Ritenuto in fatto
1. – La Corte di cassazione e la Corte d'appello di Palermo, con ordinanze del 20 maggio e del 29 giugno 2006, hanno sollevato, in riferimento all'art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, ed in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nonché all'art. 117, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all'art. 6 della CEDU ed all'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 (infra, Protocollo), questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 – comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).
2. – La Corte di cassazione premette che il giudizio principale ha ad oggetto una domanda proposta da alcuni privati nei confronti del Comune di Avellino e dell'Istituto autonomo case popolari (IACP) della stessa città, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento del danno subito a causa della occupazione acquisitiva di alcuni terreni di loro proprietà, sui quali sono stati realizzati alloggi popolari ed opere di edilizia sociale, nonché al pagamento dell'indennità per l'occupazione temporanea degli stessi immobili.
La stessa Corte, con sentenza del 14 gennaio 1998, n. 457, accogliendo il ricorso proposto dagli enti pubblici, aveva cassato con rinvio la pronuncia d'appello, ritenendo applicabile la norma censurata, la quale ha introdotto un criterio riduttivo per il computo del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva.
Riassunto il giudizio, il giudice del rinvio ha, quindi, liquidato l'indennità in base alla disposizione censurata; la pronuncia è stata impugnata dalle parti private, che, tra l'altro, hanno eccepito l'illegittimità costituzionale del citato art. 5-bis, comma 7-bis.
2.1. – La rimettente, dopo avere esposto le argomentazioni che inducono ad escludere l'abrogazione della norma denunciata ad opera dell'art. 111 Cost. – come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei princìpi del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione) – ovvero dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile), sintetizza le pronunce di questa Corte che hanno già scrutinato la norma censurata, in riferimento agli artt. 3, 28, 42, 53, 97 e 113 Cost.
L'ordinanza esamina, quindi, l'orientamento della Corte europea dei diritti dell'uomo in ordine all'interpretazione dell'art. 1 del Protocollo, evolutosi nel senso di garantire una più intensa tutela del diritto di proprietà. In particolare, ricorda che la previsione di un'indennità equitable è stata limitata al caso della espropriazione legittima e che il carattere illecito dell'occupazione è stato ritenuto rilevante al fine della quantificazione dell'indennità, sicché, qualora non sia possibile la restituzione in natura del bene, all'espropriato è dovuta una somma corrispondente al valore venale.
Secondo il rimettente, la Corte europea, in alcune sentenze, puntualmente indicate, ha ritenuto che l'occupazione acquisitiva si pone in contrasto con le citate norme convenzionali, tra l'altro, nella parte in cui non garantisce il diritto degli espropriati al risarcimento del danno in misura corrispondente al valore venale del bene, affermando analogo criterio di computo per il calcolo dell'indennità nel caso di espropriazione legittima. Infatti, detta indennità può non essere commisurata al «valore pieno ed intero dei beni» nei soli casi di espropriazioni dirette a conseguire legittimi obiettivi di pubblica utilità e, tuttavia, questi ultimi sono stati individuati in quelli coincidenti con misure di riforme economiche o di giustizia sociale, ovvero strumentali a provocare cambiamenti del sistema costituzionale.
In seguito, la medesima Corte, con le sentenze indicate nell'ordinanza di rimessione, ha applicato questi princípi anche in riferimento al criterio stabilito dal censurato art. 5-bis e, ritenuta irrilevante la circostanza che questa norma era parte di una complessa manovra finanziaria, ha condannato lo Stato italiano al risarcimento commisurato alla differenza tra l'indennità percepita ed il valore venale del bene, reputando che l'espropriato, a causa del tempo trascorso, aveva visto leso il proprio affidamento ad un indennizzo calcolato in base a quest'ultimo parametro. In virtù delle sentenze di questa Corte n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983, il criterio di liquidazione per l'espropriazione delle aree edificabili avrebbe infatti dovuto essere quello del giusto prezzo in una libera contrattazione di compravendita (art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità pubblica»); quindi, l'applicabilità del sopravvenuto art. 5-bis avrebbe leso il diritto della persona al rispetto dei propri beni, anche perché la disciplina fiscale incide ulteriormente sulla somma concretamente percepita.
Pertanto, secondo la Corte di Strasburgo, l'espropriazione indiretta o occupazione acquisitiva – riconosciuta dalla legislazione (art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità») e dalla giurisprudenza italiane – sarebbe incompatibile con l'art. l del Protocollo e la norma censurata violerebbe la regola della riparazione integrale del pregiudizio, realizzando una lesione aggravata dalla retroattività della disposizione e dalla sua applicabilità ai giudizi in corso.
In definitiva, la norma censurata è stata giudicata in contrasto con l'art. 1 del Protocollo sotto i seguenti profili: in primo luogo, poiché al solo scopo di sopperire ad esigenze di bilancio, al di fuori di un contesto di riforme economiche o sociali, viola la regola della corresponsione di un valore pari al valore venale del bene; in secondo luogo, in quanto stabilisce un criterio riduttivo, fondato su di un parametro irragionevole anche nel caso di espropriazione legittima; in terzo luogo, poiché dispone l'applicabilità del criterio ai giudizi in corso, in violazione dell'art. 6 della CEDU; in quarto luogo, poiché viola il principio di legalità ed il diritto ad un processo equo, dato che la disposizione ha inciso sull'esito di giudizi in corso, nei quali erano parti amministrazioni pubbliche, obbligando il giudice ad adottare una decisione fondata su presupposti diversi rispetto a quelli sui quali la parte aveva legittimamente fatto affidamento all'atto dell'instaurazione della lite.
2.2. – Secondo la rimettente, benché la disposizione censurata si ponga in contrasto con le citate norme convenzionali, come interpretate dalla Corte europea, non sarebbe tuttavia ammissibile la sua “non applicazione”, mentre la Corte di cassazione talora ha affermato che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare ed applicare il diritto interno, per quanto possibile, in modo conforme alla CEDU ed all'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, talaltra ha attenuato l'efficacia vincolante delle sentenze della Corte europea.
