Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza del 20 dicembre 2000 - nel corso di un
giudizio promosso dalla Federazione Radio Televisione e da alcune
emittenti radiotelevisive avente ad oggetto l'annullamento della
deliberazione n. 29 del 1 marzo 2000 in tema di "Disposizioni di
attuazione della disciplina in materia di comunicazione politica e di
parità di accesso ai mezzi di informazione relative alla campagna
per le elezioni regionali, provinciali e comunali fissate per il
giorno 16 aprile 2000" e della successiva deliberazione n. 200 del
22 giugno 2000 in tema di "Disposizioni di attuazione della
disciplina in materia di comunicazione politica e di parità di
accesso ai mezzi di informazione nei periodi non elettorali" adottate
dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni in attuazione
della legge 22 febbraio 2000, n. 28 - il Tribunale amministrativo
regionale del Lazio ha sollevato questione di legittimità
costituzionale degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 7 della legge 22 febbraio
2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di
informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la
comunicazione politica) per contrasto con gli artt. 3, 21 e 42 della
Costituzione.
2. - Il giudice rimettente premette che le deliberazioni
impugnate costituiscono mera attuazione, e per alcuni aspetti mera
riproduzione, delle norme della legge n. 28 del 2000 sicché la
questione è rilevante.
3. - Nel merito, il Tribunale amministrativo regionale ritiene
che la disciplina della "comunicazione politica" radiotelevisiva -
come delineata agli artt. 2 e 4 della legge n. 28 del 2000 - non
fisserebbe "limiti" all'esercizio di specifiche attività, ma
renderebbe il mezzo radiotelevisivo funzionale all'interesse per il
quale è stato posto il limite, e ciò in contrasto con il
riconoscimento della libertà dei mezzi di diffusione garantita
dall'art. 21 della Costituzione. Inoltre, le disposizioni impugnate
non terrebbero conto che l'emittente privata, in quanto "impresa di
opinione", sarebbe titolare di un'autonoma posizione soggettiva
tutelata dall'art. 21 della Costituzione, e, nonostante abbia la
"paternità" del programma trasmesso, la esproprierebbero del diritto
di "manifestare una propria identità politica".
Secondo il giudice rimettente, sottrarre ad imprese di opinione
la libertà di cronaca politica e la relativa capacità di
valutazione avrebbe il significato di vanificare l'importanza di quel
regime pluralistico c.d. "esterno" dell'informazione radiotelevisiva,
esplicazione del più generale principio del pluralismo al quale la
Corte costituzionale, con la sentenza n. 826 del 1988, ha
riconosciuto valore centrale in un ordinamento democratico. Così
come privare le singole emittenti della libertà di esprimere le
proprie opinioni politiche, da un lato, svuoterebbe di contenuti la
liberalizzazione del settore radiotelevisivo e, dall'altro,
realizzerebbe un livellamento "funzionale" di tutte le emittenti
radiotelevisive, sia della RAI - che non è pubblica ma svolge
servizio pubblico - che di quelle private, rendendo in tal modo
irragionevole l'esistenza stessa di un regime radiotelevisivo misto
pubblicoprivato.
3.1. - L'art. 7 della legge n. 28 del 2000, ad avviso del
Tribunale amministrativo regionale, violerebbe invece l'art. 3 della
Costituzione, in quanto, diversamente da quanto previsto per la
stampa periodica, stabilisce limitazioni alla propaganda elettorale
per le imprese del settore radiotelevisivo realizzando
un'ingiustificata disparità di trattamento, in violazione del canone
di eguaglianza.
3.2. - Un'ultima censura di costituzionalità riguarda infine la
disposizione in tema di "messaggi politici autogestiti". L'art. 4,
comma 3, lettera b) stabilisce che, durante la campagna elettorale, i
messaggi in questione - consistenti nell'esposizione di un programma
o di un'opinione politica per un tempo tra uno e tre minuti - devono
essere trasmessi "gratuitamente" dalle emittenti nazionali, mentre
per le emittenti locali, a norma del successivo quinto comma dello
stesso art. 4, è previsto un rimborso da parte dello Stato. Pertanto
ad avviso del rimettente, tale disciplina arrecherebbe un arbitrario
svantaggio alle emittenti nazionali, privo di ogni plausibile
fondamento giuridico, e risulterebbe immotivatamente in contrasto con
l'art. 42 della Costituzione perché imporrebbe atti ablatori della
proprietà privata senza la corresponsione di un indennizzo.
4. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel
giudizio, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate.
In via preliminare, rileva la genericità della denuncia di
incostituzionalità, in quanto il rimettente non avrebbe individuato
le specifiche norme della legge censurata contrastanti con le
disposizioni costituzionali assunte a parametro.
Nel merito, deduce che la ricostruzione interpretativa effettuata
dal giudice a quo non sarebbe conforme alla realtà normativa
espressa negli artt. 2 e 4 della legge n. 28 del 2000, i quali si
limiterebbero ad assicurare parità di condizioni nell'esposizione di
opinioni e posizioni politiche nei programmi di comunicazione
politica. Quest'ultima tipologia di programmi sarebbe, a norma del
comma 2 dell'art. 2, distinta dai programmi di "informazione", ai
quali non si applicherebbero le regole in tale disposizione
contenute. Per tale ragione, all'emittente privata non sarebbe
affatto negata la possibilità di manifestare la propria identità
politica.
Infondato sarebbe, altresì, il dubbio di legittimità derivante
dal raffronto con la disciplina prevista per la stampa. Al riguardo,
la giurisprudenza costituzionale avrebbe riconosciuto la specificità
dell'informazione radiotelevisiva dalla quale discende
l'inapplicabilità dello stesso regime stabilito per le altre
tipologie di comunicazione.
Infine, la difesa erariale deduce la manifesta infondatezza della
censura di disparità di trattamento tra emittenti nazionali e locali
con riferimento al regime del rimborso per i messaggi politici
autogestiti, in quanto la legge avrebbe tenuto conto della diversa
consistenza economica delle grandi emittenti nazionali rispetto alle
locali e questo giustificherebbe il diverso regime.
4.1. - Nella memoria depositata in prossimità dell'udienza
pubblica, la difesa erariale ribadisce la genericità delle censure.
Inoltre, secondo l'interveniente, la funzione dei programmi di
informazione non sarebbe privata del suo significato a causa
dell'introduzione di "distinti" momenti di comunicazione politica, in
quanto, mentre l'informazione costituisce espressione della libertà
di opinione e quindi caratterizzerebbe la posizione dell'impresa
radiotelevisiva, l'accesso paritario in trasmissioni televisive,
quali le tribune politiche, non connoterebbe la posizione politica
dell'emittente.
La difesa erariale richiama, infine, la sentenza n. 161 del 1995,
per sostenere che la libertà tutelata dall'art. 21 della
Costituzione renderebbe necessario assicurare la pluralità di fonti,
il libero accesso alle stesse e l'assenza di ingiustificati ostacoli
legali, che sarebbero appunto garantiti dall'obbligo di consentire la
parità di accesso.
5. - Si sono costituite in giudizio le parti ricorrenti del
giudizio principale chiedendo l'accoglimento delle questioni di
costituzionalità sollevate e facendo proprie le argomentazioni del
Tribunale.
In particolare, secondo le parti private, le disposizioni
censurate realizzerebbero un assoluto livellamento "funzionale" di
tutte le emittenti radiotelevisive, sia di quella che svolge il
servizio pubblico che di quelle private, rendendo in tal modo
irragionevole l'esistenza stessa di un regime radiotelevisivo "misto"
pubblico-privato. Questo livellamento manifesterebbe profili di
illegittimità nel periodo non elettorale, durante il quale non
sarebbe giustificato dall'esigenza di tutelare il libero e
consapevole formarsi della volontà degli elettori. In tale contesto,
si osserva, appare evidente l'irragionevole discriminazione tra il
regime imposto alle imprese emittenti e, quello, totalmente libero,
assicurato alle imprese editoriali.
Il confronto tra così differenti discipline, rispettivamente per
la stampa e per la radiodiffusione, si caratterizzerebbe per i suoi
effetti pesantemente discriminatori del regime imposto all'emittenza
privata, a fronte dell'assenza di ogni benché minimo vincolo per la
stampa.
