N. 1
SENTENZA 8-9 GENNAIO 1996
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 6-bis,
della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di
finanza pubblica), introdotto dal decreto-legge 27 agosto 1994, n.
515 (Provvedimenti urgenti in materia di finanza locale per l'anno
1994), convertito in legge 28 ottobre 1994, n. 596, e del combinato
disposto degli artt. 2 e 9 del decreto-legge 27 agosto 1994, n. 515,
promossi con ordinanze emesse il 22 dicembre 1994 dal TAR per
l'Emilia Romagna, sez. staccata di Parma, il 9 dicembre 1994 dal
Consiglio di Stato - sez. V giur., il 7 dicembre 1994 dalla Corte dei
conti, sez. giur. per la Regione Campania (n. 2 ordinanze), il 15
dicembre 1994 dal TAR per la Sicilia, sez. staccata di Catania (n. 2
ordinanze), iscritte, rispettivamente, ai nn. 123, 326, 360, 361, 461
e 462 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nelle Gazzette
Ufficiali della Repubblica nn. 11, 24, 25 e 36, prima serie speciale,
dell'anno 1995;
Visti gli atti di costituzione del Procuratore regionale
rappresentante il pubblico ministero presso la sezione
giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Campania;
Udito nella camera di consiglio del 13 dicembre 1995 il Giudice
relatore Cesare Ruperto.
Ritenuto in fatto
1. - Il Comune di Corniglio, con delibera consiliare in data 19
marzo 1990, trasformava un posto di esecutore applicato (quarta
qualifica funzionale) in un posto di ispettore aggiunto
amministrativo addetto al servizio elettorale (sesta qualifica
funzionale).
La Commissione centrale per la finanza locale, anche a seguito
delle controdeduzioni del Comune, non approvava detta trasformazione,
ed avverso tale decisione ricorreva il Comune stesso innanzi al TAR
per l'Emilia-Romagna, sez. staccata di Parma, il quale - rilevato che
nel corso del giudizio era sopravvenuta la legge 28 ottobre 1994, n.
596 (di conversione del decreto-legge 27 agosto 1994, n. 515), che ha
inserito il comma 6-bis nell'art. 3 della legge 24 dicembre 1993, n.
537, stabilendo che "sono valide ed efficaci" le delibere degli enti
locali anteriori al 31 agosto 1993 che abbiano previsto profili
professionali od operato inquadramenti in modo difforme dalle
disposizioni contenute nel d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347 - ha
sollevato, con ordinanza emessa il 22 novembre 1994, questione di
legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 97 della
Costituzione, dell'art. 2, comma 1, della detta legge n. 596 del
1994, che ha inserito il citato comma 6-bis.
Il TAR osserva come il principio di eguaglianza abbia due
significati, concernenti rispettivamente la posizione del popolo
nello Stato e la posizione dei cittadini. Sotto il primo profilo, la
stessa democrazia partecipativa troverebbe in tale principio il suo
fondamento, che informa la struttura dello Stato e non può
consentire che enti locali che abbiano violato la legge siano
premiati rispetto a quelli che l'abbiano rispettata. Sotto il secondo
aspetto, il principio implica la parità giuridica a parità di
condizioni e requisiti, sicché dove manchi un motivo ragionevole ed
accettato dalla comune coscienza per stabilire trattamenti
differenziati, dev'essere usata uguaglianza di trattamento, a maggior
ragione per gli enti pubblici.
Sub art. 97 - osserva poi il giudice a quo - non è concepibile un
"premio" elargito a chi abbia disobbedito alle leggi, posto che la
richiamata norma costituzionale impone invece che la funzione
amministrativa debba svolgersi secondo i fini ed i limiti da queste
sanciti. Analogamente anche il legislatore avrebbe l'obbligo, "anche
a fini educativi e di certezza nei rapporti", di attuare
l'imparzialità nelle leggi che organizzano i pubblici uffici: il che
non può realizzarsi legittimando l'operato di un ente che abbia
deliberatamente violato l'ordinamento giuridico ed il principio
dell'accesso concorsuale ai pubblici impieghi. D'altra parte, il
fatto che l'art. 97 della Costituzione faccia salvi i casi stabiliti
dalle leggi vigenti, non può che riferirsi alle disposizioni di
favore stabilite per particolari categorie protette.