A suo avviso, nella specie non sarebbe configurabile il potere del giudice comune di “non applicare” la norma interna, in quanto sussistente soltanto nel caso di contrasto con norme comunitarie e fondato sull'art. 11 Cost. Il paragrafo 2 dell'art. 6 del Trattato di Maastricht neppure permetterebbe di ritenere la avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, con la conseguenza che l'interpretazione della Convenzione non spetta alla Corte di giustizia delle Comunità europee, dichiaratasi incompetente a fornire elementi interpretativi per la valutazione da parte del giudice nazionale della conformità delle norme di diritto interno ai diritti fondamentali di cui essa garantisce l'osservanza (nel contesto comunitario), quali risultano dalla CEDU, quando «tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario» (sentenza 29 maggio 1997, causa C-299/1995).
Peraltro, la teoria dei “controlimiti” potrebbe far ipotizzare un contrasto tra la regola che commisura l'indennità di espropriazione al valore venale del bene ed il principio costituzionale in virtù del quale il diritto di proprietà sarebbe recessivo rispetto all'interesse primario dell'utilità sociale. In ogni caso, siffatta regola non è suscettibile di diretta applicazione ai sensi dell'art. 10 Cost., sia in quanto tale norma costituzionale non concerne il diritto pattizio, sia in quanto essa neppure esprime un valore generalmente riconosciuto dagli Stati e, comunque, in quanto il giudice nazionale, se pure potesse direttamente recepire l'interpretazione della Corte europea, non avrebbe il potere di stabilire una disciplina indennitaria sostitutiva di quella prevista dalla norma denunciata.
In conclusione, secondo la rimettente, il contrasto della norma interna con le norme convenzionali non può essere evitato attraverso un'interpretazione secundum constitutionem della prima e, d'altro canto, il giudice nazionale non potrebbe disapplicare la norma interna, provvedendo, in luogo del legislatore, a coordinare le fonti e ad affermare la prevalenza della fonte convenzionale sulla fonte interna.
2.3. – L'ordinanza di rimessione osserva che questa Corte, benché abbia ritenuto non irragionevole la retroattività della norma censurata (sentenza n. 148 del 1999), non ha scrutinato tale norma in riferimento all'art. 111 Cost.
Ad avviso del giudice a quo, il contenuto precettivo del parametro costituzionale evocato non sarebbe stato compiutamente approfondito e, sebbene l'intento del legislatore, di costituzionalizzare la disposizione convenzionale, sia stato accantonato nel corso dei lavori preparatori, ciò non esclude che la giurisprudenza della Corte europea possa contribuire alla sua corretta interpretazione, anche tenendo conto della circostanza che la collocazione della CEDU nella gerarchia delle fonti non è stata ancora chiarita. Pertanto, nella specie rileverebbe il fatto che la Corte di Strasburgo ha ritenuto la norma censurata in contrasto con l'art. 6 della CEDU, in quanto il principio della parità delle parti davanti al giudice vieta al legislatore di intervenire nella risoluzione di una singola causa, o di una determinata categoria di controversie. Le fattispecie decise dal giudice europeo sarebbero omologhe a quella oggetto del giudizio principale, nella quale i proprietari, espropriati nell'anno 1985 in forza della occupazione acquisitiva, hanno agito in giudizio per ottenere l'indennizzo di natura risarcitoria loro spettante in virtù dei principi enunciati dalla Corte regolatrice – fondati sull'art. 39 della legge n. 2359 del 1865 e sull'art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458 (Concorso dello Stato nella spesa degli enti locali in relazione ai pregressi maggiori oneri delle indennità di esproprio) – corrispondente al valore venale dei beni; il giudice di merito aveva accolto la domanda, applicando detto criterio; nel corso del giudizio innanzi alla Corte di cassazione è sopravvenuta la norma impugnata che ha diversamente commisurato l'indennizzo, disponendo l'applicabilità del nuovo criterio ai giudizi in corso non definiti con sentenza passata in giudicato, con il risultato di ridurre, a giudizio iniziato, l'indennizzo a poco meno del 50 per cento rispetto a quello in vista del quale i proprietari avevano instaurato il giudizio.
2.4. – Secondo la Corte di cassazione, la norma denunciata si porrebbe, inoltre, in contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., che, nel testo novellato a seguito della riforma del titolo V della Costituzione, mira ad eliminare una lacuna del nostro ordinamento, determinata dal contenuto dell'art. 10 Cost., stabilendo una regola vincolante anche per il legislatore statale.
La disposizione censurata violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di proprietà, quali risultano dagli artt. 6 della CEDU ed 1 del Protocollo, come interpretati dalla Corte europea, e, conseguentemente, il citato art. 5-bis, comma 7-bis, sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto in contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost.
3. – La Corte d'appello di Palermo espone di essere stata adita in sede di giudizio di rinvio avente ad oggetto le domande restitutorie e risarcitorie proposte da alcuni privati, i quali hanno dedotto che un suolo edificabile di loro proprietà ha costituito oggetto di un procedimento di espropriazione per la costruzione di alloggi di edilizia popolare ed è stato irreversibilmente trasformato, in difetto della adozione di regolare provvedimento di espropriazione; gli enti pubblici si sono costituiti nel giudizio contestando la fondatezza della domanda e chiedendo che siano applicate le norme recate dal d.P.R. n. 327 del 2001; è stata inoltre accertata l'irreversibile trasformazione del fondo.
Secondo il giudice a quo, il principio di diritto enunciato nella sentenza di rinvio comporta che il decreto di espropriazione dell'immobile, in quanto adottato dopo la scadenza dei termini di cui all'art. 13 della legge n. 2359 del 1865, è illegittimo e deve essere disapplicato. La fattispecie oggetto del giudizio va qualificata come occupazione acquisitiva, poiché la trasformazione del bene è stata realizzata in pendenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, quindi, alla data di scadenza dei termini di cui all'art. 13 della legge n. 2359 del 1865, il bene è stato acquistato dagli enti pubblici, a titolo originario, e gli attori sono titolari del diritto ad ottenere il risarcimento del danno. Nella specie sarebbe applicabile il citato art. 5-bis, comma 7-bis, mentre, ad avviso del rimettente, alla data di instaurazione del giudizio di primo grado (12 aprile 1984), le parti private, in virtù dei princípi enunciati dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983 e di quanto previsto dall'art. 39 della legge n. 2359 del 1865, potevano fare affidamento sulla spettanza di un risarcimento del danno pari al valore venale del fondo, che invece la norma censurata ha dimezzato.
