Ritenuto in fatto
1. - Con tre ricorsi depositati il 1 febbraio 1982 la RAI-Radiotelevisione Italiana chiedeva al Pretore di Roma, ex art. 700
c.p.c., di ordinare a tre gruppi di 26, 18 e 24 emittenti televisive
private operanti rispettivamente sotto i marchi unitari "Canale 5",
"Italia 1" e "Rete 4", di non trasmettere a livello ultralocale,
mediante interconnessione e/o con qualunque mezzo di collegamento,
programmi di contenuto identico ne di compiere alcun atto comunque
volto a perseguire tale risultato, inibendo altresì l'utilizzazione
per tali programmi dei marchi predetti. Con un ricorso ex art. 700
c.p.c. depositato nella stessa data, sei delle emittenti operanti con
il marchio "Canale 5" chiedevano al medesimo Pretore di ingiungere
alla RAI di astenersi "dall'azione lesiva" costituita da tale
richiesta di inibitoria. Con ordinanza emessa il 4 maggio 1982 (I o.
771/82), il Pretore di Roma, riuniti i ricorsi, ha innanzitutto
affermato la propria competenza territoriale e risolto ulteriori
questioni procedurali, tra l'altro ammettendo l'intervento adesivo
alla posizione processuale della RAI svolto dal Ministero delle Poste
e delle Telecomunicazioni a tutela del monopolio pubblico delle
trasmissioni radiotelevisive in ambito nazionale, nonché dalle
associazioni di emittenti locali ANTI (Associazione Nazionale
Teleradiodiffusioni Indipendenti), FIEL (Federazione Italiana
Emittenti Locali) e FILET (Federazione Italiana Libere Emittenti
Televisive), e dalle Associazioni operanti nel settore
cinematografico AGIS (Associazione Generale Italiana dello
Spettacolo), ANEC (Associazione Nazionale Esercenti Cinema) e ACD
(Associazione Cinema Democratico) le quali tutte introducevano ai
sensi dell'art. 2601 un'autonoma azione per la repressione della
concorrenza sleale a loro avviso svolta dai predetti circuiti
nazionali.
Ciò premesso, il Pretore ha sollevato, in riferimento agli artt.
21, comma primo, 41, comma primo, nonché 9, 33 e 34 Cost., la
questione di legittimità costituzionale della normativa risultante
dal combinato disposto degli artt. 1, 183 e 195 d.P.R. 29 marzo 1973,
n. 156, in relazione a quanto prescritto dall'art. 45 l. 14 aprile
1975, n. 103, nonché dall'art. 2 l. 10 dicembre 1975, n. 693 e dagli
artt. 1, 2 ss. l. 14 aprile 1975, n. 103, nella parte in cui
riservano allo Stato le trasmissioni televisive su scala nazionale.
Nell'ordinanza si richiama innanzitutto l'analoga impugnativa
prospettata dal medesimo Pretore di Roma (ord. del 18 novembre 1980),
fondata sull'assunto secondo cui i rischi di instaurazione di
monopoli ed oligopoli privati posti in precedenti decisioni di questa
Corte a fondamento della riserva allo Stato delle trasmissioni
radiotelevisive in ambito nazionale sarebbero venuti meno, in
considerazione della più ampia disponibilità di frequenze
consentita dall'evoluzione della tecnica e dal diminuito costo degli
impianti.
Nel dichiarare infondata tale questione - ricorda testualmente il
giudice a quo - la Corte "ha ritenuto di precisare che la limitatezza
delle frequenze disponibili e l'alto costo degli impianti non
costituiscono le sole ragioni giustificatrici del monopolio statale",
ed ha chiarito che "l'esigenza di fondo", ripetutamente segnalata,
della riserva è quella di evitare che l'informazione su scala
nazionale (intesa in senso lato ed onnicomprensivo, così da
includervi qualsiasi "messaggio" televisivo, vuoi informativo, vuoi
culturale, vuoi comunque suscettibile di incidere sulla pubblica
opinione) sia strumentalizzata da privati, agenti in regime di
monopolio o di oligopolio, per fini di parte; che cioè la pubblica
opinione possa essere condizionata in vista di interessi particolari,
data l'assenza di un'adeguata pluralità e contrapposizioni delle
voci.
Ad avviso del giudice a quo, però, l'evoluzione di fatto
successiva alla sentenza smentirebbe la prognosi formulata dalla
Corte circa i rischi di un monopolio privato dell'informazione, di
situazioni di oligopolio o, comunque, di concentrazioni
oligopolistiche (realizzate con la formazione di "cartelli"). La
realtà effettuale sarebbe invero quella di un sistema misto assai
articolato e composito, caratterizzato dalla presenza, accanto al
servizio pubblico, di tre gruppi privati operanti su scala nazionale,
i quali sarebbero del tutto autonomi ed in vivace concorrenza tra
loro (oltre che con il servizio pubblico) ed assicurerebbero perciò
- con la contrapposizione di tre voci discordi sufficienti a
controbilanciarsi reciprocamente - un adeguato pluralismo. Né vi
sarebbero, secondo il Pretore, indizi sufficienti a ipotizzare
concretamente la formazione di un cartello tra i tre gruppi; anzi la
tendenza sarebbe nel senso della formazione di altri gruppi privati,
essendo le emittenti locali spinte dalle esigenze del mercato a
ricercare, attraverso l'associazione, una congrua dimensione
economica d'impresa. La situazione di fatto, contrastante con quella
di diritto e tale da smentire i pericoli che la Corte ha ricollegato
al venir meno della riserva statale, imporrebbe perciò la cessazione
di questa ed il conseguente riespandersi della libertà di
manifestazione del pensiero garantita dall'art. 21 Cost.
Nell'assunto, poi, di una stretta analogia tra la promozione
culturale operata col mezzo televisivo e quella realizzata mediante
la scuola e l'insegnamento, il giudice a quo osserva che se il
costituente ha esplicitamente negato il monopolio dello Stato nel
settore dell'istruzione (art. 33, terzo comma), nonostante che questa
rappresenti un suo fine istituzionale e che siano ivi maggiori -
quanto ad incidenza sulla formazione socio-culturale dei discenti - i
rischi insiti in situazioni di oligopolio dell'istruzione privata; a
maggior ragione il monopolio deve essere negato nel settore
dell'informazione televisiva, non rientrando la gestione di tale
mezzo di diffusione tra i compiti istituzionali dello Stato.
Di qui - ad avviso del Pretore - il contrasto della vigente
normativa con gli artt. 9, 33 e 34 Cost. Un ulteriore profilo di
incostituzionalità della normativa sul monopolio, prospettato in via
subordinata, concerne quella parte dell'attività dei circuiti
nazionali che si risolve nella diffusione di programmi di puro
spettacolo (eventualmente culturali, ma anche di svago), che,
perciò, esula dall'informazione in senso tecnico ed assume
"carattere schiettamente commerciale". Rispetto a tale attività
imprenditoriale, ricadente nell'ambito dell'art. 41, primo comma,
Cost., non sarebbe ravvisabile un preminente interesse generale atto
a giustificare la riserva del diritto d'impresa allo Stato, atteso
che non sussistono per tale settore i pericoli di influenza sulla
pubblica opinione enunciati nella sentenza n. 148 del 1981. Né tali
pericoli sarebbero ravvisabili nell'inserimento nei suddetti
programmi di messaggi pubblicitari, dato che le esigenze di tutela
del consumatore dal carattere insidioso di tali messaggi (inducenti
stimoli consumistici artificiosi) non riguardano le sole emittenti
private nazionali e che esse sono perseguibili attraverso una
normativa di regolamentazione della pubblicità: sicché il
giustificare in base a ciò la riserva statale darebbe luogo ad
un'eccedenza del mezzo rispetto al fine. Di qui, ad avviso del
giudice a quo, il contrasto della riserva con l'art. 41, primo comma,
Cost.
2. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Berlusconi
Silvio ed altri per il reato di cui all'art. 195 del d.P.R. 29 marzo
1973, n. 156 (codice postale), nel testo sostituito con l'art. 45 l.
9 aprile 1975, n. 103, il Pretore di Torino, con ordinanza emessa il
25 febbraio 1985 (r.o. 430/85), ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3 e 41 Cost., una questione di legittimità costituzionale
degli artt. 2, 3 e 4 del d.l. 6 dicembre 1984, n. 807, convertito,
con modificazioni, dalla legge 4 febbraio 1985, n. 10.
Dettando, con tale normativa, "Disposizioni urgenti in materia di
trasmissioni radiotelevisive", il legislatore ha in particolare
previsto: a) all'art. 2, la predisposizione del piano di assegnazione
delle frequenze; b) all'art. 3, primo e secondo comma, il consenso
alla prosecuzione per 6 mesi (poi prorogati fino al 31 dicembre 1985
col D.L. 1 giugno 1985, n. 223, convertito in legge 2 agosto 1985, n.
397) dell'attività delle emittenti con gli impianti in ponte radio
(c.d. interconnessione strutturale) già in funzione al 1 ottobre
1984: peraltro con l'obbligo, per esse (art. 4), di comunicare entro
90 giorni le caratteristiche di tali impianti (ad integrazione della
denuncia obbligatoria di cui all'art. 403 cod. post.), pena la
disattivazione; c) all'art. 3, terzo comma, il consenso alla
"trasmissione ad opera di più emittenti dello stesso programma
preregistrato anche in contemporanea (cd. interconnessione
funzionale); d) all'art. 4, comma 3 bis - introdotto dalla legge di
conversione - la non punibilità per le violazioni amministrative e
penali di cui all'art. 195 cod. post. (d.P.R. 29 marzo 1973, n. 15
commesse anteriormente al 6 dicembre 1984 (data di entrata in vigore
del D.L. n. 807), a condizione, però, che le comunicazioni siano
presentate nei termini.
Il giudice a quo ricorda, innanzitutto, che il D.L. n. 807 era
stato preceduto da altro di tenore analogo (D.L. 20 ottobre 1984, n.
694), qualche giorno dopo l'emanazione, da parte dello stesso Pretore
nonché di quelli di Roma e Pescara, di altrettanti decreti di
sequestro degli impianti di circuiti televisivi che trasmettevano in
ambito nazionale.
A seguito dell'accoglimento, da parte della Camera dei Deputati, di
una pregiudiziale di incostituzionalità del D.L. n. 694, i Pretori
di Torino e Roma emettevano nuovi decreti di sequestro, che venivano
revocati a seguito dell'emanazione del D.L. n. 807. Al riguardo,
l'ordinanza si diffonde in considerazioni critiche circa l'iter
legislativo seguito, concernenti in particolare l'adozione reiterata
dello strumento del decreto legge in materia priva di
regolamentazione da circa otto anni, il ricorso alla mozione di
fiducia, l'incisione diretta della legge sui procedimenti giudiziari
in corso.
In punto di rilevanza, il Pretore deduce sia dal termine cui la
disciplina impugnata è soggetta (in particolare, il termine di sei
mesi di cui all'art. 3, primo comma), sia dalla sua ratio - in quanto
volta (dice) a guadagnar tempo per elaborare una legge organica - che
trattasi di norma temporanea: sicché, non operando per tale tipo di
norma il principio di retroattività della legge più favorevole
(art. 2, quarto comma, c.p.), in caso di declaratoria
d'incostituzionalità riprenderebbe vigore la legge più sfavorevole.
Ma la rilevanza, sostiene il Pretore, vi sarebbe anche se non si
trattasse di norma temporanea, e ciò in quanto- come più volte
affermato in talune decisioni di questa Corte - la scelta della norma
da applicare in caso di successione di leggi nel tempo è di
competenza del giudice a quo, in quanto involge questioni
interpretative.
Nel merito, il giudice a quo concentra le proprie censure
essenzialmente sul fatto che il legislatore, rendendo non punibile
l'attività precedente (art. 4) e lecita quella futura (art. 3) solo
per i titolari di emittenti che già effettuavano trasmissioni in
ambito nazionale, ha in sostanza consolidato e legalizzato, anche per
il passato, la posizione di vantaggio acquisita di fatto da chi,
violando le leggi vigenti, aveva costituito dei networks nazionali ed
era perciò, al contrario, maggiormente meritevole di sanzione.
Lamenta, inoltre, che assicurando a costoro un tale privilegio si sia
per ciò stesso sfavorita tanto la posizione di coloro che,
rispettando la legge, avevano omesso di trasmettere in ambito
nazionale; tanto quella di chi intendesse accingersi, d'allora in
poi, ad intraprendere la medesima attività: restando in entrambi i
casi frustrata la libertà di iniziativa economica di costoro.
Più in particolare, il Pretore sostiene, in riferimento all'art. 3
Cost., che la disposizione (art. 3, primo comma) che consente la
prosecuzione dell'attività di teletrasmissione alle emittenti già
in funzione al 1 ottobre 1984 è insieme irragionevole e
discriminatoria: irragionevole, perché non regola astrattamente la
materia ma considera precise situazioni di fatto; discriminatoria,
perché, mentre trasforma in attività lecite le trasmissioni in
ambito nazionale dei titolari dei networks esistenti - che pur
sarebbero quelli più meritevoli di sanzione - assoggetta a sanzione
penale, ed all'onere di munirsi di concessione, chi intraprenda la
medesima attività dopo il 1 ottobre 1984.
Ancora maggiori sono poi, ad avviso del giudice a quo, le
discriminazioni che discendono dal comma 3 bis aggiunto con la legge
di conversione all'art. 4 del decreto impugnato. Con tale
disposizione, infatti, alla posizione di privilegio già assicurata
agli esercenti di impianti già in funzione alla data del 1 ottobre
1984 si aggiunge la previsione, solo per essi, della non punibilità
per i reati commessi nel periodo antecedente: e ciò, alla sola
condizione della presentazione nei termini di una comunicazione, che
peraltro è già considerata obbligatoria dal primo comma. Con ciò -
osserva il Pretore - viene resa di fatto applicabile per il passato,
in deroga ai principi fondamentali di cui all'art. 2 c.p., una
disciplina più favorevole, e per di più solo per una categoria di
ben individuate e determinate persone.
In riferimento, infine, all'art. 41 Cost., il giudice a quo ravvisa
una violazione del principio della libertà di iniziativa economica
privata in ciò che, avendosi riguardo a precise situazioni di fatto
già esistenti, si sono scoraggiati e sfavoriti tutti coloro i quali,
magari anche in ragione delle limitazioni (all'ambito locale) apposte
dalla Corte alla iniziativa privata in materia, avessero avuto
intenzione e volontà di intraprendere, dopo tale data, attività ed
iniziative analoghe a quelle previste dal decreto, ovvero avessero
ritenuto di svolgere attività con mezzi tecnici diversi da quelli
già posti in essere.
3. - Nel corso di un procedimento penale pendente dinanzi al
Tribunale di Genova a carico di Patti Giuseppe, imputato del reato di
cui all'art. 195 d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 (codice postale) per
aver trasmesso programmi televisivi preregistrati mediante una
emittente privata locale collegata ad un network a diffusione
nazionale, la difesa concludeva, in via principale, per l'assoluzione
e, in subordine, per l'applicazione della causa di non punibilità di
cui all'art. 4, comma 3 bis, della l. 4 febbraio 1985, n. 10.
Il Tribunale, con ordinanza del 4 febbraio 1986 (r.o. 414/86) ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 21 Cost., questione di
legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3 bis, della l. n. 10
e, in relazione ad essa, dell'art. 3, commi primo, secondo e terzo,
della medesima legge: questione che è prospettata secondo
un'angolatura diversa, ma in un certo modo complementare rispetto a
quella assunta dal Pretore di Torino.
Il giudice a quo osserva innanzitutto che, a seguito delle sentenze
di questa Corte nn. 202 del 1976 e 148 del 1981, la trasmissione di
programmi radiotelevisivi via etere su scala eccedente l'ambito
locale è riservata allo Stato; e che è da ritenere pertanto
illegittima la pretesa di effettuare tale trasmissione anche da parte
di emittenti private locali aderenti ad un nuovo network a diffusione
nazionale (e ciò anche se si tratti di programmazione non
contemporanea di cassette preregistrate). Esso rileva altresì che la
riserva al servizio pubblico delle trasmissioni su scala nazionale
concerne sia l'informazione in senso stretto, sia la comunicazione a
contenuto spettacolare o culturale (come si ricaverebbe dalle
sentenze costituzionali nn. 81 del 1963 e 225 del 1974).
Ciò premesso, l'attività di telediffusione svolta dall'imputato
mediante l'interconnessione con un circuito nazionale sarebbe tale da
integrare l'ipotesi di reato previsto dall'art. 195 codice postale:
pertanto sarebbe in effetti ad esso applicabile la causa di non
punibilità di cui all'art. 4, comma 3 bis, l. n. 10 del 1985.
Ad avviso dello stesso Tribunale, la ratio della introduzione di
tale causa di non punibilità dei comportamenti precedenti
all'adozione del D.L. del 1984, convertito nella l. n. 10 del 1985,
sarebbe da ricollegare ai primi tre articoli di quest'ultima legge,
che autorizzano per il futuro questi stessi comportamenti prima
penalmente rilevanti.