2. - Il Comune di Villongo aveva fatto ricorso al TAR per la
Lombardia chiedendo l'annullamento dell'ordinanza con cui il CO.RE.CO
di Bergamo aveva annullato una sua delibera, che aveva attribuito ad
un capo-vigile urbano la settima qualifica funzionale. Avverso la
sentenza di rigetto del ricorso, il Comune ha proposto appello al
Consiglio di Stato, il quale, con ordinanza emessa il 9 dicembre
1994, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 70, 97 e 98, primo
comma, della Costituzione - questione di legittimità costituzionale
dell'art. 6-bis del decreto-legge 27 agosto 1994, n. 515, convertito
in legge 28 ottobre 1994, n. 596 (recte dell'art. 2, comma 1, del
citato decreto-legge, aggiunto dalla legge di conversione ed
introduttiva del comma 6-bis dell'art. 3 della legge 24 dicembre
1993, n. 537).
Osserva il giudice a quo che la disposizione, inserita "in una
normativa che non sembrerebbe diretta al risanamento delle finanze
degli enti locali", sarebbe d'immediata applicazione nel giudizio e
potrebbe comportare l'accoglimento dell'appello. Nel merito, poi,
egli rileva come il d.P.R. n. 347 del 1983, che ha recepito l'accordo
nazionale di lavoro per il comparto degli enti locali, rappresenta
uno strumento per attuare un razionale assetto del personale, onde
una norma come quella impugnata che dichiari di rinunciare
all'assetto dato da una normativa organica senza sostituirne uno
diverso si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98, primo comma,
della Costituzione.
Sotto altro profilo, osserva il rimettente come l'art. 70 della
Costituzione, attribuendo alle Camere il potere legislativo, implichi
una concezione dello Stato di diritto caratterizzata dal principio
della dipendenza da un'unica legge comune, sì che i singoli
provvedimenti debbono conformarsi alle regole previste in via
generale dalla legge, la quale definisce l'organizzazione degli
uffici e lo status degli impiegati. La legge insomma, come non può
usurpare la sfera delle decisioni specifiche delle varie autorità,
così non può legittimare l'arbitrio, onde è l'essenza stessa dello
Stato di diritto a dirsi violata allorché - come nella specie - la
legge consente alle pubbliche amministrazioni di regolare il rapporto
d'impiego a piacimento, ovvero quando, dopo aver posto una regola
generale sull'ordinamento gerarchico ed economico degl'impiegati,
essa sancisce poi l'irrilevanza di tale regola.
3. - Il Comune di Acireale aveva proceduto all'inquadramento nella
sesta qualifica funzionale di alcuni appartenenti al locale Corpo dei
vigili urbani; ma la Corte dei conti, sez. giurisdizionale per la
Regione siciliana, aveva condannato gli ex amministratori al
risarcimento - in favore del Comune stesso - del danno derivante
dall'illegittimo inquadramento, superiore a quello dovuto in forza
delle mansioni esercitate. In seguito a ciò la Giunta municipale
aveva annullato in sede di autotutela i detti provvedimenti e
gl'interessati avevano adito, per l'annullamento della relativa
delibera, il TAR della Sicilia, sez. di Catania, il quale, in due
distinti giudizi, con due identiche ordinanze emesse entrambe il 15
dicembre 1994, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 24, 25,
77, 81, 97 e 113 della Costituzione - questione di legittimità
costituzionale dell'art. 3, comma 6-bis della legge 24 dicembre 1993,
n. 537, introdotto dalla legge n. 596 del 1994.
A parere del rimettente, la norma impugnata può definirsi una
sorta di "condono tombale" di tutti gli inquadramenti illegittimi (o
comunque inefficaci) operati fino al 31 agosto 1993, con conseguente
elisione di ogni responsabilità politica e patrimoniale in capo agli
amministratori che hanno disposto gli atti sanati, in quanto il
beneficio recato dalla norma si traduce in una sorta di legittimità
sopravvenuta dei provvedimenti impugnati, sì che la domanda dei
ricorrenti dovrebbe essere accolta ovvero dichiarata improcedibile
per sopravvenuta carenza d'interesse.