5.1. - Nelle memorie difensive, depositate in prossimità
dell'udienza pubblica, le parti private ribadiscono che le
prescrizioni imposte ad una "impresa di opinione" sarebbero
incompatibili con la libertà di espressione sancita dall'art. 21
della Costituzione e con gli indirizzi oramai uniformi della
giurisprudenza costituzionale sulla netta distinzione tra pluralismo
"esterno" riguardante le emittenti private e pluralismo "interno" che
interessa il servizio pubblico. Inoltre, si pone l'accento sulla
mancanza di precise modalità relative alla partecipazione di
soggetti politici ai programmi di informazione; programmi che
l'ultima proposizione del comma 2 dell'art. 2 della legge n. 28 del
2000 esclude dal novero di quelli che sono soggetti alla disciplina
de qua.
Si sottolinea, ancora, la disparità di trattamento che la legge
n. 28 del 2000 determinerebbe tra l'emittenza radiotelevisiva e la
stampa periodica. Quest'ultima sarebbe soggetta ad un disciplina
fondata sulla libera concorrenza nel mercato tra le diverse imprese
editoriali, mentre le emittenti radiotelevisive private sarebbero
sottoposte ad una rigida regolamentazione.
6. - All'udienza pubblica, l'Avvocatura dello Stato e le parti
private hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni
rassegnate nelle difese scritte.
Considerato in diritto
1. - Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal
Tribunale amministrativo regionale del Lazio con l'ordinanza indicata
in epigrafe, riguardano gli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 7 della legge
22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai
mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e
per la comunicazione politica), in riferimento agli artt. 3, 21 e 42
della Costituzione.
Il giudice a quo dubita in particolare della legittimità
costituzionale degli artt. 1, 2, 3 e 5 della predetta legge nelle
parti in cui, imponendo alle emittenti radiotelevisive di assicurare
la "parità" tra le varie forze politiche nei programmi di
"comunicazione politica" durante le campagne elettorali e nei periodi
non elettorali, impedirebbero alle emittenti stesse, in violazione
degli artt. 3 e 21 della Costituzione, di qualificarsi attraverso
l'affermazione di propri orientamenti, "espropriando" così il loro
diritto a manifestare una propria identità politica.
Inoltre l'art. 7 della stessa legge si porrebbe in contrasto,
secondo il giudice a quo, con l'art. 3 della Costituzione, sotto il
profilo che stabilendo limitazioni alla propaganda elettorale, le
quali invece non sono previste per la stampa periodica, introdurrebbe
un'irragionevole discriminazione in danno delle imprese
radiotelevisive.
Infine, il Tribunale amministrativo regionale censura l'art. 4,
commi 3 lettera b) e 5, della medesima legge nella parte in cui,
prevedendo che durante la campagna elettorale i messaggi politici
autogestiti debbono essere trasmessi gratuitamente dalle emittenti
nazionali, mentre alle emittenti locali è riconosciuto un rimborso
da parte dello Stato, violerebbe l'art. 42 della Costituzione.
2. - Le questioni prospettate non sono fondate.
Il nucleo argomentativo dell'ordinanza di rimessione è che la
disciplina della comunicazione politica radiotelevisiva, delineata
dagli artt. 2 e 4 della legge 22 febbraio 2000, n. 28, implica la
"piena funzionalizzazione" del mezzo radiotelevisivo, dal momento che
all'emittente privata è negata, in ragione della necessaria parità
tra le varie forze politiche, la possibilità di manifestare una
propria identità politica, in contrasto con il riconoscimento della
libertà dei mezzi di diffusione garantita dall'art. 21 della
Costituzione.
Tale ordine argomentativo non appare però condivisibile. In
proposito va innanzi tutto rilevato che l'art. 1 della legge 6 agosto
1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e
privato), ispirandosi peraltro alla precedente legge 14 aprile 1975,
n. 103 (Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e
televisiva), dopo aver ribadito che "la diffusione di programmi
radiofonici e televisivi, realizzata con qualsiasi mezzo tecnico, ha
carattere di preminente interesse generale", espressamente dispone
che il pluralismo, l'obiettività, la completezza e l'imparzialità
della informazione, l'apertura alle diverse opinioni, tendenze
politiche, sociali, culturali e religiose "rappresentano i principi
fondamentali del sistema radiotelevisivo, che si realizza con il
concorso di soggetti pubblici e privati". Principi alla cui
osservanza sono dunque tenuti, alla luce delle pronunce di questa
Corte, anche gli imprenditori privati, che operano nel settore,
proprio in quanto "soggetti in grado di concorrere insieme al
servizio pubblico nella realizzazione dei valori costituzionali posti
a presidio dell'informazione radiotelevisiva (v. artt. 1 e 2 della
legge n. 223 del 1990)" (sentenza n. 112 del 1993).