In particolare, la legge in questione, dopo aver prefigurato un
sistema misto di emittenza radiotelevisiva su scala nazionale, da
realizzarsi mediante una futura legge generale di disciplina organica
del settore contenente anche un'apposita normativa antitrust (di per
se dunque non illegittimo, perché rispettoso in principio delle
indicazioni della sent. n. 148 del 1981 di questa Corte), detta una
disciplina transitoria (art. 3, commi primo, secondo e terzo) che
consente (fino all'approvazione della legge sul sistema
radiotelevisivo di cui sopra e comunque non oltre sei mesi dalla data
di entrata in vigore del D.L.; termine prorogato poi con D.L.
1.6.1985, n. 223 e scaduto il 31.12.1985) la prosecuzione
dell'attività delle emittenti private già in funzione al 1.10.1984,
anche mediante interconnessione "funzionale" (uso di programmazioni-registrate) o "strutturale" (uso di ponti-radio) tra le medesime.
Secondo il Tribunale, la normativa in esame, consentendo con tali
forme di interconnessione una liberalizzazione anche delle
trasmissioni di ambito ultra-locale, sarebbe da ritenere
costituzionalmente illegittima in riferimento agli artt. 3 e 21 Cost.
in quanto non accompagnata dalla necessaria disciplina antitrust,
idonea ad evitare, secondo la ricordata decisione di questa Corte n.
148 del 1981, quel pericolo di concentrazioni monopolistiche od
oligopolistiche private che la stessa Corte ha ritenuto incompatibili
con le regole del sistema democratico e, in particolare, con la
garanzia disposta dall'art. 21 Cost.
Dalla ritenuta illegittimità delle disposizioni dell'art. 3, commi
primo, secondo e terzo - da affermarsi a maggior ragione, secondo il
Tribunale, ove tale regime, previsto come transitorio, diventasse in
fatto definitivo per la perdurante carenza della legge generale del
sistema radio-televisivo - conseguirebbe automaticamente la non
manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell'art.
4, comma 3 bis, della legge n. 10 del 1985, dal momento che
quest'ultimo troverebbe la sua ragione d'essere proprio nella
legittimazione fornita, sia pure in via transitoria, da quelle
disposizioni, ad attività di radiotelediffusione che fino
all'entrata in vigore del D.L. n. 807 del 1984 integravano
perfettamente il reato di cui all'art. 195 del codice postale.
4. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dal
Tribunale di Genova è stata discussa all'udienza del 16 giugno 1987.
Il successivo 2 luglio, la Corte - in riferimento a tale questione,
nonché ad altra concernente materia (ponti radio) in parte
coincidente, sollevata dal Tribunale di Milano (r.o. 474/85) - ha
emesso un'ordinanza istruttoria, con la quale ha disposto che il
Presidente del Consiglio dei ministri ed il Ministero delle Poste e
delle Telecomunicazioni fornissero, entro sessanta giorni dalla
comunicazione, informazioni:
1. - circa l'attuale situazione tecnica e di fatto dei collegamenti
in ponte radio ad uso privato, con particolare riguardo alle
frequenze radioelettriche utilizzate o assegnabili a tali usi alla
stregua della regolamentazione interna ed internazionale del settore;
2. - circa la situazione dell'emittenza radiotelevisiva privata
conseguente all'applicazione delle disposizioni di cui agli artt. da
1 a 4 del suddetto D.L., come convertito nella citata legge n. 10 del
1985, con particolare riguardo:
a. - agli elementi conoscitivi acquisiti in base al disposto
dell'art. 4, commi primo e secondo, e allo stato di elaborazione
della regolamentazione prevista dall'art. 2 dello stesso D.L.,
convertito nella legge suindicata;
b. - all'attività delle emittenti radiotelevisive private
consentita sulla base dell'art. 3 del medesimo D.L. n. 807 del 1984,
convertito nella predetta legge, e dell'articolo unico della legge 2
agosto 1985, n. 397, specificando in proposito:
b.1. - il numero, le caratteristiche tecniche e gli ambiti di
esercizio delle emittenti operanti con i sistemi rispettivamente
considerati nei commi secondo e terzo del citato articolo 3, con
indicazioni circa le frequenze da queste utilizzate, anche in
rapporto a quelle complessivamente disponibili per servizi
radiotelevisivi;
b.2. - le connessioni o, comunque, i collegamenti anche di fatto a
fini di programmazione e/o di diffusione eventualmente riscontrabili
tra le emittenti o le imprese, anche pubblicitarie, attualmente
operanti nel settore con ciascuno dei due suindicati sistemi.
Le prime informazioni sono state trasmesse il 20 novembre e sono
consistite essenzialmente in una relazione incentrata sui dati
tecnici redatta dal Ministero delle Poste. In tale data il Presidente
del Consiglio, per rispondere agli altri quesiti, ha interessato la
RAI nonché due società private, la Nielsen e l'Auditel. Ulteriore
documentazione, proveniente da queste fonti, è stata inviata con
lettere del 2 dicembre 1987 e del 13 gennaio 1988. Il 24 marzo,
infine, il Presidente del Consiglio ha fatto pervenire ulteriore
documentazione trasmessagli dalla Fininvest Comunicazioni S.p.A.,
precisando che essa non era stata da lui richiesta ma che riteneva
"doveroso" inviarla, "lasciando alla Corte di valutarne l'utilità ai
fini del giudizio".
Le informazioni che si desumono dalla documentazione trasmessa,
ordinate secondo i quesiti sopra precisati, sono essenzialmente le
seguenti.
4.1. - In ordine al quesito sub 1, la relazione del Ministero delle
Poste e delle Telecomunicazioni ricorda innanzitutto, circa la
situazione tecnica, che l'attribuzione delle frequenze dello spettro
radioelettrico alle varie utilizzazioni rientra tra i compiti
specifici dell'Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (U.I.T.)
- cui aderiscono quasi tutti i Paesi del mondo - e che i rapporti
internazionali in materia sono attualmente disciplinati dalla
Convenzione adottata a Nairobi il 6 novembre 1982 (ratificata con
legge 9 maggio 1986, n. 149) e dal Regolamento delle
radiocomunicazioni adottato nella Conferenza amministrativa di
Ginevra del 1979 (ratificato con d.P.R. 27 luglio 1981, n. 740), in
applicazione del quale è stato emanato il Piano Nazionale di
Ripartizione delle Radiofrequenze (D.M. 31 gennaio 1983), il quale
stabilisce, in ambito nazionale, l'attribuzione ai diversi servizi
delle bande di frequenza, specificando altresì le categorie di
utilizzatori per ciascuna banda.
Circa le reti in ponte radio, precisa la relazione, sono assegnate
al servizio privato: a) quanto ai collegamenti di tipo mobile, le
bande di frequenza da 40, 160 e 460 MHz, tra le quali rientrano però
bande assegnate prioritariamente al servizio mobile marittimo, la SIP
ed al Ministero della Difesa; b) quanto ai collegamenti di tipo
fisso, le bande: da 436 e 450 MHz, peraltro utilizzabili anche per
collegamenti da parte di amministrazioni statali; da 2300 a 2440 MHz,
pur essa utilizzabile per collegamenti fissi anche da parte di altre
amministrazioni; da 14.250 a 14.500 MHz, destinata al trasporto dei
segnali televisivi e utilizzabile anche per il servizio fisso via
satellite.
Di queste ultime due bande, la prima è stata riservata ai
collegamenti con capacità superiore ai 60 canali telefonici o
equivalenti (D.M. 30 giugno 1982), la seconda è stata destinata al
trasporto dei segnali televisivi col D.M. 7 ottobre 1986. A
complemento del Piano di ripartizione- precisa ancora la relazione -
è stata emanata, col D.M. 21.2.1986, un'apposita normativa
finalizzata alla razionalizzazione e pianificazione delle frequenze,
all'individuazione delle aree di servizio (onde consentire una più
intensa riutilizzazione delle frequenze in aree limitrofe) ed
all'imposizione delle coutenze - cioè l'uso della stessa frequenza
nella stessa area di servizio - alle reti che non hanno un rilevante
numero di terminali: ciò però - specifica altrove la relazione - è
possibile solo "laddove le potenze irradiate da ciascun impianto sono
modeste o le condizioni orografiche del territorio sono tali da
offrire adeguata schermatura alle emissioni provenienti da impianti
che utilizzano la medesima frequenza".
Quanto alle frequenze (o canali) disponibili per l'irradiazione da
parte delle stazioni televisive, pubbliche e private, il Ministero
precisa che, in base al piano di ripartizione delle frequenze, i
canali destinati alle trasmissioni televisive sono complessivamente
58 (denominati da A ad H2 e da 21 a 69). Essi possono essere
utilizzati dalle emittenti private solo compatibilmente con le
assegnazioni di frequenze (o canali) alle stazioni del servizio
pubblico nazionale. Per chiarire il grado di utilizzazione dei canali
il Ministero allega un grafico, dal quale - precisa - si evince che i
canali da A ad H2 sono occupati in minore misura degli altri, e ciò
per vari fattori, quali ad esempio: la presenza in dette bande di
numerosi impianti di forte potenza della concessionaria pubblica RAI;
il maggior costo degli apparati funzionanti in dette frequenze
rispetto a quelli funzionanti nei canali da 21 a 69 e la minore
possibilità di riutilizzazione di uno stesso canale, in particolare
per quelli compresi nella banda I, a causa della propagazione a lunga
distanza.
4.2. - Circa la situazione di fatto, il Ministero ha precisato che,
nonostante i suddetti provvedimenti, la disponibilità di frequenze
non è sufficiente a soddisfare le richieste di utenza da parte dei
privati, ed è in particolare da tempo esaurita nelle zone a maggiore
densità di popolazione o a maggior concentrazione industriale. Le
concessioni già rilasciate per ponti radio ad uso privato sono
infatti circa 10.000 (con oltre 100.000 terminali ufficialmente
circolanti, esclusi quelli delle Amministrazioni civili e della
Polizia di Stato) e negli ultimi anni l'incremento delle domande è
di circa il 10-15%. Al riguardo, il Ministero specifica che le reti
in ponte radio ad uso privato sono oggi uno strumento quasi
indispensabile per una più corretta gestione di attività di
rilevante importanza come quelle svolte dalle Regioni, dai Comuni,
dagli Enti distributori di energia (ENI, ENEL, Società di gasdotti,
ecc.) dalle Società autostradali, da Istituti di Vigilanza, da
servizi di pubblica utilità (ospedali, ambulanze) e da altre imprese
private (trasporti, taxi, banche, ecc.).
Inoltre, rileva il Ministero, in molte zone del Paese
l'assegnazione di frequenze ai collegamenti privati può essere resa
effettiva solo dopo una serie di coordinamenti tecnici con altre
Amministrazioni di telecomunicazioni dei Paesi confinanti quali per
es. Francia, Svizzera, Iugoslavia (in particolare per la costa
adriatica). Infatti, come è noto, la propagazione delle onde
elettromagnetiche nello spazio non conosce confini territoriali e
inoltre le stesse frequenze utilizzate in Italia possono essere
utilizzate nei Paesi vicini in quanto il Regolamento delle
Radiocomunicazioni attribuisce le stesse bande per tutti i Paesi
della Regione 1 (Europa ed Africa) e risulta quindi necessario, per
eliminare la possibilità di reciproche interferenze, ricorrere di
volta in volta ad accordi con detti Paesi.
4.3. - Il Ministero P.T. ha fatto presente di non aver potuto
procedere all'elaborazione del Piano nazionale di assegnazione delle
frequenze, in quanto nell'art. 2 l. n. 10 del 1985 non sono precisati
i criteri da seguire al riguardo e la loro determinazione è stata a
suo avviso rinviata alla legge generale. In mancanza del piano, "da
considerare come termine di paragone", non è stato neanche possibile
valutare "in termini quantitativi" la "disponibilità di frequenze,
intesa come numero di emittenti che potrebbero essere messe in
funzione senza turbare l'assetto costituito".
Compito del pianificatore - precisa il Ministero - è in realtà
quello di conseguire l'ottimale utilizzazione delle frequenze in
termini di aree di servizio e di popolazione servita, e quindi la
diffusione del maggior numero di programmi al maggior numero di
utenti, peraltro tenendo conto dell'esigenza di consentire
un'equilibrata gestione economica delle emittenti interessate. Per
acquisire gli elementi necessari all'elaborazione del piano ed
ottenere una ricognizione aggiornata dell'emittenza privata, il
Ministero ha costituito il 20 ottobre 1984 due Commissioni di studio,
che hanno peraltro riscontrato nei dati forniti in occasione del
censimento numerose inesattezze ed errori: tale analisi non è stata
quindi completata, e ciò è indispensabile per definire le linee
direttive da seguire per l'elaborazione del piano.
4.4. - Ciò premesso, il Ministero ha riferito i dati a sua
disposizione circa la situazione di fatto dell'emittenza privata,
distinguendo tra emittenti radiofoniche ed emittenti televisive.
a. - Emittenti radiofoniche. Dai dati del censimento è emerso che
il numero di emittenti radiofoniche risulta essere 4.204. Tali
emittenti utilizzano complessivamente n. 9.471 impianti di diffusione
ed impiegano 4.004 tratte in ponte radio per i trasferimenti dei
programmi. La maggior parte delle emittenti ha un solo impianto
(1.915) o fino a 5 impianti (2.231); quelle che ne hanno da 10 a 20
sono 54, quelle con più di 20 sono 4. Analogo fenomeno si registra
per gli ambiti di diffusione: 3.190 hanno impianti in una sola
regione, 996 in un numero di regioni fino a 5. Quelle a maggior
diffusione sono pochissime: 5 in 6 regioni, 1 in 8, 2 in 11, 1 in 12
e 1 in 19 regioni.
Relativamente alle frequenze utilizzate dalle emittenti
radiofoniche private per il trasferimento dei programmi, il Ministero
precisa che solo il 4,20% opera in bande di frequenze utilizzabili a
tale scopo, mentre il rimanente 95,80% ricade in bande attribuite ad
altri utilizzatori (Ministero Difesa, Enti Aeronautici ecc.) o ad
altri servizi. In particolare, per il trasferimento sono utilizzate
per il 61% bande destinate alla radiodiffusione, per circa il 6%
bande attribuite alle radiocomunicazioni e radioassistenze al
traffico aereo, per il 10% bande del Ministero della Difesa, per il
18% bande attribuite a servizi civili (in esclusiva o in
compartecipazione).
Il Ministero aggiunge che, data la prossimità tra le bande di
frequenza assegnate ai privati e quelle riservate al servizio di
radionavigazione aeronautica, nelle zone aeroportuali si verificano
numerose interferenze delle radio private con le stazioni radio che
indicano l'ubicazione e la direzione delle piste di atterraggio per
gli aerei.
In ordine alla densità di occupazione delle frequenze da parte
delle radio private, la relazione precisa: nelle zone a maggiore
densità di popolazione (province di Bari, Napoli, Palermo, Roma,
Bologna e Milano) gli impianti radiofonici sono numerosissimi (nelle
predette province da un minimo di 140 a un massimo di 343).
L'occupazione delle frequenze è perciò pressoché totale, ed
inoltre la stessa frequenza risulta utilizzata da più emittenti (una
stessa banda è cioè utilizzata, nelle predette province, da un
numero di emittenti variabile da 5 a 13). L'occupazione delle
frequenze è anche abbastanza elevata nelle province a media densità
di popolazione, e meno intensa in quelle a densità bassa.
b. - Emittenti televisive. Anche per l'emittenza televisiva privata
il Ministero segnala fenomeni analoghi a quelli già evidenziati per
le radio private.
Ciò riguarda, innanzitutto, il fenomeno dell'occupazione da parte
delle TV private - per il trasferimento dei programmi - di bande di
frequenza riservate ad altri utilizzatori o ad altri servizi.
Infatti l'esame condotto sulla utilizzazione delle frequenze mostra
che il 26,52% opera in bande di frequenze utilizzabili a tale scopo,
mentre il rimanente 73,48% ricade in bande attribuite ad altri
utilizzatori (Ministero Difesa, Enti Aeronautici, ecc.) o ad altri
servizi.
In particolare, il fenomeno riguarda bande attribuite: per il 40% a
servizi civili, per il 17% alle radioassistenze al traffico aereo,
per il 12% al Ministero della Difesa, per il 4% alla radiodiffusione.
Anche per le TV private, inoltre, si riscontra un'occupazione delle
frequenze che è pressoché totale nelle zone ad alta densità di
popolazione, significativa nelle zone a media densità ed inferiore
in quelle a bassa densità. Solo in queste ultime, in sostanza - dice
il Ministero - esiste una disponibilità di frequenze, perché
l'emittenza privata ha minore interesse a servirle (si tratta, nel
campione del Ministero, delle province di Campobasso, Caltanissetta,
Cremona, Matera, Oristano e Rovigo). Nelle province ad alta densità
di popolazione (quelle dette sopra) si riscontra anche per la TV il
fenomeno dell'occupazione multipla di uno stesso canale televisivo,
con valori che vanno da 5 a 18 emittenti che trasmettono su uno
stesso canale.
