello Stato e dei principi che ne sono alla base.
Pertanto, l'attività legislativa deve svolgersi, in questo e negli
altri casi analoghi, in guisa tale che l'attuazione dei precetti
costituzionali e il conseguimento delle finalità segnate, in questo
settore, dalla Costituzione, non avvengano col sacrificio di altri
precetti e di altre finalità, ma nel rispetto dell'armonica unità del
sistema posto dalla legge fondamentale della Repubblica.
4. - I limiti che l'attività legislativa incontra in materia di
rapporti di lavoro possono essere rintracciati in numerosi principi e
norme della Costituzione, ma di essi non occorre fare in questa sede
una compiuta rassegna, essendo sufficiente che la Corte indichi quelli
che sorgono dall'art. 39, che le ordinanze di rinvio ritengono violato
dalla legge impugnata.
L'art. 39 pone due principi, che possono intitolarsi alla libertà
sindacale e alla autonomia collettiva professionale. Col primo si
garantiscono la libertà dei cittadini di organizzarsi in sindacati e
la libertà delle associazioni che ne derivano; con l'altro si
garantisce alle associazioni sindacali di regolare i conflitti di
interessi che sorgono tra le contrapposte categorie mediante il
contratto, al quale poi si riconosce efficacia obbligatoria erga omnes,
una volta che sia stipulato in conformità di una determinata procedura
e da soggetti forniti di determinati requisiti.
Una legge, la quale cercasse di conseguire questo medesimo
risultato della dilatazione ed estensione, che è una tendenza propria
della natura del contratto collettivo, a tutti gli appartenenti alla
categoria alla quale il contratto si riferisce, in maniera diversa da
quella stabilita dal precetto costituzionale, sarebbe palesemente
illegittima.
Né si può dire che la questione di costituzionalità, posta in
questi termini, possa essere superata col richiamo alla norma contenuta
nel primo comma dell'art. 36 della Costituzione. Al di là della
intitolazione della legge e delle intenzioni che il legislatore si è
attribuite, o che sono state attribuite al legislatore, vale la realtà
delle norme contenute nella legge di delegazione e il modo col quale la
delegazione è stata esercitata: l'una e l'altro non lasciano dubbi sul
fatto che la legge abbia inteso di conferire e abbia in effetti
conferito efficacia generale a contratti collettivi e ad accordi
economici con forme e procedimento diversi da quelli previsti dall'art.
39 della Costituzione.
5. - Senonché, la Corte non può ignorare che le forme e il
procedimento previsti dalle norme costituzionali non sono ancora
applicabili. La Corte non deve ricercare i motivi di questa
inadempienza costituzionale, ma non può non prendere atto della
carenza legislativa che ne deriva e delle conseguenze che essa provoca
nel campo dei rapporti di lavoro. In questa situazione la legge
impugnata assume il significato e compie la funzione di una legge
transitoria, provvisoria ed eccezionale, rivolta a regolare una
situazione passata e a tutelare l'interesse pubblico della parità di
trattamento dei lavoratori e dei datori di lavoro. In questo senso, e
soltanto in questo senso, può ritenersi fondata l'osservazione che
ricorre ripetutamente nelle difese svolte davanti alla Corte, che con
la legge impugnata non si sia voluto dare attuazione al sistema
previsto dall'art. 39 della Costituzione, del quale, anzi, si può
aggiungere, si presuppone imminente l'attuazione. Del che pare conferma
la norma contenuta nell'art. 7, secondo comma, che limita l'efficacia
delle norme delegate fino al momento in cui non siano intervenuti
accordi e contratti validi per tutti gli appartenenti alla categoria:
sicché si può dire che la legge miri a collegare il regime dei
contratti di diritto comune con l'altro dei contratti con efficacia
generale, a mezzo di un regolamento transitorio: circostanza che la
pone al riparo dal contrasto con l'art. 39 della Costituzione.
6. - Ma queste medesime ragioni, che inducono la Corte a dichiarare
non fondata la questione di legittimità costituzionale della legge 14
luglio 1959, n. 741, impongono, viceversa, di dichiarare
l'illegittimità costituzionale della legge 1 ottobre 1960, n. 1027:
più esattamente, dell'art. 1 di questa legge, il quale conferisce al
Governo il potere di emanare norme uniformi alle clausole degli accordi
economici e dei contratti collettivi stipulati entro i dieci mesi
successivi alla data di entrata in vigore della richiamata legge n.