Nel merito, lo stesso rimettente ritiene che la norma impugnata
rappresenti un caso esemplare di sviamento della funzione del
legislatore, il quale dà agli atti illegittimi - definiti validi ed
efficaci - una qualificazione definitiva, sottraendoli a qualsiasi
controllo. Essa norma, inoltre, figura inserita in un contesto
estemporaneo (legge di finanza locale per il 1994) allo scopo
d'influire sui molti giudizi pendenti, che "si trascinano grazie ai
compiacenti ritardi di molti comuni" e ad onta della giurisprudenza
amministrativa, "fermissima" nell'affermare l'irrilevanza giuridica
delle mansioni superiori svolte di fatto. Sarebbe tuttavia evidente
l'arbitrarietà della norma, non tanto perché volta a sovvertire un
indirizzo ermeneutico - peraltro coerente con i valori costituzionali
- ma soprattutto perché fondata su un "valore giuridico negativo":
far lucrare cioè ad alcuni dipendenti, piuttosto che ad altri,
l'ingiusto vantaggio di un inquadramento superiore a quello dagli
stessi ottenibile in base alla loro preparazione culturale. A
fortiori si dovrebbe confermare tale critica, se si pensa che non
viene nella specie proposto un assetto alternativo rispetto al
sistema degl'inquadramenti ex d.P.R. n. 347 del 1983, ma ci si limita
ad elidere l'antigiuridicità di inquadramenti che ontologicamente
restano pur sempre illegittimi.
In tal modo - secondo il rimettente - si è "dato prestigio a
pratiche del più vieto e deteriore clientelismo", eludendo la regola
del pubblico concorso ed attribuendo alla P.A. datrice di lavoro la
fattuale discrezionalità d'attribuire ai propri dipendenti, secondo
schemi tutt'altro che trasparenti (in quanto non conoscibili a priori
e non verificabili ex post,) la qualifica funzionale che più le
aggrada, anche contro la propria pianta organica ed in contraddizione
quindi con le proprie scelte organizzative.
Ma la norma risulterebbe lesiva anche degli artt. 24 e 25, primo
comma, della Costituzione, privando perfino le stesse amministrazioni
di ogni argomento di difesa e/o resistenza avverso i provvedimenti,
indipendentemente dalla loro eventuale abnormità.
La paradossalità della norma stessa risalterebbe perfino a
contrario, là dove questa impedisce di adire il (o di eccepire
dinanzi al) proprio giudice naturale perfino se la P.A. abbia
stabilito un inquadramento inferiore ovvero del tutto irrazionale,
purché difforme all'art. 40 del d.P.R. n. 347 del 1983. Sarebbe
così evidente lo "svuotamento" della tutela della posizione
giuridica dei soggetti destinatari degli effetti negativi degli atti,
privati od enti che siano. Il che si riverbererebbe sulla stessa
precostituzione del TAR come giudice naturale del giudizio a quo e,
in generale, del giudice amministrativo nella sua competenza
esclusiva in materia di pubblico impiego. Per cui, venendo limitata
la possibilità del giudice di conoscere del contenzioso sugli
inquadramenti, si configurerebbe altresì la violazione dell'art. 113
della Costituzione, per l'esclusione in radice, senza alcuna
discriminazione sul piano degli effetti, di ogni possibilità di
tutela avverso i provvedimenti d'inquadramento.
Ulteriore profilo d'illegittimità costituzionale risiederebbe
nella violazione dell'art. 77, secondo comma, della Costituzione, in
quanto la norma impugnata non avrebbe nulla a che vedere con il
contenuto precipuo del decreto-legge n. 515 del 1994. Infatti
l'inserzione forzata, in un decreto-legge, di novelle estemporanee
rappresenterebbe un uso improprio e strumentale del procedimento
d'urgenza fissato per i decreti-legge con riferimento a materie per
le quali i regolamenti stessi non prevederebbero procedure
abbreviate.