Questo affollamento, ovviamente, determina interferenze e
peggioramenti della qualità della ricezione. Al riguardo, la RAI ha
trasmesso delle tabelle che evidenziano lo scadimento della qualità
di ricezione delle sue reti radiofoniche e televisive determinato
dalle interferenze in questione.
4.5. - Circa la situazione di fatto dell'emittenza televisiva
privata operante in ambito nazionale o comunque ultralocale (di cui
all'art. 3 della legge n. 10 del 1985), sono stati acquisiti, per
ciascun circuito (o network) dati circa il numero delle emittenti tra
loro interconnesse e la loro dislocazione nelle varie regioni, circa
il numero degli impianti utilizzati per la diffusione dei programmi e
per il trasferimento di essi da una stazione all'altra e circa la
"audience" o ascolto ottenuto da ciascun circuito. Questi dati - da
correlare tra loro nonché con quello (non fornito) relativo alla
potenza degli impianti utilizzati dai circuiti - sono di fonte
ministeriale, RAI e Auditel, (società a capitale misto - 33% RAI,
26% Fininvest, 33% di varie associazioni di agenzie di pubblicità,
3% ciascuno FRT e SI P, 1% la FIEG -, che si occupa del rilevamento
dei dati sull'ascolto televisivo). È da avvertire che mentre i primi
sono dati concernenti le rilevazioni effettuate all'epoca del
censimento di cui all'art. 4 l. n. 10 del 1985, quelli delle altre
due fonti sono più recenti (i dati Auditel, in particolare,
concernono la situazione al settembre 1987).
Inoltre i dati ministeriali concernono tutte le emittenti
televisive, mentre quelli di fonte RAI ed Auditel riguardano solo i
networks.
4.5.1. - Numero e diffusione territoriale delle emittenti.
Il Ministero precisa che dai dati forniti ai sensi dell'art. 4
della legge n. 10 del 1985 è emerso che le emittenti televisive
risultano essere 1.397. Tali emittenze utilizzano complessivamente
9.704 impianti di diffusione e impiegano 5.422 tratte in ponte radio
per il trasferimento dei programmi.
Circa le emittenti televisive private, il Ministero precisa che
"quelle che operano con un solo impianto sono 307; quelle che operano
con più di un impianto e fino a 5 impianti sono 613, quelle che
operano con più di 5 e fino a 10 impianti sono 223, quelle che
operano con più di 10 e fino a 20 impianti sono 109; quelle che
operano con più di 20 impianti, e fino a 60 impianti sono 116;
quelle che operano con più di 60 impianti sono 29".
Quanto agli ambiti territoriali di diffusione, il Ministero precisa
che le emittenti private che hanno impianti "in una sola regione sono
959; quelle che hanno impianti in più di una regione sono 388;
quelle che hanno impianti in 5 regioni sono 36; quelle che hanno
impianti in 6 regioni sono 7; quelle che hanno impianti in 7 regioni
sono 4; quelle che hanno impianti in 8 regioni sono 3".
Questo per quanto riguarda gli impianti che appartengono ad
un'unica società emittente.
Il Ministero aggiunge però che "accanto alle emittenti che
diffondono i programmi televisivi in più regioni con propri
impianti, esistono emittenti che trasmettono contemporaneamente per
tutta la durata delle trasmissioni o per un tempo più limitato lo
stesso programma su tutto il territorio nazionale in base a
preventivi accordi fra i titolari delle emittenti interessate".
Si tratta, cioè, dei collegamenti che hanno usualmente le
denominazioni inglesi di network ovvero di syndication, nei quali
più emittenti almeno formalmente distinte trasmettono gli stessi
programmi. Il Ministero ha individuato 146 di queste emittenti, che
danno luogo a nove diversi collegamenti.
In quattro casi - e cioè per Canale 5, Italia 1, Rete 4 e Euro TV
(ora Odeon) - questi collegamenti, riferisce il Ministero, risultano
interessare la quasi totalità delle province italiane (cioè da 16 a
13 regioni), mentre nei rimanenti cinque essi interessano circa la
metà delle regioni medesime (rispettivamente, 10 per Elefante TV, 9
per Rete Capri, 8 per Videomusic, 5 per Rete A e Capodistria). Va
notato, al riguardo, che l'Auditel considera networks, e rileva i
dati di ascolto, solo per le prime quattro reti, oltre che per le
reti RAI.
Nel settore vi è peraltro, come segnala la RAI, una dinamica
accentuata. Ed infatti dei circuiti per i quali RAI e Auditel
indicano il numero delle emittenti collegate e la presenza nelle
varie regioni, scompaiono, rispetto ai dati ministeriali, Elefante
TV, Rete Capri e Videomusic e compaiono invece - oltre a
Telemontecarlo, non considerata dal Ministero - Italia 7, TV Italia e
Junior TV, le quali, secondo l'Auditel, risultano avere emittenti in
un alto numero di regioni (da 14 a 19). Secondo i dati Auditel, poi,
le emittenti maggiori (Canale 5, Italia 1 e Rete 4) sono presenti in
tutte le regioni.
4.5.2. - Impianti. I dati sul numero degli impianti sono di fonte
RAI, che ha però allegato anche dati di fonte Fininvest. In sintesi
la situazione è la seguente.
Servizio pubblico: RAI UNO, impianti 1.338; RAI DUE, impianti
1.316; RAI TRE, impianti 388; per programmi francesi, impianti 26;
per programmi svizzeri, impianti 26.
Totale impianti RAI: 3.094.
Impianti privati: in totale 9.993 di cui: CANALE 5, 1573; ITALIA 1,
1288; RETE 4, 939.
Totale impianti Fininvest: 3.800.
Altre emittenti: Odeon, 615; Italia 7, 582; Rete A, 410; Junior TV,
265; TV Italia, 252.
Totale altre emittenti: 2.124.
Ripetitori di programmi esteri: 829 di cui: Telemontecarlo, 431;
Telecapodistria, 92; Svizzera Italiana, 81.
La RAI fa altresì presente che i dati Fininvest assegnano alle
reti di questo gruppo un maggior numero di impianti
(complessivamente, 4015 anziché 3800).
4.5.3. - Dati sulla estensione territoriale della ricezione e sulla
qualità di essa.
I dati a questo proposito sono di fonte Auditel, RAI e Fininvest
(che allega una tabella di provenienza Auditel) e sono
sostanzialmente omologhi.
Le percentuali di ricezione delle varie reti da parte degli utenti
si ricavano da due tabelle Auditel e RAI, integrate, per quanto
concerne le emittenti minori, da un'altra tabella, pure di fonte
Auditel, rielaborata dalla Fininvest. Da esse si ricavano le seguenti
percentuali: RAI 1 e 2: oltre 99% Canale 5: oltre 96%; Italia 1: 93%;
Rete 4: 89%; RAI 3: 87%; Odeon: 62%; Rete A e Italia 7: 57%; TMC:
49%; TV Italia 47,6%; Junior TV: 43,8%; Video Music: 32,3%.
Quanto alla qualità della ricezione, essa è ufficialmente
classificata in cinque gradi, e cioè come ottima, buona,
sufficiente, mediocre e pessima (gradi C.C.I.R.).
Un altro metodo di classificazione (adottato dalla Promocentro di
Milano e utilizzato nella tabella RAI) accorpa nella definizione di
"buona", la "ottima" e "buona" del primo e oltre metà della
"sufficiente" (il resto è "mediocre" o "pessima").
Combinando i dati delle tabelle, si ricavano - previo
arrotondamento alle cifre intere - le seguenti percentuali di
ricezione "buona" (cioè non "mediocre"), considerate sempre sul
totale della popolazione (o meglio dei possessori di televisori): RAI
1: 98%; RAI 2: 97%; Canale 5: 92%; Italia 1: 86%; Rete 4: 80% circa;
RAI 3: 75%; Odeon: 48%; Italia 7: 46%; Rete A: 44%; Telemontecarlo e
TV Italia 35%; Junior TV: 34%; Video Music: 22%.
4.5.4. - Dati sull'ascolto. I dati sull'ascolto sono quelli che
risultano usualmente utilizzati per misurare e comparare l'incidenza
nel settore radiotelevisivo delle varie emittenti e dei circuiti o
gruppi di circuiti. In proposito hanno fornito dati sia la RAI che la
Fininvest, che ha prodotto tabelle di fonte Auditel e Nielsen. Si
tratta di dati sostanzialmente coincidenti, con differenze dovute
solo alle diverse fasce orarie di rilevazione.
Combinando i dati RAI - relativi alle sole reti RAI e Fininvest e
concernenti la fascia oraria 12.00-23.00-con i dati Nielsen, che
considerano anche altri circuiti e riguardano la più ampia fascia
oraria dalle 7.00 alle 2.00, ne risultano, per l'anno 1987, le
seguenti percentuali d'ascolto (per le reti RAI e Fininvest i dati
Nielsen sono indicati tra parentesi). Totale ascolto reti RAI: 45,2%
(48,3%), di cui RAI UNO: 27,1% (32,1%); RAI DUE: 14,5% (13,8%); RAI
TRE: 3,6% (2,4%). Totale ascolto reti Fininvest: 44,6% (44,7%), di
cui Canale 5: 23,5% (22,6); Italia 1: 13,1% (13,7%); Rete 4: 8,3%
(8,5%). Totale ascolto altre emittenti: 7%, di cui: Odeon 2,6%;
Italia 7: 1,2%; TMC: 0,8%; altre: 2,4%.
Questi ultimi dati, peraltro, concernono la fascia oraria più
ampia. Se invece si considera quella di maggiore ascolto, e cioè
dalle 20,30 alle 23.00 (c.d. "prime time"), l'Auditel fornisce i
seguenti dati globali: totale RAI: 45%; totale Fininvest: 44,9910;
altre TV: 10,1%.
Dai dati finora analiticamente indicati emerge - alla stregua di
tutti gli indici significativi al riguardo - l'esistenza di una netta
distinzione tra le tre reti nazionali private e gli altri circuiti -
in realtà definibili solo come ultralocali (o ultraregionali) - e
perciò il frazionamento dell'emittenza televisiva privata in tre
distinti ambiti, nazionale, ultraregionale e locale.
Riassumendo i dati, infatti, si nota che la percentuale di utenti
di cui i circuiti minori sono effettivamente in grado di ottenere
l'ascolto (ciò che di norma non avviene se il segnale ricevuto è
qualitativamente "mediocre" o "pessimo") è inferiore al 50% (tra il
48 e il 22%), mentre per le tre reti nazionali private essa varia tra
il 92 e l'80%; e ciò è coerente al fatto che i primi dispongono di
un numero di impianti che è, all'incirca, tra la metà ed un quinto
di quelli mediamente posseduti dalle reti nazionali.
L'ascolto reale da parte degli utenti è stato pari, nel 1987, al
45% per le tre reti nazionali (con percentuali varianti, per ciascuna
tra il 23,5 e l'8,3%), mentre i circuiti minori hanno ottenuto
livelli di ascolto modestissimi (al massimo, 2,6% degli utenti)
quando non insignificanti.
Dal raffronto dei dati sul numero di impianti e sulla ricezione
emerge inoltre che l'estensione dell'effettiva ricezione non è
proporzionale al numero degli impianti utilizzati, ma richiede, oltre
certi limiti, un enorme aumento del numero di impianti. Ad es., a RAI
Tre, per passare da una ricezione effettiva del 75% ad una pressoché
integrale - quale hanno le altre due reti RAI - sarebbero necessari
poco meno di mille impianti, da aggiungere ai 388 attualmente
posseduti. Quindi, il passaggio da una copertura parziale ad una
totale comporta un fortissimo incremento dei costi d'installazione ed
esercizio: e ciò sottolinea ulteriormente la distinzione tra reti
nazionali ed ultraregionali.
4.5.5. - La ripartizione del mercato pubblicitario. I dati su
questo punto sono stati richiesti al fine di valutare sia la
consistenza del fenomeno pubblicitario e la sua incidenza
nell'emittenza radiotelevisiva, sia la consistenza delle imprese
pubblicitarie operanti nel settore e le loro connessioni con le
imprese emittenti.
In proposito, il Presidente del Consiglio ha trasmesso una tabella
inviata dalla Nielsen, società internazionale che si occupa di
rilevazioni e stime nel settore dei "media", quindi anche del mercato
della pubblicità.
Nella tabella è indicata la tendenza degli investimenti
pubblicitari televisivi nazionali per gli anni dal 1984 al 1987,
espressa, per ciascuna delle società pubblicitarie facenti capo ai
vari gruppi od emittenti, tanto in percentuale che in cifre assolute
(espresse in milioni di lire a tariffe di listino, cioè al lordo
degli sconti praticati su questi). Come risulta da altri elementi
conoscitivi emergenti dalla documentazione trasmessa, i dati sulla
pubblicità raccolta per alcuni circuiti arrivano solo a (o iniziano
solo da) determinate epoche: e ciò in conseguenza di fenomeni di
incorporazione, frazionamento o espansione dei circuiti considerati.
Così è per Rete quattro, incorporata dopo l'agosto 1984 nel gruppo
Fininvest; per Euro-TV (STP-RV), dal cui frazionamento (agosto 1987)
è scaturito il circuito Odeon; per Telemontecarlo, che da aprile
1987 fa capo, per la raccolta pubblicitaria, a Publicitas - Teleopus
e a Euroglobo.
Fatte queste precisazioni, le percentuali risultanti dalla tabella
per ciascuna delle società pubblicitarie - e relative emittenti -
sono le seguenti (tra parentesi sono indicati i valori in milioni).
Publitalia (Canale 5, Italia 1, Rete 4 da settembre 1984) 1984:
68,37% (2.013.163); 1985: 73,45% 'o (3.071.813); 1986: 73,62%
(3.590.650); 1987 (gen./sett.): 77,26% (3.094.887). Rete 4 (sino ad
agosto 1984): 8,88% (261.584).
Sipra (Rai Uno - Rai Due - Rai Tre): 1984: 16,64% (490.006); 1985:
20,01% (837.057); 1986: 20,38% (994.396); 1987 (gen./sett.): 17,22%
(690.123).
STP-RV (sino ad agosto 1987): 1984: 5,42% (159.783); 1985: 6,04%
(252.696); 1986: 4,61% (224.865); 1987 (gen./sett.): 2,83% (113.630).
Publicitas-Teleopus (Telemontecarlo da aprile 1987): 1984: 0,67%
(19.771); 1985: 0,48% (20.077); 1986: 1,38% (67.325); 1987
(gen./sett.): 0,58% (23.304).
Euroglobo (Telemontecarlo da aprile 1987): 1987 (gen./sett.): 1,71%
(68.724).
Odeon Pubblicità (da settembre 1987): 1987 (gen./sett.): 0,36%
(14.805).
Da questa tabella trae origine l'invio della documentazione
Fininvest, che consiste in una lunga relazione della Publitalia '80
S.p.A. (corredata da 121 allegati) intesa a ridimensionare il ruolo
del gruppo Fininvest nel mercato pubblicitario quale risulta dai dati
Nielsen.
4.5.6. - Gli assunti di Publitalia sono essenzialmente i seguenti.
Innanzitutto, la valutazione della ripartizione del mercato
pubblicitario televisivo andrebbe fatta calcolando non gli
investimenti pubblicitari delle imprese al lordo dei prezzi di
listino, ma i fatturati dichiarati dalle imprese di pubblicità. Su
questa base, ed alla stregua di conteggi e stime di varia fonte,
Publitalia perviene, per il 1986, ai seguenti risultati (cifre di
fatturato tra parentesi, in miliardi di lire). RAI: 35,9% (1.030
miliardi, di cui 943 Sipra, 58 Publicitas, 28 Sacis). Fininvest
(Publitalia): 47,9% (1.376 miliardi). Altre: 16,2% (466 miliardi) di
cui: Euro-TV (STP-RV): 90; Rete A: 30; TMC (Euroglobo): 30; Pan TV,
Junior TV e altri: 26; Videomusic: 18; TV Capodistria: 2; quindi,
totale circuiti minori: 196 miliardi. Publitalia ritiene poi di poter
stimare la pubblicità locale in 180 miliardi ed in circa 90 miliardi
quella affluita alle emittenti tramite concessionarie diverse da
quelle tradizionali.
La stessa Publitalia, peraltro, produce una tabella di fonte Media
Key - da essa non contestata - ove è evidenziata la seguente
progressione di fatturati pubblicitari in miliardi di lire dal 1980
al 1987, Publitalia (Canale 5, Italia 1, Rete 4 e sponsorizzazioni):
1980: 12,5; 1985: 1.152; 1987: 1.685. Publitalia (altre TV, e cioè
Italia 7, Telecapodistria e Junior TV): 1987: 16. Odeon TV: 1987: 39.
Sipra (comprese le sponsorizzazioni a partire dal 1984): 1980: 148,1;
1985: 609,5; 1987: 768. Estere (cioè Telemontecarlo e Capodistria,
quest'ultima fino al 1987): 1980: 27; 1985: 5,1; 1987: 36. Altre TV
nazionali (e cioè Euro TV e altri circuiti minori, quali Videomusic,
Rete A, Pan TV ed altri): 1980: 61,5; 1985: 80; 1987: 74. TV locali:
1980: 70; 1985: 90; 1987: 110.