741. Questa norma, infatti, estende il campo di applicazione della
delega oltre la data del 3 ottobre 1959 e ne allarga l'efficacia agli
accordi e ai contratti stipulati dopo questa data. È da ritenere,
infatti, che anche una sola reiterazione della delega (a tale
riducendosi la proroga prevista dall'art. 1 della legge impugnata),
toglie alla legge i caratteri della transitorietà e
dell'eccezionalità che consentono di dichiarare insussistente la
pretesa violazione del precetto costituzionale e finisce col sostituire
al sistema costituzionale un altro sistema arbitrariamente costruito
dal legislatore e pertanto illegittimo.
La stessa cosa non si può dire del successivo art. 2, che, preso
da sé, si limita a prorogare di quindici mesi l'esercizio della
delega, che, pertanto, il Governo dovrà esercitare soltanto con
riferimento ai contratti collettivi stipulati entro il termine fissato
dalla prima legge di delegazione.
7. - La seconda questione nasce dall'affermato contrasto tra la
legge di delegazione e le norme contenute nell'art. 76 della
Costituzione. Si sostiene che la legge non contenga i principi e i
criteri direttivi e non si riferisca a un oggetto definito: una delle
ordinanze fa cenno anche alla mancanza del "tempo limitato", entro il
quale deve essere esercitata la delega secondo la ricordata norma
costituzionale, ma si tratta di una evidente svista.
Anche questa seconda questione deve ritenersi infondata. Non nega
la Corte che l'oggetto e la particolare finalità della delega abbiano
indotto nella legge singolarità che, a un primo esame, possono
apparire in contrasto con le norme della Costituzione, ma ritiene anche
che una considerazione più approfondita delle norme impugnate persuade
che codeste peculiarità, mentre da un lato confermano il fine che il
legislatore si è prefisso, quello, vale a dire, di conferire efficacia
generale agli accordi economici e ai contratti collettivi stipulati
entro un certo termine, dall'altro non sono tali da trasformarsi in
violazioni della Costituzione. Così non si può dire che la delega si
riferisca a un oggetto non definito, non potendosi qualificare tale
quello di "emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di
assicurare minimi indederogabili di trattamento economico e normativo
nei confronti di tutti gli appartenenti a una medesima categoria";
così, pure, non si può dire che manchino i principi e i criteri
direttivi per l'esercizio della delega, dato che il Governo deve
uniformarsi a "tutte le clausole dei singoli accordi economici e
contratti collettivi, anche intercategoriali, stipulati dalle
associazioni sindacali anteriormente alla data di entrata in vigore
della ... legge". Del che è riprova, come è stato notato, il fatto
che la censura, che così si muove alla legge di delegazione, trapassa
nell'altra, contraria e opposta, secondo la quale il legislatore
delegato troverebbe nell'esercizio della delegazione limitazioni tali
da escludere del tutto una sua attività discrezionale. Le due censure
finiscono così per eliminarsi a vicenda: ma com'è infondata la
prima, così non pare fondata la seconda. La limitazione rigorosa dei
poteri del legislatore delegato si giustifica con le finalità della
delega e non è tale, ad ogni modo, da costituire una violazione
dell'art. 76 della Costituzione, che impone al legislatore di non
delegare i suoi poteri se non con limiti precisi e che, pertanto, non
si può ritenere violato se queste condizioni e questi limiti siano
posti con molto rigore. Stabilire qual'è il punto nel quale codesto
rigore è tale da escludere affatto che si sia in presenza di una
delega è quanto mai difficile e ad ogni modo non può riflettersi
sulla legittimità delle norme di delegazione il modo col quale il
legislatore delegato abbia esercitato la delegazione, e che sia, in
ipotesi, tale da precludere ogni margine di attività libera.