Un ultimo profilo d'incostituzionalità viene prospettato dallo
stesso TAR in riferimento all'art. 81 della Costituzione. Il
rimettente contesta l'assunto, secondo cui il provvedimento
legislativo in esame sarebbe "a costo zero"; osservando come la norma
determini, viceversa, la definizione (ovvero la reviviscenza)
d'inquadramenti suscettibili di più alte retribuzioni, pure contro
la volontà dell'ente datore di lavoro e quindi anche senza la
previsione in bilancio delle maggiori spese, con pregiudizio anche di
quegli enti che, rigettando le pretese dei dipendenti ovvero
conformandosi alle decisioni giudiziali o degli organi tutori, non
avevano effettuato stanziamenti a riguardo. Nella norma, del resto,
non sono neppure contenuti i parametri secondo i quali sarebbero
stati esclusi gli oneri, né alcun rinvio - ai fini della copertura -
al bilancio del 1995.
4.1. - Nel corso di due giudizi di responsabilità promossi dal
Procuratore regionale della Corte dei conti avverso alcuni
amministratori di due comuni, per il danno arrecato a causa di alcuni
inquadramenti illegittimi, la Corte dei conti, sez. giurisdizionale
per la Campania, con due ordinanze analoghe emesse entrambe il 7
dicembre 1994, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, primo
comma, 24, primo comma, 81, quarto comma, 97, primo comma, e 128
della Costituzione - questione di legittimità costituzionale
dell'art. 3, comma 6 bis della legge 24 dicembre 1993, n. 537,
introdotto dalla legge 28 ottobre 1994, n. 596, in sede di
conversione del decreto-legge 27 agosto 1994, n. 515, nonché, in
relazione dell'art. 81 della Costituzione, del combinato disposto
degli artt. 2 e 9 della legge 28 ottobre 1994, n. 596, di conversione
del decreto-legge 27 agosto 1994, n. 515.
Premessa l'applicabilità della norma di sanatoria al caso de quo,
il giudice rimettente osserva che, essendo stati resi validi e quindi
legittimi ex tunc gli inquadramenti, viene meno l'antigiuridicità
del comportamento di chi li abbia disposti, pur in violazione delle
leggi all'epoca vigenti: la legittimità dell'atto è infatti
elemento fondante per valutare tale antigiuridicità, né un atto
valido può determinare una sanzione risarcitoria a carico di chi lo
adottò.
Pur dando atto dei profili d'illegittimità costituzionale
prospettati dal Procuratore regionale in riferimento agli artt. 3, 24
e 97 della Costituzione, il giudice a quo limita la censura
all'aspetto concernente la disparità tra l'amministratore citato in
giudizio e gli amministratori di altri enti pubblici non destinatari
della sanatoria, nonché alla disparità determinatasi tra comuni che
abbiano la pianta organica del personale sovradimensionata o,
all'incontrario, sottodimensionata rispetto alla popolazione
residente secondo i criteri fissati dal comma 14 dello stesso
articolo.
Secondo il giudice rimettente, il principio d'eguaglianza si deve
riferire a tutti i soggetti dell'ordinamento (sia persone fisiche che
giuridiche, sia private che pubbliche) e non consente che venga
concesso il privilegio dell'irresponsabilità per atti che sarebbero
certamente dannosi per il comune. Il legislatore avrebbe collegato
tale favor a circostanze del tutto contingenti, come il rapporto
pianta organica-popolazione (oltretutto senza specificare a quale
momento tale calcolo debba essere riferito) e trascurando invece
"l'impatto finanziario", non solo sugli enti dissestati ma anche su
quelli comunque in difficoltà. Inoltre la sanatoria non si collega
alle disponibilità del posto in pianta organica, così risolvendosi
in meri, ingiusti favoritismi.
Risulterebbe altresì violato l'art. 97 della Costituzione, inteso
come limite alla discrezionalità legislativa in materia di pubblico
impiego, determinandosi un'alterazione della pianta organica e quindi
della struttura burocratica dell'ente, e consolidandosi situazioni
determinatesi al di fuori di una valutazione del merito e delle
capacità individuali. A ciò va aggiunto che, derivando dal peso
economico del personale buona parte dei problemi finanziari degli
enti dissestati, l'inclusione di questi tra i beneficiari non può
non aver determinato un ulteriore aggravamento della loro situazione,
con evidente pregiudizio del criterio del "buon andamento".