Fin dalle prime decisioni di questa Corte emerge che è
giustificato l'intervento del legislatore diretto a regolare, durante
la campagna elettorale, la concomitante e più intensa partecipazione
di partiti e cittadini alla propaganda politica (cfr. sentenza n. 48
del 1964). E nella successiva giurisprudenza costituzionale si è
ripetutamente affermato che, fermo restando che i mezzi di
informazione di massa sono tenuti alla parità di trattamento nei
confronti dei soggetti politici (sentenza n. 161 del 1995), i
principi fondanti del nostro Stato "esigono che la nostra democrazia
sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di
svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione
della volontà generale" (sentenza n. 112 del 1993). Proprio da qui
deriva "l'imperativo costituzionale" che "il diritto
all'informazione", garantito dall'art. 21 della Costituzione, venga
qualificato e caratterizzato, tra l'altro, sia dal pluralismo delle
fonti cui attingere conoscenze e notizie - così da porre il
cittadino in condizione di compiere le proprie valutazioni avendo
presenti punti di vista e orientamenti culturali e politici
differenti - sia dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati
forniti, sia infine dalla completezza, dalla correttezza e dalla
continuità dell'attività di informazione erogata (sentenza n. 112
del 1993).
Il diritto alla completa ed obiettiva informazione del cittadino
appare dunque, alla luce delle ricordate pronunce, tutelato in via
prioritaria soprattutto in riferimento a valori costituzionali
primari, che non sono tanto quelli - come sostiene la difesa delle
parti private - alla "pari visibilità dei partiti", quanto piuttosto
quelli connessi al corretto svolgimento del confronto politico su cui
in permanenza si fonda, indipendentemente dai periodi di competizione
elettorale, il sistema democratico. È in questa prospettiva di
necessaria democraticità del processo continuo di informazione e
formazione dell'opinione pubblica, che occorre dunque valutare la
congruità del bilanciamento tra principi ed interessi diversi
attuato dalla disciplina censurata mediante la previsione di
modalità e forme della "comunicazione politica". Attraverso di esse
infatti, proprio al fine specifico di consentire - in ogni tempo e
non solo nei periodi elettorali - la più ampia informazione del
cittadino per formare la sua consapevolezza politica, si esplica la
libertà di espressione delle singole emittenti private.
Ed è in questa stessa prospettiva che deve essere valutato se il
c.d. pluralismo "esterno" dell'emittenza privata sia sufficiente a
garantire, in ogni caso, la completezza e l'obiettività della
comunicazione politica, o se invece debbano concorrere ulteriori
misure sostanzialmente ispirate al principio della parità di accesso
delle forze politiche e dei rispettivi candidati, tenendo presente
che nei principali Paesi europei la disciplina della comunicazione
politica, in questi ultimi anni, si è orientata, pur
nell'inevitabile diversità dei criteri ispiratori, su modelli di
regolazione degli spazi radiotelevisivi caratterizzati in generale
dalla regola della parità di chances.
2.1. - In questo quadro, il primo dubbio di costituzionalità che
l'ordinanza di rimessione solleva riguarda l'obbligo imposto
dall'art. 2, comma 2, della legge censurata alle singole emittenti di
predisporre appositi programmi di "opinioni e valutazioni politiche",
da organizzare in forma particolare, e nei quali deve essere appunto
assicurata la parità di accesso tra i diversi soggetti partecipanti.
A questo proposito va tenuto presente che l'attuale sistema
radiotelevisivo misto pubblico-privato è governato dal cosiddetto
"principio della concessione" (sentenza n. 112 del 1993), dal quale
derivano, tra l'altro, obblighi incidenti sull'esercizio
dell'attività radiotelevisiva, come quelli, ad esempio, che
impongono alle emittenti private in ambito locale di dedicare un
certo numero di ore settimanali all'informazione su problematiche
sociali (art. 5 della legge 27 agosto 1993, n. 323), oppure quelli
che impongono alle emittenti private nazionali di trasmettere
quotidianamente i telegiornali e di mandare in onda programmi per non
meno di dodici ore giornaliere (art. 20 della legge n. 223 del 1990).