4.5.7. - Per misurare il vero grado di concentrazione del gruppo
Fininvest, però, non ci si può limitare - secondo Publitalia -
Publitalia a considerare il mercato della pubblicità televisiva, ma
occorre assumere a parametro l'intero mercato della comunicazione
commerciale. Al riguardo, Publitalia prende in esame innanzitutto
quella che chiama l'"area grande", comprensiva cioè non solo dei
mezzi di comunicazione "classici" (stampa, televisione, radio, cinema
ed "esterna": affissioni, insegne, locandine ecc.) ma anche di quelli
cd. "integrativi", quali promozioni, sponsorizzazioni, relazioni
pubbliche e simili.
A dimostrazione del carattere unitario di tale area, Publitalia
cita studi recenti che segnalano la tendenza alla "crescente
integrazione tra i diversi mezzi, frutto a sua volta della maturata
multimedialità di vari utenti e comunicatori orientati verso la
comunicazione globale". Infatti, "molti investimenti sui media
"classici" portano con se investimenti "integrativi", mentre sempre
più spesso opzioni a favore di questi ultimi determinano
investimenti pubblicitari tradizionali".
In proposito, Publitalia allega una tabella riepilogativa (di fonte
UPA - Intermatrix) circa il fatturato totale di tale area di mercato,
pari, per il 1987, a 10.769 miliardi; e dal raffronto di tale cifra
con quella del fatturato del gruppo Fininvest deduce che l'incidenza
percentuale di esso nell'area in questione è pari al 16,3%.
4.5.8. - Publitalia esamina poi l'"area piccola", comprendente
Stampa, TV, radio, cinema ed esterna (affissioni ecc.).
Anche a tal proposito, a dimostrazione dell'unitarietà di tale
area, Publitalia allega ed illustra una copiosa documentazione che
"dimostra la strettissima succedaneità e la conseguente concorrenza
tra stampa periodica, stampa quotidiana e televisione" nonché tra
quest'ultima e "affissione, radio e cinema". Segnala altresì recenti
indagini da cui risulta che per "l'ottimizzazione della comunicazione
di marketing" la televisione non viene mai "scelta quale unico mezzo
consigliato nelle pianificazioni ma sempre abbinata ad altri
(quotidiani, periodici specializzati, radio, cinema, affissioni)".
Al riguardo, Publitalia allega tre tabelle redatte da aziende
specializzate nella valutazione degli investimenti pubblicitari (UPA,
Media Key e Intermatrix) che recano dati relativi al 1987 assai
prossimi tra loro.
La prima di tali tabelle reca le seguenti percentuali e cifre
assolute (in miliardi, tra parentesi) degli investimenti pubblicitari
effettuati in detto anno nei vari mezzi (al netto degli sconti, e
comprese le commissioni di agenzia). Totale stampa: 42,6% (2.419) di
cui quotidiani e supplementi: 22,2% (1.262); periodici: 20,4%
(1.157). Totale TV: 48,5%, di cui TV RAI: 13,1% (743); TV private
nazionali 32,2% (1.825); TV private locali 2,6% (150); TV estere 0,6%
(35). Totale radio: 3,5% (200), di cui: Radio RAI, 1,4% lo (80);
radio private, 2,1% (118); radio estere, 2 miliardi. Esterna, 5,1%
(290). Cinema: 0,3% (15).
In base a tali dati, secondo Publitalia, l'incidenza del gruppo
Fininvest nel mercato pubblicitario dell'"area piccola" sarebbe del
30-31% (ma andrebbe ridotta, in base a propri calcoli, a circa il
28%).
4.5.9. - L'ultima parte della relazione di Publitalia è dedicata
ad una lunga illustrazione dell'aspra concorrenza esistente tra reti
RAI e reti Fininvest. In sintesi, la tesi centrale riguarda i fattori
che - secondo Publitalia consentono alla RAI di sottrarre "audience"
ai circuiti privati minori, fattori che sono così indicati: 1) la
dimensione economica; 2) il basso affollamento pubblicitario; 3) la
migliore ricezione; 4) il monopolio dell'informazione; 5) "la
combinazione della esclusiva della diretta a livello nazionale con il
monopolio delle trasmissioni sportive ed in particolare calcistiche,
per le quali la diretta è essenziale".
Sarebbe quindi più facile per la RAI sottrarre audience ai
circuiti minori, mentre questi potrebbero sottrarne alla Fininvest.
Considerando, poi, le risorse complessive delle imprese (ivi
compreso, quindi, il canone RAI), Publitalia fa una serie di calcoli
dai quali risulterebbero i seguenti fatturati complessivi (in
miliardi): RAI, 2.117; Fininvest, 1.698; Altre, 275 (di cui Odeon TV,
39; TV estere, 36; Italia 7, 16; altre nazionali, 74; TV locali,
110).
Fatte, poi, alcune correzioni, Publitalia stima il totale delle
risorse televisive in 4.289 miliardi, ed afferma che le quote di
mercato sono così distribuite:
Rai 49,4910
Fininvest 39,6%
Altre 11,00%
Sulla base di questi dati - e previa qualche altra correzione -
Publitalia così testualmente conclude: "Il mercato appare
effettivamente concentrato, nel senso che vi è un soggetto in
posizione largamente dominante, un soggetto in posizione largamente
minoritaria ma di dimensioni sufficienti a costituire un polo
concorrenziale rispetto al primo ed una pluralità di soggetti
attualmente marginali".
4.5.10. - Riassumendo, conclusivamente, i dati più significativi
emersi in ordine alla ripartizione delle risorse pubblicitarie nel
comparto dell'informazione, risulta che essi affluiscono per il 48,5%
alla TV e per il 42,6% alla stampa (quotidiani 22,2%, periodici
20,4%); quote minori risultano per radio (3,5%), affissioni (5,1%) e
cinema (0,3%); il gruppo Fininvest assorbe circa il 30% dell'intero
comparto.
Nel settore televisivo, a parte il canone RAI (che non è risorsa
pubblicitaria), risulta per il 1987 la seguente distribuzione in
termini di fatturato: Fininvest, 63% (1.701 miliardi); RAI, 28,4%
(768 miliardi); totale circuiti minori, 4,3% (110 miliardi); totale
TV locali, 4,3'70 (110 miliardi).
Ben più elevata, come si è detto, risulta invece la quota del
gruppo Fininvest (77,26%) se si calcolano gli investimenti al lordo,
mentre corrispondentemente diminuiscono le quote RAI (17,22%) e dei
circuiti minori (complessivamente 6,9%); ciò, peraltro, non
conteggiando le TV locali.
5. - Passando ora ad illustrare le tesi svolte dall'Avvocatura
dello Stato e dalle parti private nei tre giudizi instaurati con le
sopraindicate ordinanze dei Pretori di Roma e Torino e del Tribunale
di Genova, è da premettere che la trattazione della prima di tali
cause (r.o. 771/82) era già stata fissata per le camere di consiglio
dell'11 dicembre 1985 e del 4 giugno 1987, ma in entrambe le
occasioni rinviata a nuovo ruolo. La discussione di essa è quindi
avvenuta all'odierna udienza.
Delle parti originariamente costituite, hanno presentato memorie in
tutte le occasioni solo la RAI, le emittenti operanti sotto il
marchio unitario Canale 5 (e cioè Roma 2, Tele Milano, Tele Torino,
Sardegna TV, Video Adige: d'ora in poi designate per brevità come
"le emittenti di Canale 5") e Radio Telespazio Calabria. Le società
Delta e Quinta Rete hanno presentato memorie per la prima camera di
consiglio e per l'udienza odierna. Hanno invece presentato solo la
memoria di costituzione le seguenti società: Tele Libera Firenze,
Tele Tirreno 1, Antenna Nord Piemonte, Rusconi Editori Associati ed
Antenna Nord, nonché la FIEL (Federazione Italiana Emittenti
Locali).
L'Avvocatura è intervenuta con la memoria di costituzione, cui ha
aggiunto una breve memoria per l'udienza odierna.
Le emittenti che hanno presentato la sola memoria di costituzione
si sono limitate ad aderire alle censure prospettate dal giudice a
quo.
La FIEL ha chiesto che siano dichiarati leciti i collegamenti
organizzativi e tecnici per le trasmissioni in contemporanea, e
viceversa illecito l'uso del marchio unico da parte delle emittenti
collegate.
5.1. - La difesa delle emittenti di Canale 5 chiede innanzitutto
che la questione sollevata dal Pretore di Roma sia dichiarata
inammissibile per irrilevanza, e ciò per più motivi, prospettati
l'uno subordinatamente all'altro.
Oggetto del giudizio a quo - osserva in primo luogo la difesa - era
la questione della compatibilità tra la riserva alla RAI - quale
concessionaria esclusiva - delle trasmissioni su scala nazionale ed
il modo di operare delle emittenti private collegate, che
rivendicavano la liceità della trasmissione in contemporanea degli
stessi programmi (senza cioè obbligo di differenziare contenuti ed
orari dei medesimi): liceità contestata dalla RAI (anche sotto il
profilo della concorrenza sleale) che assumeva invece che in tal modo
si travalicava l'ambito locale.
Secondo la difesa, questo problema di compatibilità è stato
risolto dalla legge n. 10 del 1985, che ha operato una vera e propria
"rifondazione" del sistema: sia sotto il profilo "istituzionale",
introducendo il sistema misto, sia sotto quello "tecnico", prevedendo
il piano nazionale di assegnazione delle frequenze (che - sostiene la
difesa in polemica col Ministero P.T. - poteva e doveva essere
realizzato subito, in quanto la sua elaborazione non era stata
rinviata alla legge generale). La legge n. 10, pur se "non
esauriente" (sicché, dice la difesa, quella della legge generale è
un'esigenza "generalmente sentita") ha almeno transitoriamente
assicurato l'equilibrata coesistenza delle due componenti, pubblica e
privata: da un lato, realizzando un'organizzazione della
concessionaria pubblica più idonea a sostenere la concorrenza,
attraverso il conferimento di più ampi poteri di gestione al
direttore generale e la previsione di limiti all'affollamento
pubblicitario dell'emittenza pubblica e privata; dall'altro,
consentendo la prosecuzione dell'attività delle emittenti private e
convalidando - con l'art. 3, terzo comma - il "modello di
comportamento" delle trasmissioni in contemporanea.
Il fatto, poi, che lo stesso art. 3, terzo comma sia sospettato
d'illegittimità costituzionale dalle ordinanze oggi in discussione
non preclude - secondo la difesa delle emittenti di Canale 5 - la
chiesta pronuncia d'irrilevanza: e ciò, sia perché in presenza del
sistema misto instaurato dalla legge n. 10 non sarebbe necessaria
un'espressa norma permissiva delle trasmissioni in contemporanea, che
sarebbero peraltro "prodromiche rispetto al modello legale
dell'emittenza nazionale"; sia perché, se esse fossero vietate,
l'attuale disciplina transitoria del servizio pubblico resterebbe, a
suo dire, "priva di causa".
La tesi della compatibilità - secondo la difesa - è confermata
dalle risultanze istruttorie, che dimostrerebbero che si è
realizzato un "assetto pluralistico ed equilibrato", dato che è
emersa l'esistenza di una "perfino sovrabbondante" pluralità di
emittenti (nove collegamenti per programmazioni nazionali, cui si
sono poi aggiunti altri sei circuiti). L'irrilevanza è poi sostenuta
traendo argomento da una sentenza del 3 febbraio 1987 della Corte di
Cassazione (III sez. pen., n. 190) che ha considerato legittime le
"trasmissioni unificate dei circuiti televisivi", ritenendo che il
citato art. 3, terzo comma, sia norma di interpretazione autentica
degli artt. 195 cod. post., 1 e 2 l. n. 103 del 1975 e che il termine
di cui al primo comma del medesimo art. 3 sia riferito "all'attività
del legislatore per il riordino del sistema televisivo".
La tesi dell'interpretazione autentica implica, cioè, che la
trasmissione in contemporanea da parte di più emittenti di programmi
preregistrati (c.d. interconnessione funzionale) sia stata lecita fin
dall'origine, sulla base delle stesse disposizioni della legge n. 103
del 1975 impugnata dal Pretore di Roma, disposizioni delle quali
l'art. 3, terzo comma, della legge n. 10 del 1985 avrebbe fornito
l'autentica interpretazione. Di qui l'irrilevanza della questione.
Anche se, poi, non dovesse condividersi la tesi
dell'interpretazione autentica, le trasmissioni in contemporanea
dovrebbero - secondo la difesa - ritenersi lecite, sia perché
altrimenti si cadrebbe in una sorta di "autarchia locale" delle fonti
d'informazione, sia perché l'ambito locale riguarda, a suo avviso,
il territorio raggiungibile dalle trasmissioni e non il loro
contenuto.
Le emittenti di Canale 5 chiedono infine - ma senza specifica
motivazione - "in via ulteriormente subordinata" di "rimettere gli
atti al giudice di merito per un riesame della rilevanza della
questione alla stregua della predetta legge" n. 10; ovvero di
"dichiarare l'illegittimità della normativa denunciata".
5.2. - Anche i difensori delle società Radio Telespazio Calabria,
Delta e Quinta Rete, sostengono l'irrilevanza sopravvenuta della
questione sulla base della piena compatibilità della ribadita
riserva statale con la legittimazione dell'emittenza privata
nazionale e locale operata dalla legge n. 10, che ha fornito, dicono,
la "disciplina embrionale" ovvero un "sistema provvisorio -
anticipato della futura regolamentazione". Anzi, essi sostengono, si
sarebbe con la legge n. 10 realizzata una vera e propria
"riqualificazione legislativa del monopolio statale". Questo,
infatti, non sarebbe più giustificato da pericoli di oligopolio, che
sono esorcizzati sia dalla fortissima presenza del polo pubblico, -
che non sarebbe comprimibile da parte dell'emittenza privata - sia
dall'accentuato pluralismo e dalla vivace concorrenza tra molteplici
networks privati che si sarebbe realizzata dopo la legge.
L'irrilevanza, peraltro, è secondo le parti in questione non solo
sopravvenuta ma anche originaria, in quanto la riserva statale
avrebbe ad oggetto solo le trasmissioni di informazione (e cioè solo
quelle "in diretta") e non anche le trasmissioni di mero
intrattenimento e svago. Solo queste, dicono, possono essere
realizzate con la trasmissione in contemporanea di programmi
preregistrati; ed esse, d'altra parte, non incidono sulle
disponibilità delle frequenze.
5.3. - La difesa della RAI, nella memoria depositata per la camera
di consiglio del 4 giugno 1987, aveva chiesto che la questione
sollevata dal Pretore di Roma fosse dichiarata manifestamente
infondata, perché - contrariamente a quanto supposto dal Pretore, ed
a conferma, invece, della prognosi fatta dalla Corte nella sentenza
n. 148 del 1981 - un oligopolio si è di fatto realizzato, col
predominio nel settore ottenuto dal gruppo Fininvest. L'unica
alternativa alla manifesta infondatezza, sosteneva allora la RAI,
sarebbe che la Corte sollevasse innanzi a se stessa questione di
costituzionalità dell'art. 3, commi primo, secondo e terzo, della
legge n. 10 del 1985. Se invece decidesse la restituzione degli atti
per ius superveniens - diceva la RAI - la Corte smentirebbe quanto
deciso, in situazione analoga, con la sentenza n. 69 del 1978 in tema
di referendum. Restituire gli atti equivarrebbe cioè, in
prospettiva, a riconoscere al legislatore il potere di evitare la
discussione di qualsiasi questione di costituzionalità mediante
l'approvazione di una legge che, sotto il profilo costituzionale,
addirittura peggiori la precedente situazione.
Ora che l'art. 3 è oggetto di contemporaneo giudizio di
costituzionalità, la difesa della RAI ribadisce la pregiudizialità
della questione concernente tale disposizione, che sarebbe
costituzionalmente illegittima per contrasto con gli artt. 3, 21, 41
e 43 Cost.; solo successivamente si dovrebbe dichiarare
manifestamente infondata la questione proposta dal Pretore di Roma,
per l'acclarata mancanza di misure antimonopolistiche.
È questo l'unico modo, secondo la RAI, col quale il legislatore
può essere indotto ad un serio intervento in questa direzione.
L'incostituzionalità della legge n. 10 risulta chiaramente,
secondo la difesa della RAI, tanto dall'esame della normativa quanto
dalla constatazione della situazione di oligopolio che essa avrebbe
legalizzato e ulteriormente favorito.
Sotto il primo profilo, gli artt. 1 e 2 non sarebbero che delle
"banali enunciazioni di massima" prive di reale portata precettiva.
Nel quinto comma dell'art. 1, in particolare, sarebbe contenuto solo
una sorta di "promemoria" per il futuro legislatore: laddove, per
adempiere alla prescrizione della sentenza n. 148 del 1981 circa la
necessità di una efficace normativa antitrust come previa condizione
per l'introduzione del sistema misto, si sarebbero dovute dettare una
serie di precise regole, concernenti: il numero massimo di frequenze,
stazioni e reti concedibili ad un solo soggetto; l'identificazione
del soggetto unico nelle ipotesi di società controllate o collegate;
il divieto di acquisizione di posizioni dominanti nell'ambito dei
mezzi di comunicazione di massa (e perciò anche nei rapporti tra
imprese editrici e televisive); la disciplina delle concessionarie di
pubblicità e di produzione e distribuzione di programmi, anche nei
rapporti con le emittenti televisive, ecc.