La Corte d'appello di Palermo censura, quindi, la norma in esame in riferimento agli stessi parametri costituzionali indicati dalla Corte di cassazione e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle svolte nella relativa ordinanza di rimessione, sopra sintetizzate.
4. – Nel giudizio promosso dalla Corte di cassazione è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato che, anche nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
Secondo la difesa erariale, l'ordinanza di rimessione richiede di accertare: a) se, nel caso di contrasto di una norma interna con la giurisprudenza della Corte europea, prevalga la seconda; b) se l'eventuale prevalenza della giurisprudenza di detta Corte concerna anche le norme costituzionali.
A suo avviso, deve anzitutto escludersi che la Corte di Strasburgo, in via interpretativa, possa ridurre o estendere il contenuto delle norme convenzionali; l'art. 32 del Protocollo n. 11 alla Convenzione, fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994), stabilisce che la competenza di detta Corte concerne tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli, senza affatto prevedere un potere creativo di norme convenzionali vincolanti, inesistente nel sistema della Convenzione di Vienna ratificata con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969), «che vuole testuale ed oggettiva l'interpretazione di qualunque trattato».
Pertanto, se la Corte europea non ha titolo per dubitare della legittimità, nel diritto nazionale, della norma retroattiva e del sistema italiano di calcolo dell'indennizzo, non potrebbe essere censurata una disposizione conforme agli artt. 25 e 42 Cost.; inoltre, l'art. 111 Cost., contrariamente a quanto sostiene la rimettente, non concerne la disciplina sostanziale e, comunque, l'art. 6 della CEDU non stabilisce il divieto di retroattività della legge in materia diversa da quella penale.
Secondo la difesa erariale, l'art. 117, primo comma, Cost., fa riferimento ai «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» che, come chiarisce l'art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sono quelli derivanti da «accordi di reciproca limitazione della sovranità di cui all'art. 11 della Costituzione, dall'ordinamento comunitario e dai trattati internazionali» e «nulla di tutto ciò è nella Convenzione Europea dei diritti dell'uomo a proposito delle leggi retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, per le quali opera, tutta e sola, la disciplina delle fonti di produzione nazionale». Analogamente, l'art. 1 del Protocollo non disporrebbe, come invece ritiene la Corte EDU, che l'indennizzo per l'espropriazione debba coincidere con il valore venale del bene.
Infine, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sarebbe inesatta anche perchè il valore venale del bene è dato dall'utilizzabilità dell'area per edificare, ma nessuno strumento urbanistico lascia la dimensione del terreno al lordo delle esigenze derivanti dalla pianificazione. Secondo l'interveniente, l'esperienza insegna «che su un terreno di X mq l'area edificabile al netto degli spazi che servono per le opere di urbanizzazione e per l'assetto del territorio, è pari ad X/2» e, quindi, non è irragionevole che la legge disponga in detti casi una drastica riduzione del valore per metro quadro.
4.1. – Nel giudizio di costituzionalità si sono costituiti, con separati atti, le parti del giudizio principale, chiedendo l'accoglimento della questione, anche sulla scorta di argomentazioni in larga misura coincidenti con quelle svolte nell'ordinanza di rimessione.
Dopo avere esposto considerazioni storico-filosofiche a conforto del principio secondo il quale il diritto non può porsi in contrasto con il senso comune del giusto, le parti sostengono che non solo la norma censurata, ma anche l'art. 3 della legge n. 458 del 1988 e le sentenze di questa Corte n. 384 del 1990 e n. 486 del 1991, nonché alcune sentenze della Corte di cassazione, laddove negano il diritto di quanti hanno subito un'occupazione acquisitiva di conservare la proprietà del bene e di ottenere un risarcimento pari al valore venale del bene, si porrebbero in contrasto con l'art. 1 del Protocollo.
La retroattività della norma denunciata è censurata anche attraverso richiami alla Costituzione francese del 1791, alla Costituzione degli Stati Uniti d'America e ad un ampio excursus storico, svolti per evidenziare il contrasto di detta norma con l'art. 1 del Protocollo, violato altresì dal riconoscimento dell'istituto dell'accessione invertita e dalla legittimazione di un'attività illecita quale fonte di acquisto del diritto di proprietà da parte della pubblica amministrazione.
Pertanto, secondo le parti, la norma in esame, configurando un fatto illecito come fonte di estinzione del diritto di proprietà del privato, violerebbe l'art. 10, primo comma, Cost., in relazione all'art. 1, secondo comma, del Protocollo, nonché l'art. 53 Cost..
Infine, la disposizione si porrebbe in contrasto con l'art. 10, primo comma, e con l'art. 111, secondo comma, Cost., anche in relazione all'art. 6, n. 1, della legge n. 848 del 1955, fermo restando l'obbligo di risarcire il danno conseguente dalla violazione del termine di durata ragionevole del processo (art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89).
4.2. – Nel giudizio è intervenuta una società a r.l., chiedendo l'accoglimento della questione e deducendo di essere titolare di un interesse che ne legittimerebbe l'intervento, in quanto parte di un altro processo avente anch'esso ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, sospeso sino all'esito del presente giudizio.
4.3. – Infine, ha spiegato intervento nel giudizio la Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell'Uomo (CO.GE.DU.), in persona del legale rappresentante, la quale, anche nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, espone che non è parte del processo principale «e non sarebbe direttamente toccata dalla legislazione oggetto del giudizio presupposto», poiché non ha alcun interesse particolare che possa riguardare l'espropriazione per pubblica utilità. Tuttavia, la legittimazione all'intervento si fonderebbe sulla circostanza che l'esito del giudizio inciderebbe sul conseguimento dei suoi scopi statutari e sul suo interesse ad una pronuncia che riconosca alle norme della CEDU rango costituzionale.