Si tratta di obblighi di facere che gravano sugli imprenditori
privati del settore, in quanto la concessione, per ciò che riguarda
gli aspetti relativi ai controlli sull'attività erogata e
sull'organizzazione dell'impresa, "costituisce uno strumento di
ordinazione nei confronti di facoltà e di doveri connessi alla
garanzia costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero
e della libertà di iniziativa economica privata, nonché ai
correlativi limiti posti a tutela di beni d'interesse generale"
(sentenza n. 112 del 1993).
In questa ottica, quindi, l'effettuazione di quelli che il
giudice a quo definisce "programmi politici "paritari " si
concretizza essenzialmente in un'attività che deve rispettare
precisi limiti "modali", cioè inerenti alle modalità di svolgimento
di queste trasmissioni; limiti i quali attengono specificamente ai
profili organizzativoimprenditoriali dell'iniziativa economica,
anziché a quelli contenutistici dell'attività di manifestazione del
pensiero. Ed invero, le norme censurate prevedono l'obbligo di
predisporre nel quadro della programmazione - in attuazione del
dovere di assicurare, in condizioni di parità, a tutti i soggetti
politici l'"accesso" all'informazione ed alla comunicazione politica
specifiche e assai limitate nel tempo tipologie di trasmissioni
("tribune politiche, dibattiti, tavole rotonde, presentazione in
contraddittorio di candidati e di programmi politici, confronti,
interviste e ogni altra forma nella quale assuma carattere rilevante
l'esposizione di opinioni e valutazioni politiche"), nel cui ambito
deve essere rigorosamente osservato il criterio della partecipazione
in contraddittorio e del confronto dialettico tra i soggetti
intervenienti, secondo il canone della pari opportunità. Ma è un
obbligo che incide su modalità organizzative, che non toccano la
libertà di espressione, se non sotto il profilo del dovere di
osservanza di un comportamento neutrale ed imparziale.
Si tratta peraltro di doveri che discendono dal prospettato
regime di concessione, ordinato appunto alla regolazione di facoltà
e doveri a tutela di un interesse costituzionale generale - quale è
appunto quello della informazione e formazione consapevole della
volontà del cittadino-utente - in favore del quale il legislatore ha
risolto non irragionevolmente il bilanciamento con la contrapposta
libertà di opinione delle singole emittenti private.
2.2. - In ogni caso non è esatto ritenere che in questo modo si
pervenga - come sostiene l'ordinanza di rimessione - ad "espropriare
in toto di ogni manifestazione "politica le emittenti private". Ed
infatti l'art. 2, comma 2, della legge censurata, stabilendo
espressamente che le disposizioni che regolano la comunicazione
politica radiotelevisiva "non si applicano alla diffusione di notizie
nei programmi di informazione", preclude che in questi programmi, che
certamente costituiscono un momento ordinario, anche se tra i più
caratterizzanti dell'attività radiotelevisiva, all'emittente possano
essere imposti limiti, che derivino da motivi connessi alla
comunicazione politica. L'espressione "diffusione di notizie" va
pertanto intesa, del resto secondo un dato di comune esperienza,
nella sua portata più ampia, comprensiva quindi della possibilità
di trasmettere notizie in un contesto narrativo-argomentativo
ovviamente risalente alla esclusiva responsabilità della testata.
Tanto è sufficiente, quindi, ad escludere ogni paventata forma
di "funzionalizzazione" del mezzo radiotelevisivo o di
"espropriazione" della identità politica delle singole emittenti
private ed a consentire invece ad ognuna di esse di fare emergere,
anche attraverso le proprie analisi e considerazioni di ordine
politico, l'immagine propria di un'impresa di tendenza. Vero è, a
questo proposito, che durante le campagne elettorali sono previsti,
negli artt. 4 e 5, criteri limitativi sia in ordine alla
comunicazione politica radiotelevisiva, sia in ordine ai programmi di
informazione: si tratta peraltro di prescrizioni, che nella loro
rigorosa previsione appaiono tutte ispirate dal ragionevole intento
di prevenire in ogni modo qualsiasi influenza, anche "in forma
surrettizia", sulle libere e consapevoli scelte degli elettori, in
momenti particolarmente delicati della vita democratica del Paese.