Anche gli artt. 128 e 81, quarto comma, della Costituzione,
risulterebbero poi violati, poiché sarebbe inammissibile ogni
compressione delle autonomie locali attraverso una norma, non
limitata a fissare princìpi generali o a fornire indicazioni
operative, ma volta a regolare il comportamento degli enti locali o
addirittura ad imporre alterazioni nella struttura o nel
funzionamento degli stessi, non motivate da esigenze di coordinamento
collegabili (come, ad es., quelle finanziarie) alla vita della
comunità nazionale. In tal senso la norma denunciata colliderebbe
con i princìpi enunciati dall'art. 1, comma 3, e dall'art. 51,
comma 8, della legge 8 giugno 1990, n. 142, privando di fatto i
comuni della loro potestà di auto-organizzazione, sancita appunto
dalla legge sulle autonomie locali, in particolare inibendo loro lo
strumento dell'autotutela; e, ciò, senza alcuna ragione di ordine
generale o d'interesse nazionale, né sulla base di esigenze di
natura economica o finanziaria, ma anzi creando altresì impedimenti
nella programmazione ed attuazione degli obiettivi di sviluppo.
Non vi sarebbe infine alcuna indicazione circa i mezzi di copertura
della specifica spesa, da ritenersi sicuramente esistente e nuova (e
non sarebbe, al riguardo, richiamabile la previsione di cui all'art.
9, essendo essa riferita agl'interventi indicati negli artt. 1 e 4 e
non alle norme impugnate).
4.2. - In questi due ultimi giudizi è intervenuto il Procuratore
regionale, sostenendo che la norma impugnata non importa alcuna
variazione nel regime della responsabilità degli amministratori,
poiché attiene soltanto al profilo della legittimità degli atti e
non anche a quello della illiceità o meno dei comportamenti. Di
conseguenza - dopo aver rilevato che la questione non sarebbe
rilevante - solo in via gradata, per il caso che la Corte
costituzionale dovesse recepire l'interpretazione del giudice
rimettente, sostiene che le censure - in particolare quelle sub artt.
3 e 97 della Costituzione - parrebbero fondate, risolvendosi la
denunciata norma in una "sorta di beffa per gli amministratori che
seppero resistere alle inaccettabili rivendicazioni del personale".
Peraltro, considerando il problema sub art. 81, il Procuratore
regionale osserva come la questione resti comunque rilevante de
futuro, in quanto in nessun caso gli amministratori possono essere
chiamati a rispondere della parte di danno derivante da una
erogazione dal momento in cui questa, per scelte legislative, non è
più suscettibile di essere annullata.
Considerato in diritto
1. - I giudici rimettenti, evocando molteplici parametri
costituzionali, dubitano tutti della legittimità dell'art. 3, comma
6-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, introdotto dalla legge
28 ottobre 1994, n. 596, di conversione del decreto-legge 27 agosto
1994, n. 515. La norma impugnata rende validi ed efficaci i
provvedimenti (adottati prima del 31 agosto 1993) riguardanti i
dipendenti degli enti locali, che abbiano previsto profili
professionali ed operato i relativi inquadramenti in modo difforme
dalle disposizioni contenute nel d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347. Essa
è applicabile agli enti locali, ancorché dissestati, i cui
organici, per effetto dei provvedimenti di cui sopra, non superino i
rapporti tra dipendenti e popolazione fissati nel medesimo art. 3,
comma 14.