La vera innovazione della legge è invece, secondo la RAI, nei
primi tre commi dell'art. 3, cui i primi due articoli "servono di
copertura".
L'illiceità ab origine della c.d. interconnessione funzionale -
presupposta dal Pretore di Roma - discende pianamente, secondo la
difesa della RAI, sia dal tenore della sentenza n. 148 del 1981, -
che ha riferito i pericoli di oligopolio, testualmente, alla
possibilità del ricorso allo "strumento dell'interconnessione e
degli altri ben noti mezzi di collegamento di vario tipo oggi
esistenti per le trasmissioni televisive" -; sia dalla stessa legge
n. 10 del 1985 e dalla successiva legge di proroga, con le quali si
è ritenuto necessario "legalizzare" tali trasmissioni per evitare i
sequestri penali degli impianti radiotelevisivi dei networks privati
che le eseguivano.
Solo dopo che è stata verificata l'impossibilità di un accordo
tra le forze politiche di maggioranza per un'ulteriore proroga -
sostiene la difesa - è emersa la tesi della liceità originaria,
contenuta in una nota del 3 gennaio 1986 dell'allora Sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio e fatta poi propria dalla citata
sentenza della Cassazione del 3 febbraio 1987. Ma, argomenta la
difesa, questa tesi è stata successivamente abbandonata dalla stessa
Cassazione con una successiva sentenza del 18 dicembre 1987 (III sez.
pen., imp. Barsanti). Inoltre, è stato dimostrato in dottrina che,
ai fini penali (art. 195 cod. post.), l'esercizio di un impianto
televisivo si identifica necessariamente con la diffusione di un
programma. Infine, anche ammessa la liceità penale, questa non
esclude l'illiceità civile, contestata nel giudizio a quo sub specie
di concorrenza sleale.
D'altra parte, secondo la difesa della RAI, l'interconnessione
funzionale è, in realtà, solo un espediente, incostituzionalmente
consentito dalla legge n. 10 del 1985 per aggirare il divieto della
trasmissione "in diretta"; e ciò, specialmente se è realizzata con
le modalità consentite a partire dal "c.d. decreto Berlusconi-bis" -
cioè con l'impiego di ponti radio per trasferire via etere un dato
programma dalla stazione capofila ai vari trasmettitori locali: il
che ne consente l'immediata registrazione, e dopo pochi minuti, la
irradiazione in contemporanea da parte delle varie emittenti
consorziate ovvero possedute dallo stesso gruppo. Comunque, secondo
la RAI, l'interconnessione funzionale non impedisce che l'emittente
privata dispieghi, diffondendo il medesimo programma su tutto il
territorio nazionale, quella "peculiare capacità di persuasione e di
incidenza nella formazione dell'opinione pubblica", ritenuta da
questa Corte, con la sentenza n. 148 del 1981, pericolosa per il
sistema democratico e perciò tale da giustificare la riserva statale
delle trasmissioni su scala nazionale.
Che poi la legge n. 10 del 1985 abbia contribuito ad aggravare
l'oligopolio già allora realizzato col predominio del gruppo
Fininvest è, secondo la difesa della RAI, dimostrato dai risultati
dell'istruttoria, e cioè: dall'invasione delle frequenze assegnate
ad altri servizi od utilizzatori conseguente all'abuso dei ponti
radio da parte delle emittenti private; dal fatto che il gruppo
Fininvest - che con le sue tre reti nazionali raggiunge
rispettivamente il 90%, 85% e 83% della popolazione - possiede ben
4.255 delle 11.700 stazioni televisive private (cioè il 36% del
totale), mentre le altre emittenti a diffusione ultraregionale ne
hanno complessivamente solo 1.011; dal fatto, ancora, che tale gruppo
controlla il 63% del mercato pubblicitario televisivo ed il 30% di
quello complessivo ed in più ormai controlla economicamente,
attraverso l'esclusiva della raccolta pubblicitaria, i circuiti di
"Italia 7", "Junior TV" e "Capodistria" (dati questi, sostiene la
difesa, sostanzialmente ammessi nella relazione Fininvest fatta
pervenire alla Corte).
La difesa della RAI, perciò, dichiara di condividere le censure
mosse alla legge n. 10 del 1985 dal Tribunale di Genova e dal Pretore
di Torino: sia perché tale legge non contiene essa stessa, ma rinvia
al futuro la necessaria normativa antitrust; sia perché lo
sbarramento all'ingresso di nuovi soggetti sarebbe dimostrato
dall'integrale occupazione delle frequenze nelle zone ad alta
densità di popolazione, documentata nella relazione ministeriale. Le
nuove emittenti, infatti, sarebbero sorte, in realtà, non mediante
l'uso di frequenze ancora disponibili, ma attraverso operazioni
finanziarie di acquisizione delle frequenze già da altri utilizzate.
La difesa della RAI osserva infine che, anche ove la riserva
statale contestata dal Pretore di Roma fosse ritenuta
incostituzionale, l'attività dei networks- resterebbe illecita,
essendo essa svolta in assenza di un previo provvedimento abilitativo
della P.A., tuttora mancante per la mancanza di un'apposita legge:
provvedimento la cui necessità - rileva la difesa- è stata
ripetutamente sottolineata dalla Corte nelle sentenze nn. 237 del
1984, 206 e 207 del 1985, 35 del 1986 e 153 del 1987.
5.4. - L'Avvocatura dello Stato aveva, nell'originario atto
d'intervento, sostenuto l'infondatezza della questione in esame,
sottolineando: che essa muoveva da un erroneo presupposto di fatto;
che, comunque, le garanzie giuridiche operano in astratto e non in
concreto; che la distinzione tra informazione e intrattenimento - su
cui si fonda la censura ex art. 41 Cost. - contrasta con quanto
chiarito nella sentenza n. 148 del 1981; che, infine, il paragone con
l'insegnamento non regge, mancando questo dell'immediatezza e
capillarità di penetrazione, diffusività e forza suggestiva proprie
del mezzo televisivo.
All'udienza odierna, peraltro, l'Avvocatura, in una breve memoria,
sostiene che, essendo stata con la legge n. 10 del 1985 legittimata,
sia pure in via transitoria, l'attività dei tre networks oggetto del
giudizio a quo, gli atti andrebbero restituiti al Pretore per nuovo
esame della rilevanza.
6. - Nel giudizio instaurato dal Tribunale di Genova (r.o. 414/86),
l'Avvocatura dello Stato non ha presentato memorie per l'odierna
udienza. Nell'atto d'intervento, essa tende a spezzare il
collegamento esistente - secondo il Tribunale - tra gli artt. 3 e 4
della legge n. 10 e sostiene che sarebbero inammissibili tanto la
questione sulla causa di non punibilità, in quanto non formante
oggetto di autonoma censura, quanto quella sulle previsioni di
liceità pro futuro, in quanto concernenti norme non applicabili nel
giudizio a quo. Deduce inoltre l'infondatezza della prima censura
(quella cioè sull'art. 4, comma 3 bis), adducendo tanto la riserva
di un'ampia discrezionalità al legislatore in materia sanzionatoria,
quanto l'intento di questo di eliminare ogni conseguenza penale di
una attività che si era svolta in uno stato di incertezza normativa
e di non punire fatti non percepiti come socialmente offensivi della
coscienza sociale.
6.1. - Nel medesimo giudizio ha presentato per l'odierna udienza
un'ampia memoria la difesa dell'ANTI (Associazione Nazionale
Teleradio Indipendenti), parte civile innanzi al Tribunale di Genova.
In essa si richiama innanzitutto la memoria precedente, ove l'ANTI
aveva osservato, in punto di rilevanza, che la declaratoria
d'incostituzionalità dell'art. 3 è presupposto della pretesa di
risarcimento del danno per concorrenza sleale da essa avanzata nel
giudizio a quo.
Nel merito, l'ANTI sviluppa la tesi secondo cui la sentenza n. 202
del 1976 avrebbe riconosciuto, ex art. 21 Cost., un vero e proprio
diritto soggettivo all'uso del mezzo televisivo, ma solo nell'ambito
locale e solo per le programmazioni originali (cioè diverse da
quelle altrui), ma non anche per la mera attività tecnico-commerciale di diffusione di altrui programmi, realizzata con
l'interconnessione funzionale.
Questa è d'altra parte, secondo l'ANTI, un mero espediente per
aggirare la legge. Infatti, la propagazione lineare delle radioonde
usate per le trasmissioni televisive comporta, perché esse possano
servire aree vaste, l'utilizzazione di un elevato numero di
ripetitori: il che varrebbe sia in caso di interconnessione
strutturale (in ponte-radio) sia in caso di interconnessione
funzionale, nella quale le video cassette vengono inviate alle
stazioni cd. di testa che trasmettono il segnale in ponte radio ai
vari ripetitori.
Sotto il profilo del numero di impianti e delle frequenze
utilizzate, non vi sarebbe perciò differenza tra i due tipi di
interconnessione; tant'è che dal censimento disposto dalla legge n.
10 del 1985 sarebbe risultato che le tre reti della Fininvest, per
diffondere i programmi di Canale 5, Italia Uno e Rete Quattro,
utilizzano oltre 3.700 impianti, (contro i 2.579 delle tre reti RAI)
ed occupano con ciò il 40% delle frequenze disponibili per ottenere
ricezioni prive di interferenze.
Di qui, ad avviso dell'ANTI, l'inderogabile necessità della
riserva allo Stato delle trasmissioni ultralocali, posto che la
limitatezza delle frequenze disponibili condiziona la stessa
efficacia di una normativa antitrust e che le frequenze disponibili
per trasmissioni televisive sono ancora sostanzialmente quelle stesse
- afferma l'ANTI, richiamando i risultati dell'istruttoria - che
esistevano nel 1960 (cfr. sent. n. 59 del 1960). Ciò perché gli
accorgimenti tecnici successivamente impiegati e l'aggiunta di
qualche canale (come il 36 ed il 38) prima destinato (anche) ad altri
servizi, hanno consentito variazioni solo marginali.
Al riguardo, l'ANTI ricorda che "la Fininvest per le tre, ed
uniche, reti nazionali private, già utilizza circa 4.000 impianti e
relative frequenze mentre attualmente la RAI ne utilizza poco più di
3.000; ma la (semi)rete, RAI Tre utilizza appena 388 impianti e
dovrà impiegarne altri 1.000 circa per raggiungere la copertura di
tutto il territorio". Tali dati, confrontati con quelli relativi alla
situazione esistente alla fine del 1985 - già indicati dalla stessa
ANTI nella memoria depositata per l'udienza del 16.6.1987 - portano a
constatare un incremento di oltre 500 impianti della RAI e di 300
della Fininvest. E poiché non è ancora servito tutto il territorio,
l'ANTI ne deduce che tra non molto RAI e Fininvest "utilizzeranno
complessivamente oltre 8.000 impianti con le relative frequenze".
Né potrebbe trarre in inganno il fatto che si parli di altre reti
nazionali: in realtà, afferma l'ANTI, "si tratta di pochi impianti
per ciascuna che arrivano a servire un 20% del territorio (il che poi
si riverbera sull'ascolto, che infatti è assai limitato, ma proprio
perché in moltissime zone non possono neppure essere ricevute)".
La difesa cita in proposito i dati (di fonte RAI) emersi
dall'istruttoria, secondo cui cinque networks utilizzano
complessivamente 2.124 impianti, così ripartiti: Odeon TV n. 615,
Italia 7 n. 582, Rete A n. 410, Junior TV n. 265, TV Italia n. 252.
Essi, dunque, "per raggiungere l'estensione servita dalle reti
della Fininvest, o della RAI, dovrebbero ridursi a due e pur sempre
senza servire l'intero territorio nazionale". Tra l'altro, andrebbe
considerato che, per ragioni tecniche (caratteristiche delle
frequenze prossime, influenza delle armoniche, ecc.) le frequenze
sono di diversa qualità: sicché, posto che le migliori sono
acquisite a RAI e Fininvest, agli altri soggetti residueranno le
peggiori.
Citando, poi, propri studi - condotti anche in collaborazione con
emittenti estere - l'ANTI indica il numero massimo degli impianti di
diffusione utilizzabili in novemila (o diecimila, se si impiegano
particolari ma costosi accorgimenti tecnici, come l'off-set).
Da ciò deduce che le possibili reti a piena copertura nazionale
sono solo sette e che quindi, dedotte le sei di RAI e Fininvest, ne
può residuare per gli altri privati solo una, ovvero tre o quattro a
copertura parziale (ma con ciò nulla resterebbe alle emittenti
locali ed ai ripetitori di programmi esteri). Che sia così è
dimostrato, secondo l'ANTI, dal fatto che i dodicimila impianti
attualmente esistenti sarebbero "un numero tecnicamente impossibile",
dato che, come risulta dall'istruttoria, le interferenze e le
sovrapposizioni di frequenze rendono irricevibili molte trasmissioni:
il che, ad avviso della difesa, dimostra l'inattendibilità del dato
di quindicimilacinquecento impianti indicato nel programma
dell'attuale Governo.
La memoria dell'ANTI si sofferma su un esame comparativo della
situazione dell'emittenza televisiva italiana con quella di altri
Paesi. Negli USA - osserva - non esistono reti nazionali, ma tre
networks costituiti, ciascuno, da un gruppo di non più di dodici
emittenti che "realizza alcune ore di programmazione giornaliera,
pubblicità inclusa, che poi vengono trasmesse, in ponte radio, a
centinaia di televisioni locali affiliate, su tutto il territorio
degli States".
Esistono, poi, regole che mirano a salvaguardare l'indipendenza
delle emittenti affiliate, e queste sono inoltre tenute a trasmettere
programmi propri nelle restanti ore. Nessun soggetto, infine, può
controllare più di un network.
"Situazioni analoghe si hanno in Brasile ed in genere negli Stati
del sud America".
In Gran Bretagna esistono due reti nazionali (della BBC, che non
trasmette pubblicità) mentre le televisioni commerciali, raggruppate
nell'IBA, sono a diffusione regionale (salvo il recentissimo "Channel
Four", a diffusione interregionale). Sistemi analoghi sono adottati
in Canada e Australia.
Nella Repubblica Federale Tedesca - prosegue l'ANTI - le emittenti
sono regionali (dei Lander) e non vi è alcuna televisione che
trasmette sull'intero territorio nazionale.
In Francia, infine, delle emittenti private solo TF1 (privatizzata
di recente) ha copertura nazionale, mentre le altre (la Cinq e Canal
Plus) coprono solo parzialmente il territorio. E previsto inoltre che
un singolo soggetto non possa controllare più del 25% del capitale
di una rete.
Questi dati dimostrano, secondo l'ANTI, che il "fenomeno Fininvest"
è "patologico", dato che in nessun paese del mondo è consentito ad
un gruppo di controllare anche una sola rete televisiva a diffusione
nazionale; e ciò, allo scopo di impedire che esso acquisisca una
posizione dominante e condizioni così la libertà d'informazione.
Il gruppo Fininvest - prosegue l'ANTI - ha una posizione dominante
anche nel mercato pubblicitario televisivo. Dai dati per il 1987
pubblicati dalla rivista specializzata "Prima" (ed allegati alla
memoria) risultano infatti al riguardo le seguenti quote di mercato:
RAI: 16,4%; Fininvest: 69,3%; Odeon e Telemontecarlo: 7,7%; altre:
6,6%. Di qui, tra l'altro, le possibilità di alterazione del libero
mercato di cui il gruppo in questione dispone (favorire o no
determinate industrie, ecc.), e la conseguente esigenza di porre
limiti rigorosi alla raccolta di pubblicità ed alla sua acquisizione
da parte di un solo soggetto.
Inoltre, il predominio delle reti Fininvest anche sul versante
pubblicitario porrebbe alle emittenti locali l'alternativa o di
uscire dal mercato o di essere assorbite in un network; ed esso
finisce per favorire la grande industria a scapito di quella media e
piccola.
Al riguardo, l'ANTI addebita al Ministero delle Poste di aver
oggettivamente favorito l'accaparramento delle frequenze da parte dei
networks, sia omettendo di emanare - come doveva in base alla legge
n. 209 del 1980 - le norme tecniche per la prevenzione ed
eliminazione dei disturbi causati dagli impianti di radiodiffusione
(norme propedeutiche all'elaborazione del piano nazionale delle
frequenze); sia omettendo di istituire il registro delle emittenti
(previsto dall'art. 403 cod. post. e dal piano nazionale di
ripartizione delle frequenze: D.M. 31.1.1983, punto 5
dell'introduzione), nonché di ordinare la disattivazione degli
impianti delle reti nazionali (art. 240 cod. post.).
Alle emittenti locali indipendenti - conclude l'ANTI - dovrebbe
essere consentita l'utilizzazione, senza concessione, dei ponti
radio, generalmente indispensabili per il trasferimento del segnale
in ambito regionale e, spesso, anche provinciale e comunale. Le
frequenze utilizzate per i ponti radio - che sono quelle attribuite
al servizio fisso - sarebbero a suo avviso disponibili in gran
numero, se non fosse che sono in larga parte - ed in misura
sovrabbondante rispetto alle esigenze - assegnate al Ministero della
Difesa.