In considerazione di tutto ciò, non è condivisibile
l'affermazione del giudice a quo secondo cui "l'esigenza di tutela
del processo di formazione della consapevolezza politica
dell'elettore" sarebbe soddisfatta più agevolmente, anziché da una
rigida disciplina di settore, dal "libero concorso di differenti voci
informative". Questa tesi evidentemente evoca il c.d. pluralismo
"esterno", che certamente costituisce uno degli "imperativi"
elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in materia; in
proposito, peraltro, va ricordato che esso non può dirsi realizzato
per il solo fatto che vi sia concorso fra un polo pubblico e un polo
privato, il quale detenga una posizione dominante nel settore
dell'emittenza privata (sentenza n. 826 del 1988), giacché in questo
modo non si verifica l'accesso al sistema radiotelevisivo del
"massimo numero possibile di voci diverse" (sentenza n. 112 del
1993). Ma in ogni caso il pluralismo esterno può risultare
insufficiente - in una situazione in cui perdura la sostanziale
limitazione delle emittenti - a garantire la possibilità di
espressione delle opinioni politiche attraverso il mezzo televisivo.
Proprio a questo fine le norme censurate, imponendo un ragionevole
bilanciamento dei contrapposti interessi, richiedono, nel caso di
trasmissioni di comunicazione politica, modalità che assicurino il
pluralismo sostanziale mediante la garanzia della parità di chances
offerta ai soggetti intervenienti.
3. - Un'ulteriore censura riguarda l'art. 7 della stessa legge,
sotto il profilo della disparità di trattamento in danno del settore
radiotelevisivo, poiché per la stampa periodica non sono previste
limitazioni così incisive in ordine alla propaganda elettorale.
La prospettata violazione dell'art. 3 della Costituzione però
non sussiste, in quanto emittenza radiotelevisiva e stampa periodica
hanno regimi giuridici nettamente diversi - così da impedire
l'individuazione di un tertium comparationis adeguato - in relazione
alle loro differenti caratteristiche: "nel settore della stampa non
c'è alcuna barriera all'accesso, mentre nel settore televisivo la
non illimitatezza delle frequenze, insieme alla considerazione della
particolare forza penetrativa di tale specifico strumento di
comunicazione impone il ricorso al regime concessorio" (sentenza
n. 420 del 1994). In ogni caso la disomogeneità dei mezzi in
comparazione è tale da escludere qualsiasi disparità di
trattamento, poiché è noto e costante, nella giurisprudenza di
questa Corte, il riconoscimento della peculiare diffusività e
pervasività del messaggio televisivo (sentenze n. 225 del 1974,
n. 148 del 1981, n. 826 del 1988), così da giustificare l'adozione,
soltanto nei confronti della emittenza radiotelevisiva, di una
rigorosa disciplina capace di impedire qualsiasi improprio
condizionamento nella formazione della volontà degli elettori.
4. - L'ultima censura, infine, riguarda il diverso regime cui
sono soggetti i "messaggi politici autogestiti", la cui trasmissione
durante le campagne elettorali, mentre per le emittenti locali
prevede un rimborso da parte dello Stato (cfr. art. 4, comma 5, della
legge n. 28 del 2000), deve invece essere gratuita per le emittenti
nazionali (cfr. art. 4, comma 3, lettera b della medesima legge), in
violazione, secondo l'ordinanza di rimessione, dell'art. 42 della
Costituzione, sotto il profilo che "gli atti ablatori della
proprietà privata postulino la corresponsione di un indennizzo, il
quale non potrebbe non interessare anche l'ipotesi dell'esproprio di
spazi radiotelevisivi privati".
Al riguardo va osservato che è del tutto inesatto, in questo
caso, il riferimento all'"esproprio" di spazi radiotelevisivi
privati, giacché per le emittenti nazionali, esclusa la
concessionaria del pubblico servizio, la trasmissione dei predetti
messaggi non rappresenta certo un obbligo, ma solo una scelta
evidentemente dipendente da complessive valutazioni di carattere
imprenditoriale intorno all'offerta dei programmi. D'altra parte,
stante la rilevante differenza di ordine fattuale e giuridico tra
emittenti ad ambito nazionale ed emittenti ad ambito locale ed in
considerazione della limitatezza delle risorse finanziarie
disponibili per queste ultime, appare del tutto giustificata la
previsione di un rimborso da parte dello Stato delle loro spese per
la trasmissione di messaggi autogestiti.