In particolare la norma contrasterebbe:
a) secondo il TAR Emilia-Romagna, sezione di Parma (r.o. 123 del
1995), con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, per il deteriore
trattamento riservato a coloro che si siano conformati alla legge
rispetto a chi l'abbia violata, che viene viceversa premiato, e per
lo sviamento dell'azione amministrativa;
b) secondo il Consiglio di Stato (r.o. 326 del 1995), con gli
artt. 3, 70, 97 e 98, primo comma, della Costituzione, in quanto la
norma sancisce la rinuncia all'assetto dato alla materia
dell'inquadramento da un'organica disciplina, senza sostituirla con
un'altra, legittimando l'arbitrio e così violando l'essenza dello
Stato di diritto;
c) secondo il TAR della Sicilia, sezione staccata di Catania
(r.o. 461 e 462 del 1995), con gli artt. 3, 24, 25, 77, 81, 97 e 113
della Costituzione, per l'irragionevolezza ed arbitrarietà della
norma; per la lesione del principio di eguaglianza nell'àmbito del
lavoro subordinato pubblico; per l'impossibilità di adire il giudice
naturale (perfino in caso d'inquadramenti sfavorevoli), sia da parte
dei dipendenti che da parte degli enti interessati; per l'abuso del
procedimento legislativo relativo ai decreti-legge; per l'omessa
indicazione della copertura finanziaria; per la violazione della
regola del pubblico concorso e l'uso strumentale della
discrezionalità organizzatoria; per la mancanza di tutela di diritti
ed interessi legittimi avverso gli atti della pubblica
amministrazione (segnatamente in danno dei dipendenti pretermessi da
un illegittimo inquadramento);
d) secondo la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la
Campania (r.o. 360 e 361 del 1995), con gli artt. 3, primo comma, 24,
primo comma, 81, quarto comma, 97, primo comma, e 128 della
Costituzione, per la disparità di trattamento tra amministratori
pubblici deresponsabilizzati in virtù della norma e amministratori
non destinatari della sanatoria, nonché tra gli stessi enti locali;
per l'omessa considerazione, oltre che della copertura della spesa,
delle conseguenze finanziarie della sanatoria; per la
disorganizzazione delle piante organiche che dalla stessa deriva,
unitamente alla mancanza di idonea selezione attitudinale ed alla
disincentivazione del personale pretermesso; per l'indebita
compressione delle autonomie locali sotto il profilo dell'inibizione
all'utilizzo dell'autotutela e dell'impedimento alla programmazione.
La Corte dei conti impugna altresì, in riferimento all'art. 81
della Costituzione, il combinato disposto degli artt. 2 e 9 del
citato decreto-legge n. 515 del 1994, convertito dalla legge n. 596
del 1994, recanti, rispettivamente, disposizioni per gli enti locali
dissestati e la previsione della copertura finanziaria.
2. - Le questioni, per l'identità del tema, debbono essere
congiuntamente trattate e decise; i relativi giudizi vanno perciò
riuniti.
3. - Preliminarmente è necessario valutare l'ammissibilità della
costituzione in giudizio del Procuratore regionale della Corte dei
conti.
Questi motiva la propria partecipazione al giudizio incidentale
qualificandosi parte necessaria dei giudizi in corso dinanzi alla
Corte dei conti e richiamando la previsione di cui al secondo comma
dell'art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dove si prevede
appunto che, avvenuta la notificazione dell'ordinanza di rimessione
ai sensi dell'art. 23, le parti possono presentare le loro deduzioni.
Ma è proprio il richiamo all'art. 23 che non consente di assimilare
la posizione del pubblico ministero a quella delle parti in causa,
trattandosi di soggetti ben distintamente individuati come separate
figure destinatarie della notifica nell'ultimo comma della norma
citata.
Non v'è dubbio che la collocazione del pubblico ministero nel
processo sia del tutto peculiare, soprattutto allorché egli sia il
titolare del potere d'impulso del processo stesso. Nella specie il
Procuratore regionale ha appunto l'esercizio dell'azione di
responsabilità, e sempre agisce nell'interesse oggettivo
dell'ordinamento, assumendo un vero ruolo di "organo di giustizia";
di talché la situazione in esame coincide con quella già scrutinata
da questa Corte nell'ordinanza n. 327 del 1995.
In tale occasione si è rilevato che non è prevista né
disciplinata dalle norme generali e dalle norme integrative di
procedura dinanzi alla Corte la costituzione, nei giudizi incidentali
di legittimità costituzionale, del pubblico ministero del giudizio
principale. Nell'impossibilità, per le anzidette ragioni, di
un'applicazione analogica della disciplina dettata per le parti, deve
quindi dichiararsi inammissibile la costituzione del Procuratore
regionale.