5. – Nel giudizio promosso dalla Corte d'appello di Palermo è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, svolgendo, nell'atto di intervento e nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, deduzioni identiche a quelle contenute nell'atto di intervento concernente il giudizio promosso dalla Corte di cassazione e chiedendo che la Corte dichiari infondate le questioni.
5.1. – Nel giudizio promosso dalla Corte d'appello di Palermo si sono altresì costituite, con atto depositato fuori termine, le parti private del processo principale.
Considerato in diritto
1. – Le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d'appello di Palermo investono l'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 –, comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), il quale stabilisce: «In caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell'indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l'importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato».
Secondo le ordinanze di rimessione, la norma si porrebbe in contrasto con l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all'art. 1 del Protocollo addizionale, in quanto, disponendo l'applicabilità ai giudizi in corso della disciplina dalla stessa stabilita in tema di risarcimento del danno da occupazione illegittima e quantificando in misura incongrua il relativo indennizzo, violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di proprietà di cui rispettivamente ai citati artt. 6 ed 1, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, quindi violerebbe i corrispondenti obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Inoltre, detta disposizione si porrebbe in contrasto anche con l'art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU, poiché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenersi leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie.
2. – I giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento agli stessi parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti, devono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza.
3. – Preliminarmente, deve essere ribadita l'inammissibilità degli interventi della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell'Uomo (CO.GE.DU.) e di A. C. fu G. s.r.l., dichiarata con ordinanza della quale è stata data lettura in udienza, allegata alla presente sentenza.
Inoltre, va dichiarata l'inammissibilità della costituzione delle parti del giudizio pendente dinanzi alla Corte d'appello di Palermo, poiché avvenuta oltre il termine stabilito dall'art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), computato secondo quanto previsto dagli artt. 3 e 4 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, da ritenersi perentorio (per tutte, sentenza n. 190 del 2006).
4. – Le due ordinanze di rimessione hanno motivato non implausibilmente in ordine alle ragioni dell'applicabilità, in entrambi i giudizi, della norma censurata, anche a seguito della emanazione del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), nonché sulla circostanza che gli stessi hanno ad oggetto una fattispecie di occupazione acquisitiva, disciplinata appunto da detta norma.
Inoltre, in virtù di un principio che va confermato, la questione di legittimità costituzionale può avere ad oggetto anche l'interpretazione risultante dal «principio di diritto» enunciato dalla Corte di cassazione (che vincola questa stessa nel giudizio di impugnazione della sentenza pronunciata in sede di rinvio), in quanto il regime delle preclusioni proprio del giudizio di rinvio non impedisce di censurare la norma dalla quale detto principio è stato tratto (sentenze n. 78 del 2007, n. 58 del 1995, n. 257 del 1994, n. 138 del 1993; ordinanza n. 501 del 2000)
Le questioni sono, quindi, ammissibili.
5. – Le questioni vanno esaminate entro i limiti del thema decidendum individuato dalle ordinanze di rimessione, dato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non possono essere prese in considerazione le censure svolte dalle parti del giudizio principale, con riferimento a parametri costituzionali ed a profili non evocati dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 310 e n. 234 del 2006).
6. – La questione sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., è fondata.
6.1. – In considerazione del parametro costituzionale evocato dai giudici a quibus e delle argomentazioni svolte in entrambe le ordinanze di rimessione, il preliminare profilo da affrontare è quello delle conseguenze del prospettato contrasto della norma interna con «i vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali» e, in particolare, con gli obblighi imposti dalle evocate disposizioni della CEDU e del Protocollo addizionale.
In generale, la giurisprudenza di questa Corte, nell'interpretare le disposizioni della Costituzione che fanno riferimento a norme e ad obblighi internazionali – per quanto qui interessa, gli artt. 7, 10 ed 11 Cost. – ha costantemente affermato che l'art. 10, primo comma, Cost., il quale sancisce l'adeguamento automatico dell'ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i princìpi generali e le norme di carattere consuetudinario (per tutte, sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996, n. 168 del 1994), mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano princìpi o norme consuetudinarie del diritto internazionale. Per converso, l'art. 10, secondo comma, e l'art. 7 Cost. fanno riferimento a ben identificati accordi, concernenti rispettivamente la condizione giuridica dello straniero e i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e pertanto non possono essere riferiti a norme convenzionali diverse da quelle espressamente menzionate.
L'art. 11 Cost., il quale stabilisce, tra l'altro, che l'Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», è invece la disposizione che ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (sentenze n. 284 del 2007; n. 170 del 1984).
Con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell'ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte, per la continuità dell'orientamento, sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ed ha altresì ribadito l'esclusione delle norme meramente convenzionali dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost. (oltre alle pronunce sopra richiamate, si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994).
L'inconferenza, in relazione alle norme della CEDU, e per quanto qui interessa, del parametro dell'art. 10, secondo comma, Cost., è resa chiara dal preciso contenuto di tale disposizione. Né depongono in senso diverso i precedenti di questa Corte in cui si è fatto riferimento anche a quel parametro, dato che ciò è accaduto essenzialmente in considerazione della coincidenza delle disposizioni della CEDU con le fonti convenzionali relative al trattamento dello straniero: ed è appunto questa la circostanza della quale le pronunce in questione si sono limitate a dare atto (sentenze n. 125 del 1977, n. 120 del 1967).
In riferimento alla CEDU, questa Corte ha, inoltre, ritenuto che l'art. 11 Cost. «neppure può venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980), conclusione che si intende in questa sede ribadire. Va inoltre sottolineato che i diritti fondamentali non possono considerarsi una “materia” in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che un'attribuzione di competenza limitata all'interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità.
Né la rilevanza del parametro dell'art. 11 può farsi valere in maniera indiretta, per effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario.