Occorrerebbe quindi, secondo l'ANTI, una nuova formulazione del
piano di ripartizione delle frequenze, che tenga conto delle
effettive esigenze dei vari servizi.
7. - Nel giudizio instaurato dal Pretore di Torino (r.o. 430/85),
l'Avvocatura dello Stato ammette la rilevanza della questione
sull'art. 4, comma 3 bis, ma la nega per l'art. 3, primo comma, che
è a suo avviso una norma di natura temporanea, non applicabile nel
giudizio a quo: e ciò, nel presupposto che questo verta solo su
fatti anteriori al d.l. n. 807 del 1984. Irrilevante sarebbe anche la
censura ex art. 41, in quanto le norme impugnate sono norme in bonam
partem rispetto alle posizioni degli imputati nel predetto giudizio.
Nel merito, comunque, le disposizioni impugnate dovrebbero
ritenersi immuni da censura, sia perché non è vietata l'emanazione
di leggi-provvedimento, sia perché era ragionevole non soffocare le
iniziative private consolidatesi nella pregressa situazione di
incertezza legislativa.
La delimitazione a queste dei benefici di cui agli artt. 3 e 4
sarebbe - secondo l'Avvocatura - strumento non di discriminazione ma
di attenuazione dell'anomalia della situazione, attenuazione
realizzata con l'introduzione del termine finale di sei mesi di cui
al primo comma dell'art. 3, nonché di una prima "rudimentale"
disciplina dell'attività consentita alle emittenti. Il fatto poi che
la causa di non punibilità operi solo per le emittenti in funzione
al 1 ottobre 1984 si giustifica, secondo l'Avvocatura, con l'intento
del legislatore di delimitare la deroga al precetto penale (art. 195)
la cui generale validità intendeva peraltro confermare, perché esso
è raccordato al principio della riserva allo Stato della diffusione
in ambito nazionale, ribadito nella medesima legge.
7.1. - La difesa delle parti private Marcucci Marialina e Grassi
Remo concorda con l'Avvocatura circa l'irrilevanza di censure ex art.
41 su norme in bonam partem, ma se ne discosta (peraltro, solo nella
memoria di costituzione) in quanto sostiene l'irrilevanza anche della
censura sull'art. 4, in base al rilievo per cui gli imputati
andrebbero comunque prosciolti (in contrario, l'Avvocatura ha
richiamato la giurisprudenza della Corte in tema di norme penali di
favore, a partire dalla sentenza n. 148 del 1983).
Nella memoria aggiunta, invece, le predette parti insistono per
l'irrilevanza in base ad argomenti diversi. Si appoggiano cioè -
come le emittenti di Canale 5 - alla sentenza della Cassazione penale
del febbraio '87 circa la liceità originaria dell'interconnessione
funzionale (essendo l'art. 3, terzo comma, norma di interpretazione
autentica) e circa il riferimento al solo legislatore del termine di
sei mesi di cui al primo comma: sicché quest'ultimo sarebbe norma
non temporanea - come ritiene l'Avvocatura - ma tutt'al più
transitoria.
Quanto poi alla discriminazione, lamentata dal Pretore di Torino,
tra vecchi e nuovi impianti (cioè anteriori o posteriori al 1
ottobre 1984) la difesa afferma che essa è fondata se si condivide
la tesi delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione (che -
riferisce la stessa difesa - è stata da esse recentemente ribadita
con cinque sentenze del 14 maggio 1988) nonché del Consiglio di
Stato, tesi secondo la quale l'attività di trasmissione
radiotelevisiva sottende un mero interesse legittimo e presuppone
necessariamente un provvedimento abilitativo a carattere
discrezionale della P.A.: ciò, in quanto questa Corte non ha mai
dichiarato costituzionalmente illegittime le disposizioni che lo
impongono. A questa stregua, resta dimostrata - osserva la difesa -
la giuridica impossibilità di concedere autorizzazioni a soggetti
diversi da quelli abilitati ex lege con l'impugnato art. 3:
impossibilità confermata, non solo dal fatto che il Ministero P.T. -
dal 1976 ad oggi - non ha mai rilasciato concessioni o
autorizzazioni, ma anche dall'art. 2 della stessa legge n. 10, in
base al quale l'esercizio dell'attività radiotelevisiva da parte dei
privati presuppone la definizione del piano di assegnazione delle
frequenze e, con esso, dei bacini d'utenza e delle frequenze da
costoro utilizzabili.
La difesa, peraltro, condivide l'opposta opinione della più volte
citata sentenza della Cassazione penale del 1987, che proprio dalla
mancanza di una normativa che disciplini il regime autorizzatorio e
definisca l'ambito locale desume la liceità delle trasmissioni -
salvo che quelle "in diretta"- non solo sul piano penale, ma anche su
quello civile ed amministrativo. La difesa sostiene che questa
sarebbe anche l'opinione di questa Corte, e cita al riguardo le
sentenze nn. 202 del 1976, 148 del 1981, 237 del 1984 e 231 del 1985.
Comunque - posto che il contrasto tra Sezioni Unite Civili e
Cassazione penale verte non tanto su norme di legge quanto piuttosto
sull'interpretazione di decisioni di questa Corte - la difesa auspica
che essa addivenga ad un definitivo chiarimento in materia.
Il fatto, poi, che la causa di non punibilità si riferisca a
soggetti determinati non è, secondo la difesa, censurabile,
trattandosi di fenomeno comune ai provvedimenti di amnistia e
indulto. Né d'altra parte sarebbe discriminatoria l'adozione di un
criterio di priorità cronologica ai fini della legittimazione
all'esercizio di impianti televisivi: sia perché sarebbe giusto
tener conto dell'oggettiva limitatezza delle frequenze e dei Aschi
corsi da chi ha intrapreso l'attività radiotelevisiva in regime di
carenza legislativa, sia perché trattasi di normativa
dichiaratamente transitoria e propedeutica ad altra generale e
definitiva disciplina regolatrice.
7.2. - L'irrilevanza della questione in esame è sostenuta anche
dalla difesa della parte privata Alby Renato, sempre " nel
presupposto che nella specie entri in gioco solo il terzo comma
dell'art. 3, che esso sia norma di interpretazione autentica e che
pertanto le trasmissioni in contemporanea siano ab origine lecite. Il
Pretore di Torino dovrebbe dunque, a suo avviso, uniformarsi a tale
interpretazione, recedendo da un'iniziativa penale che il legislatore
ha, con la norma interpretativa, giudicato illegittima.
Anche l'art. 4, comma 3 bis, non dovrebbe, poi, considerarsi causa
di legittimazione sopravvenuta.
In tal caso - osserva la difesa - esso sarebbe pleonastico, in
quanto per il principio di retroattività della legge più favorevole
(art. 2, secondo comma, c.p.), dovrebbe applicarsi il precedente - e
più favorevole- art. 3. Si tratterebbe, invece, di norma finalizzata
all'autonomo scopo di ricollegare l'impunità al censimento "ritenuto
indispensabile per il riordino del settore", nella prospettiva della
necessaria pianificazione delle frequenze.
Del pari, l'art. 3 sarebbe finalizzato "a recuperare al sistema le
imprese "oscurate" con i provvedimenti di sequestro, non già ad
ostracizzare dal sistema altre imprese": risultato, questo, per il
quale occorrerebbe altra apposita norma, in effetti inesistente. Il
criterio di priorità cronologica adottato comporterebbe solo,
perciò, che i nuovi impianti non possano essere considerati ai fini
della formazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze.
7.3. - Ad opposte conclusioni perviene la difesa dell'ultima parte
privata, Barberi Giuseppe, la quale sottolinea la differenza tra il
sistema cd. della "syndication" - adottato in passato, in particolare
dall'emittente Retequattro (cui quella, locale, del Barberi era
collegata) finché essa ha fatto parte del gruppo Mondadori - ed il
sistema del network, instaurato a partire dal 1980 dal gruppo
Fininvest e che ha poi finito per prevalere.
Il primo sistema vedeva, da un lato, un'emittente che si espandeva
mediante la fornitura di programmi (propri o acquistati) e di
pubblicità; dall'altro un gruppo di piccole emittenti locali che,
consorziandosi, acquistavano dalla prima programmi di migliore
qualità su un piano di parità contrattuale e potevano così
mantenere la propria autonomia sia in fatto di pubblicità che di
programmazione. Questa infatti, secondo il Barberi, non conteneva
solo prodotti dell'impresa fornitrice, né avveniva necessariamente
in contemporanea da parte delle emittenti consorziate.
Nel caso del network, invece, il sistema è ben diverso, in quanto
l'irradiazione su scala nazionale avviene tramite emittenti locali
non indipendenti, ma proprie del gruppo o di società controllate, le
quali sono del tutto prive di autonomia contrattuale e gestionale. Al
riguardo, anche il Barberi sottolinea - come la RAI e l'ANTI - la
posizione dominante acquisita dal gruppo Fininvest: il quale, con la
diffusione su scala nazionale, è riuscito a far affluire a se gran
parte degli investimenti pubblicitari delle imprese. Ciò che gli ha
consentito di migliorare i programmi, di allargare così l'ascolto,
di ottenere per questa via ulteriore raccolta pubblicitaria, e così
via.
Ciò premesso, la difesa del Barberi sostiene che l'intervento
realizzato con la legge n. 10 del 1985 sarebbe giustificato nella
misura in cui ha protetto dall'"oscuramento", disposto da alcuni
pretori, le emittenti locali indipendenti. Al riguardo, sottolinea
che il maggior frazionamento delle bande di frequenza consentito
dall'emissione su scala solo locale moltiplica le frequenze
effettivamente utilizzabili da soggetti diversi e consente così un
accesso pluralistico alla radiodiffusione.
Le censure prospettate dal Pretore di Torino sono invece, secondo
il Barberi, pienamente fondate nella parte in cui la legge n. 10 - in
contrasto col chiaro tenore della sentenza n. 148 del 1981 - ha
legalizzato la situazione di monopolio già acquisita dal gruppo
Fininvest, con ciò privilegiando chi in condizioni di carenza
normativa aveva agito con maggiore spregiudicatezza.
A chi poi volesse sostenere che nella specie si tratta di legge-provvedimento con cui è stato affidato ad un privato il servizio di
telediffusione, e che ciò non contrasta con la riserva del servizio
stesso allo Stato, il Barberi replica che la ragionevolezza
mancherebbe ugualmente: sia perché bisognerebbe domandarsi, secondo
la difesa, perché si sia così provveduto in favore del gruppo
Fininvest e non di altri e perché si sia dato luogo ad un monopolio;
sia perché la disciplina sarebbe comunque carente in alcuni elementi
essenziali, quali quelli attinenti ai controlli, al diritto di
accesso, agli oneri di concessione, alle tariffe pubblicitarie, ecc.
Considerato in diritto
8. - Con le ordinanze indicate in epigrafe, i Pretori di Roma (r.o.
n. 771/82) e Torino (r.o. n. 430/85) ed il Tribunale di Genova (r.o.
n. 414/86) impugnano un complesso di norme che disciplinano le
trasmissioni radiotelevisive su scala nazionale. In particolare, il
Pretore di Roma dubita - in riferimento agli artt. 21, primo comma,
41, primo comma, 9, 33 e 34 Cost. - della legittimità costituzionale
della riserva allo Stato della radiotelediffusione estesa all'intero
territorio nazionale, quale risulta dal combinato disposto degli
artt. 1, 183 e 195 del d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 (modificati
dall'art. 45 l. n. 103/1975), nonché dell'art. 2 della legge 10
dicembre 1975, n. 693 e degli artt. 1 e 2 della legge 14 aprile 1975,
n. 103, mentre il Pretore di Torino e il Tribunale di Genova
impugnano le disposizioni dettate negli artt. 2, 3 e 4, comma terzo
bis della legge 4 febbraio 1985 n. 10, nella parte in cui consentono
per il futuro e dichiarano non punibile per il passato l'attività
privata di trasmissione in ambito nazionale, o comunque ultralocale,
per violazione degli artt. 21, 3 e 41 Cost.
9. - Nella concreta disciplina della radiotelediffusione, com'è
noto, ha inciso profondamente la giurisprudenza di questa Corte,
mossa dalla costante e primaria preoccupazione di assicurare, in tale
settore, l'effettiva garanzia del valore fondamentale del pluralismo.
A detto scopo, essa ha più volte e, da ultimo, con la sentenza n.
148 del 1981, ribadito la legittimità della riserva allo Stato
dell'attività radiotelevisiva su scala nazionale, e ciò in vista
del fine di utilità generale di evitare l'accentramento di questa
attività in situazioni di monopolio od oligopolio privati. Ciò
infatti consentirebbe al privato di esercitare, in una posizione di
preminenza, una influenza sulla collettività incompatibile con le
regole del sistema democratico, e di comprimere indebitamente la
generale libertà di manifestazione del pensiero.
Le ragioni del divieto dei processi di concentrazione sono state
individuate dalla Corte, con differente accentuazione e in tempi
diversi, nella limitatezza delle frequenze disponibili, negli elevati
costi degli impianti all'uopo necessari (sentt. nn. 59/1960 e
225/1974), e, comunque, in una serie di fattori di ordine economico
che "con la utilizzazione del progresso della tecnologia, fa
permanere i Aschi di concentrazione oligopolistica" (sent. n.
148/1981). Così giustificata la riserva statale, la Corte si è
altresì preoccupata di precisare i requisiti minimi indispensabili
che consentano all'emittenza pubblica di esplicare il proprio
compito, indicando una serie di criteri necessari ad improntarne la
struttura organizzativa e lo svolgimento dell'attività ad un
rigoroso pluralismo "interno", onde consentire l'espressione delle
varie ideologie presenti nella società (sent. n. 225/1974).
10. - La riserva di cui all'art. 43 Cost. relativa alle
trasmissioni radiotelevisive, tuttavia, proprio perché trova la sua
unica ragion d'essere nella difesa del pluralismo contro i Pericoli
di monopolio od oligopolio privato, si tradurrebbe in una
ingiustificata restrizione delle libertà garantite dagli artt. 21 e
41 Cost. in tutte quelle ipotesi nelle quali non sussistano pericoli
di concentrazioni.
Per tale motivo, la Corte ha ritenuto che debbano essere sottratti
alla riserva statale sia l'esercizio di ripetitori di programmi
televisivi esteri (sent. n. 225/1974), sia l'esercizio di impianti
televisivi via cavo e via etere con raggio limitato all'ambito locale
(sentt. nn. 226/1974 e 202/1976), sia, infine, la facoltà di
effettuare, anche in regime di autorizzazione, la trasmissione di
programmi destinati alla diffusione circolare verso l'estero (sent.
n. 153/1987).
Coerentemente a tale impostazione, la Corte, nella sentenza n. 148
del 1981, ha così ipotizzato anche la possibilità dell'abbandono
della riserva statale delle trasmissioni su scala nazionale, a
condizione che il legislatore predisponga un efficace sistema di
garanzie idoneo ad attuare il fondamentale principio del pluralismo.
11. - Nell'accingersi ad esaminare le questioni attualmente portate
alla sua attenzione, la Corte ritiene necessario ribadire il valore
centrale del pluralismo in un ordinamento democratico.
Allo stesso fine reputa indispensabile, altresì, chiarire che il
pluralismo dell'informazione radiotelevisiva significa, innanzitutto,
possibilità di ingresso, nell'ambito dell'emittenza pubblica e di
quella privata, di quante più voci consentano i mezzi tecnici, con
la concreta possibilità nell'emittenza privata - perché il
pluralismo esterno sia effettivo e non meramente fittizio - che i
soggetti portatori di opinioni diverse possano esprimersi senza il
pericolo di essere emarginati a causa dei processi di concentrazione
delle risorse tecniche ed economiche nelle mani di uno o di pochi e
senza essere menomati nella loro autonomia.
Sotto altro profilo, il pluralismo si manifesta nella concreta
possibilità di scelta, per tutti i cittadini, tra una molteplicità
di fonti informative, scelta che non sarebbe effettiva se il pubblico
al quale si rivolgono i mezzi di comunicazione audiovisiva non fosse
in condizione di disporre, tanto nel quadro del settore pubblico che
in quello privato, di programmi che garantiscono l'espressione di
tendenze aventi caratteri eterogenei.
12. - I principi informatori dell'attività radiotelevisiva
indicati dalla Corte si sono tradotti, per quanto concerne
l'emittenza pubblica, nella legge n. 103 del 1975.
Sono rimaste invece a lungo prive di qualsiasi seguito legislativo
le indicazioni sull'emittenza privata. Per quanto concerne, in
particolare, le trasmissioni via etere in ambito locale, il
legislatore non ha ancora dato risposta ai ripetuti richiami di
questa Corte sulla necessità dell'adozione di una idonea disciplina
che - definendo l'ambito locale e fissando i criteri per
l'assegnazione delle frequenze e per il rilascio delle indispensabili
autorizzazioni - armonizzi l'esercizio dell'iniziativa privata con le
esigenze del servizio pubblico nazionale (sent. n. 202/1976 e, nello
stesso senso, sentt. nn. 237/1984, 35/1986 e ord. n. 35/1987).