4. - Nel merito, la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 3, comma 6-bis, della legge n. 537 del 1993 è fondata.
4.1. - In conformità alle previsioni contenute negli allora
vigenti articoli 6, 7 e 8 della legge 29 marzo 1983, n. 93
(legge-quadro sul pubblico impiego), con il d.P.R. 25 giugno 1983, n.
347 venne data una veste normativa all'accordo raggiunto tra le parti
sociali per il personale dipendente degli enti locali.
Premessa la conformità ai princìpi generali e l'avvenuta verifica
delle compatibilità finanziarie, tale provve-dimento legislativo si
articola secondo una logica di compiutezza negoziale propria del
contratto collettivo, attraverso l'individuazione dell'àmbito di
applicabilità e la dettagliata regolamentazione di tutti gli
istituti del rapporto di lavoro. Tra questi, le configurazioni dei
profili professionali per le varie qualifiche funzionali e le
previsioni delle modalità di primo inquadramento assumono
un'importanza preminente, per le palesi implicazioni
sull'organizzazione degli enti e sui relativi oneri di bilancio.
La materia ha poi subìto ulteriori e più rigorosi interventi di
razionalizzazione da parte del legislatore, che hanno comportato la
definizione di rapporti puntuali tra piante organiche, attribuzione
di mansioni e gestione delle risorse in generale (cfr. artt. 30 e 57
del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, provvedimento
abrogativo delle citate norme della legge-quadro, nonché art. 22
della legge 23 dicembre 1994. n. 724), sì da potersi dire che si son
venuti a configurare, nel pubblico impiego, una serie di princìpi
fondamentali in tema di accesso, inquadramento e progressione di
carriera.
4.2. - Il denunciato art. 3, comma 6-bis è stato introdotto dalla
legge di conversione del decreto-legge n. 515 del 1994, senza che nel
corso della (brevissima) discussione sulla norma ne siano state
valutate a pieno la portata e le conseguenze. Dagli atti parlamentari
infatti risultano solo generiche dichiarazioni circa l'intento di
sanare situazioni in cui l'assegnazione della qualifica superiore
connessa alle mansioni svolte viene presentata come un atto di
giustizia sostanziale, nonché richiami all'esigenza di evitare il
protrarsi del contenzioso giudiziario e, da ultimo, l'incauta
asserzione che la norma approvanda non avrebbe comportato oneri
finanziari.
In realtà, l'ampiezza della disposizione appare estesissima,
realizzando essa una sorta di sanatoria in bianco per tutti i
provvedimenti illegittimi siccome non conformi a quel sistema
(intimamente correlato) descritto dal d.P.R. n. 347 del 1983, che a
questo punto ne risulta pressoché vanificato nella sua fondamentale
finalità, vòlta ad assicurare una razionale organizzazione degli
uffici, su cui hanno ovviamente inciso gli atti illegittimi sanati
con la denunciata norma.
Questa Corte ha in più occasioni dato atto dell'ampia
discrezionalità del legislatore nella strutturazione degli uffici e
nell'articolazione delle carriere del personale; procedendo ad una
valutazione di compatibilità tra azione amministrativa e principio
di buon andamento, strettamente correlata alle circostanze del caso.
Anzi, proprio in tema di leggi di sanatoria, si è valutato la ratio
stessa della sanatoria comparandola agli altri valori in gioco,
spesso col risultato di far ritenere che il medesimo principio di
buon andamento giustificasse la normativa di sanatoria e che, anzi,
questa costituisse applicazione di quello, giacché faceva salve
esigenze di garanzia del servizio ovvero consolidava posizioni
acquisite e risalenti nel tempo (cfr. sentenze n. 659 del 1994 e n.
236 del 1992). Ma è chiaro che in tali ipotesi il criterio
fondamentale del perseguimento del pubblico interesse, cui deve
sempre conformarsi l'azione della pubblica amministrazione, non
veniva affatto contraddetto dalla normativa denunciata, come invece
clamorosamente è accaduto nella specie, dove il legislatore,
prescindendo dalla cura del pubblico interesse, ha inserito nel
sistema un precetto in piena collisione con i princìpi che regolano
la materia.