È vero, infatti, che una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, anche a seguito di prese di posizione delle Corti costituzionali di alcuni Paesi membri, ha fin dagli anni settanta affermato che i diritti fondamentali, in particolare quali risultano dalla CEDU, fanno parte dei princìpi generali di cui essa garantisce l'osservanza. È anche vero che tale giurisprudenza è stata recepita nell'art. 6 del Trattato sull'Unione Europea e, estensivamente, nella Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza da altre tre istituzioni comunitarie, atto formalmente ancora privo di valore giuridico ma di riconosciuto rilievo interpretativo (sentenza n. 393 del 2006). In primo luogo, tuttavia, il Consiglio d'Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell'uomo disciplinato dalla CEDU e l'attività interpretativa di quest'ultima da parte della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall'Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992.
In secondo luogo, la giurisprudenza è sì nel senso che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri ed in particolare alla Convenzione di Roma (da ultimo, su rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale belga, sentenza 26 giugno 2007, causa C-305/05, Ordini avvocati c. Consiglio, punto 29). Tuttavia, tali princìpi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT). La Corte di giustizia ha infatti precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/90, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/95, Kremzow): ipotesi che si verifica precisamente nel caso di specie.
In terzo luogo, anche a prescindere dalla circostanza che al momento l'Unione europea non è parte della CEDU, resta comunque il dato dell'appartenenza da tempo di tutti gli Stati membri dell'Unione al Consiglio d'Europa ed al sistema di tutela dei diritti fondamentali che vi afferisce, con la conseguenza che il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale. Né, infine, le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007 e le modifiche dei trattati ivi prefigurate e demandate alla conferenza intergovernativa sono allo stato suscettibili di alterare il quadro giuridico appena richiamato.
Altrettanto inesatto è sostenere che la incompatibilità della norma interna con la norma della CEDU possa trovare rimedio nella semplice non applicazione da parte del giudice comune. Escluso che ciò possa derivare dalla generale “comunitarizzazione” delle norme della CEDU, per le ragioni già precisate, resta da chiedersi se sia possibile attribuire a tali norme, ed in particolare all'art. 1 del Protocollo addizionale, l'effetto diretto, nel senso e con le implicazioni proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto, in particolare la possibilità per il giudice nazionale di applicarle direttamente in luogo delle norme interne con esse confliggenti. E la risposta è che, allo stato, nessun elemento relativo alla struttura e agli obiettivi della CEDU ovvero ai caratteri di determinate norme consente di ritenere che la posizione giuridica dei singoli possa esserne direttamente e immediatamente tributaria, indipendentemente dal tradizionale diaframma normativo dei rispettivi Stati di appartenenza, fino al punto da consentire al giudice la non applicazione della norma interna confliggente. Le stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei confronti del proprio Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da questo pretendono un determinato comportamento. Ciò è tanto più evidente quando, come nella specie, si tratti di un contrasto “strutturale” tra la conferente normativa nazionale e le norme CEDU così come interpretate dal giudice di Strasburgo e si richieda allo Stato membro di trarne le necessarie conseguenze.
6.1.1. – Nella giurisprudenza di questa Corte sono individuabili pronunce le quali hanno ribadito che le norme della CEDU non si collocano come tali a livello costituzionale, non potendosi loro attribuire un rango diverso da quello dell'atto – legge ordinaria – che ne ha autorizzato la ratifica e le ha rese esecutive nel nostro ordinamento. Le stesse pronunce, d'altra parte, hanno anche escluso che, nei casi esaminati, la disposizione interna fosse difforme dalle norme convenzionali (sentenze n. 288 del 1997 e n. 315 del 1990), sottolineando la «sostanziale coincidenza» tra i princìpi dalle stesse stabiliti ed i princìpi costituzionali (sentenze n. 388 del 1999, n. 120 del 1967, n. 7 del 1967), ciò che rendeva «superfluo prendere in esame il problema […] del rango» delle disposizioni convenzionali (sentenza n. 123 del 1970). In altri casi, detta questione non è stata espressamente affrontata, ma, emblematicamente, è stata rimarcata la «significativa assonanza» della disciplina esaminata con quella stabilita dall'ordinamento internazionale (sentenza n. 342 del 1999; si vedano anche le sentenze n. 445 del 2002 e n. 376 del 2000). È stato talora osservato che le norme interne assicuravano «garanzie ancora più ampie» di quelle previste dalla CEDU (sentenza n. 1 del 1961), poiché «i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall'Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione» (sentenze n. 388 del 1999, n. 399 del 1998). Così il diritto del singolo alla tutela giurisdizionale è stato ricondotto nel novero dei diritti inviolabili dell'uomo, garantiti dall'art. 2 della Costituzione, argomentando «anche dalla considerazione che se ne è fatta nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo» (sentenza n. 98 del 1965).
In linea generale, è stato anche riconosciuto valore interpretativo alla CEDU, in relazione sia ai parametri costituzionali che alle norme censurate (sentenza n. 505 del 1995; ordinanza n. 305 del 2001), richiamando, per avvalorare una determinata esegesi, le «indicazioni normative, anche di natura sovranazionale» (sentenza n. 231 del 2004). Inoltre, in taluni casi, questa Corte, nel fare riferimento a norme della CEDU, ha svolto argomentazioni espressive di un'interpretazione conforme alla Convenzione (sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero ha richiamato dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell'esegesi accolta (sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003), avvalorandola anche in considerazione della sua conformità con i «valori espressi» dalla Convenzione, «secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo» (sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998), nonché sottolineando come un diritto garantito da norme costituzionali sia «protetto anche dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti […] come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo» (sentenza n. 154 del 2004).
È rimasto senza seguito il precedente secondo il quale le norme in esame deriverebbero da «una fonte riconducibile a una competenza atipica» e, come tali, sarebbero «insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (sentenza n. 10 del 1993).
6.1.2. – Dagli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte è dunque possibile desumere un riconoscimento di principio della peculiare rilevanza delle norme della Convenzione, in considerazione del contenuto della medesima, tradottasi nell'intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e realizzare.