Il vuoto legislativo, protrattosi per un notevole periodo di tempo,
ha oggettivamente favorito il proliferare incontrollato
dell'emittenza privata che - senza richiedere la "previa"
autorizzazione pur ritenuta necessaria da questa Corte, seguita in
ciò dalla Cassazione e dal Consiglio di Stato - procedeva ad
un'invasione dell'etere, sconfinando anche in bande assegnate ad
altri utilizzatori.
13. - In questo quadro, si è affermata la pratica del collegamento
tra più emittenti locali allo scopo di trasmettere programmi comuni
sull'intero territorio nazionale, o, comunque, in ambito ultralocale.
Il che è stato al centro di opposti orientamenti giurisprudenziali.
Da una parte, infatti, si sosteneva l'illiceità delle trasmissioni
in interconnessione su scala nazionale per violazione della riserva
statale; dall'altra, invece, si distingueva tra interconnessione
strutturale o degli impianti e interconnessione funzionale o dei
programmi, realizzata mediante la diffusione in contemporanea, o con
un brevissimo sfasamento di tempi, dello stesso programma
preregistrato: si concludeva, così, che solo la prima doveva
ritenersi compresa nella riserva statale, mentre la seconda poteva
essere lecitamente praticata dai privati, poiché le singole
emittenti si limitavano a trasmettere ciascuna nel proprio limitato
ambito (locale).
Sulla materia, la Corte, nella sentenza n. 148 del 1981, premesso
che "una serie di fattori di ordine economico, con la utilizzazione
del progresso della tecnologia, fa permanere i Aschi di
concentrazione oligopolistica attraverso lo strumento della
interconnessione e degli altri ben noti mezzi di collegamento di
vario tipo oggi esistenti per le trasmissioni televisive" ha
affermato che la soluzione della questione di legittimità
costituzionale concernente il "fenomeno delle interconnessioni fra
stazioni locali emittenti, effettuate in modo tale da estendere la
diffusione a tutto il territorio nazionale" "scaturisce da tutto
quanto già detto a proposito della liceità della riserva allo Stato
delle trasmissioni su scala nazionale". "Il rilievo costituzionale
della questione, invero - ha aggiunto la Corte - si esaurisce
nell'aspetto... limitato all'ipotesi in cui la interconnessione
conduca ad una trasmissione che travalichi i limiti di
liberalizzazione delineati da questa Corte con la sent. n. 202 del
1976. Ogni diverso aspetto del fenomeno, sia per quanto riguarda i
mezzi usati, sia per quanto riguarda l'ambito e le modalità di
esercizio delle trasmissioni sono materia devoluta alla
regolamentazione legislativa sulla cui urgente attuazione è già
stata richiamata l'attenzione degli organi competenti".
14. - Il nutrito contenzioso giudiziario che ha continuato ad
investire le trasmissioni private in interconnessione - fino a
concludersi, in taluni casi, con l'"oscuramento" delle emittenti
collegate - ha infine indotto il legislatore ad intervenire.
Dopo un primo decreto-legge (20 ottobre 1984, n. 694), la cui
conversione, alla Camera dei Deputati, è stata impedita
dall'accoglimento di pregiudiziali di incostituzionalità, il Governo
ha adottato il D.L. 6 dicembre 1984, n. 807, successivamente
convertito, con modificazioni, nella legge 4 febbraio 1985 n. 10.
Questo testo contiene, nell'art. 1, alcune disposizioni generali, tra
le quali: il primo comma, che ribadisce il carattere di preminente
interesse generale della diffusione sonora e televisiva e la sua
riserva allo Stato; il secondo comma, che enuncia i principi di
pluralismo e libertà di manifestazione del pensiero che debbono
ispirare un sistema misto di emittenza pubblica e privata; infine, il
quinto comma, che rinvia alla futura legge generale sul sistema
radiotelevisivo per la compiuta disciplina dell'emittenza privata,
comprese le norme dirette ad evitare situazioni di oligopolio, ad
assicurare la trasparenza degli assetti proprietari e a regolare la
pubblicità nazionale e quella locale.
L'art. 2 detta poi indicazioni per la redazione del piano di
assegnazione delle frequenze. Un gruppo di articoli contiene norme
organizzative della società concessionaria del servizio pubblico
(artt. 5-9), mentre altre disposizioni concernono i limiti di
affollamento delle trasmissioni pubblicitarie (art. 3-bis) la
percentuale minima di tempi di trasmissione da riservare alla
diffusione di films di produzione nazionale o comunitaria (art. 3,
quarto comma) nonché prescrizioni concernenti la propaganda
elettorale - (art. 9-bis).
Il fulcro del provvedimento risiede negli artt. 3 e 4, lì dove
dettano una disciplina dell'emittenza privata.
L'art. 3, che reca la rubrica "norme transitorie", dispone al primo
comma che "sino all'approvazione della legge generale sul sistema
radiotelevisivo e comunque non oltre sei mesi dalla data di entrata
in vigore del presente decreto, è consentita la prosecuzione
dell'attività delle singole emittenti radiotelevisive private con
gli impianti di radiodiffusione già in funzione alla data del 1
ottobre 1984, fermo restando il divieto di determinare situazioni di
incompatibilità con i pubblici servizi".
Il secondo comma poi stabilisce che, ai fini di quanto previsto dal
precedente comma, "sono provvisoriamente consentiti, per ogni singola
emittente, ponti radio tra i propri studi di emissione, i rispettivi
trasmettitori e tra gli stessi ed i ripetitori con le caratteristiche
tecniche in atto".
Il terzo comma infine stabilisce che "È consentita la trasmissione
ad opera di più emittenti dello stesso programma pre-registrato,
indipendentemente dagli orari prescelti".
L'art. 4, impone agli esercenti di impianti di radiodiffusione
l'obbligo di comunicarne al Ministero le caratteristiche tecniche,
chiarendo che tale comunicazione integra la denuncia di detenzione
già imposta dall'art. 403 cod. post., e dispone infine, nel comma
terzo bis, aggiunto in sede di conversione, che la sua presentazione
nei termini "rende non punibili le violazioni amministrative e
penali, di cui all'art. 195 del codice postale... commesse
anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto".
Pressoché contemporaneamente alla approvazione della legge in
questione, il Governo presentava un disegno di legge (n. 2508) di
riforma del sistema radiotelevisivo, il cui iter si arrestava dopo
una fase iniziale di discussione nelle competenti Commissioni della
Camera dei Deputati.
La nuova normativa rappresentata dalla legge n. 10 del 1985
provocava a sua volta numerosi problemi interpretativi ed
applicativi, nonché i dubbi di legittimità costituzionale sollevati
dai giudici di Genova e di Torino.
Alla scadenza del termine semestrale previsto dal primo comma
dell'art. 3, veniva presentato dal Governo un decreto-legge (1 giugno
1985, n. 223, convertito nella l. 2 agosto 1985, n. 397) con il quale
si prorogava il termine al 31 dicembre 1985.
Dopo di che nessuna proroga veniva più proposta.
15. - In questo complesso quadro normativo e giurisprudenziale si
collocano le ordinanze di rimessione.
Per quanto concerne la questione proposta dal Pretore di Roma, è
necessario innanzitutto vagliare l'eccezione di irrilevanza
prospettata dalla difesa di alcune emittenti private (par. 5.1.), sia
in riferimento alla precedente disciplina legislativa impugnata dal
giudice a quo, sia con riguardo al sopravvenuto art. 3, terzo comma
introdotto dal D.L. n. 807 del 1984 convertito nella l. n. 10 del
1985.
L'eccezione muove dal presupposto della liceità originaria delle
trasmissioni private nazionali effettuate in interconnessione
funzionale, e dunque dall'affermazione secondo la quale l'art. 3,
terzo comma citato non sarebbe altro che una norma di interpretazione
autentica, che si limiterebbe, come tale, ad esplicitare un precetto
già contenuto negli artt. 195 cod. post., 1 e 2 della legge n. 103
del 1975, sicché la pronuncia di questa Corte non potrebbe esplicare
alcuna influenza nel giudizio a quo.
L'eccezione non può essere accolta. L'asserzione della liceità ab
origine dell'interconnessione suddetta non è affatto suffragata,
come si pretende, dalla sentenza n. 148 del 1981, e rende quindi
inconsistente la tesi della natura meramente interpretativa dell'art.
3 terzo comma, tesi che, del resto, dopo un inizio incerto, non è
stata seguita dalla successiva giurisprudenza della Corte di
Cassazione.
Le stesse parti private, in via subordinata, e l'Avvocatura dello
Stato nella sua ultima memoria, hanno chiesto la restituzione degli
atti al giudice a quo, perché verifichi se, in virtù della
sopravvenuta legge n. 10-del 1985, la medesima questione sia ancora
rilevante.
La richiesta non può essere accolta, poiché le uniche norme che
effettivamente innovano alla disciplina impugnata- gli artt. 3,
primo, secondo e terzo comma e 4, comma terzo bis della nuova legge -
non hanno fatto venir meno, come chiaramente e inequivocabilmente si
evince dal loro contenuto, il principio della riserva allo Stato
della diffusione sonora e televisiva sull'intero territorio
nazionale, ribadito dall'art. 1, primo comma, mentre il secondo comma
del medesimo articolo richiama i principi ispiratori del sistema
misto.
16. - Nel merito, il Pretore di Roma sostiene innanzitutto che la
concreta evoluzione successiva alla sentenza di questa Corte n. 148
del 1981 smentirebbe la prognosi in questa formulata circa i Aschi di
un monopolio privato dell'informazione, di situazioni di oligopolio,
o, comunque, di concentrazioni oligopolistiche. Secondo il giudice a
quo la realtà effettuale sarebbe invero quella di un sistema misto
assai articolato e composito, caratterizzato dalla presenza, accanto
al servizio pubblico, di tre gruppi privati operanti su scala
nazionale, i quali sarebbero del tutto autonomi ed in vivace
concorrenza tra loro (oltre che con il servizio pubblico) ed
assicurerebbero perciò - con la contrapposizione di tre voci
discordi sufficienti a controbilanciarsi reciprocamente - un adeguato
pluralismo.
Di qui, a suo avviso, il contrasto della riserva statale con l'art.
21 Cost.
A tale censura il giudice a quo ne aggiunge un'altra, con cui,
assumendo come parametri costituzionali di riferimento gli artt. 9,
33 e 34 Cost. osserva che se il costituente ha esplicitamente negato
il monopolio dello Stato nel settore dell'istruzione (art. 33, terzo
comma), nonostante che questa rappresenti un suo fine istituzionale e
che siano ivi maggiori - quanto ad incidenza sulla formazione socio-culturale dei discenti - i Aschi insiti in situazioni di oligopolio
dell'istruzione privata; a maggior ragione il monopolio dovrebbe
essere negato nel settore dell'informazione televisiva, non
rientrando la gestione di tale mezzo di diffusione tra i compiti
istituzionali dello Stato.
È indubitabile pero che le disposizioni citate (artt. 9, 33 e 34)
non contengono evidentemente la disciplina costituzionale
dell'attività radiotelevisiva, come questa Corte ha già chiarito
nella sentenza n. 59 del 1960: e perciò quella ora riferita non è
una censura ancorata a precisi parametri costituzionali, bensì una
semplice argomentazione. Ma anche valutata in quanto tale, essa è
inidonea a sorreggere la tesi del giudice a quo, perché omette di
considerare sia le specifiche ragioni della previsione costituzionale
di libertà dell'istituzione di scuole private, sia che
l'informazione radiotelevisiva ha caratteri di capillarità,
suggestività ed estrema capacità di incidenza sulla formazione
dell'opinione pubblica (sent. n. 148 del 1981) talmente peculiari da
rendere improponibile il paragone proposto.
17. - Le censure del Pretore di Roma si rivelano infondate anche
Aspetto al primo dei profili dianzi prospettati, quello cioè
attinente alla asserita erroneità della previsione formulata da
questa Corte nel 1981. Invero, l'evoluzione della situazione di fatto
ha dimostrato ampiamente che il rischio della formazione di un
oligopolio paventato dalla Corte si è trasformato in realtà.
Strettamente connesso è l'elemento della incidenza della
pubblicità, "indispensabile per la sopravvivenza dei mezzi di
comunicazione di massa, si tratti di organi di stampa ovvero delle
emittenti radiotelevisive, pubbliche e private", secondo quanto
sottolineato dalla Corte proprio a proposito di queste ultime, nella
sentenza n. 231 del 1985.
Nella medesima sentenza la Corte ha richiamato in proposito anche
la raccomandazione del Consiglio dei Ministri del Consiglio d'Europa
n. R(84)3 del 23 febbraio 1984, nella quale era sollecitata, tra
l'altro, la limitazione dei tempi dedicati alla pubblicità
televisiva. Tale indirizzo, rapidamente affermatosi in ambito
europeo, è stato poi ulteriormente ribadito e specificato: in un
recente documento della CEE (Com(86)146 def.) per il "coordinamento
di determinate disposizioni legislative, regolamentari ed
amministrative degli Stati membri, concernenti l'esercizio delle
attività radiotelevisive" - sul quale il Parlamento Europeo (doc. A
2 - 246/87) ha già espresso il proprio positivo parere - è
chiaramente enunciata infatti l'esigenza di limitazione del volume
della pubblicità.
La necessità di porre limiti in questa materia si manifesta
certamente anche in Italia, ove il volume della pubblicità
televisiva ha raggiunto livelli particolarmente elevati. Tale
necessità si ricollega pure al fine "che attraverso una adeguata
limitazione della pubblicità, si eviti il pericolo che la
radiotelevisione, inaridendo una tradizionale fonte di finanziamento
della libera stampa, rechi grave pregiudizio ad una libertà che la
Costituzione fa oggetto di energica tutela" (sentt. nn. 225 del 1974
e 231 del 1985): di conseguenza è necessario realizzare, in
attuazione del disegno costituzionale, un equilibrio delle risorse
dei diversi settori dell'informazione e garantire effettivamente,
anche in tal modo, "il massimo di pluralismo" informativo (sentenza
n. 231 del 1985). Questa esigenza vale a maggior ragione oggi,
perché le risorse finanziarie che, attraverso la pubblicità,
affluiscono al settore della stampa sono inferiori a quelle che
sostengono il settore televisivo nel suo complesso.
La necessità di regolamentare la pubblicità televisiva è
peraltro sottolineata, nella sentenza n. 231 del 1985, anche per "la
tutela dell'utente-consumatore" che richiede "una disciplina non solo
dei tempi, ma anche delle modalità di presentazione dei messaggi
pubblicitari". Inoltre, naturalmente, non debbono essere vulnerati
beni e valori costituzionalmente protetti, quali la salute, la tutela
dei minori, la dignità della persona, ecc.
18. - Come si è detto, nella sentenza del 1981 la Corte
sottolineò l'esigenza di disciplinare non solo i collegamenti tra
emittenti, e tra queste e le altre imprese operanti nel settore
(cioè le imprese di servizi, pubblicitarie, produttrici e/o
fornitrici di programmi) ma anche quelli tra le imprese "operanti nei
vari settori dell'informazione".
Di tale esigenza si mostrano consapevoli sia il giudice a quo
laddove - riecheggiando la sentenza di questa Corte n. 225 del 1974 -
sollecita la valutazione del riparto delle risorse pubblicitarie tra
stampa e televisione, sia soprattutto la difesa della RAI (par.
5.3.), che reputa necessaria, a salvaguardia del pluralismo, una
disciplina non solo dei collegamenti suindicati, ma anche dei
rapporti tra le imprese televisive e quelle di stampa.
La Corte, al riguardo, non può che limitarsi a ricordare che la
regolamentazione dei rapporti tra imprese d'informazione, come, del
resto, e più in generale, quella di tutti gli altri collegamenti
contemplati dalla sent. n. 148 del 1981, data l'incidenza di più
valori costituzionali, deve essere ispirata al criterio dell'armonica
composizione e del reciproco coordinamento tra tali valori, sì che
l'eventuale compressione dell'uno deve corrispondere a ragioni
effettive e deve essere assistita dal necessario rapporto di
congruità e proporzionalità - che spetta a questa Corte verificare
- tra i mezzi ed il fine della salvaguardia del pluralismo (cfr.
sentt. nn. 78 del 1970, 231 del 1985, 14 e 108 del 1987).
19. - Il Pretore di Roma allega ancora la considerazione che il
pluralismo sarebbe realizzato dalla competizione concorrenziale non
solo fra le reti private, ma anche fra queste e le reti del servizio
pubblico, esprimenti differenti istanze socio-politiche. Questa tesi,
pur nell'ambito di un sistema misto, può ingenerare una confusione
dei rispettivi ruoli dell'emittenza radiotelevisiva pubblica e di
quella privata, che questa Corte ha già chiaramente precisato e le
cui differenze vanno qui sottolineate.