La previsione contenuta nel comma 6-bis dell'art. 3 appare viziata
da una indeterminatezza tale, da non consentire di distinguere nella
molteplicità dei provvedimenti sanati: se favorevoli o sfavorevoli,
individuali o collettivi, provvisori o definitivi; così da
precludere definitivamente la ricerca di una qualsiasi ratio che non
sia quella della sanatoria per se stessa. Il solo elemento richiesto
per l'applicabilità della sanatoria, a parte i requisiti dell'ente o
quelli temporali, risiede invero nella contrarietà degli atti alla
legge. La norma si palesa in tal modo come una negazione, non solo
del buon andamento ma anche di una razionale e coerente attività di
amministrazione; e non può certo superare quello scrutinio
"particolarmente rigoroso" che questa Corte richiede in materia (v.
sentenza n. 94 del 1995).
Innanzi tutto va considerato l'effetto premiale che ne deriva in
favore di autori e beneficiari dei provvedimenti illegittimi, a
fronte di amministratori e dipendenti che hanno invece ottemperato
alla legge e tuttavia vengono a trovarsi in situazione svantaggiata.
Occorre poi rilevare come le situazioni di fatto illegalmente
costituitesi, in quanto volte ad eludere tassative prescrizioni, non
possono essere a posteriori consolidate senza costituire esempio "di
diseducazione civile" (sentenza n. 16 del 1992).
Va infine osservato che inquadramenti e profili professionali
lesivi delle regole che gli enti locali si sono essi stessi dati
attraverso la contrattazione, non possono non pregiudicarne altresì
l'efficienza, in danno dell'intera collettività.
La regola del concorso negli accessi e nei passaggi di carriera e,
comunque, la necessità di procedure selettive o di verifiche
attitudinali, in quanto ineludibili momenti di controllo, funzionali
al rendimento della pubblica amministrazione, sono state del resto
più volte affermate da questa Corte, che ha conseguentemente
ravvisato nel carattere automatico degli inquadramenti e nell'assenza
di garanzie, altrettante ragioni d'illegittimità costituzionale
(cfr. sentenze nn. 514, 479, 478 e 134 del 1995). In particolare,
nella sentenza da ultimo citata, si è ribadito l'indissolubile
rapporto di connessione tra razionalizzazione organizzativa
dell'amministrazione pubblica, esigenze finanziarie di contenimento,
piante organiche e verifica dei carichi di lavoro (v. anche sentenza
n. 406 del 1995).
4.3. - La manifesta irragionevolezza e la violazione dell'art. 97
della Costituzione, come sopra ritenute, assorbono i profili legati
agli altri parametri evocati.
5. - La declaratoria d'illegittimità costituzionale dell'art. 3,
comma 6-bis, della legge n. 537 del 1993 travolge la questione
sollevata dalla Corte dei conti - in riferimento all'art. 81 della
Costituzione - con riguardo al combinato disposto degli artt. 2 e 9
del citato decreto-legge n. 515 del 1994, convertito nella legge n.
596 del 1994.
La prospettazione è volta a rafforzare la dedotta illegittimità
costituzionale del comma 6-bis dell'art. 3, sempre in riferimento
all'art. 81 della Costituzione. Ed è strumentale rispetto ad essa,
in quanto basata sul rilievo che nel denunciato art. 9 (dove si
prevede la copertura finanziaria dell'intero provvedimento) l'art. 2,
col quale si è introdotto il citato art. 3, comma 6-bis, non risulta
neppure menzionato; con l'evidente conseguenza che non è prevista
alcuna copertura finanziaria per i maggiori oneri che inevitabilmente
derivano e deriveranno dai superiori livelli retributivi connessi ai
più favorevoli profili professionali ed agli inquadramenti
illegittimamente deliberati.
La declaratoria d'illegittimità di cui sopra priva la censura del
riferimento normativo che la sostiene, e dunque la relativa questione
non ha più ragion d'essere.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale
dell'art. 3, comma 6-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537
(Interventi correttivi di finanza pubblica).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 gennaio 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Ruperto
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 9 gennaio 1996.
Il direttore di cancelleria: Di Paola