8. - Ancor meno sono fondate le censure che si muovono alla legge
ex art. 71 della Costituzione: per superarle è sufficiente affermare
che l'onere del deposito entro un mese, presso il Ministero del lavoro
e della previdenza sociale, degli accordi economici e dei contratti
collettivi a cura di una delle associazioni stipulanti, non può
significare trasferimento dell'"iniziativa delle leggi" ai sindacati.
Esso è e resta soltanto un onere che si pone alle associazioni
sindacali per rendere più agevole al Governo l'accertamento, che il
legislatore gli ha delegato, dell'esistenza di validi e autentici
contratti collettivi.
9. - Nemmeno da accogliere sono le censure mosse all'art. 5,
secondo il quale le norme delegate non possono essere in contrasto con
norme imperative di legge. Si sostiene che una norma siffatta
conferirebbe al Governo il potere di emanare norme di efficacia
inferiore a quelle aventi forza di legge e di creare così, con
violazione dell'art. 77 della Costituzione, norme di un'efficacia
particolare o, come si è detto, norme di legge affievolite, che si
porrebbero nella gerarchia delle fonti al disotto delle norme della
legge ordinaria.
La tesi non è fondata. Anche qui occorre tener presente il fine
che il legislatore ha perseguito con la delega, quello cioè di
conferire transitoriamente efficacia generale a contratti collettivi.
Codesto conferimento non vuole alterare o modificare l'efficacia
propria delle clausole dei contratti collettivi, non vuole cioè che le
clausole contrarie a norme di legge imperative si trasformino in norme
aventi vigore di legge. Nell'operare in una materia istituzionalmente
riservata all'autonomia collettiva professionale, il legislatore si è
proposto di rispettare il più possibile codesta autonomia, assumendo a
contenuto delle norme il contenuto dei contratti collettivi e degli
accordi economici e nei limiti in cui questi possono acquistare
efficacia generale nel sistema tradizionale della contrattazione
collettiva. Perciò l'art. 5 si pone fuori dei confini della delega,
non ne rappresenta un limite. Esso agisce direttamente sui contratti ai
quali il Governo deve conformare le proprie norme, non ha come
destinatario il Governo. Si potrebbe dire, in un certo senso, che esso
è logicamente anteriore alla delega. Dal che consegue che, qualora le
clausole siano comprese nei decreti delegati, la loro inserzione si
deve ritenere inoperante e incapace perciò di conferire ad esse forza
di legge; e, pertanto, non può essere configurata quale vizio della
legge delegata, cioè quale eccesso di delega. Ne consegue che spetta
al giudice ordinario di accertare volta per volta se sussista il
contrasto di queste clausole contrattuali con le norme imperative di
legge e, in caso affermativo, di disapplicarle.
10. - Infine, non può configurarsi come vizio della legge la
circostanza che essa non indichi il criterio che il Governo deve
adottare nel caso di più contratti collettivi o di più accordi
economici relativi alla medesima categoria. Anche ammesso, infatti, che
si tratti di un'omissione del legislatore, non se ne può dedurre
l'illegittimità costituzionale della legge. Altra questione è quella
degli effetti che codesta pretesa omissione esercita sui poteri del
legislatore delegato, ma è una questione che non viene nel presente
giudizio e deve, pertanto, rimanere impregiudicata.
11. - La terza questione di legittimità costituzionale è quella
della norma contenuta nell'art. 8 della legge, che prevede a carico del
datore di lavoro il quale non adempia gli obblighi derivanti dalle
norme delegate, "un'ammenda da lire cinquemila a lire centomila per
ogni lavoratore cui si riferisca la violazione". La tesi che, così
disponendo, la legge abbia violato il principio di eguaglianza
consacrato nell'art. 3 della Costituzione, non è fondata. La norma
impugnata, infatti, nel prevedere sanzioni soltanto a carico del datore
di lavoro, ha considerato, non arbitrariamente, la particolare
posizione del lavoratore nel rapporto di lavoro e l'ha ritenuta
meritevole di una particolare tutela penale. È propria anzi
dell'applicazione del principio di eguaglianza, come l'ha interpretato
la Corte, la configurazione di ipotesi legislative che, apparentemente
discriminatrici nei confronti di categorie o gruppi di cittadini, nella
sostanza ristabiliscono l'eguaglianza delle condizioni di queste
categorie o gruppi.