La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l'adesione alla Convenzione in esame è stata ben presente al legislatore ordinario. Infatti, dopo il recepimento della nuova disciplina della Corte europea dei diritti dell'uomo, dichiaratamente diretta a «ristrutturare il meccanismo di controllo stabilito dalla Convenzione per mantenere e rafforzare l'efficacia della protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla Convenzione» (Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296), si è provveduto a migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l'adempimento delle pronunce della Corte europea (art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12), anche mediante norme volte a garantire che l'intero apparato pubblico cooperi nell'evitare violazioni che possono essere sanzionate (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n. 296). Infine, anche sotto il profilo organizzativo, da ultimo è stata disciplinata l'attività attribuita alla Presidenza del Consiglio dei ministri, stabilendo che gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di Strasburgo sono curati da un Dipartimento di detta Presidenza (d.P.C.m. 1° febbraio 2007 – Misure per l'esecuzione della legge 9 gennaio 2006, n. 12, recante disposizioni in materia di pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo).
6.2. – È dunque alla luce della complessiva disciplina stabilita dalla Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti di questa Corte, che deve essere preso in considerazione e sistematicamente interpretato l'art. 117, primo comma, Cost., in quanto parametro rispetto al quale valutare la compatibilità della norma censurata con l'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, così come interpretato dalla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo.
Il dato subito emergente è la lacuna esistente prima della sostituzione di detta norma da parte dell'art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), per il fatto che la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale convenzionale era suscettibile di controllo da parte di questa Corte soltanto entro i limiti e nei casi sopra indicati al punto 6.1. La conseguenza era che la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura convenzionale non contemplate dall'art. 10 e dall'art. 11 Cost. da parte di leggi interne comportava l'incostituzionalità delle medesime solo con riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali (sentenza n. 223 del 1996). E ciò si verificava a dispetto di uno degli elementi caratterizzanti dell'ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione, costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti esterne, ivi comprese quelle richiamate dalle norme di diritto internazionale privato; e nonostante l'espressa rilevanza della violazione delle norme internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali. Inoltre, tale violazione di obblighi internazionali non riusciva ad essere scongiurata adeguatamente dal solo strumento interpretativo, mentre, come sopra precisato, per le norme della CEDU neppure è ammissibile il ricorso alla “non applicazione” utilizzabile per il diritto comunitario.
Non v'è dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle norme costituzionali e degli orientamenti di questa Corte, che il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei princìpi che espressamente già garantivano a livello primario l'osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Ciò non significa, beninteso, che con l'art. 117, primo comma, Cost., si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com'è il caso delle norme della CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all'art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l'art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione.
Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale 'interposta', egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa occasione.
In relazione alla CEDU, inoltre, occorre tenere conto della sua peculiarità rispetto alla generalità degli accordi internazionali, peculiarità che consiste nel superamento del quadro di una semplice somma di diritti ed obblighi reciproci degli Stati contraenti. Questi ultimi hanno istituito un sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali. L'applicazione e l'interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della Convenzione. La definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall'interpretazione centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui spetta la parola ultima e la cui competenza «si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste» dalla medesima (art. 32, comma 1, della CEDU). Gli stessi Stati membri, peraltro, hanno significativamente mantenuto la possibilità di esercitare il diritto di riserva relativamente a questa o quella disposizione in occasione della ratifica, così come il diritto di denuncia successiva, sì che, in difetto dell'una e dell'altra, risulta palese la totale e consapevole accettazione del sistema e delle sue implicazioni. In considerazione di questi caratteri della Convenzione, la rilevanza di quest'ultima, così come interpretata dal “suo” giudice, rispetto al diritto interno è certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale.
Questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell'uomo. L'interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l'applicazione del livello uniforme di tutela all'interno dell'insieme dei Paesi membri. A questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all'art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta, invero, di sindacare l'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU, nell'interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa.
7. – Premessa la lettura sistematica dell'art. 117, primo comma, Cost., invocato dai rimettenti, è opportuna una ricognizione dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale dell'occupazione acquisitiva, oggetto della norma denunciata.
In origine (legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità pubblica»), fu prevista l'occupazione temporanea (artt. 64 e 70), senza alcun trasferimento di proprietà; e l'occupazione d'urgenza (artt. 71 e 73), inizialmente collegata ai casi contingenti di calamità naturali, fu poi generalizzata ai casi di occupazione per l'espletamento di lavori dichiarati urgenti dal Consiglio superiore dei lavori pubblici. Nella prassi, tuttavia, l'istituto dell'occupazione d'urgenza è divenuto un passaggio normale della procedura espropriativa, fino al punto che sovente l'opera pubblica era realizzata sul fondo occupato in via di urgenza, sulla base di una previa dichiarazione di pubblica utilità, senza che poi seguisse alcun valido provvedimento espropriativo.
A tali casi si riferisce l'istituto, di origine giurisprudenziale, della c.d. «accessione invertita» o «occupazione appropriativa», consacrato dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983, più volte confermata negli anni successivi. Le sezioni unite, in particolare, sulla premessa della illegittimità dell'occupazione al di fuori di un compiuto procedimento espropriativo, della realizzazione di un'opera di interesse pubblico e della impossibilità di far coesistere una proprietà del bene realizzato con una diversa proprietà del fondo, affermarono l'acquisto a titolo originario da parte della pubblica amministrazione a seguito e per effetto della trasformazione irreversibile del bene. A tale conclusione, il giudice di legittimità pervenne utilizzando quell'esigenza di bilanciamento di interessi che pure è presente nella disciplina dell'accessione (art. 934 e seguenti del codice civile) e che nell'ipotesi di specie faceva ritenere prevalenti le ragioni dell'amministrazione in quanto a soddisfazione di interessi pubblici. La ricaduta di tale pronuncia in termini patrimoniali, peraltro, è stata il diritto del proprietario non all'indennità di espropriazione, ma al risarcimento del danno da illecito, equivalente almeno al valore reale del bene, con prescrizione quinquennale dal momento della trasformazione irreversibile del bene.