Compito specifico del servizio pubblico radiotelevisivo è di dar
voce - attraverso un'informazione completa, obiettiva, imparziale ed
equilibrata nelle sue diverse forme di espressione- a tutte, o al
maggior numero possibile di opinioni, tendenze, correnti di pensiero
politiche, sociali e culturali presenti nella società, onde
agevolare la partecipazione dei cittadini allo sviluppo sociale e
culturale del Paese, secondo i canoni di pluralismo interno. Ed
ovviamente spetta al legislatore di provvedere a che il servizio
pubblico disponga delle frequenze e delle fonti di finanziamento atte
a consentirgli di assolvere i propri compiti.
Per quanto riguarda l'emittenza radiotelevisiva privata si tratta
di comporre il diritto all'informazione dei cittadini e le altre
esigenze di rilievo costituzionale in materia con le libertà
assicurate alle imprese principalmente dall'art. 21, oltre che
dall'art. 41 Cost., in ragione delle quali il pluralismo interno e
l'apertura alle varie voci presenti nella società incontra
sicuramente dei limiti. Di qui la necessità di garantire, per
l'emittenza privata, il massimo di pluralismo esterno, onde
soddisfare, attraverso una pluralità di voci concorrenti, il diritto
del cittadino all'informazione.
Ma a parte la diversità dei ruoli del servizio pubblico
radiotelevisivo e dell'emittenza privata, il pluralismo in sede
nazionale non potrebbe in ogni caso considerarsi realizzato dal
concorso tra un polo pubblico e un polo privato che sia rappresentato
da un soggetto unico o che comunque detenga una posizione dominante
nel settore privato.
20. - Con riferimento ai diversi ambiti dell'emittenza privata,
talune parti evidenziano, da un lato la netta distinzione tra vere e
proprie reti nazionali e circuiti minori (parr. 4.5.5. e 6.1.);
dall'altro sottolineano e lamentano il ruolo marginale ormai
riservato all'emittenza locale, che si troverebbe in situazione di
difficoltà, con rischi di estinzione o di assorbimento nei maggiori
circuiti (parr. 6.1. e 7.3.). Per contro, lo sviluppo di un sistema
informativo in grado di dar viva voce alle specifiche realtà locali
rientra nell'imprescindibile compito di dare espressione a quelle
istituzioni che rappresentano il tessuto connettivo del Paese: il che
richiede, come ineluttabile conseguenza, che sia assicurata
l'effettiva autonomia di tali emittenti, anche attraverso un'adeguata
disponibilità di frequenze e di risorse pubblicitarie.
21. - L'ultima censura sollevata, in via subordinata, dal Pretore
di Roma nei confronti della riserva allo Stato delle trasmissioni in
ambito nazionale, muove dalla considerazione che le emittenti
operanti in tale ambito diffondono prevalentemente, e talora
esclusivamente, programmi di puro spettacolo, solo eventualmente
culturale, ovvero di intrattenimento e di svago. In riferimento a
tali programmi, in quanto distinti dall'informazione in senso
tecnico, è ad avviso del Pretore incongruo il richiamo all'art. 21
Cost.
La Corte ha negato rilievo a siffatta distinzione ed ha sempre
inteso l'informazione in senso lato ed onnicomprensivo, così da
includervi qualsiasi messaggio televisivo, vuoi informativo, vuoi
culturale, vuoi comunque suscettibile di incidere sulla pubblica
opinione.
22. - Le questioni sollevate dal Pretore di Roma sono dunque
infondate sotto ogni profilo.
Quel che in linea generale deve dirsi è che, ai fini di
un'adeguata regolamentazione la quale superi le carenze normative, ha
un ruolo rilevante l'esigenza di realizzare un razionale ed ordinato
governo dell'etere, ponendo fine all'attuale "situazione
indubbiamente anomala e squilibrata", provvedendo "all'assegnazione
delle frequenze ed all'effettuazione dei relativi controlli",
assicurando "il Aspetto degli obblighi internazionali", "il
coordinamento" e la "compatibilità reciproca" tra l'emittenza
privata "e tutti gli altri servizi e le altre attività di
radiotelediffusione": compatibilità che deve ritenersi comunque un
limite pienamente apponibile tanto all'esercizio della libertà di
manifestazione del pensiero, quanto (e ancora di più) all'esercizio
della libertà di- iniziativa economica, che nella materia delle
attività di radiotelediffusione è strettamente collegato e
subordinato al primo (sentt. nn. 202/1976, 206 e 207/1985, 35/1986).
A ribadire ancora una volta tali esigenze induce anche il rispetto
degli obblighi internazionali, quali quelli derivanti allo Stato
dalla Convenzione adottata a Nairobi il 6 novembre 1982 - ratificata
e resa esecutiva con legge 9 maggio 1986, n. 149-, dal Regolamento
Internazionale delle Radiocomunicazioni (R.I.R.) - adottato nella
Conferenza Amministrativa mondiale di Ginevra del 6 dicembre 1979 e
reso esecutivo con d.P.R. 27 luglio 1981, n. 740 - nonché dagli
accordi internazionali basati sulla Convenzione di Stoccolma del
1961. La prima di tali convenzioni specifica che le frequenze "sont
des ressources naturelles limitées qui doivent être utilisées de
maniére efficace et économique, conformément aux dispositions du
Réglement des radiocommunications": e perciò obbliga ad assegnare
le frequenze e ad installare le stazioni emittenti in modo da evitare
disturbi nocivi ai servizi degli altri Stati (artt. 4, 33 e 35). Il
secondo, allo stesso fine, detta le prescrizioni specifiche cui si
devono uniformare i piani nazionali di ripartizione delle frequenze e
stabilisce tra l'altro che l'installazione e l'esercizio delle
stazioni emittenti va subordinata ad apposita "licenza", conforme
alle prescrizioni dello stesso R.I.R. (cfr. artt. da 5 e 7, da 18 a
22, 24). Infine, l'accordo internazionale seguito alla citata
Convenzione di Stoccolma contiene la pianificazione delle frequenze
che nell'ambito dei singoli Stati possono essere assegnate agli
impianti televisivi di grande dimensione, cioè di potenza tale da
poter creare interferenze reciproche, fissa la procedura da seguire
per la revisione del piano.
Sul piano interno, va posto rimedio ad una situazione che - come
emerge dalla relazione ministeriale (parr. 4.1. e 4.2.) - è
caratterizzata da un elevatissimo livello di occupazione abusiva da
parte delle emittenti private di frequenze riservate ad altri
utilizzatori o servizi, spesso di rilevante interesse pubblico (par.
4): sicché è auspicabile che si provveda ad una completa
ristrutturazione del sistema delle frequenze con riferimento alle
singole emittenti.
Per tutte queste ragioni, occorre procedere ad una verifica delle
frequenze effettivamente destinabili alle trasmissioni
radiotelevisive, anche in rapporto agli ambiti in cui esse
concretamente si svolgono, onde preventivare la quantità di
concessioni e frequenze assegnabili a ciascun soggetto e determinare
al riguardo, in sede legislativa, idonei criteri obiettivi: tutto
ciò nella salvaguardia del principio del pluralismo, che comporta il
divieto di acquisizione di posizioni dominanti.
È ben presente alla Corte la prospettiva che lo sviluppo della
tecnologia possa consentire in tempi ravvicinati superando le attuali
difficoltà - di disporre di strumenti idonei ad accrescere le vie
attraverso le quali far pervenire informazioni e messaggi televisivi,
anche a livello transnazionale. Questa prospettiva, se non può
risolvere i problemi attuali del pluralismo, dovrebbe peraltro
indurre il legislatore a considerarne adeguatamente gli eventuali
sviluppi.
23. - Sulle questioni di costituzionalità che investono le norme
del D.L. n. 807 del 1984, convertito nella legge n. 10 del 1985, sono
state proposte diverse eccezioni di inammissibilità.
Alcune di queste, come quella che si fonda sull'asserita natura di
interpretazione autentica dell'art. 3, terzo comma sono state già
esaminate, e qui non resta che ribadire le considerazioni già
svolte.
In relazione alle censure prospettate dal Pretore di Torino,
l'Avvocatura dello Stato rileva che l'art. 3, primo comma, non
sarebbe applicabile nel giudizio relativo perché, trattandosi di
norma penale più favorevole, ma temporanea, non potrebbe essere
invocata per disciplinare situazioni precedenti alla sua entrata in
vigore. Ora, anche a prescindere dalla natura della norma in
questione, è da osservare che essa deve comunque trovare
applicazione nel giudizio a quo, poiché esso ha ad oggetto un reato
permanente la cui condotta, iniziata in epoca anteriore, si è poi
protratta oltre la data dell'entrata in vigore del citato D.L. n. 807
del 1984 (6 dicembre).
Anche talune parti private (parr. 7.1. e 7.2.) propendono per
l'irrilevanza della questione sull'assunto, però, della
inapplicabilità dell'art. 3, primo comma, al giudizio a quo perché
i fatti oggetto di quest'ultimo costituirebbero esclusivamente
un'ipotesi di interconnessione funzionale, e non di interconnessione
strutturale o tecnica, quale, appunto, sarebbe quella contemplata
dalla disposizione in oggetto. Nemmeno tale assunto può essere
accolto in quanto dall'ordinanza non risultano gli elementi di fatto
su cui le predette parti pretenderebbero di fondare la loro
eccezione.
Infondata è infine anche l'eccezione di irrilevanza prospettata
dalla difesa di talune emittenti (par. 7.1.) a proposito della
quaestio relativa all'art. 4, comma terzo bis: questa Corte, infatti,
fin dalla sentenza n. 148 del 1983 ha respinto la tesi, sulla quale
fa leva tale eccezione, della irrilevanza delle censure concernenti
norme penali di favore.
Devono invece ritenersi inammissibili le questioni riguardanti le
censure relative agli altri commi dell'art. 4 ed all'art. 2, in
quanto l'ordinanza di rimessione non reca al riguardo la benché
minima motivazione, ne in punto di rilevanza ne in punto di non
manifesta infondatezza. Infine, non può negarsi - come vorrebbe
l'Avvocatura - l'ammissibilità dall'impugnativa riferita all'art. 41
Cost. come diretta ad ottenere una pronunzia che si risolverebbe
nella privazione, per i soggetti coinvolti nel giudizio a quo, di una
situazione di vantaggio. La Corte ha infatti numerose volte ritenuto
ammissibili impugnative del genere (sentt. nn. 43/1987, 226/1983,
164/1982, 17/1974, 127/1968) e non ravvisa alcuna ragione particolare
per discostarsi da tale giurisprudenza.
L'Avvocatura dello Stato eccepisce poi l'inammissibilità di tutte
le censure sollevate dal Tribunale di Genova: la questione
concernente i primi tre commi dell'art. 3 della l. n. 10 del 1985
sarebbe infatti irrilevante, poiché tali disposizioni non dovrebbero
riguardare fatti che, essendo antecedenti all'entrata in vigore del
D.L. n. 807 del 1984, ricadrebbero interamente nella previsione
dell'art. 4, comma terzo bis; la questione su quest'ultimo articolo,
poi, sarebbe inammissibile poiché la disposizione non sarebbe
oggetto di autonoma censura.
L'eccezione non può essere accolta. Infatti le norme impugnate
sono legate da un nesso logico-temporale inscindibile, sì che il
sindacato di questa Corte non può esercitarsi se non sulla
complessiva disciplina che ne deriva.
24. - Nel merito la Corte ritiene di esaminare prioritariamente per
evidenti ragioni logiche le questioni sollevate dal Tribunale di
Genova, secondo il quale la disciplina impugnata sarebbe in contrasto
sostanziale con l'art. 21 Cost. perché consente ai privati di
effettuare trasmissioni televisive su scala nazionale in assenza del
complesso di garanzie atte ad impedire il realizzarsi di
concentrazioni monopolistiche od oligopolistiche private, ritenute
dalla sentenza n. 148 del 1981 di questa Corte, condizione essenziale
per l'abbandono della riserva pubblica e per l'introduzione di un
sistema misto di emittenza pubblica e privata in sede nazionale.
In proposito, si deve invero osservare che la legge impugnata è
intervenuta in una situazione in cui erano già in atto processi di
concentrazione nel settore privato.
In tale situazione, il legislatore, dettando gli artt. 3 e 4
impugnati, ha consentito la prosecuzione dell'attività privata di
trasmissione in ambito nazionale, senza in effetti dettare alcuna
misura antitrust.
Non possono infatti considerarsi tali né la norma dell'art. 1,
secondo comma, che si risolve in una mera enunciazione di principi,
né, tanto meno, quella dell'art. 1, quinto comma, che, come si
ricordava all'inizio, si limita a rinviare alla futura legge generale
sul sistema radiotelevisivo per l'adozione delle "norme dirette ad
evitare situazioni di oligopolio e ad assicurare la trasparenza degli
assetti proprietari delle emittenti radiotelevisive private", nonché
delle "norme volte a regolare la pubblicità nazionale e quella
locale", con ciò stesso confermando che tali norme non esistono
nella legge impugnata.
In tal modo la disciplina in questione non ha seguito le
indicazioni contenute nella sentenza n. 148 del 1981. Tuttavia è
decisivo, allo stato, considerare che il recente intervento
legislativo ha natura chiaramente provvisoria, perché nella sua
complessiva impostazione appare proiettato verso la futura riforma
del sistema radiotelevisivo, alla quale più volte fa, a vari fini,
riferimento. La legge pertanto è intesa a dettare una disciplina
solo parziale e limitata nel tempo, destinata in tempi brevi - come
dimostra la stessa prefissione nell'art. 3, primo comma, di un
termine ravvicinato, peraltro di recente ritenuto in dottrina e
giurisprudenza meramente "sollecitatorio" - ad essere sostituita
dalla legge di riassetto dell'intero settore. E ciò è confermato
anche dal fatto che nello stesso torno di tempo, come si è
ricordato, veniva presentato alle Camere un apposito disegno di legge
governativo, poi decaduto, mentre un nuovo progetto, recentemente
approvato dal Consiglio dei ministri, è attualmente all'esame del
Parlamento.
Si può allora ammettere che una legge siffatta possa nella sua
provvisorietà trovare una base giustificativa. Naturalmente, se
l'approvazione della nuova legge dovesse tardare oltre ogni
ragionevole limite temporale, la disciplina impugnata- tenuto conto
che è in vigore già da oltre tre anni - non potrebbe più
considerarsi provvisoria e assumerebbe di fatto carattere definitivo:
sicché questa Corte, nuovamente investita della medesima questione,
non potrebbe non effettuare una diversa valutazione con le relative
conseguenze.
25. - Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi in ordine alle
censure prospettate dal Pretore di Torino, che evidenzia come dalle
norme di cui agli artt. 3, primo, secondo e terzo comma e 4, comma
terzo bis conseguano rilevanti disparità di trattamento. Secondo
l'ordinanza, con esse è stata resa non punibile per il passato e
lecita per il futuro l'attività di teletrasmissione svolta dalle
emittenti operanti con gli impianti già in funzione alla data del 1
ottobre 1984: con ciò discriminando e comprimendo la libertà di
iniziativa economica di chi volesse successivamente intraprendere la
medesima attività, che resterebbe invece sottoposto alle previste
abilitazioni e sanzioni.
Senonché, a parte ogni altro rilievo, è anche qui decisiva, allo
stato, la già rilevata natura provvisoria della legge impugnata: in
ordine alla quale è il caso di ribadire che, ove tale fondamento
giustificativo mutasse e la normativa assumesse carattere definitivo,
essa non potrebbe sottrarsi ad una diversa considerazione.
26. - Tutte le argomentazioni sopra svolte rendono evidente la
necessità di una disciplina definitiva della materia, che si
sottragga a tali censure e appresti quel "sistema di garanzie
efficace al fine di ostacolare in modo effettivo il realizzarsi di
concentrazioni monopolistiche od oligopolistiche non solo nell'ambito
delle connessioni fra le varie emittenti, ma anche in quello dei
collegamenti tra le imprese operanti nei vari settori
dell'informazione, incluse quelle pubblicitarie" (sent. n. 148 del
1981).
Come si è già più volte sottolineato, la necessità
dell'introduzione, nella disciplina dell'emittenza privata su scala
nazionale, di un simile sistema di garanzie deriva
dall'imprescindibile esigenza, sottesa alla menzionata sentenza, di
una effettiva tutela del pluralismo dell'informazione, che va difeso
contro l'insorgere di posizioni dominanti o comunque preminenti, tali
da comprimere sensibilmente questo fondamentale valore.
Simili posizioni possono verificarsi sia in ciascuno dei singoli
settori del sistema radiotelevisivo, sia attraverso le sopracitate
connessioni e collegamenti, anche indiretti o di mero fatto; inoltre
è possibile che siano attuate con varie forme di collegamento tra le
predette imprese e quelle che abbiano una presenza rilevante in
settori diversi da quello dell'informazione.
Di conseguenza, la futura legge non potrà non contenere limiti e
cautele finalizzati ad impedire la formazione di posizioni dominanti
lesive del predetto valore costituzionale (art. 21 Cost.).
Naturalmente l'efficacia di una simile disciplina ai fini indicati
presuppone l'introduzione di un alto grado di trasparenza degli
assetti proprietari e dei bilanci dell'impresa di informazione e di
quelle collegate, trasparenza che incide pur sempre sul valore del
pluralismo ed ha quindi rilievo costituzionale.