L'orientamento successivo della Cassazione, pur con qualche oscillazione di minor rilievo (ad esempio sul termine di prescrizione), sostanzialmente ha confermato i punti principali della sentenza del 1983: trasferimento in capo alla pubblica amministrazione della proprietà del bene e risarcimento del danno corrispondente al suo valore di mercato. La logica di tale orientamento era focalizzata soprattutto sull'aspetto civilistico, relativo al mutamento di titolarità del bene per ragioni di certezza delle situazioni giuridiche, mentre rimaneva pacifico il principio della responsabilità aquiliana e per ciò stesso la negazione di un'alternativa al ristoro del danno, corrispondente al valore reale del bene e con le somme accessorie di rito.
7.1 – Negli anni successivi, il legislatore ordinario non sempre ha mantenuto ferma la sopra precisata ricaduta patrimoniale dell'occupazione acquisitiva. E sono al riguardo da ricordare, ai fini che qui interessano, gli interventi di questa Corte.
Inizialmente, la legge 27 ottobre 1988, n. 458, all'art. 3, aveva dato espressa base normativa all'istituto giurisprudenziale dell'occupazione acquisitiva, sia pure con riferimento ad una specifica tipologia di opere pubbliche; e confermato il principio del risarcimento integrale del danno subito dal titolare del bene, limitandosi a disciplinare l'ipotesi che il provvedimento espropriativo fosse dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato. Investita della questione di legittimità costituzionale di tale norma in riferimento all'art. 42, secondo e terzo comma, Cost., questa Corte l'ha dichiarata infondata, osservando, significativamente, che con essa il legislatore, «in una completa ed adeguata valutazione degli interessi in gioco, non si è limitato a corrispondere “l'indennizzo”, ma ha previsto l'integrale risarcimento del danno subito», con la conseguenza che «al mancato adempimento della pretesa restitutoria, imposto da preminenti ragioni di pubblico interesse, si sostituisce la tutela risarcitoria (art. 2043 cod. civ.), integralmente garantita» (sentenza n. 384 del 1990; le argomentazioni sono state ribadite dall'ordinanza n. 542 del 1990). La Corte ha poi dichiarato illegittima la stessa normativa appena evocata, nella parte in cui non si estendeva anche all'ipotesi in cui mancasse del tutto un provvedimento espropriativo, confermando il principio del risarcimento integrale del danno (sentenza 486 del 1991). La sentenza n. 188 del 1995 ha ribadito come questa disciplina fosse appunto «coerente alla connotazione illecita della vicenda», produttiva del «diritto al risarcimento e non all'indennità».
Successivamente il legislatore, con la legge 28 dicembre 1995, n. 549, art. 5-bis, ha stabilito la parificazione tra ristoro del danno per occupazione acquisitiva ed indennizzo espropriativo. Questa Corte, con la sentenza n. 369 del 1996, ha censurato tale parificazione in riferimento all'art. 3 Cost., sottolineando che, «mentre la misura dell'indennizzo – obbligazione ex lege per atto legittimo – costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico alla realizzazione dell'opera e interesse del privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento – obbligazione ex delicto – deve realizzare il diverso equilibrio tra l'interesse pubblico al mantenimento dell'opera già realizzata e la reazione dell'ordinamento a tutela della legalità violata per effetto della manipolazione-distruzione illecita del bene privato». Dunque, ha rimarcato la pronuncia, «sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Costituzione), poiché nella occupazione appropriativa l'interesse pubblico è già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell'opera pubblica, la parificazione del quantum risarcitorio alla misura dell'indennità si prospetta come un di più che sbilancia eccessivamente il contemperamento tra i contrapposti interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo. Con le ulteriori negative incidenze, ben poste in luce dalle varie autorità rimettenti, che un tale “privilegio” a favore dell'amministrazione pubblica può comportare, anche sul piano del buon andamento e legalità dell'attività amministrativa e sul principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato». Infine, secondo detta pronuncia, la «perdita di garanzia che al diritto di proprietà deriva da una così affievolita risposta dell'ordinamento all'atto illecito compiuto in sua violazione», vulnerava anche l'art. 42, secondo comma, della Costituzione.
Il principio desumibile dalla giurisprudenza di questa Corte è, pertanto, che l'accessione invertita «realizza un modo di acquisto della proprietà […] giustificato da un bilanciamento fra interesse pubblico (correlato alla conservazione dell'opera in tesi pubblica) e l'interesse privato (relativo alla riparazione del pregiudizio sofferto dal proprietario) la cui correttezza “costituzionale” è ulteriormente» confortata «dal suo porsi come concreta manifestazione, in definitiva, della funzione sociale della proprietà» (sentenza n. 188 del 1995, che richiama la sentenza n. 384 del 1990). E, tuttavia, essendo l'interesse pubblico già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell'opera pubblica, la misura della liquidazione del danno non può prescindere dalla adeguatezza della tutela risarcitoria che, nel quadro della conformazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, comportava la liquidazione del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore venale del bene, con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione.
Successivamente, l'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 ha introdotto nell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, il comma 7-bis, secondo cui in caso di occupazione illegittima di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell'indennità di cui al comma 1» (quella, cioè, prevista per l'espropriazione dei suoli edificatori: semisomma tra valore di mercato e reddito catastale rivalutato, decurtata del 40 per cento), con esclusione di tale riduzione e con la precisazione che «in tal caso l'importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento».
Il profilo della misura della liquidazione del danno, con specifico riferimento alla norma appena ricordata, è stato esaminato dalla sentenza n. 148 del 1999, che va valutata al giusto. Essa ha dichiarato l'infondatezza delle censure riferite – per quanto qui interessa – agli artt. 3 e 42 Cost., essenzialmente in considerazione della mancanza di copertura costituzionale della regola della integralità della riparazione del danno e della equivalenza della medesima al pregiudizio cagionato, della «eccezionalità del caso», giustificata «soprattutto dal carattere temporaneo della norma denunziata», nonché della esigenza di salvaguardare una ineludibile, e limitata nel tempo, manovra di risanamento della finanza pubblica.
La legittimità rispetto all'art. 42 Cost. di un ristoro inferiore (e di molto) al valore reale del bene, in definitiva, è stata ancorata dalla pronuncia del 1999 anzitutto in riferimento ad un parametro diverso da quello evocato in questa sede. Inoltre, a tale conclusione questa Corte è pervenuta essenzialmente in considerazione della temporaneità della disciplina, nonché di esigenze congiunturali di carattere finanziario. E ancora sulla temporaneità pone l'accento la sentenza n. 24 del 2000.
8. – Precisato il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si colloca la normativa qui impugnata, va ora esaminata la censura con la quale si prospetta, per la prima volta, che la norma denunciata violerebbe l'art. 117, primo comma, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con le norme internazionali convenzionali e, anzitutto, con l'art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU, nell'interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.
Al riguardo, occorre premettere che entrambe le ordinanze di rimessione non sollevano il problema della compatibilità dell'istituto dell'occupazione acquisitiva in quanto tale con il citato art. 1, ma censurano la norma denunciata esclusivamente nella parte in cui ne disciplina la ricaduta patrimoniale. Pertanto, oggetto del thema decidendum posto dalla questione di costituzionalità è solo il profilo della compatibilità di tale ricaduta patrimoniale disciplinata dalla norma censurata con la disposizione convenzionale, ciò che impone di fare riferimento alle conferenti sentenze del giudice europeo di Strasburgo.
L'art. 1 del Protocollo addizionale stabilisce: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale».
La Corte europea ha interpretato tale norma in numerose sentenze, puntualmente e diffusamente richiamate nell'ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, dando vita ad un orientamento ormai consolidato, confermato dalla Grande Chambre della Corte (per tutte, Grande Chambre, sentenza 29 marzo 2006, Scordino, dove anche una completa ricostruzione dell'indirizzo confermato dalla pronuncia), formatosi anche in processi concernenti la disciplina ordinaria dell'indennità di espropriazione stabilita dal citato art. 5-bis (per più ampi svolgimenti v. sentenza n. 348 in pari data).
In sintesi, relativamente alla misura dell'indennizzo, nella giurisprudenza della Corte europea è ormai costante l'affermazione secondo la quale, in virtù della norma convenzionale, «una misura che costituisce interferenza nel diritto al rispetto dei beni deve trovare il “giusto equilibrio” tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e le esigenze imperative di salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo». Pertanto, detta norma non garantisce in tutti i casi il diritto dell'espropriato al risarcimento integrale, in quanto «obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli perseguiti dalle misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale effettivo». Per converso, proprio in riferimento alla disciplina stabilita dal richiamato art. 5-bis della legge qui in discussione, la Corte europea ha affermato che, quando si tratta di «esproprio isolato che non si situa in un contesto di riforma economica, sociale o politica e non è legato ad alcun altra circostanza particolare», non sussiste «alcun obiettivo legittimo di “pubblica utilità” che possa giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale», osservando altresì che, al fine di escludere la violazione della norma convenzionale, occorre dunque «sopprimere qualsiasi ostacolo per l'ottenimento di un indennizzo avente un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato» (sentenza 29 marzo 2006, Scordino).
La Corte europea, inoltre, nel considerare specificamente la disciplina dell'occupazione acquisitiva, ha anzitutto premesso e ribadito che l'ingerenza dello Stato nel caso di espropriazione deve sempre avvenire rispettando il «giusto equilibrio» tra le esigenze dell'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo (Sporrong e Lönnroth c. Svezia del 23 settembre 1982, punto 69). Inoltre, con riferimento allo specifico profilo della congruità della disciplina qui censurata, la Corte europea ha ritenuto che la liquidazione del danno per l'occupazione acquisitiva stabilita in misura superiore a quella stabilita per l'indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà, così come è garantito dalla norma convenzionale (tra le molte, I Sezione, sentenza 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro s.a.s.; IV sezione, sentenza 17 maggio 2005, Scordino; IV Sezione, sentenza 17 maggio 2006, Pasculli); e ciò dopo aver da tempo affermato espressamente che il risarcimento del danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal provvedimento illegittimo (sentenza 7 agosto 1996, Zubani).
Il bilanciamento svolto in passato con riferimento ad altri parametri costituzionali deve essere ora operato, pertanto, tenendo conto della sopra indicata rilevanza degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, e cioè della regola stabilita dal citato art. 1 del Protocollo addizionale, così come attualmente interpretato dalla Corte europea. E sul punto va ancora sottolineato che, diversamente da quanto è accaduto per altre disposizioni della CEDU o dei Protocolli (ad esempio, in occasione della ratifica del Protocollo n. 4), non vi è stata alcuna riserva o denuncia da parte dell'Italia relativamente alla disposizione in questione e alla competenza della Corte di Strasburgo.
In definitiva, essendosi consolidata l'affermazione della illegittimità nella fattispecie in esame di un ristoro economico che non corrisponda al valore reale del bene, la disciplina della liquidazione del danno stabilita dalla norma nazionale censurata si pone in contrasto, insanabile in via interpretativa, con l'art. 1 del Protocollo addizionale, nell'interpretazione datane dalla Corte europea; e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione.
D'altra parte, la norma internazionale convenzionale così come interpretata dalla Corte europea, non è in contrasto con le conferenti norme della nostra Costituzione.
La temporaneità del criterio di computo stabilito dalla norma censurata, le congiunturali esigenze finanziarie che la sorreggono e l'astratta ammissibilità di una regola risarcitoria non ispirata al principio della integralità della riparazione del danno non costituiscono elementi sufficienti a far ritenere che, nel quadro dei princìpi costituzionali, la disposizione censurata realizzi un ragionevole componimento degli interessi a confronto, tale da contrastare utilmente la rilevanza della normativa CEDU. Questa è coerente con l'esigenza di garantire la legalità dell'azione amministrativa ed il principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato. Per converso, alla luce delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell'art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l'opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito.
In conclusione, l'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell'occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione.
9. – Restano assorbite le censure incentrate sugli ulteriori profili e parametri costituzionali invocati dai rimettenti.